CAP.V

IL GIOIOSO UNICORNO

 

Era un essere mostruoso e grottesco con tre teste impiantate nello stesso collo, tre lingue penzoloni con espressione di compiacenza giocosa, eppure sprizzava un che di nefasto forse per via delle pupille a fessura verticale o per quelle squame da pesce diluviano sulle cosce. In piedi sulla barchetta, quel demone orripilante s’allontanava dalla terraferma per un lungo viaggio assieme a me ma ecco che, in aperto mare, mi sbilancio e scivolo in acqua. Invece d’afferrarmi ai bordi della barca e supplicare aiuto quale misero naufrago, mi lascio vincere dalla corrente e vedo il diavolo sollevare il tridente in orizzontale e stendere sopra il mare il braccio sinistro per mirare il bersaglio, beffardo sta per scagliare l’arma e centrarmi come un tonno... quando mi risveglio di soprassalto. Ho come la sensazione d’essermi or ora svegliato da un sonno di secoli, non riesco più a riaddormentarmi, penso al pastore che traghetta le pecore ad una ad una oltre il fiume, ma non funziona.

Circondata e sommersa da un mare d’alberi, Villa Varuna sembra un palazzo invisibile costruito sotto la superficie dell’acqua con soffitti di madreperla e cento porte e colonne. In questa stessa villa, una delle tante residenze invernali di mio padre, Ezzelino da Romano ed Antonio da Lisbona s’erano incontrati. Il Santo era partito dal suo eremo di Camposampiero, ove nella passata Quaresima aveva radunato folle immense dalla vicina Padova, ed era venuto qui in umiltà per implorare la liberazione del conte di Sambonifacio. La missione fallì. Ezzelino non cedette, in quella circostanza non intese perdonare e, quando poco dopo Sant’Antonio si spense, il conte era ancora in catene: sarebbe stato liberato soltanto il mese successivo per l’intercessione diplomatica del Rettore Obizo degli Ugoni. Sono venuto in questo luogo apposta per respirare la presenza del Santo, per immaginare ove abbia posato il suo piede scalzo, su quali contorni si sia stagliata la sua eccelsa figura. Antonio ed Ezzelino, me li vedo misurarsi l’uno di fronte all’altro i due prodi contendenti, l’uno che esibisce vesti sontuose a distintivo del suo potere mondano, l’altro fermo in piedi avvolto nel misero saio e con il sorriso stampato sul volto bonario. Antonio sapeva che ancora una volta avrebbe dovuto misurarsi a faccia a faccia con il Maligno, come ai vecchi tempi quando viveva di meditazione e preghiera nella silenziosa grotta di Monte Paolo. Nel mezzo di quelle macerazioni solitarie, sottoposto a strenuo digiuno per sottrarre il corpo ai desideri, gli era apparsa una processione di ragni che lo sovrastavano dall’alto di zampe lunghissime ed esilissime, portavano a cavalcioni sulla groppa pelosa donne nude che facevano gesti osceni, vampire dalle bocche suggenti cupide di bere il suo sangue. Egli piegato in ginocchio resisteva e sul braccio teso mostrava con fermezza l’insegna del Cristo allontanando gli artifizi del Tentatore. Ora invece il demonio aveva sembianza d’uomo e Antonio in luogo di farsi scudo con la croce impugnava l’ulivo della pace quale strumento d’esorcismo.

Che cosa si saranno detti quel giorno?

Sembra di sentir risuonare parole cariche d’ingenuo candore:

"Tu sei un uomo intossicato dal veleno della violenza, ti ergi a signore del mondo dei peccatori che è una landa fredda e desolata, soggiogata dalle belve feroci della superbia e dell’avarizia. Col soffio della tua perversità bruci i nobili alberi del bosco e come un basilisco ti giovi di un solo sguardo per rinsecchire anche l’erba, nostra umile sorella".

Già mi era nota la versione dello stesso Ezzelino: m’aveva risposto in modo sbrigativo come quel frate avesse un qualcosa di speciale, era diverso dai soliti frati mendicanti che l’assillavano con le prediche e le accuse, che non perdevano occasione per denigrare le sue azioni, per sparlare apertamente e rivolgergli contro sudditi e vassalli. E’ vero, Ezzelino non cedette, non perdonò il suo antico avversario, non accettò l’intrusione dello Spirito nelle faccende della politica e, anzi, poco dopo abbandonò il Papa per seguire l’Imperatore, eppure davanti a me egli ha ammesso che quella volta il Santo fu il vincitore morale del confronto.

Perché? Perché allora Ezzelino ha messo quell’episodio tra le sue battaglie perse. Perché quel giorno il mite cristiano ha avuto ragione del superbo pagano? Quale argomento fu decisivo nel ferocissimo duello? Quale tra le parole del Santo, anche una soltanto, gli colpì l’animo come una stoccata? La Rinuncia. Antonio era di nobili origini, aveva studiato le materie del Trivio e del Quadrivio nella cattedrale di Lisbona, suo padre era un "hidalgo", valente e coraggioso guerriero a difesa del Portogallo dagli Arabi. Antonio, che allora si chiamava Fernando, ardito nella pace s’era immerso in una nobiltà più alta, in nome dello Spirito s’era elevato alla grandezza della Rinuncia, che è cosa superiore a qualsivoglia titolo e carica mondana. La vita materiale è condannata alla caducità. Io sono giovane e a questo non ci penso, sono sempre pronto a mettere generosamente in gioco la mia esistenza e a rischiare tutto senza timore di nulla, ma i vecchi che si trascinano lentamente sulla stampella lo sanno, se ne accorgono bene quando rimane poca sabbia nella clessidra ed il tempo avaro sta per scadere. Siamo tutti viandanti, in cammino su destini tesi tra il tempo e l’eternità, pellegrini che inseguono tortuosi sentieri verso il santuario nascosto che mai raggiungeranno.

Allora che ci resta da fare? Covare l’ardore dell’ascesi e vivere d’austerità in cupa solitudine? Seguire l’esempio di Diogene che viveva in una botte e biasimava i potenti con cinico disprezzo, indifferente al bene e al male e libero da ogni convenzione?

Per il mondo esteriore, per la landa fredda dei peccatori, Diogene fu soltanto lo zimbello della città e le sue trovate furono presto nuova occasione di spasso per gli ateniesi. Vale allora la pena pagare un così alto prezzo per prendere possesso del nulla?

A passi incerti nella penombra, uscendo nel bosco di Villa Varuna mi sovviene uno dei Sermones del Santo:

"La soavità della vita contemplativa è più preziosa di tutte le attività e nulla di quanto più si possa desiderare è ad essa paragonabile. L’uomo spirituale, allontanandosi dalla solitudine delle cose terrestri ed entrando nel segreto della sua coscienza, chiude la porta ai cinque sensi e assaporando la quiete della suprema dolcezza, riposa assorto nella divina contemplazione. Le delizie dello spirito quando sono gustate non producono tedio, ma accrescono il desiderio di goderle ed amarle. Nella sublime soavità della contemplazione l’anima ringiovanisce".

Addentrandomi sotto le larghe ramificazioni dei cornioli scorgo sull’erba un falcetto abbandonato dal giardiniere, la sua lama di metallo luccica e allora alzo gli occhi al firmamento. In alto, tra le linee frastagliate e acuminate dei rami c’è la dea bianca nel suo alone di crine: il crescente di luna al galoppo su nastri di nuvole d’argento fra le stelle che intorno brillano fredde. Siamo immersi nel mistero, penso.

Di che tipo di materia sono fatte le stelle? Di che materia siamo fatti noi stessi e ciò che ci circonda?

La materia delle stelle è luce congelata nella notte, brillando la materia si ritrasforma in luce, finalmente libera, e se solo avessimo gli occhi degli angeli vedremmo la notte illuminarsi a giorno per le occulte vibrazioni irradiate da ciascuna costellazione. Non siamo che esili ombre in un mare di luce, vele che non invecchiano sospinte alla velocità costante di un vento di faville. Soltanto la luce reca le tracce della simmetria perfetta della creazione e genera la colla onnipresente che ne determina la stabilità, identità e coerenza. In nulla riconducibile alla consistenza della dimensione materiale, la luce s’insinua nelle curve dello spazio sempre intimamente connessa a sé stessa ed entra infino nei metalli a vivificarli. Democrito, padre della Filosofia, indicava la vera conoscenza nel cuore della Natura. Ogni cosa, diceva, è fatta di atomi che si muovono nel vuoto, unità definitive e indistruttibili della materia. Una teoria che unisce bellezza e verità, fascino e stranezza, e che riesce a spiegare da cima a fondo la Natura. La diversità delle creature esistenti deriva infatti dalle differenze fra gli atomi, ce ne sono di rossi, verdi, blu, ma non si possono osservare perché la somma delle loro tinte dà un colore neutro invisibile all’occhio. Alla morte di un individuo pian piano gli atomi riprendono a vagare liberi nello spazio, taluni ci trafiggono da parte a parte senza fermarsi altri sono attirati dal nostro respiro e si fissano dentro di noi e, magari, proprio in quest’ultimo inspiro abbiamo captato un atomo vagante del cervello di Democrito.

Come si sono formate le nuvole e gli oceani? Come fu creata la vita?

Gli antichi filosofi s’erano dati delle risposte. Ritenevano che avanti della creazione imperasse la Notte, l’ingenerata che abitava i vuoti spazi del Non-essere aleggiando sulle tenebrose regioni del caos, là dove gorgogliavano le nere acque dell’abisso. Poi esplose il Giorno e l’universo fu pieno di luce, un globo infuocato si sprigionò dalla pura energia e si espanse fino ad originare un firmamento finito ma illimitato. Fu allora soltanto che dal caos ebbe inizio l’ordine del cosmo: Gea emerse dall’immensità dello spazio e generò nel sonno Urano. Dall’alto di montagne immacolate il dio celeste guardò Gea con occhio d’amore e trasformò le acque ristagnanti nell’abisso in piogge feconde che riversò nelle pieghe segrete di lei, sicché Gea poté generare l’erba e gli alberi e i fiori e, insieme, le belve e gli uccelli variopinti.

Ora sotto il crescente di luna di Villa Varuna, lo spirito guerriero che dentro mi rugge finalmente tace e nelle segrete vie del mio cuore inquiete tenebre e lunghe si perdono sulle orme che vanno al nulla eterno... da una Notte senza volto sorse l’immagine del mondo ed io a quella stessa quiete invoco di tornare.

Impossibile evento, si dirà, tornare all’origine delle cose? Regredire fino all’attimo precedente la creazione?

Certo non si può viaggiare a ritroso nel tempo ma io sospetto che, anche nella sua forma attuale, l’universo possa ben equivalere al nulla. In realtà, se noi annulliamo tra loro tutti gli opposti che esistono al mondo, il sole e la luna, il giorno e la notte, il maschio e la femmina, l’alto e il basso, poiché tutto obbedisce alla legge della polarità ed ogni cosa si elimina col suo contrario, la somma finale sarà nient’altro che zero. Dunque ciò che era prima è anche ora, lo Spirito universale sfugge al penoso giogo del tempo e noi in quanto spirito abbiamo facoltà ora, in questo stesso istante, di "rincrudire" ed immergerci nell’increato. O Prima Materia, germe puro della benedizione divina nelle cui nubi sono racchiuse le piogge feconde, nascoste agli empi grazie alla tua veste virginea. O Dea selvaggia di grande bellezza e di nobile stirpe, semina candidi gigli nei giardini dello spirito e spandi gocce di luce sul cammino delle stelle!

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"Uc, Uc!" chiamo il trovatore che ho intravisto di lontano tra la folla del mercato. E’ vicino alla fontana del capitello, dietro a un boscaiolo che scarta i pezzi troppo grossi facendo passare la legna per un anello appeso alla colonna. Ci separano le mercanzie esposte sui tavoli a treppiede e i sacchi che intralciano il passaggio. Uc non mi ha sentito, va verso un bancone che invita l’occhio con tutte le possibili varietà di cereali, legumi e sementi, piramidi gialle, verdi, rossicce, biancastre. Sono costretto a fare la serpentina tra i contadini seduti in terra a fianco dei loro prodotti ed il carro di merci spostato proprio adesso da un ricco mercante. La mia voce è sommersa dalla confusione, dal vocio dei venditori che contrattano la lana pregiata e le grida fastidiose che fermano i passanti elogiando ora i cavolfiori per la minestra ora le collane di ambra, e intanto torme di bambini schiamazzano mentre curiosano e rubacchiano. Devo alzare la voce e gridare più forte.

Uc finalmente si gira: "Azzo, che piacere!" e cordialissimo mi abbraccia. Figlio di un piccolo valvassore provenzale, egli ha abbandonato l’università di Montpelier e le ricche corti francesi per le città italiane:

"Avrei caro trascorrere a Treviso il resto della mia vita, ma la disdetta mi ha colpito".

"Che ti è successo?".

"Un giorno, mentre conversavo nei bei giardini del palazzo di Alberico, vidi appollaiato torvo su di una pertica un... comme on s’appel le milan... il nibbio? Mi venne a colpo l’ispirazione e alzai gli occhi al Duomo declamando ai presenti la favola di Fedro: la colomba divorata dal nibbio che si era impegnato a proteggerla dagli attacchi dell’aquila imperiale. Vile e poltrone, non più pago di stare a vegliare la sua sottomessa, il rapace cedette alla propria ingordigia e si lanciò in picchiata per tramortirla con un colpo di sterno e divorarla. I miei versi entusiasmarono i presenti che si misero subito a scriverli per prenderne possesso. Ne ricavai allora una canzonetta che fece rapidamente il giro di Treviso, circolava perfino nelle botteghe sotto il Palazzo dei Trecento, tutti la ascoltavano con diletto senza trovarvi alcunché di male, finché non capitò all’orecchio di Alberico. Il barbaro vi vide una chiara allusione a se stesso, irato, fuori di sé dalla rabbia, rinfacciò se mai mi avesse fatto mancare i carri d’erba che gli chiedevo o il pane di miglio per mia moglie, non certo egli mi manteneva a corte perché m’ingegnassi a calunniarlo, ero proprio una vipera che egli aveva amorosamente riscaldato nel suo seno".

"E tu?".

"Inutilmente cercai di calmare la sua suscettibilità protestando la mia assoluta buona fede. Nulla da fare. Alzò la voce urlando che, con tanto di nove figli, Alberico è il buon padre di famiglia che scaccia dalla sua casa i rospi e gli scorpioni, e guai a chi si permette ancora di dargli del nibbio! Ho perso la calma e malamente gli ho detto di chiudere il becco. Voilà eccomi bandito, le guardie mi hanno cacciato da Treviso a calci nel sedere".

"Mi spiace. Se Alberico ha imparato a poetare in lingua d’Oc, deve solo ringraziare te. Eppure si è comportato in modo strano, si diceva di Alberico che fosse un uomo moderato...".

"Lo è stato, ma come ben sai all’inizio dell’estate fu scomunicato dal vescovo. I Trevisani, morbosamente bigotti, gli sono diventati apertamente ostili e dopo che sei partito hanno inaugurato una stagione di sommosse, cui Alberico ha risposto con eccessiva durezza".

La nostalgia mi riporta al banchetto di Treviso e all’ammaestramento di Uc sulla mesura, la via di mezzo che rifugge gli eccessi. Un tuffo al cuore e il pensiero vola alla mia donzellissima:

"Uc ti ricordi di Selvaggia? Al banchetto... quella accompagnata dall’artigiano".

"Sì, come no. Abita poco distante, nella contrada di Santa Maria in Chiavica".

Incredibile, tutte le ragazze sono pronte a comunicargli casa e quartiere dove abitano. Poi, nelle notti di luna, sognano di udire sotto il balcone la viella di Uc che accompagna la dichiarazione dello spasimante. Via di corsa, si va a cercarla. Muoviamo in direzione dell’Adige, ove l’ansa superiore della sua doppia spirale scende a lambire un’isola stretta e lunga. Ci siamo: il selciato di un cortiletto interno, una casa signorile dal portone ad ogiva e finestre a bifora, un grazioso balcone che sporge dalla facciata.

Anziché bussare, Uc ci annuncia con un canto che trattiene e incuriosisce i passanti:

"Benché non ne sappiate nulla,

il vostro nome sarà reso noto

e celebrato lontano:

fama ne conseguirà in molti luoghi

che voi stessa ignorerete".

A quelle note melodiose Selvaggia si affaccia al balcone. Regge sulla spalla un secchio colmo e senza preavviso rovescia acqua gelida sulle nostre teste, le vesti inzuppate risvegliano le risa a squarciagola degli spettatori.

Uc cerca di giustificarsi davanti all’orgogliosa ritrosia della donna corteggiata: "Milano a lo carroccio par che sia" sollevando il braccio a indicare Selvaggia.

Busso con insistenza al portone. Dopo un po’ la porta si socchiude:

"Tu non sei bresciano, sei il figlio segreto di Ezzelino!" grida.

"Fammi entrare ti devo parlare" con il ciuffo bagnato che mi scende sugli occhi.

"Menti per la gola, mio zio ti ha visto a corte!" e mi sbatte la porta in faccia.

Uc allarga le braccia e se ne va. Rimango solo e scornato nel mezzo della via. Non ho intenzione di andarmene, non mi muoverò di qui finché non vedrò riaprirsi quella porta, dovessi stare appostato un’intera settimana. Fa molto freddo e le vesti bagnate mi si ghiacciano sulla pelle. Vedo passare le prime maschere che suonano lo zufolo vestite di bianco, siamo da poco entrati nel Carnevale ed in giro si avverte già il clima di festa incipiente. Cerco di farmi una ragione del comportamento di Selvaggia: dev’essere realmente sconvolta, a Treviso ella mi aveva parlato della tragedia patita con Ezzelino dalla sua Famiglia ed io, ascoltandola attentamente, le avevo manifestato grande comprensione riversando fiumi di astio e rancore sul nome del loro persecutore, rammento di averlo apostrofato come "l’atroce tiranno, il nemico del genere umano". Poi... lo zio di lei mi ha visto camminare leggiadro per le stanze di Ezzelino, circondato dalla fama d’essere il suo figlio naturale. Certo, ricordo bene quel che mi raccontò Selvaggia, una tragica storia. I Montecchi erano una delle famiglie più potenti della città, la loro parte era da sempre alleata ai da Romano e Carnarolo Montecchi, il fratello di Berlingario, era stato in prima fila con Ezzelino nel Consiglio Minore. Quando Selvaggia aveva dieci anni Carnarolo tramò segretamente per consegnare il Comune al marchese D’Este. Ezzelino lo scoprì e insieme con altri sventurati della parte dei Montecchi lo dichiarò traditore: a monito dei ribelli Carnarolo Montecchi e Bonifacio della Scala furono trascinati sul selciato di Piazza Grande appesi alla coda di un cavallo in corsa e, resa irriconoscibile in loro la forma umana, ridotti a carne maciullata. Eppure oggi, non so perché, la mia mente rifiuta di collegare questi atroci avvenimenti alla vita della ragazza che amo, è come se fossero fatti lontanissimi, sganciati dal tempo e dallo spazio.

Si apre, la sublime porta si apre! Dallo spazio segreto di quelle mura sospirate esce Selvaggia con due brocche vuote nelle mani. Non mi ha visto, la seguo a distanza mentre si avvia verso l’Adige a prendere acqua. Il fiume è a due passi e nel crepuscolo che annuncia la sera sventolano lungo gli argini le bandiere ghibelline a strisce gialle e verdi. Gli ultimi raggi radenti trasformano lo specchio d’acqua in una serpentina giallodorata tra il verde cupo delle rive. Da dietro un cespuglio osservo la mia donzella che riempie le brocche, poi le posa e si siede sull’erba. Ella guarda nel vuoto con il mento appoggiato sulla mano. Oh, potessi essere il guanto gentile che le carezza la guancia! Selvaggia s’alza di scatto e sento dritto addosso il suo sguardo languido. In un lungo silenzio ella parla dagli occhi scintillanti, in lei la chiara luce dell’astro vespertino fa impallidire ogni altra rivale.

"Azzo, Azzo, perché sei figlio di Ezzelino?" mormora scuotendo la fronte.

"Se mi ascolti ti posso spiegare - e mi siedo cautamente al suo fianco -. Il mio patrigno era bresciano, Raimondo degli Ugoni fu mandato al rogo prima che io nascessi e mia madre mi fece credere... insomma disse che egli mi aveva concepito poco prima di morire, mi allevò in tutto e per tutto come fossi un Ugoni".

"Ella è l’amante di Ezzelino".

"A Padova mia madre era rimasta senza difese, aveva parenti troppo anziani. Fu violenza o fu amore non lo so dire, ne seguì che segregata e prigioniera ella fu messa incinta da...".

"Rinnega il padre! Getta via il suo nome".

"Fino a un mese fa avevo talmente in odio Ezzelino da desiderare di ucciderlo con le mie stesse mani. Ma ora è diverso, devi capire".

"Oh rinuncia ai da Romano e in cambio di quella famiglia che non ti ha voluto avrai tutta me stessa".

"Non posso - alzando lo sguardo alle bandiere - presto Ezzelino mi riconoscerà come suo figlio legittimo".

"Allora non possiamo stare insieme - e fissa la sponda opposta -. Io sono tua nemica, sono una Montecchi!"

"Ma che dici - prendendole la mano -, quel nome e basta è mio nemico. Tu non sei Montecchi, tu sei soltanto tu. Non ti occorre altro per essere quella che sei, perché sei nata libera. Che cos’è poi un nome? Nulla. Non è il tuo volto, né mano né piede, niente di ciò che ti appartiene. Quello che noi chiamiamo Adige con un altro nome scorrerebbe ancora verso il mare".

"Allora, chiamami soltanto... la tua Lodoletta".

Mi lancia le braccia al collo e sorride come la luce che filtra improvvisa tra la pioggia. Dopo tanto che la desideravo e la pensavo percepire ora il calore del suo corpicino, il profumo di rose della sua pelle, toccarle piano i capelli, vedere la sua bocca che si muove, parla, ride, le ginocchia piegate sotto la lunga gonna, è la cosa più bella che possa esistere.

La sua voce è musica, un suono che solo a udirlo mi fa sentire in paradiso:

"Ti prego, dimmi se mi ami".

"Giuro su..." mi posa l’indice sul labbro.

"Non giurare su nulla".

"Se non è amore vero che l’oceano possa ingoiarmi".

"Troppo presto mi sono arresa dopo tutto il male che ha fatto a noi Ezzelino, se dovrò patire ancora per il bene che ti voglio non desidero che succeda invano, aspettati di essere messo alla prova".

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Pegaso nacque candido ed immortale, generato dal seme di Poseidon presso la sorgente purissima dell’oceano. Per suolo ha l’aere e per zoccoli le ali e viaggia sull’onda del meltèmi, il vento che s’alza turbinoso da settentrione. Cavallo alato, porta in groppa il figlio della Danae fecondata con pioggia d’argento: Perseo era stato rinchiuso con la madre entro un’arca di legno, ma grazie a un pescatore fu salvato dai flutti dell’oceano. Ora l’eroe galoppa avvolto in una gran nube, annunciato da vortici di luce algida e seguito da una scia di chiarore grande quanto una coda di cometa. Viaggio di mare senza marinai, senza timoniere, senza peso sopra un deserto d’acque. Quale la meta lungo le frastagliate coste dell’Egeo? Dov’è diretto Perseo? E’ forse a caccia di quell’ignota chimera che ebbe fama di belluina ferocia? Il luogo da raggiungere non è un luogo e non è possibile raggiungerlo perché coincide in tutto col punto di partenza, non è in alto e non è in basso, non è a destra e nemmeno a sinistra, nessuno sa dove sia eppure è sotto gli occhi di tutti. Più grande del deserto, più minuto d’un granello di sabbia, è un paese dove il sole non sorge e la luna non luccica, dove gli abitanti son tutti morti sebbene vivano da mille anni. Nutre e riscalda inquietissimi fantasmi senza avere fuoco né cibo, c’è e non c’è, affollata contrada che affiora dal mare, piena quand’è asciutto, vuota con la marea. Le sue donne sono belle ma non si vedono, morbide ma non si toccano, profumate ma non si sente. Nessuno le calcola anche se sono la culla più preziosa che esista, assaporate saziano il cuore dei prigionieri, godute tolgono il piacere di ogni altra cosa. Eccoci a destinazione! Pegaso nitrisce sopra l’oceano ribollente, scuote la criniera ed agita nervoso le zampe. Nuda e incatenata, ambrosia dolcissima e inebriante, Andromeda giace a braccia alzate sullo scoglio vestita dei soli gioielli. Si ode un cupo rombare, l’acqua gorgoglia e sorge un violento maremoto, le onde sono scosse in tutte le direzioni bianche di schiuma come la panna agitata per fare il burro. Sorge un drago marino terrificante, mostruoso, dotato d’un tale immane potere che nemmeno gli dei e i demoni coalizzati riuscirebbero a piegare! E’ l’aspetto pericoloso della Prima Materia e Perseo intuisce d’essere davanti ad un avversario invincibile, inutilmente ne colpisce il capo e la coda con la lancia affilata, è respinto dai vapori densi e ustionanti che fuoriescono dalle sue narici. S’ingegna allora Pegaso a trarre in inganno il nemico. Proietta sulle onde l’illusorio riflesso delle proprie ali e, appena l’ombra distrae il drago, Perseo lo decapita con il falcetto d’acciaio durissimo e tagliente. Il grido di vittoria gonfia le vene del suo collo e lo colora di blu, mentre il veleno che corrodeva il mondo pian piano s’inabissa inghiottito dall’oceano. Pegaso atterra docile ai piedi della fanciulla, l’antico cavaliere scende a liberarla e beve dalle sue labbra il prezioso nettare dell’immortalità.

Pegaso, per quel che mi riguarda, è soltanto il nome del cavallo albino che monto. Alto, elegante, massa di muscoli imponente, ha le gambe robuste dei destrieri delle razze germaniche, muso affilato e occhi delicati. Lo uso come cavallo da passeggio poiché mi sono accorto che è debole di vista e anche perché, sebbene dotato di fine intelligenza, ha un carattere troppo docile per poterlo usare in battaglia. Ieri in direzione del Monte Baldo su di lui trasportavo Selvaggia, era in groppa avanti a me e mentre scivolavo sopra la gonna a toccarle la passerina ella prontamente allontanava le mani. Siamo insieme da un mese ormai e Selvaggia non concede nulla di più che baci appassionati, non mi consente di andare oltre in nessun modo, né ha osato mai alzare i panni oltre le caviglie. Con me non esce mai da sola, è sempre accompagnata da un’amica o si muove categoricamente in gruppo. Anche per il Baldo, con la scusa dei briganti, viaggiamo in sei coppie più quattro uomini di scorta. Dopo essere saliti a ritroso lungo il corso dell’Adige abbiamo preso alloggio in un albergo ai piedi del Monte, e anche lì Selvaggia non ha voluto saperne di stare in camera con me, ha dormito in stanza con una sua amica. L’inverno è ancora rigido sebbene si sia già agli ultimi di Carnevale. Ieri verso sera ha nevicato, siamo usciti tutti dall’albergo a guardare incantati, era uno spettacolo talmente bello da non sembrare vero. Sul margine del bosco scendevano grossi fiocchi di neve, simili a batuffoli di cotone animati da un leggero turbinio che si scioglieva solo quando ciascun fiocco decideva di cadere per suo conto, senza ancora sapere dove. Velocemente il batuffolo scompariva nel manto immacolato che andava ricoprendo i rami degli abeti, i tronchi accatastati, i massi ed ogni altra cosa. I nostri piedi affondavano nel soffice, i fiocchi scendendo ci colpivano il viso e i capelli, e le ragazze aprivano le palme per riceverli. Vi fu qualcuno che lanciò a tradimento una palla di neve e da lì prese inizio una furiosa battaglia senza risparmio di colpi, finché fummo tutti bianchi come tanti pupazzi di neve.

Al risveglio il tempo è splendido, una giornata tersa, limpida e luminosa, l’ideale per una cavalcata nel bosco. Le altre giovani coppie non ne vogliono sapere, preferiscono starsene al caldo a scherzare e amoreggiare, rese fiduciose e audaci dalla lontananza dei genitori. A forza d’insistere, nel pomeriggio convinco Selvaggia a fare un giro nella neve in groppa al mio cavallo. Affrontiamo il versante orientale del Monte Baldo, una sorta di enorme colle allungato che sale acuminato lungo la dorsale, stretto tra l’Adige dalla nostra parte ed il braccio del Lago di Garda nel versante invisibile. Scoscesi pendii ovunque ricoperti di bosco comunicano l’impressione forte e solenne di una selvaggia vastità, speroni di roccia grigia perforano lo strato di pini mughi e, appena sotto, i dossi scendono ricoperti da zolle di piccoli cespugli olivastri. Ci addentriamo nella fascia di macchia tra le dense chiome degli arbusti di leccio, le cui foglie cuoiacee e lanceolate formano un manto continuo che ricopre fitto le colline. Ove la macchia si dirada, le querce caduche lanciano verso l’alto i loro rami spezzettati ed irti. Simile a un solitario monumento della natura, torreggia un cerro centenario dalla preziosa corteccia ruvida e solcata, ricercatissima per la concia delle pelli. Sulla neve inseguiamo le impronte degli animali tra i cespugli di bosso e pungitopo, per attraversare poi il sottobosco dei castagni così ricco di noccioli e di ginepri alti, scuri ed eretti come cipressi. Oltre i mille metri, macchie di vegetazione dalla sfumatura d’indaco trapassano di netto nel verde chiaro acceso, piacevolissimo contrasto di colori generato dai rami spogli dei faggi e dagli aghi sempreverdi degli abeti. Il cavallo s’inoltra al passo nel tempio dell’abete bianco tra la luce soffusa e le colonne di maestosi esemplari a candelabro, antichi giganti del bosco che sorreggono l’altissimo tetto di neve. Mentre avanziamo nella selva sul soffice tappeto d’erica e felci, una sensazione di pace, distacco e leggerezza si impadronisce di noi, nel profondissimo silenzio che ci circonda non posso che ringraziare Dio per averci fatto partecipi di tanta bellezza e, solo un’ombra offusca la mia gioia... ancora sì, vorrei solo che Obizo fosse qui con me, al mio fianco. Nient’altro. Proseguendo raggiungiamo in alto le praterie alpine non lontano dai pini mughi che fasciano la base delle rupi. Ci piacerebbe andare fino in cima alla dorsale per ammirare il lago dall’alto dei costoni rocciosi, dev’essere uno spettacolo vertiginoso ed esaltante ma salire fin lassù è troppo impegnativo per il cavallo. Decidiamo che la via più saggia sia scendere lungo i valloni innevati.

Pegaso solleva una scia di polvere bianca, sembra anche lui un miraggio dell’inverno. Dal piano collinare ci lanciamo al galoppo giù dal pendio: tracciare la via dove nessuno è passato, lasciare le impronte nella neve vergine, ci comunica una smisurata sensazione di euforia. Quella superficie liscia, intatta, splendente di luce, mantello uniforme e onnipresente, annulla e assorbe ogni nostra tensione, come per miracolo la fatica della salita è scomparsa e cede il posto alla viva sensazione del rigenerarsi, un benessere intenso, una felicità piena. Le mie canzoni si mescolano alle grida scherzose di Selvaggia impaurita dalla velocità o da un salto improvviso del cavallo. Siamo sudati e accaldati ma non vorremmo mai smettere, ogni nuovo pendio è un invito a buttarci nel vuoto, di corsa, in una gara di destrezza e padronanza del cavallo. A un tratto mi accorgo che Selvaggia non c’è più, mi giro preoccupato e la vedo seppellita nella neve, ma subito si solleva ridendo, monta in sella e ripartiamo al galoppo. Pegaso nuota in un tratto di neve alta, estraggo la spada e la faccio sibilare in aria a tutta forza, poi c’è un ripido pendio, dalla velocità sento il vento sulla pelle, in poco tempo copriamo lunghe distanze, con foga affrontiamo i dossi e gli ostacoli e poi a serpentina guidiamo il cavallo tra i tronchi del bosco. Lungo un declivio ombroso e freddo la neve cambia consistenza, il ghiaccio forma uno strato superficiale vetrificato che gli zoccoli mandano in mille frantumi, frammenti di cristallo che scivolano sopra lo specchio dei sortilegi. Davanti a noi c’è un piccolo lago ghiacciato, scendo da cavallo e con il mio peso saggio la resistenza dello strato solido, sto rischiando, Selvaggia è terrorizzata, pochi passi... pochi passi e torno in salvo risalendo a fatica sulla riva. Il cavallo ora rallenta l’andatura e comincia ad essere esausto, al passo cerchiamo un posto soleggiato per riposarci. Sul profilo della collina risaltano le cortecce bianche delle betulle che proiettano nell’azzurro i loro rami dai delicati e fini ornamenti. Pegaso si ferma in una incantevole radura, vi battono i raggi solari e la neve vicino ai massi si è sciolta mostrando a chiazze i bucaneve e qualche timido croco. Intorno i pini silvestri emanano odore di resina e ci fanno corona ricoperti di argentei licheni. Aiuto Selvaggia a scendere dalla sella, stendo sulla chiazza d’erba il mio gran mantello e ci sediamo sopra vicini. Selvaggia solleva la gonna fin sopra il ginocchio per assaporare sulla pelle il piacevole tepore del sole che la neve riflette. E’ la prima volta che le vedo le gambe, salgono affusolate dalle caviglie eleganti. Rapito da un desiderio violento le alzo la gonna a sorpresa, le pieghe dell’inguine, quel pelo soffice... estraggo il membro per penetrarla. Selvaggia fa resistenza, lotta disperata mentre la blocco per i polsi e le allargo le gambe con le mie ginocchia. Le guance le si accendono di colore: "No! No! Non voglio". Riesce a liberare il braccio e mi tira un gran pugno sulla mascella, mi stordisce togliendomi per un attimo il senso dell’equilibrio, si divincola, scatta in piedi e monta in sella. Con la mascella dolorante fischio e richiamo il cavallo. Lei lo frusta con le briglie, lo colpisce al ventre con calci violenti. Mi lancia uno sguardo carico di odio: "Sei come tuo padre!" ed il cavallo fugge al galoppo nel fitto del bosco. Cerco di rincorrerla ma sbilanciato cado in avanti e non mi resta che prendere a pugni la neve.

Ho seguito le tracce del cavallo fino al tramonto, ne ho ricavato soltanto che Selvaggia si è smarrita nella ricerca dell’albergo. Temendo per lei ho continuato a seguirla alla luce della luna, però in tale condizione era molto difficile orientarsi. Poteva essere vicina, gridavo: "Selvaggia! Selvaggia!". Un silenzio glaciale avvolgeva quell’intrico di rami e cespugli ove i tronchi giacevano riversi sul terreno come enormi insetti a gambe all’aria. Il freddo pungente, la stanchezza estrema, avrebbero fatto desistere chiunque altro. Lentamente in successione prendevano il sopravvento la paura della solitudine, la rassegnazione, l’ottundimento dei sensi privati d’una voce amica, la sensazione di estraneità, l’abbandono al dominio di un ambiente ostile.

Pensavo fra me:

"Oh mia Selvaggia, se non troviamo l’albergo questa notte finiremo per morire tutti e due assiderati, morirò lodando del bene che ho avuto e piangendo perché l’ho perduto. Dio aiuta coloro a cui vuol bene, e a me volle bene a lungo perché m’ha dato con te tanti momenti che mi hanno reso bella la vita. Ma ora ho perso ogni gioia, sono caduto dall’alto in basso e mi ritrovo con il cuore nudo e dolente. Se il tuo amore è finito, è colpa mia che male ho visto dentro di te e non ho imparato a conoscerti. Ascoltami, se sei adirata con me io non mi difendo, per un giusto fallo difficilmente una donna perdona ma, ti prego, non negarmi in questo momento il tuo amore. Perché da quando ti ho conosciuta non ebbi mai intenzione di trovare rifugio in nessun’altra. Perché tu mi sei tanto piaciuta che senza di te non voglio che Dio mi aiuti più a vivere".

La luna trasforma la neve in un manto luminescente, un’atmosfera di magico riverbero penetra in tutte le cose, il ghiaccio che m’attanaglia diventa argento vivo e ustionante. Pare di udire il tintinnio regolare di due spade che si affrontano, il filo dell’acciaio contro l’acciaio produce un bel suono argentino che acuto decresce e si prolunga come un rintocco di campanella. Dinng un rumore cristallino che cala pian piano fino all’inudibile, dinng il suono mi scuote e poi lentamente si confonde nel vuoto. Poi, un rumore di rami spezzati, Selvaggia scende da cavallo, mi scalda con il suo corpo e mi abbraccia.

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