DINO BUZZATI

da "Siamo spiacenti di"

Plenilunio

 

H-om-E

ESCAPE FROM THESE SHITY PAGES



Non si trovava più la pratica della Metalmeccanica Cislaghi. «L'altro ieri era là » gridò l'ingegner Sebasti. « Signorina Miani, cerchi un poco nella cartella delle offerte. Non sarà mica volatilizzata, no? » « Ingegnere, è mezz'ora che la cerco. Le ripeto, qui non c'è. » « Dia qua, dia qua, lasci vedere a me... Accidenti, ma dove ha gli occhi, signorina?... Non ha visto che è qui, sopra tutte?... Ma no, accidenti, non è mica questa... Eppure... L'altro ieri era qui... » alzò ancora la voce « perdio, qualcuno deve averci messo le mani in queste carte! » Alzò gli occhi. La Miani era pallida, il suo petto, sotto il grembiule nero, andava su e giù per l'ansito . Quindici anni che lavorava in ditta, ed era ancora intimidita, bastava che il Sebasti si agitasse, e lei tremava come una bambina. « E non tremi così, capito? Ha paura che io la mangi? » « Ma io... » balbettò la signorina « non str... tra...ff... » « Che sta dicendo? Venga qui, non si capisce neanche quel che dice... » Pensò: adesso la prendo perun polso, la tiro a me e le do un bacio. Finalmente. Quindici anni che ci penso. Se non oso stasera che gli altri se ne sono andati. Sbirciò l'orologio elettrico sul muro: le otto e dodici. In quell'attimo lo prese un batticuore. E una sensazione strana nella testa, come se gli pompassero il cervello. Barcollò. Proprio adesso!, pensò. Sarebbe bello che mi venisse un male. « Signorina, per piacere, un bicchiere d'acqua. » Spaventata la Miani corse a prenderlo. Dominandosi, egli si mantenne in piedi. Sono gli anni, pensò, non sono più quello di una volta. La ragazza rientrò. Il bicchiere d'acqua in mano, stava dinanzi a lui, fissandolo, le labbra un po' socchiuse. ( però anche lei - pensò Sebasti - che pelle stanca sotto gli occhi.) Per respirare, aprì la finestra che dava sul cortile della vecchia casa ottocentesca. Entrò un fiato d'aria gelida. Fuori era la notte, e la notte era inondata dalla luna. All'insaputa di lui, dell'impiegata, del portinaio, del sindaco, del capo della polizia, del vescovo, della popolazione intera, una luna pura e splendidissima illuminava la città. Era come un immenso sguardo immobile. E a quella luce misteriosa anche i muri dello squallido cortile diventavano poesia. Poesia anche le secchie, le scope, le scalette accatastate sui balconi, e i panni ad asciugare, penduli. poesia anche l'ombra fitta nell'angolo dove i muratori avevano lasciato il carretto a mano. Palazzo di Bagdad, reggia felice, ricchezza, sogni. E dietro quelle finestre chiuse, gli sconosciuti amori! Nulla era cambiato dai tempi lontanissimi che lui era bambino, la stessa luce, lo stesso incanto, e dentro lo stesso struggimento indefinibile. In quel mentre nell'uffico il telefono cominciò a chiamare. Stanchissimo, egli si passò una mano sulla fronte.