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Capitolo Primo

I POZZI

13 dicembre 1250. Si spegne Federico II di Svevia, imperatore universale del Sacro Romano Impero. La sinistra profezia della sua morte sub Flore si è dunque avverata a Castel Fiorentino di Puglia.

A Palermo uno spesso velo di silenzio è calato sulla sfarzosa e lieta corte di un tempo, tace il centro da cui l'Imperatore aveva governato il prospero Regno delle Due Sicilie col sostegno di una burocrazia diligente e sottomessa. Un brivido di perplessità si è diffuso a tutta la Sicilia, con la crisi dell'Impero essa teme di perdere il vantaggio di sede geografica privilegiata che le consente di esportare in tutto il Mediterraneo merci preziose quali lo zucchero, l'indaco, le pelli, la seta greggia, il cotone e le ceramiche di qualità. Opulento granaio d'Europa in quest'epoca di esplosione demografica, l'isola ha immagazzinato grandi quantitivi di frumento la cui vendita, subordinata agli intrecci commerciali coi Genovesi, potrebbe venire compromessa dai recenti mutamenti politici.

Tanta ricchezza da tempo attirava le tenaci ambizioni dei pontefici. Innocenzo IV, col recondito disegno di imporre i suoi diritti sovrani sull'isola, aveva accusato Federico II di essere un precursore dell'Anticristo, aveva reso note le sue presunte simpatie per gli infedeli e sottolineato la sua caparbia insubordinazione alle direttive papali, ne aveva condannato la condotta immorale e denunziato pubblicamente la sodomia. Infine, aveva proclamato a tutte le forze della Cristianità una solenne crociata diretta a sradicare e cancellare per sempre la dinastia sveva degli Hohenstaufen.

Rovinoso fu per l'Imperatore il biennio precedente la sua morte. Durante l'assedio della città di Parma un'abile sortita dei ribelli distrugge il suo accampamento; Como abbandona gli imperiali ed entra nella Lega Lombarda; i guelfi bolognesi, nel corso di un acerrimo scontro, sbaragliano a Fossalta le aquile nere degli scudi ghibellini e catturano Re Enzo di Sardegna, il figlio dell'Imperatore, poi imprigionato nel palazzo comunale di Bologna.

Sotto questi duri colpi Federico II finì per mostrarsi sempre più diffidente, ossessionato da continui timori di veleni e congiure. Sicché, vittima insigne delle inquietudini imperiali, cadde sotto giudizio perfino il suo più valente consigliere, Pier delle Vigne, l'abilissimo rétore che in vent'anni di servigi aveva ribattuto colpo su colpo le apocalittiche accuse del pontefice e al mondo intero aveva presentato Federico II nella visione escatologica dell'Imperatore della Fine dei Tempi. Con l'accusa di peculato, Federico II confiscò le ingenti ricchezze che quel capuano di modeste origini aveva accumulato nel corso della sua ascesa politica e dopo averlo accecato lo rinchiuse nella fortezza toscana di San Miniato. Ma Pier delle Vigne preferì il suicidio e si fracassò il cranio contro il pilastro cui era stato incatenato.

In realtà taciti rancori contro l'Imperatore non mancavano, ma provenivano semmai dal popolo, Federico II aveva portato l'Impero sull'orlo del dissesto finanziario, le spese militari avevano superato di gran lunga le entrate e i debiti contratti con i banchieri romani erano arrivati sul ciglio dell'insolvibilità. Una volta la settimana i castelli venivano ispezionati a scopo fiscale e si compilavano rapporti sul numero dei servitori e dei soldati presenti. Particolarmente vessati dalle imposizioni fiscali erano stati i portolani, spremuti fino all'osso e obbligati a tenera conto dei carichi, a verificare i prezzi e a scrivere nei loro registri ogni particolare dei pagamenti ricevuti. In Lombardia si era cercato di massimizzare le entrate tramite i podestà siciliani insediati nelle città sottomesse e intanto pesavano sui sudditi le spese tutt'altro che trascurabili necessarie a soddisfare i piaceri esotici e bizzarri dell'Imperatore e a mantenere la sua lussuosa corte di Palermo. Come conseguenza i Lombardi avevano moltiplicato vertiginosamente le controversie fiscali rivolte all'autorità del tribunale supremo di Palermo, segno evidente del malcontento strisciante e dell'amaro risentimento dei sudditi verso quella affannosa ricerca di fondi.

Il Libero Comune di Venezia si era schierato con i guelfi e questo da quando Federico II aveva voluto indirizzare i suoi favori alla rivale città di Ferrara permettendole l'estensione del controllo mercantile sul sistema fluviale della Lombardia orientale. Venezia, stretta tra la morsa ghibellina della potenza pisana e le trame preparate a Verona dal feroce Ezzelino da Romano, mirava soprattutto a difendere la sua fiera autonomia risalente ben al 697, anno dell'elezione del primo doge.

Sulle orme della tradizione orientale del Basileus bizantino, capo insieme politico e religioso, il doge costantemente aspirava a realizzare nella sua figura l'unità del rex-pontifex, di fatto non sottomettendosi ad alcun potere ecclesiastico esterno. L'adesione alla Lega Lombarda aveva però creato un varco alle interferenze pontificie perciò il Papa, facendo leva sull'alleanza guelfa, era riuscito ad imporre la Santa Inquisizione anche nei territori di Venezia, città marinara consona da sempre a godere di un clima di cosmopolita tolleranza. Pertanto all'atto del giuramento del nuovo doge Marino Morosini (sei mesi prima della morte di Federico II) era comparsa una norma insolita in cui il doge si impegnava ad eleggere "uomini probi, saggi e cattolici" che indagassero sugli eretici condannando al rogo i colpevoli. Era consuetudine antica che il giuramento prestato prima di entrare in carica, detto promissione, stabilisse una serie di vincoli vecchi e nuovi che avevano l'intento di limitare e circoscrivere il potere dogale. Ma l'ex Duca di Candia, eletto doge a sessantotto anni, aveva dovuto accettare controvoglia quella nuova aggiunta alla promissione, controvoglia perché la sua famiglia era tradizionalmente sostenitrice delle fazioni avverse al Papato. Comunque, anche se formalmente il Morosini aveva accolto le regole della Santa Inquisizione, aveva fatto in modo di eluderne la prassi arrogando a sé e al voto del suo consiglio la scelta degli Inquisitori di Stato e la decisione sulla applicazione delle pene.

In un periodo di reggenza ducale che per il resto trascorreva in prosperità e ricchezza, ecco dunque l'ombra cupa dell'Inquisizione calare insidiosa sulla laguna con l'incombente minaccia dei suoi orrori.

Il che viene a turbare la proverbiale serenità della gente veneta e non può non mettere in apprensione l'animo ribelle del nostro veneziano:

"Libertà va cercando ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta".


Quella grigia mattina del 13 dicembre 1250, mi affaccio al piano superiore della mia casa in legno e mi sporgo tra le colonnine del balcone coperto che da sul canale.

Alto e snello, possiedo una folta criniera castana raccolta alla nuca dal codino e tradisco nel volto qualche tratto orientale a motivo dei miei occhi scuri leggermente disegnati a mandorla. Ho gli zigomi ampi ed il naso diritto, il collo grosso ed una bocca dalle labbra piene.

Sono ignaro della morte di Federico II, ci vorrà del tempo perché la notizia giunga a Venezia. Guardo in alto. Spio il cielo plumbeo per intuire se promette pioggia. In un attimo, scendo lungo la scala esterna.

Indosso una tunica pesante con lunghe maniche strette ai polsi e sottana che arriva alla caviglia; la tunica è bicolore, la meta destra azzurra e la meta sinistra rosso mattone, il cappuccio che copre ampio le spalle è viceversa azzurro a sinistra e rosso a destra; una serie dei bottoni bianchi scende sulla linea di mezzo del torace e un cinturone nero mi strige i fianchi, nero come gli stivali a punta.

A piedi, attraverso in fretta gli spazi sterrati del mio Campo, sacrificati tra la svettante facciata in mattoni di S. Maria della Fava e la prepotenza delle case. Le fitte abitazioni lignee, hanno poche e strette finestre, un tetto spiovente coperto di paglia e il piano superiore che sporge sopra le calli fin quasi a toccare la casa controlaterale. Qui, in Campo della Fava, non si vedono certo i palazzi in pietra con cui i nobili sfoggiano potere e ricchezza a ridosso del Canal Grande, il mio è un quartiere artigiano. Il poco spazio sul Campo viene conteso dalle bancarelle che mettono in mostra le fave, per intenderci, i frutti a grosso legume nero che vengono acquistate dai passanti per alimentazione o per foraggio, o addirittura come oggetto di superstizione da coloro che le adoprano per allontanare dalle case i fantasmi.

Oltrepasso il canale su un ponticello di legno e bel bello lungo il sestriere di San Marco, percorro le mercerie in terra battuta. Per prima merceria del Salvatore ove costeggio la chiesa romanica; il suo portone è spalancato e di sfuggita posso lanciare un'occhiata all'interno: muri spessi e piccole finestre ne rendono buia e tetra la navata, tozze colonne sormontate da archi a semicerchio reggono un antico soffitto di legno i cui colori han perso ogni lucentezza. Girato l'angolo raggiungo la merceria istriana con le sue stoffe multicolori esposte in vendita sui banconi a cavalletto.

Non appena imbocco l'inizio della stretta e lunga Calle Spadaria ecco sullo sfondo uno spicchio della Basilica, una stretta fascia verticale adorna di medaglioni scolpiti. Salgo i gradini che sopraelevavano la Piazzetta dei Leoni e faccio una breve sosta, seduto sul bordo del pozzo ad osservare la Basilica d'Oro.

E' uno spettacolo che toglie il respiro! Edificata intorno al mille sullo stile delle chiese dell'oriente bizantino, ricca di sculture policromatiche e di motivi floreali, la Basilica è un tripudio di cupole dorate le cui rotonde simmetrie comunicano un senso di pace profonda; parrebbe di avere davanti agli occhi, trapiantata a Venezia, una copia del maestoso Apostoleion edificato a Bisanzio da Costantino il Grande. Le mura massicce, interrotte dalla magia colorata di piccole vetrate al centro degli archi, sono sorte sulla reliquia del corpo di San Marco trafugato ad Alessandria d'Egitto da due mercanti veneziani. Per scongiurarne il furto la reliquia è stata nascosta nella Basilica in luogo segretissimo, talmente segreto che adesso nessuno sa più dove sia.

Seduto in cima al bordo del pozzo, fermo lo sguardo dritto davanti a me sui quattro medaglioni della facciata nord della Basilica. Aguzzo le palpebre, socchiudo gli occhi fino a ridurli a sottili fessure, minuzioso osservo le loro figure scolpite nella pietra.

Sono dei simboli, segni in codice che fanno riferimento a significati smarriti, ricordano e richiamano tutto un mondo nascosto che corrisponde loro su un piano più elevato: maestosamente assiso sulla sfera c'è un pavone che dispiega la ruota dai cento occhi, che significherà mai?

In un altro c'è un leone. Azzanna la spalla di un uomo che lo affronta a spada tratta, altro mistero.

Nell'altro ancora un leone beato e sorridente che avanza fra due querce, un uomo lo cavalca suonando il flauto.

Questi medaglioni mi rimangono oscuri nonostante tutti gli sforzi del mio intelletto e non mi resta che sperare in una improvvisa rivelazione interiore, la sola che potrebbe fornirmi la chiave per decodificarne l'arcano linguaggio.

Intanto, ho già una traccia. Nel medaglione in basso alla mia destra è scolpito un uomo nudo con la testa girata all'indietro ed il codino sui capelli; costui brandisce in aria una spada sguainata e cavalca un essere mostruoso, una cavalcatura con un solo corpo e due teste, l'una di cane l'altra di ariete. Ebbene ne conosco il significato. Chi me l'ha consegnato? Maestro Bernardo da Treviso, l'architetto zoppo della Basilica d'Oro. Proprio lui. Poco prima di stabilirsi a Zara per la progettazione della cattedrale di S. Anastasia, egli mi rivelò come questo medaglione nascondesse in realtà tre segreti princìpi: il cane che digrigna i denti rappresenta il "Sale", l'ariete rappresenta lo "Zolfo" e l'uomo con la testa curiosamente girata il "Mercurio".

Indietro nel tempo rivedo il volto squadrato di Mastro Bernardo e odo la sua calda voce che mi ronza nelle orecchie biasimando l'impazienza del mio carattere frivolo e fin troppo estroverso:

"Come nella giusta stagione il contadino semina sotterra il granello dorato del frumento, lo innaffia di giorno in giorno, e con pazienza attende che il seme muoia affinché possa germogliare e portare molto frutto, così tu altrettanto assiduamente... senza fretta... dovrai coltivare nel tuo recinto interiore l'immaginario dell'Alchimia".

Ebbene sì, mi diletto di Alchimia! Nel novero di quei veneziani d'animo indipendente, impertinenti al punto di rinunciare alla vita tranquilla in favore della tanto cara libertà, or dunque figuro anch'io... Petrangèsio, artigiano di mestiere e mosaicista della Basilica d'Oro.

I miei precedenti sono già abbastanza conditi per collocarmi in vago sospetto agli occhi dell'Inquisizione. Purtroppo, sopra il grosso collo, la mia bocca carnosa è perennemente smaniosa di parlare con tutti e di tutto e, quel che è peggio, non mi è facile trattenermi nemmeno davanti agli argomenti più proibiti. Così sono vittima predestinata della mia innocente passione per le ciacole, amo chiacchierare per ore ed ore senza stancarmi, acuto e spiritoso nei giochi di parole e nell'evocare all'occasione la celata saggezza dell'umorismo. Comunque sia, le doti di brillante parlatore mi hanno reso simpatico alla gente e nella rete delle mie conoscenze figurano persone di ogni età e condizione, dagli umili pescatori ai gioiellieri di Rialto, dai giovani manovali ai nobiluomini, dalle cameriere ai mercanti d'Oltremare. Curioso fuori misura, sono attirato morbosamente da tutti gli avvenimenti mirabili straordinari o soprannaturali e bramo stringere amicizia con i soggetti più strani apposta per udire ogni volta un nuovo eccitante racconto.

La smania di conoscere è una passione che risale alla mia infanzia quand'ero solito passare il tempo sul molo ad ascoltare i marinai di ritorno dall'Oriente, storie qualche volta vere e qualche volta inventate ad arte per sbalordire la mia vulnerabile fantasia di fanciullo. Gli ambienti e i personaggi di quei racconti si coloravano di emozioni e prendevano vigore per dimorare nel magico mondo dei miei sogni ad occhi aperti. Quando si giocava alla guerra fra bande di ragazzini il mio eroe preferito era l'Imperatore dei Mongoli, il famoso conquistatore Tartaro che alla testa della sua mobilissima ed invincibile cavalleria aveva messo insieme il più grande impero mai esistito, esteso da un confine all'altro della terra. Non sapevo che il suo nome fosse Gengis Khan: a dieci anni suo padre era stato avvelenato ed egli era entrato al servizio di un potente sovrano della Mongolia, poi quel piccolo orfano era cresciuto e aveva riunito sotto di sé le battagliere tribù mongole, si era scagliato in una furibonda battaglia contro le sue tribù convertite al Cristianesimo, e di conquista in conquista aveva sottomesso la Cina e sconfitto i russi.

Oggidì domino egregiamente la piazza, aggiornato su tutto ciò che si dice dentro e fuori città, e si può ben dire che pochi in Piazzetta dei Leoni siano informati quanto me intorno ai più remoti ed insoliti argomenti. Per di più, quasi che d'istinto sapessi leggere le sorti, m'è capitato più d'una volta di predire avvenimenti che si sono puntualmente avverati, sicché le dicerie della gente hanno finito per attorniare la mia persona di un certo alone di magia. E devo ammettere che tempo fa, quando l'Inquisizione ancora non c'era, l'idea che la gente mi ritenesse un po' stregone non mi dispiaceva per niente, anzi mi divertiva. Tanto che volentieri approfittavo della credulità altrui, proprio così, come quella volta con la tecnica oracolare della piramide cabalistica quando fornii ad una ragazza, ma solo dopo un lungo e approfondito studio dell'anima, il numero esatto del giorno e del mese in cui avrebbe incontrato l'uomo delle sua vita. Ovviamente allo scadere del giorno fatale mandai all'abbordo un ragazzo scelto nella nostra allegra compagnia e opportunamente istruito su come assecondare i lati più riposti dell'indole della ragazza. Eh, per certi aspetti sono un po' burlone e rientro nella categoria di coloro che sono pronti allo scherzo ogni qualvolta se ne presenta una buona occasione ed il fine è pur sempre quello, farsi onore davanti agli amici più scapestrati. E dire che già da un pezzo avrei dovuto mettere la testa a posto, sono nato a Venezia nel 1222 ed ho 28 anni, anche se non li dimostro, sia per il mio aspetto giovanile sia appunto per i miei modi da eterno ragazzino.

Malauguratamente con il funesto avvento dell'Inquisizione le cose sono cambiate di brutto e mio malgrado sono costretto a mettere a freno l'innata spensieratezza. Fatalità ho smesso di scherzare, massimamente perché mi ritrovo a dover custodire tra le mani un gravoso segreto che nessuno, proprio nessuno, deve assolutamente scoprire.

Un nugolo di bambini laceri e scalzi invade la Piazzetta dei Leoni, mi assale, mi ronza intorno, schiamazza ponendo fine alle mie meditazioni sui quattro medaglioni della Basilica. Salto giù dal bordo del pozzo e proseguo per la mia destinazione, imbocco un ponticello, percorro una stretta Ruga e un vasto Campo, sorpasso un altro ponticello, rallento e cammino lungo il canale delle Fondamenta.

Eccomi davanti S. Giorgio dei Greci, la chiesa greco-ortodossa tutta tappezzata all'interno da icone d'intensa e straordinaria bellezza. Appena dopo il suo campanile scorgo degli operai intenti a sgomberare le macerie di una torre diroccata. Con aria interrogativa mi rivolgo a uno di loro, è un mio caro amico, un sedicenne dagli occhi chiarissimi; lo interrompo mentre sta caricando mattoni su una carriola di legno:

«Ciao Rafael, che è successo?»

Il ragazzo solleva l'ovale perfetto del suo volto e lascia cadere sul mucchio il mattone che ha fra le mani:

«E' crollato il piano superiore, era vecchia come la Torre di Babele».

«Di nuovo il crollo di un edificio in pietra! C'era dentro qualcuno?»

«Sì un condannato, un eretico di nobile famiglia con il suo guardiano. Abbiamo estratto il cadavere del guardiano. L'eretico invece era sepolto vivo sotto le macerie, siamo riusciti a trarlo in salvo», sottolinea con un sorriso.

«Prima dell'arrivo dell'Inquisizione non si sentivano neanche nominare e invece adesso... sembra che la città pulluli di eretici da ogni parte».

«Ma è vero, basta girare l'angolo e zac alla prima locanda trovi il covo» e riprende a caricare i mattoni sulla carriola.

«Quale locanda?» chiedo irrequieto.

Si ferma e mi fissa con i suoi luminosi occhi celesti, ho la sensazione che possa leggermi nell'animo e distolgo lo sguardo nel timore di fargli intuire le mie intenzioni.

Rafael bisbiglia piegando in avanti il busto:

«Il Mastino di Khorassan è il ritrovo degli eretici di Grecia. Ho sentito dire che per riconoscersi fra loro portano una benda nera sul capo».

Il Mastino di Khorassan... ecco l'informazione che attendevo con ansia, ci vado subito senza perdere altro tempo.

Lungo la Calle mi precipito in Salizzada dei Greci e laggiù, in fondo alla via trovo appesa l'insegna della mia locanda, un cane nero su una tabella viola.


La locanda ha per struttura portante un'ossatura di pali che dà stabilità alla costruzione, mentre un muro di mattoni e terra secca mista a gesso riempie gli spazi quadrati, rettangolari e triangolari, che l'impalcatura delimita. Le piccole finestre sono un mosaico di vetri colorati uniti da una grata di strisce di piombo. Il piano superiore sporge sopra il pianterreno per dare riparo in caso di pioggia e su un angolo dell'edificio si proietta in fuori una piccola sala accessoria dotata di un proprio tetto, appuntito come il tetto principale e sormontato da una bandierina viola.

Oltre la soglia vengo investito da una ventata d'aria calda, carica dell'odore del pesce che cuoce per il pranzo di mezzogiorno. Tra la chiassosa baraonda dei marinai cerco subito qualcuno che porti sul capo la benda nera. Un uomo da solo sul tavolo all'angolo è intento a mangiare con incredibile voracità, strappa con i denti grossi brandelli di carne mentre tiene con le mani le estremità dell'osso. Potrebbe avere su per giù la mia età. Ha la veste lunga, la barba corta e riccia, la carnagione appena scura e gli occhi grandi ed espressivi, si vede lontano un miglio che è un greco. I capelli neri ricci e lunghi sulle spalle sono cinti sulla fronte dalla fatidica benda nera.

Ostrega, l'eretico!

Mi guardo bene intorno e controllo se ci sia per caso qualcuno che mi conosce. Nessuno. Bene, allora con andatura sciolta e disinvolta porto due coppe colme di vino al suo tavolo, la mia invadenza trova giustificazione nel fatto che i posti liberi a sedere sono pochi.

Mi siedo e inizio a parlargli cordialmente:

«Benvenuto a Venezia, amico».

Egli non mi degna di uno sguardo e continua a fissare la sua enorme bistecca al sangue, più cruda che cotta.

Proseguo:

«E' per me un vero peccato ignorare la tua lingua, io so che tra i greci v'è una così illustre serie di grandi poeti, basti nominare Virgilio, Orazio...».

Il greco esibisce una leggera smorfia. Faccio una breve pausa in attesa di risposta ma egli non dice nulla.

Mi gratto il collo e aggiungo avvicinandomi al suo orecchio:

«Mi trovo nella necessità di tradurre un papiro greco in mia custodia. Intendo proporti il lavoretto di traduzione, non hai che da fissare il prezzo, guarda che sono disposto a ben pagare...».

Il greco alza finalmente gli occhi e mi scruta con aria diffidente, ma subito ricomincia imperterrito a succhiare l'osso.

«Eh eh, anche i sordi sentono suonare l'argento. La traduzione è un lavoro facile, anzi facilissimo, tu leggi e io scrivo, devi solo avere un po' di pazienza, sai... io scrivo molto lentamente. Però alla fine ti porterai a casa un bel gruzzoletto, credimi è proprio un affare d'oro», detto questo per un po' non mi azzardo ad importunarlo, lo lascio finire di mangiare.

Sono già arrivato al nocciolo della questione e ancora non so se intenda o no la mia lingua... di solito gli eretici sono gente istruita, spero tanto che questo non sia un analfabeta.

Appena finisce di azzannare il cibo afferra il vino che gli ho offerto e senza staccare la bocca dal calice lo tracanna d'un sol fiato fino all'ultima goccia, si asciuga le labbra e finalmente mi fa udire la sua voce, in un veneziano dal pesante accento greco:

«Di che tratta?»

«Tratta di Alchimia» accenno candidamente strizzando l'occhiolino e cercando di cogliere qualche segno d'intesa nella sua espressione.

«Non conosco l'Alchimia, so solo che è roba degli Arabi».

«Arabeschi, più o meno arabeschi - dissimulo agitando in aria le dita -. Non ha importanza se non ne intenderai il senso, mi basta la traduzione letterale. Ma tu sai leggere bene?»

«Certo, ho letto e riletto gli Inni di Orfeo e come me, ben pochi li conoscono tutti a memoria», replica secco.

Faccio un sospiro di sollievo e sfodero sulla punta delle labbra un sorriso pieno di soddisfazione.

Non soltanto costui sa leggere ma addirittura è uno dei rari che abbiano letto qualcosa di diverso dalla Bibbia, conosce a memoria un libro di inni che sfugge al monopolio letterario della Chiesa; lo sapevo, lo sapevo, gli eretici sono spesso degli eruditi, è proprio l'uomo che fa al caso mio, anche se a dire il vero... continuo a percepire questa sua manifesta ritrosia e scontrosità.

Entrambi continuiamo a pesare ad una ad una le parole e non facciamo altro che studiarci a vicenda, io non intendo certo rivelargli il mio nome o il mio lavoro, né il greco d'altra parte mi fornisce alcuna notizia sul suo conto, non si sa perché sia a Venezia, né da dove venga o dove sia diretto.

Poi, con un cenno il greco chiama al tavolo l'oste tarchiato che è apparso dietro il banco, anche lui è un connazionale e porta la benda nera sul capo. Il mio commensale gli parla in greco, paga il conto e gli consegna una lettera con dei vistosi sigilli in cera.

Infine il greco mi guarda negli occhi e conclude:

«Tradurrò il tuo papiro. Vieni da me fra un'ora. Mi sta bene di leggere qualcosa di nuovo, anche se non ne avrei il tempo... ho fretta di ripartire da Venezia».

Premura ne ho anch'io, da più di un mese corro dei rischi non indifferenti col sobbarcarmi la custodia e le incognite del prezioso documento. Il Papyrus Holmiensis, stilato da Zosimo a dire del libraio, è un trattato scampato miracolosamente all'incendio appiccato dai primi cristiani alla grandiosa Biblioteca di Alessandria, ricca di più di 100.000 volumi. Sfogliandolo nella libreria del mio sestriere vi avevo scorto delle figure di alambicchi sormontati da segni alchemici per cui ho sottoscritto una cambiale senza interessi e l'ho acquistato prima che venisse sequestrato dall'Inquisizione e finisse definitivamente bruciato.

Come mai un artigiano come me sa leggere e scrivere? Quattordicenne, ho fatto un anno di novizio in un convento di frati. Sì, è così. Però scaduto l'anno di rito, una settimana prima di pronunciare i tre voti di obbedienza povertà e castità sono scappato dal convento a gambe levate. Sarò pure un prete mancato, ma almeno so leggere e scrivere in volgare. Il latino? No, non ho fatto in tempo a studiarlo e tanto meno il greco. Purtroppo a questo mondo gli unici che sanno leggere il greco fanno parte del clero, cosicché non é facile, in tempi di Inquisizione, trovare qualcuno disposto a tradurre un testo proibito.

Ma io ho scovato un personaggio affidabile in questo paganus Orpheus. Il fatto che egli sia un eretico mi dà un consistente margine di sicurezza perché equivale alla garanzia di non venir denunciato: è logico, fra eretici non ci si denuncia. E già, perché oramai devo abituarmi anch'io a portare l'etichetta di eretico, benché, devo specificare, ciò cui miro non sono le contorte introspezioni filosofiche di Mastro Bernardo. Al diavolo la mia biasimevole impazienza e la semina del contadino, ho altri obbiettivi per la testa e tutt'altro che frivoli. Certo, grazie al Papyrus Holmiensis conto di riuscire a decifrare tutti e quattro i medaglioni alchemici della Basilica d'Oro ma non intendo accontentarmi di questo. Conosco fin troppo bene l'ostinata puntigliosità del mio carattere e so come essa sia capace, pur d'ottenere lo scopo, di condurmi a sfidare anche il mortale pericolo dell'Inquisizione. Nel novero dei mosaicisti della Basilica sono quello che ha l'incarico di fondere usualmente l'oro per farne lo sfondo dorato dei mosaici e così a forza di veder scorrere sotto i miei occhi quel metallo nobile e lucente ho finito per bramarlo avidamente, più di ogni altra cosa al mondo.

L'Alchimia mi consegna nelle mani una fantastica opportunità, non intendo per niente lasciarmela sfuggire e pur di realizzarla sono pronto a venire a patti anche col demonio: voglio fabbricare l'oro! Oro a palate! Troverò il modo di produrlo in laboratorio. Che me ne importa se sarò costretto a vendere l'anima, in cambio del commercio col diavolo diventerò ricco e straricco. L'inferno è dopo morti, il paradiso sarà invece per me un luogo sulla terra: andrò a fare la bella vita nella Contea di Provenza, potrò circondarmi di lusso e belle donne.

Perché non mi accontento dell'onesto, di quel po' di positivo che ho costruito nella mia vita? Sì d'accordo, sono stimato e rispettato all'interno della mia Corporazione ed il salario di artigiano addetto ai mosaici è sicuramente superiore a quello di un semplice manovale, ma non posso certo affermare di nuotare nell'oro. L'Alchimia invece mi permetterà di raggiungere possibilità economiche superiori a quelle di un agiato nobiluomo. In effetti, ragioniamo seriamente, per un artigiano esiste forse alcun mezzo lecito per ottenere la ricchezza?

E' poco probabile che mi scoprano. Ai Provenzali non verrà in mente di indagare l'origine dei miei acquisti smodati né ai veneziani di sospettare una mia attività di falsario; non lascerò alle spalle alcuna prova contro di me, dacché di notte, di nascosto, potrò usufruire della fucina del nostro stesso laboratorio di mosaicisti. E' un rischio calcolato che vale la pena di correre, ho ben studiato il mio piano.

E' giunto il momento di rompere gli indugi: accetto il patto col demonio!


All'appuntamento col greco vado per prudenza senza il papiro. In sua vece, forte del motto in vino veritas sto portando con me una piccola damigiana di vino, confido in tal guisa di sciogliergli la lingua.

La sua reticenza insospettisce un po', non intendo fidarmi subito ciecamente, è preferibile continuare a sondarlo ancora. Gli avevo proposto di vederci nelle isole della Giudecca, ma ha voluto per forza scegliere lui il luogo dell'incontro, la camera che ha affittato al piano superiore dell'albergo al Pellegrino.

Da Piazza S. Marco costeggio le Fondamenta lungo il canale alberato, oltrepasso baldanzoso il ponte e supero con passo elastico le rivendite dei macellai assiepate lungo la Frezzeria.

Dopo il Campo striscio sotto la facciata della Scuola di S. Girolamo nota anche come Scuola della Buona Morte in quanto i suoi membri hanno il funesto incarico di accompagnare i condannati a morte sul luogo dell'esecuzione. Mi tocco le palle in gesto scaramantico. Assai più della morte temo l'in pace, formula infida che cela la condanna ad essere murati vivi in una strettissima cella di pietra, stesi sui propri escrementi ad attendere il pane e l'acqua dall'unica fessura sulla parete.

C'è nell'aria di che stare all'erta. Gli Inquisitori spiano le minime mosse dei sospetti come un nugolo di avvoltoi volteggianti: compiono larghi giri sulle teste dei malcapitati in attesa di sfiorare a volo radente la vittima predestinata, farle udire il sinistro fruscio d'ali della morte e al momento opportuno, piombare a strappargli la lingua e gli occhi. Poi comincia il lugubre banchetto e a turno gli avvoltoi ficcano la testa nel posteriore della vittima, vi allungano il collo spennacchiato e tirano fuori col becco le budella.

Con la testa nel buco del culo, come gli struzzi con la testa sotto la sabbia, gli Inquisitori riescono nonostante tutto a non vedere la loro crudele violenza e a giustificare la sopraffazione di esseri umani che semplicemente la pensano in modo diverso. Sicché, quando devono eseguire le condanne, consegnano gli eretici al braccio secolare che spande in loro vece quel sangue di cui gli Inquisitori hanno sacro orrore di macchiarsi.

All'una e mezza in punto come d'accordo sono già sul luogo destinato. La corte è piena della spazzatura e dei rifiuti gettati dalle porte e dalle finestre. L'alloggio del greco è al primo piano, in cima ad una lunga scala esterna che sporge sulla facciata in legno dell'albergo al Pellegrino. Alla base della scala, come in tanti edifici veneziani è scolpita sul ceppo la ruota della fortuna.

Immagine profana oltremodo di buon auspicio, essa mi ricorda le scadenze del tempo necessario in Alchimia al compimento della Grande Opera: finalmente è arrivato il mio momento, tra non molto pagherò la cambiale con le briciole del mio oro, ancora quel mezzo giro di ruota e dal basso verso l'alto la fortuna mi catapulterà negli agi, tra gli uomini ricchi e potenti!

Sono euforico e benché gravato dal peso della botticella salgo la scala a grandi passi, trovando subito a sinistra la camera del greco.

Busso, nessuno apre.

Forse prima di aprire il greco vuol sentire la mia viva voce.

Busso di nuovo e grido:

«Ehi greco, apri! Sono io, non c'è nulla da temere».

La porta si spalanca all'improvviso, impallidisco. Cinque sbirri vestiti di nero mi fissano dall'interno affollato della camera. Resto di sasso.

Dunque il greco era una spia, dov'è finito quell'infame?

Lo sbirro che ha aperto la porta mi afferra bruscamente per un braccio e mi trascina dentro. La camera è completamente a soqquadro, stanno cercando qualcosa e hanno sventrato anche il materasso di paglia.

Scorgendomi paralizzato dalla paura, il loro capo esordisce ironicamente:

«Complimenti per la puntualità, aspettavamo con ansia la tua visita di cortesia, ma guardate che gentile, ci ha portato del vino il buon vignaiolo!».

Però deve lottare energicamente per togliermi dalle mani la botticella, al che gli altri sbirri scoppiano in una fragorosa risata.

Devo subito escogitare un alibi, anche se il greco ha fatto la spia gli sbirri non hanno in mano la prova, il Papiro di Zosimo.

Raccolgo tutto il fiato che mi è rimasto soffocato in gola e replico tremando come una canna:

«Il greco... giuro l'ho visto oggi per la prima volta, l'ho incontrato alla locanda, gli piaceva tanto il vino veneziano che ho pensato di... lo vedete voi stessi, sono venuto a vendergli questa botticella di buon vino, viene dal mio sotterraneo».

«Ottimo, sei in arresto».

«Perché?», protesto.

«Sbattetelo al fresco!», due di loro si precipitano, mi legano le mani e mi trascinano verso la scala.

Ho appena il tempo di voltarmi a fissare la botticella del vino e replicare scalpitando:

«Ehi, ehi, la porto con me al fresco: nei sotterranei del Palazzo si conserva meglio», terminando la frase con tono distaccato.

Si va al Palazzo Ducale, i due sbirri mi tengono a braccetto, camminano frenetici in mezzo alla gente, a passi larghi e rumorosi, giunti al portico bizantino dell'ingresso scambiano messaggi con le guardie, mi scortano attraverso corridoi sontuosi affollati da nobili che vanno e vengono, entriamo infine in una stanza enorme, equivalente in ampiezza ad una piazza, ma è vuoto non c'è proprio nessuno.

Gli sbirri si bloccano bruscamente, ricevo ordine di sedermi nell'angolo.

Non avevo mai messo piede in questo immenso salone, lungo duecento piedi e alto almeno cinquanta. E' la Sala del Maggior Consiglio, centinaia di sedie vuote occupano ogni spazio ricavabile. Ammiro con stupore le decorazioni dell'imponente soffitto... sbalordito per la grandiosità degli affreschi alle pareti laterali, ma soprattutto intensamente colpito dalla maestosa ampiezza di questo ambiente illuminato a giorno da altissime finestre. A bocca aperta muovo lo sguardo in alto e a destra e a sinistra.

Echeggiano dei tacchi. Si ferma trafelato davanti a me un nobile mai visto, ha una sopravveste ampia, aperta sul davanti, provvista di maniche larghe e lunghissime, ornata di ricami e foderata di pelliccia. A confronto la mia sbiadita tunica bicolore, azzurra e rosso mattone, evoca tutta la distanza sociale che ci divide.

Costui mi squadra attentamente da capo a piedi:

«Gli abiti colorati non ti sono consentiti».

E ordina agli sbirri:

«Perquisitelo!».

I due frugano dappertutto la tunica, ma non trovano nulla.

Il nobile scompone i lineamenti per il disappunto e urla:

«Dov'è lo scritto!»

«Quale scritto?»

«Sei duro di legname? La lettera, dov'è la lettera...», insiste con impazienza.

Sono scombussolato, tutto mi appare incomprensibile:

«Come? Non capisco che... Una lettera, io non ne so niente».

«Avanti, dimmi dove l'hai nascosta».

«State sbagliando persona».

Il nobile se ne va in fretta facendo un gesto di stizza con la mano, come per mandarmi al diavolo.

Giunto a metà del grande salone deserto si ferma come per un ripensamento, si gira verso gli sbirri e strilla:

«Gli avete sequestrato del sale?»

«No, signore», rispondono solerti.

Appena scompare alla vista domando agli sbirri chi fosse colui, ma quelli non si degnano manco di rispondere, mi sollevano per un braccio e dall'immenso salone mi spingono attraverso uno stretto pertugio, tanto angusto, che vi può passare solo una persona alla volta ammesso che vi si immetta di sbieco. Il pertugio conduce ad un corridoio buio e tetro, seguono delle ripide scalette che scendono al piano sottostante, poi altra rampa a zig zag e altro piano, calcolo che siamo al piano della Loggia. Scendiamo una decina di gradini, giriamo l'angolo, altri dieci gradini più in giù. Causa la scarsità di luce cammino sempre più tentoni, sui gradini viscidi di muffa e umidità a un tratto scivolo... ma con uno scatto dei riflessi ritrovo l'equilibrio, per un pelo non ruzzolavo dalle scale.

Ecco le prigioni. Nell'imboccarne il corridoio, fiocamente illuminato in alto da poche finestrelle strette e orizzontali, percepisco un odore di putredine e mi assale a colpo l'impulso di vomitare. Il camminamento abbraccia esternamente una decina di celle, è poco più largo di tre piedi e se allungassi il braccio in alto potrei quasi toccarne la volta.

Ma che succede! Si scende ancora. Ancora più giù?

Cinque gradini, dieci gradini. Siamo al livello del mare, il pavimento del corridoio è lì lì, massimo una ventina di centimetri più in sotto della superficie dei canali.

Attraversiamo un camminamento che si inoltra nel labirinto. Le porticine delle celle sono alte solo sette piedi, le hanno studiate apposta per costringere il prigioniero a piegarsi a metà quando esce, un espediente che gli impedisce di attaccare frontalmente i suoi guardiani.

Siamo a destinazione, ci fermiamo in una guardiola. Sul tavolo vedo sparsi numerosi sacchetti di sale, probabilmente frutto di un illecito commercio e sequestrati in qualità di merce soggetta al monopolio di Stato della Camera del Sal.

Inizia a piovere, attratto dall'improvviso ticchettio della pioggia sul vetro alzo lo sguardo in alto verso le due strette finestre orizzontali. Fino ad un momento prima ero stordito e offuscato da un mulinare di idee confuse ma ora, in questa breve attesa, la mia testa comincia a lavorare con estrema lucidità e improvvisa si affaccia sul baratro una certezza agghiacciante: i Pozzi.

Erano i Pozzi delle prigioni speciali, destinate a coloro che fossero passibili della pena di morte, più che prigioni nell'immaginazione della gente erano delle vere e proprie tombe.

Arriva Cengio. I due sbirri mi consegnano nelle sue mani. Una vicina torcia appesa al muro mi consente di rimirarlo con curiosità, tanto è grottesco. Pancia laida sporgente e grandi mani ciondolanti, testa completamente rapata con orecchino infilato all'orecchio sinistro, profonde e nere occhiaie intorno agli occhi, e sul viso una specie di sorriso ebete e sardonico disegnato dalle rughe. Cengio mi invita a seguirlo. Senza scomporsi mi conduce alla cella, apre la porticina in legno, apre quella in ferro e fa cenno con la testa di inchinarmi per entrare. Esito, lo guardo in faccia ancora una volta e oltrepasso la soglia.




C'è qualcuno dentro la cella e appena gli occhi si abituano all'oscurità riconosco il greco disteso sul tavolaccio.

«Spia!», gli grido con impeto.

Il greco si alza di scatto e mi si avventa contro, mi sbatte con le spalle al muro, afferra il collo e stringe le mani per strangolarmi:

«Veneziano di merda!».

Lo prendo per i capelli fin quasi a strapparli, ma non molla. Mi sento soffocare... gli ficco i pollici in bocca, li uncino e tiro ai due angoli delle labbra stendendo con forza l'orifizio, la sua espressione si muta in una maschera di dolore. Cede, riesco a liberarmi dalla morsa. Il greco prende allora a tirarmi calci con gli stivaletti da caccia. Paro i colpi. Gli afferro una gamba e lo sbilancio. Si accascia in terra, rimane immobile e muto, seduto sul legno del pavimento.

Mi pulisco la veste con la mano e commento con freddezza:

«Quando ti hanno acciuffato potevi risparmiarti di tirarmi in ballo».

«Di te non ho parlato. Semmai la spia sarai tu - e si rialza in piedi puntandomi contro l'indice -. Tu mi hai denunciato!».

Sbalordito, replico in tono conciliante:

«Ma sei impazzito? Io una spia! In giro sapevano tutti del vostro covo segretissimo. Se siamo qui tutti e due, la spia non può essere uno di noi».

Anch'egli accenna un tono accomodante e si alza per sedersi sul suo tavolaccio:

«Gli sbirri avranno pattugliato la camera dell'albergo per attendere l'arrivo di complici. Se hanno preso anche te non è colpa mia».

Resto in piedi, muovo nervosamente le dita e dopo una breve pausa riaccendo la lite esplodendo a voce alta:

«Ma di sicuro tu hai parlato con qualcuno del mio manoscritto e quel qualcuno ci ha denunciati, nessuno sapeva del mio papiro, nessuno!», e tiro con rabbia un pugno contro la parete.

«No! No! Immaginarsi se vado a parlare in giro del tuo papiro delle pudende!».

Mi siedo sul mio tavolaccio:

«Spero sia vero, comunque adesso sospettano anche me di eresia e soltanto per aver frequentato un eretico».

«In tutta questa faccenda l'eresia non c'entra».

«Come no, è inutile cercare di nasconderlo, - indico a braccio teso la sua testa - so benissimo che quella benda nera è il vostro segno di riconoscimento».

«O Numi, i veri motivi del mio arresto sono politici. Qualcuno è stato pagato dal governo per consegnare accuse di eresia al Tribunale dell'Inquisizione, ma si tratta solo di un espediente per farmi fuori più alla svelta. Sono un nemico dei veneziani», ribatte.

«Ma allora tu sai chi è stato a fare lo spione?», lo incalzo.

«No!», risponde secco.

«Se le cose stanno così non lo sapremo mai, il nome di chi sporge denunzia alla Santa Inquisizione rimane segreto per regola. E' vano sperare che lo dicano».

«A che gioverebbe saperlo oramai, - aggiunge in tono amareggiato - uscire da qui è impresa più ardua che uscire dal Labirinto di Cnosso».

Mi concedo una pausa di ripensamento e cerco di fare un po' di ordine nella mia mente sconvolta: se voglio salvare la pelle mi conviene lasciar perdere ogni inutile ostilità e mostrarmi suo amico, solo così potrei convincerlo a giurare il silenzio sul manoscritto di Zosimo.

Cerco di consolarlo:

«Non è detta l'ultima parola... come hai detto che ti chiami?».

«Zagreo».

«Ascoltami Zagreo, il momento decisivo sarà l'interrogatorio, a quel punto potremo tagliar la testa al toro con i trucchi dell'arte retorica!», con entusiasmo.

«Tagliare la testa al toro? Ma di che parli, del Minotauro?»

«E' un modo di dire veneziano, significa togliere di mezzo gli ostacoli e porre fine risolutamente ad una questione».

«Che stranezze».

«Viene dalla cerimonia del Giovedì Grasso».

«Mi pareva, i veneziani hanno in mente solo il Carnevale», aggiunge acido e continua a fissare la nuda parete.

«E' una vecchia storia. Inizia un secolo fa quando Ulrico di Treffen, Patriarca tedesco di Aquileia e gran devoto dell'Imperatore, se la prese a morte per via di una bolla papale che assegnava tutta la Dalmazia al Patriarca veneto di Grado. Ulrico di Treffen assalì Grado mentre i Veneziani erano impegnati nella guerra contro i Ferraresi, ma prontissimo il Doge sbarcò in armi, catturò il Patriarca nemico e lo condusse prigioniero a Venezia, assieme a dodici canonici».

«E allora?».

«Per chiudere la disputa e tornarsene in Friuli quei tedeschi furono obbligati ad un umiliante riscatto: un toro e dodici maiali.

Ecco che da quella volta la celebrazione della vittoria segue ogni anno lo stesso rigido rituale. Il Giudice, di fronte al toro e ai maiali schierati nella Piazzetta, emette la condanna capitale e ne affida l'esecuzione ai fabbri agghindati a festa con ghirlande bandiere e trombe. Un nerboruto rappresentante della corporazione si fa avanti con la sciabola. E' un momento di grande trepidazione. Il toro scalpita al centro, trattenuto da una corda. Il fabbro si concentra, sferra un colpo violentissimo e taglia di netto la testa al toro. La folla grida eccitata e applaude la testa che rotola sanguinante mentre la spada si ferma giusto a un palmo da terra».

«Quest'anno metteranno te al posto del toro», commenta il greco abbozzando una risata sarcastica mentre si distende nel suo letto.

La nostra cella, a parte i due stretti tavolacci sui sostegni di pietra, non contiene altro mobilio che un secchio di legno nell'angolino destinato ai bisogni corporali. Grossi lastroni di marmo formano le pareti che danno sul corridoio mentre le pareti confinanti con le altre celle sono probabilmente di mattoni, il tutto è comunque rivestito in legno. La cella non ha finestre, ma appena sopra la porticina c'è la nostra unica sorgente di luce, un buco rotondo largo una spanna e dotato di inferriata a croce.

Il greco si sta a poco a poco calmando. Dalla sua posizione stesa solleva in aria il dito e indica sulla parete, all'altezza di poco più di un metro da terra, una specie di ferro di cavallo del diametro di circa 12 centimetri.

Sporge con i due estremi paralleli:

«A che serve?».

Mi preoccupo di non spaventarlo, non vorrei gli venisse voglia di spifferare tutto, papiro compreso, e invento lì per lì una frottola:

«Ah quello, serve per legare i polsi ai prigionieri quando devono frustarli», accenno in tono evasivo.

In realtà conoscevo benissimo la sua orribile applicazione.

Il prigioniero veniva fatto sedere su uno sgabello, con le spalle appoggiate al muro e con il collo bloccato entro il ferro di cavallo. Sotto il mento si faceva passare un nastro di seta e i suoi due capi venivano infilati in un anello fissato alla parete. Attraverso l'anello il nastro di seta poteva scorrere agevolmente mentre veniva avvolto su di un marchingegno a ruota portato dai carcerieri. La trazione, causava lo strangolamento del condannato.

Pesanti e interminabili silenzi seguirono nelle ore successive.

Calma tediosa.

Un'atmosfera greve di lamenti taciuti.

Ancora silenzio...

Sento un peso sullo stomaco, mi manca un po' l'aria.

Niente.

Non abbiamo più nulla da dirci.

E sì... parlare di che cosa? Il peso sullo stomaco, l'aria che mi manca? Ma no.

Non abbiamo proprio niente da dirci.

Tanto...

Qui non succede nulla, è tutto così immobile.

Stesi sui nostri giacigli con le mani dietro il capo evitiamo perfino di incrociare lo sguardo, ma col mio carattere questo mortorio è sempre più insopportabile, non ce la faccio più, la tensione è insostenibile.

Mi decido a rompere il ghiaccio:

«Come mai sei tanto nemico dei veneziani?».

Zagreo solleva la schiena dal tavolaccio, si mette a sedere e risponde con un ruggito di orgoglio:

«Sono un greco di Candia. Dacché è caduta Bisanzio più di trecento famiglie veneziane sono sbarcate a spolpare l'isola e a noi greci, messi da parte in ogni cosa, non resta che fare i servi dei vostri feudatari. Questo ti basta?».

«Ve lo siete voluto: quel vostro degno imperatore, Manuele Comneno, in un sol giorno fece arrestare tutti i veneziani di Bisanzio, per confiscarne gli averi ovviamente, e poi - mi sforzo di concludere in tono pacato - qualche anno più tardi permise che la follia dei greci massacrasse tutti i latini della città».

Zagreo sbatte le palme in uno schiocco secco e alza il tono:

«I bambini e le donne che i latini hanno fatto schiavi, vili scorribande su coste indifese. L'odio greco è antico...».

«E' inutile rispolverare vecchi rancori, - continuo senza scompormi - in fin dei conti, piuttosto che i Mamelucchi è meglio il dominio veneziano. Greci e Veneziani si somigliano, una la faccia, una la razza non è il vostro proverbio?».

Si alza in piedi irritato:

«E no! Ti sbagli di grosso. Greci e veneziani sono ben diversi e da sempre in lotta l'uno contro l'altro, fin dai tempi della guerra di Troia».

«La guerra di Troia? Ma che c'entra», gesticolo sollevandomi a sedere.

«Ah certo, - scuote la testa - voi stessi non lo sapete... Omero citò la vostra alleanza con i Troiani quando ancora i Veneti erano insediati vicino a Troia, in Paflagonia».

«Pafla che?».

«Guidava i Paflagoni il forte cuore di Pilemene dalla veneta terra ove nasce la razza delle mule selvagge».

«Mai sentito».

«Magari invece conosci a mena dito la storiella di Elena?».

«Beh...».

«Immaginarsi se i più valorosi eroi della Grecia andavano a farsi ammazzare per una donna».

«Perché allora? Dimmelo tu, Omero!».

«L'oro fu il movente vero della guerra di Troia, le miniere aurifere del Caucaso. L'accesso marittimo alla regione era sotto controllo troiano. Libero approdo era concesso solo agli alleati Veneti, che vi raccoglievano l'oro alluvionale stendendo pelli di pecora sul fondo del fiume Rion.

La storia è la mia grande passione, io mi compiaccio nel dimostrare l’utilità della sua conoscenza, specie se si vuole capire a fondo il presente».

Predecessori veneti che facevano i cercatori d'oro in giro per il Mar Nero, è veramente buffo! Chiedo a Zagreo di precisare quali fossero dunque i confini del loro regno.

Mi spiega che secondo Omero i Veneti erano stanziati nella Paflagonia, regione dell'Anatolia settentrionale affacciata sulle sponde del Mar Nero tra le acque nere del torrente Billaeus e le foci dell'impetuoso Halys. Nella zona litorale le lunghe e scoscese catene degli Eritini correvano parallele alle sponde del mare, lasciando spazio solo ad una stretta striscia di riva pianeggiante. Buona parte della costa era soggetta ad un continuo vento da nord che produceva un clima moderato, fresco e abbastanza piovoso, pure in estate. Sicché numerosi torrenti scendevano dai fianchi delle montagne mentre, nella regione interna, il fiume Halys traeva alimento sufficiente per forzare la via e per scavare gole profonde lungo un tragitto che abbracciava con una grande ansa l'altipiano anatolico. La Paflagonia confinava a ovest con i Mariandini, devoti alla dea Marian, e a est con il regno delle Amazzoni, le famose donne guerriere.

La mia fantasia si eccita subito al mitico nome delle Amazzoni, mi sa di nature selvagge, di istinti semplici e primordiali; comincio a trovare interessante l'argomento ed esorto il greco a fornirmi altre notizie su questi antichi veneti d'Anatolia.




Zagreo li dice noti ovunque per i magnifici cavalli che allevavano, una razza superiore ricercata perfino in Magna Grecia. Città principali erano la capitale Enete, famosa per il bosco di bosso, poi Sesamo, Crobialo e Cromma, importanti centri commerciali da cui partivano navi cariche di colorante rosso ocra, di metalli per uso bellico e di legname delle foreste di Citoro.

Il loro alfabeto era più antico di quello cadmeo. Erano dotati di vivida fantasia e di grandissima sensibilità musicale, specie nel suono della lira, dei cembali e del doppio flauto. I Veneti erano apprezzati per i loro fregi marmorei, per i tappeti, per le stoffe ricamate in oro e per la ricercatezza dell'arte orafa. Coltivavano i fiori e soprattutto le rose, con cui producevano oli essenziali per profumi ed unguenti. Vivevano entro città circondate da mura poderose con la pianta a stella, in case rettangolari formate da travi lignei ricoperti da tetti spioventi di canne di paglia. Sulla testa portavano tutti un copricapo simile a quello che ora è privilegio del doge e secondo la moda del loro paese portavano stivaletti alti fino a metà polpaccio.

I soldati veneti si distinguevano per l'elmo piumato formato da strisce di cuoio intrecciato, portavano piccoli scudi, pugnali e aste non lunghe sebbene all'occorrenza sapessero usare anche i giavellotti. Il loro re aveva cavalli bianchi come la neve e veloci come il vento, guidava un carro lavorato in oro e argento e possedeva armi così straordinarie che non parevano destinate a un mortale ma a un dio celeste.

«Guidava i Paflagoni il forte cuore di Pilemene dalla veneta terra ove nasce la razza delle mule selvagge». Il racconto ritorna sulla guerra di Troia e allora ne approfitto per farmi chiarire il destino degli alleati Veneti dopo la sconfitta troiana.

Come ben si sa, dopo i lunghi e aspri combattimenti descritti nell'Iliade, il troiano Antenore aprì le porte del cavallo di legno e vi fece uscire i guerrieri rinchiusi provocando la caduta della città ed il suo saccheggio. In cambio del tradimento, per ordine di Ulisse Antenore ed i suoi figli furono risparmiati.

Zagreo accenna all'insieme delle tribù anatoliche dei Cari, Misi, Lici e Lelegi, alleate di Troia come i Veneti e ugualmente colpite dalla sciagura. All'incendio di Troia seguì nel tempo la progressiva penetrazione dei coloni greci nelle coste anatoliche, i Micenei occuparono la Troade, i Dori occuparono il Bosforo, gli Joni scacciarono le tribù delle coste Egee e occuparono a nord le terre abbandonate dai Veneti.

«Perché abbandonate, dove erano andati i Veneti dopo la caduta di Troia?», mi chiedo.

Tloc, tloc. Passi cadenzati nel corridoio delle prigioni, si fermano davanti alla nostra porta. Lo spioncino si apre cigolando sui cardini rugginosi, qualcosa luccica, è la testa pelata di Cengio che si abbassa a guardare dalla fessura. Occhi cerchiati da profonde occhiaie ci fissano spalancati, è un istante, subito lo spioncino si richiude.

Questa visita inopportuna mi urta, fa tornare la paura, mi ripiomba nella dura realtà.

Il mio compagno ha interrotto il racconto. La sua voce ha il potere di trasportarmi fuori del tempo e lontano da qui, nel magico mondo degli eroi. Risveglia in me il vivo desidero di ascoltarlo per ore e ore, le sue descrizioni avvincenti mi entusiasmano, mi sembra quasi di tornare bambino, come quando andavo sul molo ad ascoltare le avventure dei marinai di ritorno dall'Oriente.

Zagreo riapre il racconto, stende il braccio e lo fa scivolare lentamente lungo un orizzonte immaginario...

«L'immensa schiera dei Veneti con a bordo i loro favolosi tesori, scomparve oltre il Mar Pontico.

Ucciso Pilemene per mano di Achille e rimasti privi di un capo, i Veneti in cerca di una nuova sede avevano accettato la guida del sopravvissuto Antenore. Costui ripercorse attraverso il Danubio la rotta solcata dagli Argonauti un paio di generazioni prima, più di mille anni avanti di Cristo».

Mi azzardo ad anticipare che di sicuro i Veneti saranno finiti in qualche falsa pista se Antenore, un traditore, li aveva guidati sulle orme di un viaggio fiabesco come quello della conquista del Vello d'Oro.

Quasi offeso, Zagreo minaccia di troncare la sua esposizione e rimarca che il viaggio degli Argonauti è storia vera, fedelmente descritta e compilata da Orfeo in 1400 versi.

Mi scuso e lo invito, quasi lo supplico, a raccontami dunque questo viaggio e anzi, per valutarne la veridicità, mi dichiaro disposto ad ascoltare uno per uno fino alla fine tutti i 1400 versi di Orfeo.

E va bene. Visto e considerato che per passare il tempo altre risorse non abbiamo, Zagreo si offre di illuminarmi sul percorso dei gloriosi eroi imbarcati su Argo. Argo, una nave in legno di quercia con due grandi occhi dalle ciglia ricurve dipinti ai lati della prua.

In tono pontificante e teatrale come avesse davanti a sé non un misero compagno di cella ma il pubblico forbito di una corte, egli si ferma con reverenza ogni qualvolta nomina un eroe greco.

Diomede capo della spedizione, un giovane alto e bello, con i capelli biondi lisci a coda di cavallo, vestito di una tunica aderente in cuoio e di una pelle di leopardo; era un principe, ma fu abbandonato in fasce e allevato dai centauri dei monti della Magnesia, la terra dal fogliame tremante. Orfeo, dalla Tracia, si era affrettato ad unirsi all'equipaggio, Orfeo l'aedo il cui compito non sarebbe consistito nel remare ma nel dare la cadenza ai rematori e allietare con la cetra la folta schiera degli eroi imbarcati. Ed eccoli: per primo il greco dalla forza prorompente e incontrollabile, Ercole con il suo scudiero Ila; il pilota Tiphys, i dioscuri Castore e Polluce, poi Calais e Zete figli del Vento del Nord, Bute l'apicoltore, Mopso che indossava un copricapo di piume d'uccello e aveva la lingua divisa in due dal coltello, e ancora Asterio, Fano, Idmone, il litigioso Ida e molti altri valorosi. Tutti votati alla conquista del Vello d'Oro, il mantello di lana dorata, appeso a una quercia della Colchide e proveniente dal sacrificio di un ariete alato.

Questa la rotta:

«Salpati e oramai lontani dalla Magnesia, stanchi di faticare sui remi di frassino, gli Argonauti fecero una prima tappa nell'Egeo settentrionale, in un'isola abitata solo da donne...».

«L'Isola delle Donne? - saltando sulla panca - Dimmi dov'è, che appena esco ci vado di corsa! Che bello, essere attorniato da uno sciame di donne che ti toccano e ti accarezzano e ti ronzano intorno assatanate come le api intorno al favo».

Mi è presa la voglia di scherzare, Zagreo è sempre così serioso, a pensarci bene trovo un po' ridicola tutta la sua boria.

Come se non avessi aperto bocca, egli continua a pontificare con il consueto tono da attore sul palco:

«Colà gli Argonauti, già al primissimo scalo, furono sul punto di scordar l'obiettivo giurato e in luogo di darsi anima e corpo alla nobile ricerca dell'aureo Vello, giacquero a letto chi con quella chi con l'altra, chi con l'una e l'altra. Quelle femmine avide di lussuria, tempo addietro erano state ripudiate dai loro uomini dacché emanavano un puzzo pesante ed insopportabile, ma le tapine si erano poi brutalmente vendicate uccidendoli tutti con... «.

«Con le scoregge?».

«No! Con le armi in pugno, perché gli uomini preferivano sposarsi le schiave trace».

«Ma quali armi, le armi delle donne te lo dico io quali sono: mona tette e cul».

Zagreo si blocca, lascia cadere le braccia, protesta; le mie interruzioni lo infastidiscono, le trova insulse, dice che gli fanno perdere il filo.

Taglia corto, racconta che issando di notte una vela nera gli Argonauti elusero la sorveglianza del Bosforo e riuscirono a superare le insidiose scogliere dello stretto. All'alba, si aprì davanti a loro la vastità del Ponto Eusino e la nave Argo avanzò rapida nel vento come uno sparviero ad ali spiegate. Costeggiarono quindi la terra dei Mariandini e raggiunsero presto le coste dell'ospitale regione dei Veneti, la Paflagonia. Colà la nave fu lambita dalle correnti del Partenio che dolcemente scendeva nel mare e nelle cui tiepide acque, inghirlandate dai fiori dei prati, la dea Artemide amava rinfrescarsi di ritorno dalla caccia.

Ai primi raggi del tramonto doppiarono le rosse scogliere di Capo Carambi e costeggiarono a forza di remi la Grande Spiaggia. Nei pressi vi era la città veneta di Sinope che aveva preso il nome da una donna del posto, una mortale di cui Zeus si era invaghito. Per conquistarla egli aveva fatto solenne promessa di regalarle la cosa che ella più desiderasse ma Sinope, pur di liberarsi dell'invadente corteggiatore, aveva scelto in dono la verginità.

Ben gli sta, commento. Zeus, non aveva in testa altro che possedere tutte quelle che gli passavano a tiro.

Zagreo rimarca che mi aveva ordinato di non interromperlo; non si ricorda più dove era rimasto. Ah sì, l'itinerario ripercorso da Antenore.

Toccata la foce del fiume Halys, la nave Argo prese il mare aperto in direzione nord - ovest e non cessarono i venti né lo splendore del fuoco celeste fino a che non vennero avvistate le foci del Danubio. Largo e profondo, il corso del Danubio poteva essere navigato agevolmente dalla grossa carena della nave, sicché in trenta giorni si poté raggiungere la confluenza con la Sava e attraversare l'immensa regione oltre il soffio del vento del Nord, lontano verso settentrione, ove mormoravano le sorgenti delle Alpi.

L'epilogo fu la discesa degli Argonauti nel golfo dell'Alto Adriatico e lo sboccare in quel mare già noto nell’età dell'oro come Mare di Crono. Questo stesso fu l'itinerario di Antenore.

Affascinante, sottolineo, dunque nell'età dell'oro il Golfo di Venezia si chiamava Mare di Crono.




Riceviamo la cena da Cengio e mi avvedo che il cibo non è poi così scarso e scadente come sarebbe logico aspettarsi, la zuppa d'orzo e d'erbe non dev'essere male, il pane di segala e avena con dentro i fagioli secchi non è affatto duro, ma io non tocco nulla perché m'è passato l'appetito.

Il greco inizia a tirare improperi e maledizioni, a suo parere il cibo è poco e cattivo, se la prende in modo particolare con il pane dopo averne ingoiato il primo morso:

«Puah! Il pane del governo. Con tutto il frumento che ci ruba».

«Non è pane del governo. Il Comune non passa i pasti ai carcerati, se oggi mangiamo dobbiamo ringraziare le confraternite di carità, che si preoccupano di noi».

«Loro la chiamano carità. A Candia facevo il mugnaio, conosco ogni tipo di farina e giuro, non ho mai mangiato un pane così schifoso! I contadini che vengono al mio mulino non lo darebbero in pasto ai loro cani, per paura di offenderli».

Nonostante le proteste non lascia nessun avanzo sul piatto e infine, accortosi che disdegno di mangiare, afferra la mia ciotola e il mio pane e consuma voracemente anche la mia parte.

Un boato... fa rimbombare le pareti della cella, mi giro scandalizzato per il rutto del greco. Ha finito di mangiare, si stiracchia e si distende satollo sul tavolaccio.

Chiedo con un filo di voce:

«Dunque i Veneti sono un popolo mediterraneo?»

«Non è del tutto esatto. D'accordo, ai tempi di Troia i Veneti si erano stabiliti in Anatolia e là avevano assorbito la cultura mediterranea ma, in origine, vennero da Nord».

«Ma no?»

«I Veneti discendono dal mitico popolo degli Iperborei».

«Tu come lo sai?»

«A Candia possedevo un testo rarissimo dello storico Ecateo, forse esemplare unico, era intitolato «Il cammino degli Iperborei».

«Ah».

«Gli Iperborei provenivano dal lontano Nord, per l'esattezza dall'Apollonia».

«Dov'era l'Apollonia?»

«L'Apollonia arrivava fino alle rive del Mar Baltico, estesa tra i bacini fluviali dell'Oder e della Vistola.

In quella remota regione vi erano dei ricchissimi depositi d'ambra e proprio lì iniziava la via commerciale che esportava a sud la preziosa resina dalle sfumature giallo - dorate. Durante l'Età dell'oro, gli Iperborei si spostarono nel cuore dell'Europa e prosperarono nell'area del medio corso del Danubio.

Noi greci li chiamiamo Iperborei perché le loro tribù erano stanziate al di sopra di Borea ovvero oltre il vento del Nord che soffia gelido sui monti di Tracia».

Zagreo precisa che i Veneti erano soltanto una delle numerose tribù iperboree esistenti. Erano tutte figlie del fulgido Apollo, cui sacrificavano il lupo in olocausto, ed avevano in comune l'usanza di cremare i morti e di comporli in urne per poi deporli in campi consacrati.

Un giorno fatidico intere tribù della grande famiglia degli Iperborei, tra cui Frigi - Veneti e Dardani, si misero in marcia su pesanti carri e dal Danubio piombarono a sud abbattendosi come una bufera su tutti i popoli che incontrarono sul loro cammino. Tra le vittime del ciclone che premeva minaccioso da Nord ci furono i Greci. Scacciati dalle loro terre di Macedonia e d'Epiro e messi a loro volta in movimento, i Greci vennero inseguiti a sud fino al Golfo di Corinto. Fu laggiù, nell'avamposto di Delfi, che i Frigi introdussero il culto di Apollo in un preesistente santuario.

Le altre tribù iperboree presero invece stabile dimora in Tracia e anche i Veneti, per qualche tempo, si fermarono a ridosso dei Dardani nel nord della Macedonia.

«La tribù iperborea dei Frigi, fremente per il desiderio di nuove conquiste - prosegue Zagreo - si lasciò alle spalle la Macedonia e trascinò con sé i Veneti alla volta dell'Asia Minore. Piegato con una guerra accanita il potente Impero degli Ittiti, i Frigi si stabilirono all'interno dell'altipiano Anatolico, la tribù dei Dardani fondò la città di Troia...».

«Ma come? Anche i Troiani discendono dagli Iperborei, non è che per caso mi stai raccontando un sacco di balle?»

«Atlante era il capostipite dei Dardani e la dimora di Atlante era presso gli Iperborei».

«Va beh, scusa l'interruzione, e i Veneti dove si stabilirono?»

«I Veneti si presero le coste settentrionali dell'Asia Minore che corrispondevano appunto alla ricca Paflagonia».

E' strano, pensavo. Per quanto ci si possa sforzare, riesce difficile immaginare i Veneti in un periodo di splendore eguale o addirittura superiore all'attuale. Le concezioni che ho dei nostri precursori sbiadiscono a confronto dei fulgori della Roma Imperiale, ricalcano molti luoghi comuni e non vanno oltre la minuta comunità di pescatori e salinai, condannati a strappare alla viscida melma della laguna lo spazio per le loro capanne.

Borbotto:

«Al tempo dell’età dell'oro gli Iperborei dovevano essere molto potenti».

«Certo, l'immensa moltitudine delle tribù Iperboree copriva un territorio vastissimo che occupava il centro dell'Europa con propaggini perfino nella lontana Britannia, esteso lungo un'asse che da Nord - Ovest a Sud - Est collegava il Danubio all'Anatolia».

«Come faceva questa moltitudine a mantenere la concordia al suo interno?»

«Le tribù iperboree facevano parte di una confederazione. Sebbene ogni tribù godesse localmente di larga autonomia amministrativa, esse erano legate da stretti vincoli di alleanza politico - militare, come si evince del resto dall'esempio della guerra di Troia».

Con una serie di larghi giri concentrici siamo nuovamente tornati al punto di partenza, la guerra di Troia:

«Guidava i Paflagoni il forte cuore di Pilemene dalla veneta terra ove nasce la razza delle mule selvagge».

Sono stordito. Chiedo un attimo di pausa e riassumo a voce il giro di peripezie dei Veneti completo di tutte le loro complicate peregrinazioni. L'Apollonia, l'Area danubiana centrale, la Macedonia, la Paflagonia. Se il destino mi riserverà di uscire da qui andrò dritto in Piazzetta dei Leoni a sbandierare queste incredibili notizie, nessuno le sa.




Zagreo si complimenta per la buona memoria che dimostro di possedere e riprende implacabile la narrazione:

«Fuggendo da Troia in preda alle fiamme e solcando come già ti dissi l'antica rotta degli Argonauti, i Veneti guidati da Antenore ritornarono alla terra dei loro padri nella regione danubiana centrale. Vi trovarono ad accoglierli gli Iperborei rimasti a presidiare l'antica capitale e furono calorosamente abbracciati da Zabio, il re dell'ascia di bronzo, quell'ascia bipenne che assommava in sé il sommo potere politico e religioso.

Zabio accolse benevolmente il culto della Grande Madre che i profughi Anatolici avevano assorbito e portato seco e in tal modo Rhea, affiancata ad Apollo, venne riconosciuta come la somma dea dei Veneti».

Col sorriso sulle labbra il mio compagno di cella descrive il clima temperato del Danubio e i buoni raccolti, tratteggia i costumi gentili degli Iperborei, ne cita l'estrema longevità, la vita all'aria aperta nei prati e nei boschi sacri. Mobili come il vento sugli eleganti cavalli essi riuscivano a scoprire i più reconditi recessi ove la natura celasse i suoi tesori.

Accadde però, e qui Zagreo si rabbuia in volto, che dopo anni e anni di pace un giorno si addensarono sui Veneti le orde minacciose dei Cimmeri.

I Cimmeri provenivano dalla terra di Ade, un paese perennemente avvolto dalle nebbie ove non splende mai il sole, erano un popolo dell'ombra, dal carattere malvagio e brutale. Piccoli e pallidi, tuttavia forniti di terribili armi di ferro apparivano solo al crepuscolo per razziare e depredare i vicini.

Non costruivano città né fortezze, vivevano in dimore sotterranee collegate insieme dal tortuoso intrico di gallerie che i loro schiavi erano costretti a scavare. Non erigevano templi né santuari, ma nelle viscere della terra evocavano le creature delle tenebre. Gli antri echeggiavano delle tetre cantilene degli stregoni ed il fumo dell'hashish si sviluppava denso dai bracieri dando forma a poco a poco alle sagome dei démoni, allora i presenti si prostravano davanti alle apparizioni e offrivano loro in nutrimento il sangue caldo di una pecora nera. Gli stregoni acquisivano così il potere di addormentare con lo sguardo chiunque li fissasse un attimo negli occhi e in quello stato potevano ordinargli di compiere qualsiasi azione. Il loro supremo sacerdote, nascosto nella grotta più profonda ed inaccessibile, era solito compiere sacrifici umani davanti un caprone imbalsamato che era cinto alla fronte da una stella a cinque punte, rovesciata con la punta in giù.

Nella terra di Ade, i Cimmeri erano un tempo padroni della Crimea e delle steppe che si estendono sopra le coste settentrionali del Mar Nero, ma da oriente erano arrivati gli Sciti del Turkestan e li avevano scacciati. In realtà gli Sciti conquistarono quelle steppe senza colpo ferire perché, non appena si seppe del formidabile esercito scita che marciava minaccioso sulla Crimea, i Cimmeri furono presi dal panico e si prepararono a fuggire. I capi militari cercarono di fermarli incitando il popolo alla difesa e dichiarandosi pronti a morire e a farsi seppellire nella propria terra piuttosto che scansare il combattimento, ma il popolo insisteva sulla necessità di cedere rapidamente il campo ed evitare una sicura sconfitta. Ne seguì una cruenta rivolta, i generali e gli aristocratici furono assassinati ed i loro cadaveri seppelliti frettolosamente sulle rive del fiume Dniestr. Il mucchio selvaggio si mise in fuga, lasciò agli Sciti un deserto di steppe e risalì il Danubio saccheggiando e devastando ogni cosa come un esercito di cavallette.

Zagreo dipinge un grandioso affresco dalle tinte fosche:

«Un giorno funesto il flagello dei Cimmeri si presentò alle porte della capitale iperborea, l'avanguardia nemica assaltò alcune fortificazioni e nel ritirarsi incendiò il bosco sacro prospiciente la città...

I cavalieri veneti erano schierati e pronti per la battaglia, si stringevano nelle file, avvolti nei loro mantelli azzurri, e attendevano l'ordine della carica. Anche l'agguerrita fanteria iperborea era uscita allo scoperto e si era piazzata nelle retrovie. L'attesa fu lunga e snervante. Al calar del sole ancora lo sguardo era teso all'orizzonte allorché in lontananza, in direzione del bosco incenerito, videro avanzare una nube di polvere nera. La nube procedeva lentamente verso di loro finché in mezzo alla fuliggine cominciarono a distinguere i profili di quei tetri guerrieri: curvi sulle selle e con le corna sugli elmi, al rombo cupo degli zoccoli i Cimmeri al galoppo tenevano alte le loro insegne di morte, e l'ombra nerastra si sollevava in aria, in colonne di polvere che oscuravano il sole del tramonto.

Lo stato d'animo dei cavalieri veneti era tesissimo, non avevano mai combattuto oltre l'imbrunire, i cavalli erano irrequieti, roteavano gli occhi e scalpitavano... si alzò chissà dove un grido di battaglia, il grido si propagò all'unisono e fu sommerso quasi istantaneamente da un assordante scalpitio di zoccoli. La carica! A faccia a faccia col nemico i cavalieri veneti incrociarono gli sguardi stralunati dei Cimmeri col bianco degli occhi che spiccava sui visi sporchi di cenere, e nell'urtarne i cavalli videro le teste mummificate appese alle briglie: macabri trofei degli uccisi in duello. Sul campo di battaglia si udiva il clangore del corpo a corpo, i nitriti dei cavalli che imbizzarrivano e cadevano, i martelli che fracassavano i crani, le urla bestiali degli assalitori mescolate ai lamenti dei feriti. Furono visti i Cimmeri inginocchiarsi sui corpi dei nemici agonizzanti, berne il sangue che sgorgava dalle ferite e poi rialzarsi furenti con i denti digrignanti e la bocca intrisa del sangue che gocciolava lungo i baffi.

La cavalleria veneta era efficace e molto mobile, si spostava con rapidità ove c'era più bisogno, si batteva con accanimento, incalzava mulinando le spade e abbatteva gli avversari. Però, col procedere della battaglia i Veneti furono costretti sulla difensiva ed invocarono l'aiuto della fanteria iperborea: gli attaccanti erano un numero spropositato, appena uccisi quelli delle prime file altri ne sopraggiungevano senza fine, la loro forza era nel numero e sotto l'impeto di quell'orda selvaggia gli Iperborei dovettero ripiegare.

Coloro che erano rimasti in città assistettero ai funesti presagi del tempio di Apollo, il nibbio appollaiato sul treppiede ruppe il laccio, spalancò le larghe ali al cielo e con un balzo spiccò il volo, il cigno fuggì atterrito dal laghetto sacro ed i corvi ammaestrati si allontanarono dal tempio per dilaniare i cadaveri sparsi sul campo di battaglia».

Con dovizia di particolari Zagreo narra la capitolazione e l'orrendo sacco della città, difesa unicamente da palizzate di legno. Racconta che i Cimmeri riuscirono ad oltrepassare le palizzate scavando delle gallerie sotterranee, sbucarono in città nel buio della notte e poterono aprire le porte al loro esercito avido di saccheggio. Nella piazza centrale crebbe presto una montagna di teste recise, appartenevano a centinaia e centinaia di Iperborei, questo perché aveva diritto alla propria parte di bottino solo chi avesse consegnato ai capipopolo la testa dei nemici uccisi. Dal cuoio capelluto i Cimmeri asportavano lo scalpo, che veniva usato come salvietta oppure cucito insieme con altri scalpi per confezionare delle casacche. Gli arcieri scuoiavano con le unghie la mano destra dei cadaveri e ricavata la pelle umana, che è spessa e lucente, ne facevano dei coperchi per le loro faretre.

Si videro due guerrieri Cimmeri spogliare una donna e metterla in ginocchio, l'uno la strangolava lentamente con un laccio e sogghignava... mentre l'altro con macabra lussuria la sodomizzava e la godeva nel dimenarsi spasmodico dell'agonia. Il piccolo bambino strappato a quella donna venne raggruppato con altri della stessa età, era destinato da quel giorno a non rivedere mai più la luce del sole, sarebbe stato istruito per entrare nella congregazione degli schiavi scavatori di gallerie.

A Zabio, comandante supremo degli Iperborei, toccò un'orribile fine, venne scorticato vivo da capo a piedi e quando ancora il suo cuore non aveva cessato di pulsare, le sue carni furono date in pasto ai maiali.

Il santuario del Sole?

Abbandonato precipitosamente dai sacerdoti, fu ben presto insozzato dai Cimmeri che trasformarono il tempio di Apollo in una stalla per i loro cavalli.

Zagreo continua a narrare, parla molto veloce e faccio fatica a seguirlo. E' un fiume di notizie che si susseguono senza tregua, senza un attimo di respiro.

Le terrificanti notizie del saccheggio si propagarono nella pianura Danubiana e arrivarono ai villaggi non ancora raggiunti dai Cimmeri. Tutti coloro che erano in grado di mettersi in salvo risalirono il Danubio fino alle sue sorgenti. Sfociarono sul Lago di Costanza e giunti al versante nord della barriera alpina, sfidarono i pericoli del suo attraversamento per andare a rifugiarsi in massa sui monti, fortificando rupi e passi in modo da renderli inaccessibili agli inseguitori.

I fuggiaschi si inoltrarono così nei territori dei Reti, che tuttavia li accolsero pacificamente e permisero loro di stabilirsi nella Valle alpina del Reno. Nei monti i Veneti riuscirono a sopravvivere grazie alla coltivazione delle fave e della vite; divennero abili nel commercio del sale di miniera e dell'ambra che arrivava da nord; ormai esperti nella caccia al cervo, adottarono l'usanza di sacrificarlo sui roghi votivi dedicati ad Artemide, la sorella gemella di Apollo.

I Reti? Mentre Zagreo era intento a narrare questo soporoso e pesantissimo intreccio di guerre e di popoli, ho perso il filo del racconto, mi sono distratto, e con gli occhi persi nel vuoto ho continuato a fantasticare sulla nube di cenere sollevata dai Cimmeri alla carica. In mezzo alla polvere infiammata dalla luce del tramonto rivedevo quei tetri guerrieri curvi sulle selle, le ombre disegnate in contro luce, con le corna appuntite... simili a furibondi diavoli appena usciti dall'inferno. Si avvicinano. Vedo il bianco dei loro occhi, spicca sui visi di cenere, le falci e le insegne di morte sollevate sulle aste, le teste mummificate appese alle briglie. Odo il rombo cupo del galoppo, è assordante, un muggito bestiale, un coro di tamburi rullanti, insistente, sempre più forte, un tremendo boato!

Scuoto la testa e mi risveglio da quella specie di incubo, Zagreo sta enfatizzando l'alleanza tra Veneti e Latini:

«Re Latino era figlio di un'iperborea, Palanto!»

Il greco conclude finalmente il suo interminabile poema, dimostra di conoscere meglio di me la geografia dei nostri monti ed esplica come attraverso le Alpi i Veneti siano scesi pian piano a valle, spodestando i Colchi dai Colli Euganei e guadagnando il golfo dell'Alto Adriatico. Ivi prosperando fino all'epoca romana allorché ebbero il loro daffare per ostacolare la pressione dei Celti, che dovettero combattere prima insieme agli Etruschi e poi insieme agli alleati Romani.

«Già, gli alleati Romani - faccio eco -.

Enea, si sa, discende dai Dardani di Troia. Pilemene discende dai Veneti d'Anatolia.

Ergo la nostra gente è affine alla Latina...».

«Proprio così, si tratta di tribù iperboree nate da uno stesso ceppo».

«Al contrario, i greci non hanno nulla a che vedere con gli Iperborei e quindi, sempre secondo te, sono in tutto differenti dai Veneti.

La logica conclusione è che un greco di Candia non deve sottostare a un feudatario veneto» innervosendomi.

«Esatto».

«Ma tu credi veramente - lo aggredisco -, che i Veneti di Paflagondia o come si dice... di Paflagonia siano identici a quelli che ora circolano per le calli di Venezia o che i greci di Agamennone fossero lo stesso dei greci di oggi?

Che frottole! E' avventato, è fuori luogo. E' una presunzione assurda. Chi sei? Chi sei tu per sostenere un peso reale di legami così arcaici. Ma chi ti credi di essere? Che pretese! Dimostrare che i Veneziani sono agli antipodi dei Greci... tirando in ballo le tribù del tempo di Troia».

«I popoli han la memoria lunga».

«Sì... anche le balle di Noè!»




Quindici piedi di lunghezza, nove di larghezza... come un'anima in pena Zagreo misura accuratamente il pavimento della cella, poi tocca il soffitto con la punta del dito e calcola otto piedi di altezza. Non riesce a star fermo, continua a camminare avanti e indietro, nervosamente.

Nella penombra lo guardo con la coda dell'occhio. Osservo le sue gambe robuste, i capelli ricci e neri, gli occhi vivi e intelligenti, la benda nera ancora sulla testa.

Questo greco, che si dichiara perseguitato politico, afferma di aver letto e riletto gli Inni di Orfeo, conosce a memoria la guerra di Troia, recita le contorte peripezie degli Argonauti. Indubbiamente, ha un suo stile ricercato di esporre, si immedesima come un attore e sa comunicare ad arte i sentimenti dei protagonisti. Poco fa, mentre cantava l'epopea degli Iperborei e ne descriveva lo scontro con i Cimmeri, con le mutevoli espressioni del suo volto ha saputo trasmettermi il senso tragico degli avvenimenti. L'individuo taciturno e scontroso che ho incontrato al Mastino di Khorassan sa in realtà parlare in modo garbato e rendersi gradevole a chi lo ascolta. Non ha proprio nulla del mugnaio asservito alla macina e abituato a trattare con i servi della gleba, Zagreo sembra piuttosto una specie di cantastorie. Ecco cos'è: un trovatore, chissà perché non ha voluto dirmelo?

Gli chiedo a bruciapelo:

«Sai suonare la viella?»

«Sì» annuisce fissando a testa bassa il pavimento di legno mentre continua a girare in tondo.

«Tu sei un trovatore!»

Zagreo si blocca di colpo e mi guarda sorpreso con gli occhi luccicanti.

Poi riprende a camminare, ma più lentamente e inizia a confidarsi:

«Non proprio, ma sarei potuto diventarlo come mio padre e mio nonno.

Loro erano molto diversi dagli spensierati trovatori provenzali. Mio nonno fu trovatore a Bisanzio alla corte di Alessio III. Nell'attacco del 1203, la flotta Veneziana sbarcò angeli sterminatori cinti da splendide armature e da preziosi drappi di seta: sicché alla vista dell'esercito crociato l'Imperatore fuggì precipitosamente. Si diresse verso Adrianopoli con sua figlia Irene e il loro fedele trovatore li seguì, mentre la guardia danese e inglese riusciva a malapena a ritardare la caduta della città.

Ma quando Alessio III finì in catene a Nicea, mio nonno decise di tornare a Candia per riabbracciare i genitori. Nell'altipiano di Lassìthi essi possedevano un mulino a vento, costruzione in pietra a forma di ferro di cavallo allungato e con le pale ricoperte di stoffa. Come lui, moltissimi altri greci si erano rifugiati nell'altipiano per timore dei Veneziani. Sposatosi ebbe mio padre. Mio padre, imparò i poemi e i racconti che arrivavano da Bisanzio ed ereditò il mestiere di trovatore però, per poterlo esercitare, dovette abbandonare l'altipiano e recarsi a San Nikòlaos dal signore veneziano del castello di Mirabello.

Perciò durante tutta la mia spensierata giovinezza vissi al castello, ove mio padre a sua volta mi trasmise l'intero repertorio bizantino, avrebbe voluto che un giorno prendessi il suo posto... Disgraziatamente, sebbene fossi ben preparato nel canto e sapessi suonare la viella, non ebbi il tempo di farmi nome come trovatore perché fui presto espulso dal castello».

«Come mai?»

«Avevano scoperto che ero io... l'imprendibile bracconiere della riserva del Signore. Catturavo con le trappole un sacco di animali, lepri, tassi, donnole, martore e capre selvatiche. Cacciato malamente dal castello tornai nell'altipiano e mi misi a fare il mugnaio nel nostro mulino, dovevo pur guadagnarmi da vivere.

I greci che trovai nell'altipiano erano perennemente irrequieti, molti dei rifugiati avevano subito soprusi dai veneziani o mantenevano una caparbia opposizione al regime. Il Signore di San Nikòlaos pensò di poter tenere a freno lo scontento e di amministrare meglio la zona tramite l'investitura di un uomo d'arme, sicché un giorno consegnò tutte le terre dell'altipiano ad un Valvassore, ovviamente veneziano. Costui mi prese subito di mira, mi considerava pericoloso perché avevo stretto amicizia con i ribelli e facevo attiva propaganda contro il regime».

«Capisco».

«Sai, mi sarebbe piaciuto diventare un vero trovatore, avevo il talento per rendermi celebre con versi scritti di mio pugno, ma i veneziani me l'hanno impedito in tutti i modi».

«Perché non sei andato in un altro castello?»

«Ci ho provato ma ero ovunque messo al bando, mi hanno rifiutato a Rodia, Chania, Etia, ho bussato a Ierapetra e a Frankokastello ma mi hanno risposto che assumevano solo menestrelli provenzali... e che un greco non può darsi arie da trovatore».

«Vedrai, col tempo anche la prepotenza di quei rozzi ignoranti si piegherà alla gentilezza della vostra cultura, immagino tu conosca il proverbio chi va al mulino s'infarina».

«Altro che! Il nuovo Valvassore è venuto al mulino e se n'è subito appropriato, adduceva che secondo l'usanza poteva costruirli solo il feudatario».

«Perché non siete andati a protestare dal Signore?»

«Era inutile. Per gratitudine verso mio padre il Signore di San Nikòlaos aveva tollerato la proprietà del mulino anche se era contro l'usanza, ma con l'investitura egli aveva ceduto la terra stessa ove sorgeva il mulino, conferendo al Valvassore il diritto di comportarsi da padrone.

Obbligato a fare il servo nel mulino mio, ricevevo dal Valvassore un compenso da fame, un sacco di farina ogni trenta sacchi macinati anziché venire pagato come prima dai contadini. Ai Greci egli aveva vietato di macinare i cereali in casa, li costringeva ad utilizzare il mulino e pretendeva tasse esose per ogni macinazione. Con l'avvento della carestia di grano il fermento della ribellione era sul punto di esplodere ed io ne approfittai per incitare alla rivolta i contadini esasperati. Nell'altipiano mi conoscevano tutti, alle mie arringhe alternavo i canti accompagnati con la viella, ero solito cantare per il popolo le gesta degli Argonauti, i contadini si commuovevano, mi riempivano di semplici doni e di ammirazione incondizionata.

Un giorno abbiamo assaltato di sorpresa il palazzo del Valvassore, le sue guardie hanno usato le armi e la cosa è degenerata. Uno dei ribelli ha ucciso il Valvassore».

«Quale fu la risposta veneziana all'uccisione di un nobile?»

«Fu l'immediata evacuazione dell'intera piana di Lassìthi e il drastico divieto di accesso all'altipiano, compresi i monti circostanti. Con tale disposizione il governo veneziano ha voluto impedire ai ribelli di arroccarsi in quel territorio sopraelevato, facile da difendere. Hanno bruciato i miei libri, hanno raso al suolo il mio mulino e tutti i villaggi dell'altipiano e adesso, un terreno così fertile e ricco di frumento è completamente spopolato, ridotto a un deserto incolto».

«Per questo hai lasciato Candia».

«Sì, non avevo scelta, con gli sbirri alle calcagna ho dovuto prendere clandestinamente la prima nave veneziana in partenza.

A Smirne, nell'Impero di Nicea, la nave ha fatto scalo e io ne ho approfittato per procurarmi alcuni sacchetti di sale da contrabbandare a Venezia».

Il monopolio del Sale, geloso privilegio fin dalle origini della Serenissima, fu una delle cause del suo rapido arricchimento. Ovunque nel litorale salmastro della laguna figurano saline a struttura industriale in parte utilizzate per la salagione del pesce, principale alimento della città, ma soprattutto destinate all'esportazione. Il sale è il prodotto più venduto all'estero dai mercanti veneziani, ma non soltanto venduto: in Puglia, in Libia e nelle Baleari, viene sistematicamente comprato dalle navi veneziane che ne fanno incetta per il governo.

«Ah ho capito, -esulto- ti sei messo a fare il contrabbandiere di sale. Per questo, quand'ero nel salone del Palazzo Ducale, quel nobile ha chiesto agli sbirri se mi avevano sequestrato del sale. Allora erano tuoi i sacchetti di sale sul tavolo della guardiola?»

«Sì, ma dovevano servire solo per pagarmi il viaggio, volevo raggiungere i miei amici dell'altipiano. Si sono rifugiati a Verona. La è signore un ghibellino attento e ospitale verso gli esuli greci, un uomo che non ha pregiudizi nei riguardi degli eretici. Io contavo nella sua munificenza per farmi accettare come trovatore, il genere politico non è il solo delle mie canzoni, so anche allietare con melodie gaie e leggere».




Esiste forse compagno migliore per un carcerato? Il destino avrebbe potuto riservarmi la vicinanza di un brigante capace solo di vomitare bestemmie oppure di un friulano che non ti dice una parola in tutta la giornata e invece no, ho per compagno di cella un trovatore, vengo allietato dalle delizie della cultura e della poesia al pari di un principe nella sua corte. Senza la viella egli non può cantare ma potrà almeno raccontarmi qualche storia sui re di Paflagonia.

Zagreo lo fa con piacere, non è stanco, sembra preso dalla frenesia di liberarsi di tutto il suo repertorio in una sera, come se fosse l'ultima occasione per tramandare un sapere che solo lui conosce. Inizia a narrare del suo re più famoso, Pelope, che teneva corte ad Enete sulle sponde del Mar Nero. Regnò poco dopo il crollo dell'impero Ittita, quando i Veneti erano tra i più potenti della coalizione anatolica.

Tutti i suoi successori al trono vennero consacrati con riti solenni che si ispiravano a lui, Pelope Faccia nera.

Il novello monarca indossava una maschera di pelle nera ed un vello nero. Durante il rituale veniva ucciso simbolicamente, ma veniva fatto rinascere a nuova vita da sacerdoti vestiti di candidi velli. Infine, fatto simile a Zeus, il re veniva ricoperto da un maestoso vello tinto di rosso porpora.

Interrompo Zagreo per sapere di chi fosse figlio Pelope.

Egli fa il nome di Tantalo, un titano generato da Pluto, la dea della ricchezza a sua volta figlia dell'iperboreo Atlante.

Tantalo, non era quello del famoso supplizio?

Era proprio lui, aveva tenuto nascosto il mastino d'oro rubato al dio della metallurgia Efesto e spergiurò di non averlo mai visto né di averne mai sentito parlare. Comunque, fu punito dall'olimpico Zeus per un assai più grave misfatto...

Invitati gli dei ad un suo sontuoso banchetto sul monte Sipilo, Tantalo si rese conto di aver finito le provviste e preso dal panico tagliò a pezzi il figlioletto Pelope. Smembrate, lessate e poi arrostite, le tenere carni del bimbo furono servite in tavola agli ospiti, costoro tuttavia ne compresero immediatamente la provenienza e inorriditi si rifiutarono di toccare cibo. Solo Teti la consorte di Oceano, essendosi in quel momento distratta, mangiò il pezzo di carne che corrispondeva alla spalla sinistra del fanciullo.

Dunque il supplizio?

La condanna inflitta a Tantalo dal sommo Zeus fu l'eterna tortura della fame e della sete, appeso nella palude tartarea ai rami di un albero sovraccarico di ogni qualità di frutti. L'acqua in piena saliva fino all'altezza del suo mento ma non appena Tantalo chinava il capo e protendeva le labbra arse per bere... l'acqua si ritirava improvvisamente e lasciava solo nero fango ai suoi piedi. Quando poi esasperato dai morsi della fame, tormentato dal bisogno di cibo, allungava il braccio e protendeva la mano per afferrare una mela matura, una pera o un fico dolcissimo... un soffio di vento gli allontanava il ramo dalle dita e l'agognato frutto cadeva nella melma.

Tantalo... il bimbo a pezzi... il supplizio... Queste storie raccapriccianti mi hanno assorbito al punto di farmi scordare ogni cosa, perfino il luogo penoso in cui mi trovo. Dopo il mio arrivo in cella la sera era scesa quasi subito, in effetti da molte ore siamo pressoché senza luce e non mi sono nemmeno accorto del lento trapassare nella notte fonda. Chissà, potrebbero essere le tre, le quattro. Discorrendo ci siamo inoltrati nell’oscurità desolante dell'interminabile notte invernale, diciannove ore di buio mortale.

Privato di stimoli sensoriali esterni, disorientato dall’immobilità di queste quattro pareti, solo adesso mi sveglio da un viaggio percorso indietro del tempo. Ero fuori della mia epoca, lontano dalle baruffe dei guelfi e dei ghibellini, dalle pretese e dalle tasse dell'Imperatore, dalle lotte accanite della Lega Lombarda. Il presente mi viene incontro nella sua pochezza. Tutto mi appare piccolo, meschino, insignificante.

Cerco di assopirmi ma nella gelida morsa dell'inverno vi riesco solo per brevi tratti, risvegliandomi di continuo.

Nel buio mi lamento con Zagreo:

«Che freddo cane! Ho i piedi congelati».

Odo la sua voce rauca:

«Ci penserà l'Inquisitore a scaldarti per bene i piedi».

«Come?»

«Devi sapere che ai sottoposti al tormento usano spalmare i piedi con lardo di maiale, poi bloccano le caviglie con i ceppi e accendono vicino un bel fuocherello ardente».

«Però, che raffinatezze».

«E ricordati di non chiedere un po' d'acqua da bere altrimenti ti spalancano la bocca con uno strumento di metallo, prendono l'imbuto e ti costringono ad ingurgitare decine e decine di litri d'acqua. Legato a testa in giù, con la schiena ad arco, lo stomaco si dilata enormemente e preme sul torace provocando atrocissime sofferenze».

«Staremo a vedere il trattamento che toccherà a noi».

«Intanto per questa notte ci penseranno i topi».

«A far che?» incalzo spaurito.

«A rosicchiarci le orecchie. Appena sono entrato in cella ho trovato ad abitarla due enormi ratti, avevano il pelo nero e lucido sul dorso e grigio sulla pancia, hanno fatto il giro della cella a tutta velocità e sono usciti di corsa dalla porta».

«Speriamo che siano usciti tutti, le pantegane sono le uniche bestie che non sopporto».

Preferirei la tortura dei piedi bruciati alla presenza silenziosa dei topi, li odio, ho il terrore che qualcuno sia rimasto nascosto sotto i tavolacci, se il greco me lo avesse detto prima avrei potuto controllare. Magari è sotto il mio letto e attende che mi addormenti per rosicchiarmi le scarpe e i vestiti.

Mi rigiro insonne. Sto con le orecchie tese per cogliere il minimo rumore delle zampette, quand'ecco... Zagreo emette un lamento soffocato subito seguito da un lugubre ululato che mi fa sobbalzare dalla paura.

«Zagreo!» chiamo tremando, seduto sul letto con un sudore gelido e appicicaticcio che mi incolla la camicia alla schiena.

«Ho avuto un incubo - mi rassicura dal suo tavolaccio -. Mi trovavo a Candia, nell'altipiano. Ero riverso sul pavimento del nostro mulino. Il mio corpo giaceva a terra orrendamente smembrato, gambe e braccia amputate alla radice, mani e piedi separati dagli arti e la testa staccata dal collo. Pur decapitato, gli occhi mi consentivano di vedere, ed era lo spettacolo agghiacciante del mio misero corpo, poi... poi un corvo è entrato dalla finestra, svolazzava in aria finché si è appollaiato sulla mia testa. Si è aggrappato ai capelli con le unghie e ha cominciato a beccarmi la faccia. Ero impotente di fronte a quel dolore atroce e insopportabile, non avevo mani per scacciare quell'uccellaccio, non mi restava che urlare a squarciagola, ma... appena ho spalancato la bocca quello mi ha strappato la lingua».


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