Chiudi il collegamento a internet e leggi gratuitamente in modalità non in linea (salvo ADSL).

Capitolo Secondo

IL FUGGITIVO

HOME

Pioggia torrenziale. Allontanatomi alla svelta da Mestre, mi avvicino ai confini della Marca Trevigiana varcando a piedi le campagne semi allagate. Con l'animo sospeso avanzo avvolto nel verde pastello del mio mantello. Evito un ponte sorvegliato e passo a guado un corso d'acqua. Senza imbattermi in posti di blocco posso inoltrarmi indisturbato fino alla roccaforte di Casier sul Sile. Mi par quasi impossibile che vada tutto così liscio, ho addosso una tensione continua, mi mette in agitazione la sola idea di incrociare lungo la via le cappe e i cappucci neri sopra la tonaca bianca dei domenicani.

La strada maestra. Da dietro gli orti e i vigneti mi appare in lontananza una cinta muraria circondata da un fossato e difesa da guardie e ponte levatoio: Treviso! A quella vista seducente nasce in me la tentazione di sostare in quella città rinomata per valore e cortesia, città di belle donne, celebre per le feste e i tornei, centro galante di danze e conviti, luogo di ritrovo per i giovani figli dei vassalli e per i numerosi trovatori che dalla Provenza vi accorrono.

La vita raffinata delle famiglie castellane è costellata di festeggiamenti che spesso culminano nel castello d'amore, un castelletto di legno tutto ricoperto di stoffe e difeso dalle donzelle contro l'assalto dei giovani. Le armi incruente dei contendenti sono rose e garofani e frutti ricercati come arance e datteri. Lusso e lussuria si esaltano a vicenda e si consumano insieme quando a sera, proclamata la tregua fra i contendenti e terminate le barbose sfilate delle scuole artigiane, ognuno torna nella sua stanza e le costose vesti di seta delle donzelle calano davanti le insistenze dei nobili rampolli.

Il suo clima godereccio mi attira, volentieri mi stabilirei in questa città opulenta; ho sentito ben nominare le sue case eleganti adagiate all'intreccio dei numerosi corsi d'acqua, come pure i graziosissimi affreschi della chiesetta di S. Francesco o il Palazzo dei Trecento, con le grandi finestre a trifora ed il tetto che sale merlato.

Treviso è retta da Alberico da Romano, fratello di Ezzelino e tuttavia ostile a lui ed alla sua politica ghibellina. Ostile anche ai Veneziani, che inneggiando alla Lega Lombarda fomentano i numerosi patrizi divisi dalle discordie cittadine e invisi ad Alberico. Venezia, pur di eliminarlo è disposta all'uso di qualsiasi mezzo per cui, e qui sta il mio inghippo, la città è piena zeppa di spie della Serenissima, altrettanto pronte a somministrarmi i loro mortali veleni in ossequio alla ragion di Stato.

Ma mi azzardo ad oltrepassare lo stesso la frontiera delle mura cittadine, supero il ponte levatoio sul Sile e passo attraverso la porta meridionale. Sono in Treviso. Giro a sinistra, ma dopo pochi passi all'interno vado a sbattere contro la facciata di un convento gremito di frati domenicani, imponente per l'altezza inusuale e per il taglio netto dei volumi: faccio velocemente marcia indietro e a malincuore ripercorro in senso inverso la porta meridionale. Affrettando il passo costeggio all'esterno i bastioni di terra, scivolo sotto le torri rotonde che svettavano al di sopra del fossato e mentre cammino sconsolato, penso alle alternative.

Nella Marca Trevigiana Verona Padova e Vicenza sono nelle mani di Ezzelino, tutte città da evitare poiché una mia eventuale presenza fornirebbe prova di legami con i cospiratori greci;

a Villa di Corva c'è il feudo di Gueccello, parente e fedelissimo di Ezzelino;

a Ceneda niente meno che il Vescovo;

in Cadore i da Camino, escludendo Feltre e Belluno da poco preda dell'onnipresente Ezzelino.

Fuori della Marca Trevigiana ci sono ad est la Patria del Friuli e a sud, ma troppo distante, il dominio degli Estensi.

Dove altro posso andare?

Milano, Brescia, Alessandria... no, le città della Lega Lombarda sono lontanissime.

Riflettendo, pian piano mi porto alle spalle della porta settentrionale, l'ultima delle quattro porte che si aprono sui quattro quartieri in cui é diviso il contado: quartiere di Mezzo, Duomo, Oltre Cargnano e Riva. Sta calando la notte, le guardie cominciano ad alzare il ponte levatoio e mettono le catene alle porte, le mura si stanno armando di numerose sentinelle e ad intervalli le feritoie si illuminano del bagliore delle torce.

Per sottrarmi alla vista dell'Inquisizione devo rendermi invisibile almeno quanto il pianeta mercurio nel cielo notturno, cosa che posso realizzare solo al prezzo di un allontanamento dal mondo, cercando rifugio nei luoghi più impervi e irraggiungibili. Perciò saluto Treviso, la mia città di belle donne, e mi dirigo a nord verso il territorio dei da Camino.

Attraverso le dolci colline del trevigiano, dopo tanta terra incolta e selvaggia, ecco il popoloso abitato di Conegliano raccolto all'ombra di un castello che domina la campagna dal colle più alto. Fresche sorgenti alimentano numerosi bacini per l'allevamento dei pesci. Frutteti, verdi praterie e terre arate circondano il castello dei ricchi proprietari terrieri.

Basse nubi grigie si addensano appena sopra il maniero. I vessilli del feudatario sventolano sui torrioni e sulla vetta appuntita della rocca, costruzione massiccia e squadrata alta tre piani e situata entro le solide mura del castello. Al piano superiore della rocca vive la famiglia del podestà imperiale e alcune damigelle si affacciano curiose alle strette finestre.

Una processione della Confraternita dei Battuti esce dal ponte levatoio e scende serpeggiando lungo le pendici del colle. I membri sfilano indossando un cappuccio bianco dotato di due sole aperture per gli occhi, si auto flagellano a scopo di penitenza oppure portano sulle carni il cilicio, cintura ruvidissima e nodosa che infligge penosi tormenti ad ogni movimento del corpo. Si battono il petto, recitano giaculatorie e implorano perdono con alti lamenti. Nella pia confraternita non figura nessuno dei nobili castellani, occupati semmai a gozzovigliare con gustosi piatti di selvaggina e con abbondanti libagioni di vino caldo alle spezie, ironia della sorte gli aderenti sono tutti reclutati tra i rappresentanti della vessatissima stirpe dei servi della gleba.

Costoro, i villani, sono la categoria tradizionalmente oppressa e sfruttata dal feudalesimo. I privilegi del feudatario sono garantiti dai trattati di diritto e dalle usanze feudali avallate dalla stesura di documenti in cui i villani sono equiparati più o meno a buoi da lavoro. Pertanto il servo della gleba è perennemente sovraccarico di compiti che vanno dal dissodamento e aratura dei terreni, alla manovalanza per tutte le esigenze dei signori, come raccogliere la frutta, riparare gli edifici, tagliare la legna e conciare le pelli con la scorza delle querce. La fatica è tanta. Dalla cima del colle l'ombra detestata del maniero sorveglia senza tregua il villano. Benché sogni il ritorno ad un’età dell'oro priva di servi e di padroni, egli non osa tuttavia ribellarsi al Signore, voci insistenti di feroci repressioni gli tolgono ogni velleità.

La terra affidata ai villani è avara e talvolta la fame fa sentire i suoi morsi, quando poi il capriccio del tempo ci si mette di mezzo rovinando i raccolti, è l'apocalisse. L'inverno del 1234 ad esempio fu freddissimo: una spessa coltre di neve si estendeva su tutta la campagna, morì la selvaggina, le vigne si seccarono e gli alberi da frutto si fissurarono lungo il tronco.

Anche se era tempo di Quaresima, i prelati si concessero in via eccezionale di mangiare la carne rimasta. Gli speculatori si arricchirono mandando alle stelle i prezzi degli alimenti, la farina diventò preziosa come l'oro e i più poveri diventarono ancora più poveri. Tutto ciò in ossequio alla sentenza dell'evangelista Matteo, che dice: «A coloro che hanno sarà dato e a coloro che non hanno sarà tolto anche ciò che hanno».

L'anno successivo si ripeté lo stesso freddo. Per disperazione si mangiavano bacche e cibi avariati, si metteva l'argilla nella zuppa o addirittura si staccavano i condannati dalla forca per divorarli. Il ciclo si chiuse ovviamente con una serie di epidemie, che riducendo il numero delle bocche da sfamare ristabilirono l'equilibrio.

Quando invece il raccolto è buono, ecco che il contadino può andare fiero dell'unica autentica ricchezza di cui è proprietario: il maiale. Ingrassato in autunno e amorevolmente rimpinzato di ghiande poco prima di ammazzarlo, esso fornisce il vitale sostentamento per buona parte dell'inverno.

In tutte le stagioni i villani vengono flagellati senza pietà dalle imposte che possono esaudire sia in denaro sia in natura, sotto forma di un bue o di un certo numero di pecore. L'economia del sistema feudale si basa infatti sull'appropriazione da parte del Signore di ogni soprappiù messo da parte dalla gran massa dei contadini e così i tributi riducono il popolo ad una condizione di mera sussistenza atta a soddisfare nulla di più che i bisogni vitali. A chi non è in grado di rimettere i censi non resta altro che la prigione e molti sventurati villani finiscono per indebitarsi fino al collo con gli usurai ebrei.

Come la classe nobiliare pretende denaro in cambio della difesa militare, altrettanto gli ecclesiastici si sentono in dovere di vessare i villani con le odiosissime decime in cambio della difesa delle loro anime dalle fiamme dell'inferno.

In fin dei conti anche l'auto flagellazione dei Battuti è un'ammenda per poter riconciliarsi con Dio: un pagamento che ripara le colpe commesse con i peccati.

 

* * *

 

L'immenso bosco del Cansiglio nel vasto feudo dei da Camino. Oltre Conegliano un mare sconfinato di abeti alti e verdi si perde lontano all'orizzonte, alberi e alberi si succedono senza fine. Estensione enorme e selvaggia, la foresta vergine in cui orsi e lupi affamati fanno da incontrastati padroni incute al viaggiatore sentimenti contrastanti e un reverente timore si mescola sovente alle mistiche sensazioni evocate dalla contemplazione del paesaggio. Entro l'oscuro manto della selva v'è la rassicurante presenza di santi eremiti vestiti di pelli e dediti alla pia ricerca della solitudine, ma bisogna purtroppo annoverare anche un gran numero di bracconieri e di pericolosi briganti coi quali ovviamente è preferibile non avventurarsi.

La pioggia ricomincia a martellare. Il feltro verde del mio mantello è completamente inzuppato d'acqua tranne il bavero di ermellimo che tengo sollevato a riscaldare il collo. Il viaggio è veramente massacrante. Duramente provato dalla fatica mi trascino con un bastone a forma di tau sotto braccio e con gli stivali da cittadino già mezzi scuciti. Davanti a me un carro in transito verso nord è rimasto impantanato nel fango della pista. Il conducente intercala tremende imprecazioni alle frustate per i suoi pur robusti buoi. Stendo dei rami sotto la ruota e lo aiuto a disincagliarsi. In cambio ottengo dal carrettiere un provvidenziale passaggio. Divido con lui il pane che ho messo da parte ed un vaso di miele vendutomi da un boscaiolo.

A Ponte nelle Alpi dormo in un fienile. Al mattino presto finalmente la pioggia è cessata e proseguo con la zattera che traghetta passeggeri lungo il Piave fino a Codissago. Con mia grande meraviglia la zattera è affollatissima, a bordo ci sono contadini che emigrano, mendicanti vestiti di stracci, pellegrini, frati bigi e miseri cavalieri erranti, c' è un malato che come San Giobbe si gratta le piaghe col coltello e accanto uno storpio che esibisce la sua deformità, segno esteriore del peccato e della maledizione di Dio.

Che se ne stiano alla larga. Costoro mi ricordano gli squallidi messaggeri di un mondo sull'orlo della rovina. Non ci tengo affatto ad arruolarmi nelle loro file per dividere in modo equo la fame. Un mosaicista come me anche in capo al mondo può guadagnarsi una paga onorevole e comunque sia ho ancora un piccolo gruzzolo, ho speso qualcosa per la zattera e per i pedaggi dei ponti ma la consistenza della mia borsa non dev'essere calata di molto.

Vorrei tastare di nascosto il sacchetto dei denari ma non posso farlo, ho addosso i loro sguardi. Mi stanno mangiando con gli occhi, sotto il mantello aperto osservano i colori sgargianti rossi e azzurri della mia veste da cittadino, si soffermano con invidia sui miei stivali a punta mentre loro portano zoccoli di legno e hanno i piedi fasciati di pezze puzzolenti. Sono imbarazzato, per nascondere il mio disagio mi volto dalla parte opposta e faccio finta di guardare intorno alla zattera. La visibilità è scarsa a causa dei fumi di nebbia che salgono dall'acqua, la zattera si muove a rilento contro il fiume in piena, le rive sono disabitate e la foresta fa loro cornice per ogni dove.

In lontananza comincio a distinguere il molo del nostro approdo. Stringo gli occhi per scrutare meglio, poi li spalanco con tanto di pupille dilatate, impallidisco, mi si rizzano i capelli, scosto le braccia e apro le mani a dita divaricate: ad attenderci sul molo ci sono due domenicani in compagnia dei gendarmi!

La zattera avanza, non ho scampo, i miei piedi sono incollati alle tavole, non provo nemmeno a tuffarmi in acqua, sulle rive sbucano altri gendarmi da dietro le fronde. La zattera scivola inesorabilmente verso il molo. Attracca. Subito due gendarmi si gettano ad acciuffare una vecchia cenciosa che si distingue solo per essere tutta vestita di nero!

Scampato pericolo. Segue il sesto giorno di viaggio. Imbocco la strada del Canal e sbuco nella val di Zoldo. E' una vallata ridente e prospera che attira l'immigrazione, la sua fortuna sta nei giacimenti di rame e di piombo, ma soprattutto nelle ricche miniere di ferro: le officine vendono i chiodi che viaggeranno per mezzo Mediterraneo affissi agli scafi della Serenissima e i fabbri zoldani forgiano le armi che andranno a Milano, a Brescia, a combattere in mano ai soldati della Lega Lombarda.

Ho deciso. Mi fermo in mezzo a questi industriosi montanari, gente riservata ma ospitale, è il posto ideale per trovare subito lucrose offerte di lavoro e far valere la mia maestria di artigiano del mosaico. Modestamente nel mio mestiere ci so fare, tanto più che qui non esiste davvero concorrenza per uno uscito dalla Corporazione musiva di Venezia.

Corro dunque alla chiesa di Zoldo e appena varcato il portone getto lo sguardo a terra, ma rimango deluso: il pavimento a scacchi bianchi e neri è in ottimo stato e non richiede alcun intervento di manutenzione. Scruto ogni angolo dell'edificio ma la chiesa è piccola, affrescata, non ci sono spazi per ricavare dei mosaici. Allora esco di gran carriera sulla piazza principale e vado a bussare all'unico palazzo di ricconi.

Il maggiordomo apre la porta in fessura:

«Cossa vutu? Vutu che?»

Accenno un affabile inchino:

«Buongiorno a voi, sono un esperto mosaicista di Venezia, a disposizione del Signore del palazzo per un bel pavimento di mosaico».

«No, non gli occorre» ribatte secco e ritira il portone per chiuderlo.

«Ehi, un momento - insisto. - Fatemi parlare con il Signore in persona, è mio diritto», cerco di bloccare la porta tenendola per la maniglia ma il maggiordomo la serra con un gran tonfo.

«Ruspante!», gli grido più che mai offeso.

Mi giro e vedo sulla piazza i braccianti riuniti, manodopera a salario in attesa di un occasionale datore di lavoro. Non ho molta scelta: con loro o presto o tardi la fame. Raggiungo perciò il gruppetto dei manovali e a braccia conserte come gli altri, aspetto.

Ecco avanzare tronfio il mandante di un datore di lavoro, con mio disappunto vi riconosco l'antipatico maggiordomo che poco prima mi aveva sbattuto la porta in faccia. Ora indossa un ridicolo berretto a quadretti bianchi e verdi.

Gracchia:

«Ci occorre un bovaro per la malga. Lo chiedo per l'ultima volta!»

Nessuno fiata, i manovali si scambiano degli sguardi perplessi.

Approfitto del loro momento di incertezza:

«Eccomi! Io, io» alzo il braccio teso e faccio un passo in avanti.

I manovali ridacchiano rumorosamente alle mie spalle. Che umiliazione, un cittadino veneziano come il sottoscritto, mosaicista delle cupole d'oro, un artista del mio valore ridotto a fare il bovaro... dalle stelle alle stalle.

Vengo dunque assunto come guardiano presso una mandria composta da buoi dal pelo fulvo e da gagliardi vitelli di razza italica. La stalla, situata nell'altipiano di Mas di Sabbe, è al centro di un'ampia distesa di prati in pendio ed ha un leggiadro soffitto ricoperto da una moltitudine di pipistrelli appesi a grappoli. Il primo incarico del nuovo lavoro è particolarmente raffinato, trattasi di ripulire la stalla da cima a fondo. Il letame non veniva allontanato da anni, arriva fin quasi al ginocchio e diffondeva intorno un lezzo nauseabondo.

Conclusa in alcuni giorni la gran sfaticata, comincio pian piano ad apprezzare la mia occupazione di mandriano e devo dire che non mi capita affatto di soffrire la solitudine. Accudisco le bestie, ogni giorno le abbevero e le nutro col fieno profumato di selvatico e al termine delle faccende, mangio in santa pace la mia zuppa. Pensare che nessuno voleva venirci a lavorare perché corre voce che un tempo l'altipiano fosse il luogo di ritrovo delle streghe.

Paura delle streghe? Mai vista l'ombra di una strega a Mas di Sabbe. Anzi, è un luogo delizioso. L'incanto della natura intorno mi affascina. Passo le ore e i giorni nel candore delle colline innevate, assaporo la quiete di alture alpine abitate solo dalle pernici bianche, contemplo la vastità dei panorami e delle vallate sotto di me. L'atmosfera è quasi sempre limpida e tersa, la visibilità ottima, tanto che nei punti più remoti gli abeti sembrano vicinissimi e pare di poterli raggiungere con le dita e sradicare come ciuffetti d'erba. Al contrario, zone appena sotto danno un'illusione di lontananza: lunghe lingue di ghiaia simili a spiagge remote lambiscono un mare di pini mughi e, come isole nella corrente, gruppi di larici spuntano gialli nel verde di quella distesa agitata dal vento.

Gironzolo per i boschi. Cammino sul tappeto intessuto dalle foglie dei faggeti, mi soffermo a sfiorare con le dita la corteccia bianca delle betulle, bevo con le mani l'acqua fresca del torrente Maè e intanto il picchio muraiolo esce da una fenditura della roccia e prende rapido il volo sopra la mia testa.

 

* * *

 

I Monti Pallidi furono scolpiti dalla mano sapiente di un divino Artista. Spesso mi perdo estasiato a carezzare la vastità delle pareti rocciose che dominano la vallata di Zoldo e nel rievocare la penosa ristrettezza dei pozzi, un genuino senso di riconoscenza esce dalle profondità del mio spirito. Iddio ti ringrazio di essere vivo ad ammirare la suprema bellezza della tua opera! ...se solo Zagreo potesse essere qui con me, penso.

E nel vincolo di quell'amicizia nefasta, anche in mezzo al costrutto del Grande Architetto dell'Universo, finisco per cadere nella seduzione esercitata da un'opera che viene dal maligno: il granito grigio e rosa pallido di un monte dalla forma possente, un gigantesco trono fornito di schienale e poggioli a semicerchio, che i montanari del luogo chiamano il Caregon del Diavul.

Il massiccio si staglia isolato al di sopra dei profili ondulati delle alture e poggia sul piedistallo creato dalle falde dei detriti rocciosi. Osservando dalla malga gli sparvieri che sfrecciano alti nel cielo il mio sguardo si posa inevitabilmente sulle sue cime maestose e così a poco a poco sorge in me la determinazione di violarle. Nessuno fra i montanari ha mai osato tanto, nati in mezzo alle rupi essi non hanno costume di scalarle, eppure io muoio dalla voglia di superare quella specie di varco teso sul baratro e innalzato con superbia verso il cielo. E' come se vi fossi attratto da una forza irresistibile, annidatasi in un legame indissolubile, forse il patto stesso che ancora mi pone in debito col diavolo.

Durante i primi mesi del 1251 l'inverno fu particolarmente mite e la neve scarsa per cui, proteggendomi dal freddo con una semplice pelle di daino, già a febbraio posso tentare la mia scalata. Poco prima dell'alba avanzo dalla forcella più prossima al monte, mi introduco nella vegetazione e scompaio dietro le fronde, mentre gli abeti richiudono alle spalle i loro rami profumati. Proseguo nella foresta in assenza di qualsiasi traccia di sentiero. Ho sete e non trovando alcun ruscello mi vedo costretto a bere dalle pozzanghere, chino con la bocca sulla superficie dell'acqua.

Uscito finalmente allo scoperto, mi tocca dannarmi su interminabili ghiaioni di grosse pietre aguzze. Intanto studio la struttura del monte. Ad ogni trenta quaranta passi la prospettiva ne cambia i contorni e l'imponenza di nuove spettacolari angolature è tale da sorprendermi ogni volta. Ecco, individuo il punto più agevole per l'attacco. Salgo in cima al ghiaione e mi ritrovo sotto la spalla orientale del massiccio, ai piedi della parete si riconosce facilmente la sua stratificazione orizzontale in bande alte qualche metro.

Un momento prima di afferrare con le mani la nuda pietra, mi concedo una pausa nel tenue tepore del primo mattino e mi guardo intorno indugiando ad assaporare il colore giallo dei prati, l'azzurro del cielo e i raggi solari che risplendono scintillanti sulle vette. Imprimo dentro di me queste immagini. Penso a quanto la vita sia incomparabilmente preziosa: il solo fatto di respirare quest'aria pura e di vedere il cielo sopra la mia testa basta a darmi una soddisfazione completa e sono contento di esistere, integro e sano nei miei ventotto anni. Che meraviglia amare la vita, con semplicità. Le mie sensazioni si dilatano, questi indimenticabili momenti mi sembrano una immensa ricchezza, un tempo infinito, come se contemporaneamente nello stesso istante dovessi vivere tante vite diverse.

Nel tastare con la punta delle dita la consistenza della roccia, friabile e pericolosamente scivolosa, vengo assorbito da un'ondata di ricordi e rapidamente ripercorro a ritroso la mia esistenza fino all'epoca della mia fanciullezza ...fino a Gengis Khan.

Quel marinaio sul molo raccontava che l'imperatore dei Mongoli, divenuto molto vecchio, doveva essere trasportato su un monte situato a lontanissima distanza (non era nelle facoltà di un bambino concepire l'idea della morte, l'eroe della mia infanzia non poteva morire). La scorta dovette attraversare il Gobi, un vastissimo deserto di ghiaia totalmente privo d'acqua salvo l'eccezione di qualche minuto lago salato. Quell'inverno, sugli altipiani del Gobi la temperatura era scesa precipitosamente sotto lo zero e la scorta fu decimata dagli stenti e dal freddo, i superstiti riuscirono tuttavia ad attraversare il deserto e finalmente raggiunsero la catena montuosa dell'Altai. All'interno di un altissimo monte considerato l'asse del mondo, essi deposero il grande Gengis Khan, l'Imperatore che vive e non vive, immerso in un eterno letargo, morto benché appaia vivo e vivo benché appaia morto.

Inizio ad arrampicare. Salgo sulla paretina gradinata usando mani e piedi, mi aggrappo tenacemente alle roccette chiare, ne percepisco la consistenza porosa. Non c'è più tempo per pensare, l'azione mi assorbe. Trenta metri da terra. Il minimo passo falso sarebbe anche l'ultimo, ogni attimo diventa prezioso, segna il confine incerto tra la vita e la morte. Sì, in effetti il pericolo semplifica di molto le circostanze: o si è vivi o si è morti. Così mi abbraccio con tutta la forza alla roccia e non per amore della roccia, ma per timore del vuoto. La paura, e in tutta sincerità d'altro non si tratta, paradossalmente accende in me emozioni euforizzanti, in fin dei conti forse sto salendo proprio per trovarmi faccia a faccia con lei, la paura nuda e cruda.

In breve raggiungo la cengia che orizzontalmente traversa l'intera parete orientale. Vi cammino in precario equilibrio salendo sempre più in alto lungo le cornici rocciose. Ad un tratto devo arrampicare di nuovo come un ragno, la mia attenzione è tutta concentrata sulla sensibilità delle dita appese agli appigli, gli stivali di feltro col massimo della prudenza cercano la roccia più solida. Ho la sensazione di essere al limite delle mie possibilità, la difficoltà è estrema, ma da questa posizione tornare indietro è escluso. Guardo giù nel precipizio. Un brivido mi attraversa da capo a piedi. Conta solo andare avanti, superare questo passaggio non è impossibile, dove c'è una volontà ci deve essere una via. Finalmente! Una sporgenza transitabile interrompe la ripidezza del muro. Prendo fiato e osservo con un po' di vertigine le pareti lisce sopra di me, l'acqua del disgelo vi disegna lunghe striature nere che scendono in verticale. Camminando in direzione sud seguo le rientranze a strapiombo di una gola e poi di un'altra.

A un paio d'ore dall'attacco, guardo la vetta del Trono del Demonio e comincio a percepirla entro la mia portata, mi sento un titano alle prese con un'azione sovrumana quando, al termine della terza gola... sorpresa inaudita, vedo un vecchietto seduto sul bordo del precipizio!

Mi saluta agitando le sue grosse mani:

«Sani! Sani!»

La lunga barba bianca gli conferisce un'aria patriarcale, ha gli zigomi sporgenti e un'espressione austera e venerabile. Chi è costui con una barba simile, non sarà mica il fantasma di Gengis Khan?

Ne ho soggezione, mi avvicino esterrefatto e ansimante:

«Come avete fatto a salire?»

«Per la stessa strada che avete fatto voi - risponde tranquillo -. Appena vengo stremato dalla fatica mi stendo con la schiena appoggiata al suolo, assorbo forza dalla roccia e mi rialzo più rinvigorito e più scattante di prima».

Guardandolo bene pare molto vecchio, in vita mia ho conosciuto ben poche persone che abbiano raggiunto la sua veneranda età. A colpo ridimensiono la portata della mia ascensione, altro che impresa titanica, se questo vetusto montanaro è arrivato quassù non deve trattarsi di una arrampicata poi tanto difficile. Il vecchio della montagna risveglia in me una immediata simpatia e mentre siedo al suo fianco a riposare, ho modo di farmi chiarire con tutta calma perché mai i suoi monti vengano chiamati Monti Pallidi.

Gerione, è questo il nome del vecchio, come rivolgendo la spiegazione a un nipotino mi racconta una favola soavissima.

... C'era una volta un re nelle Alpi Orientali. Egli regnava in pace ma suo figlio era l'unico infelice del regno, perché tormentato da un desiderio irrealizzabile: niente popò di meno che andare sulla luna. I dottori, preoccupati dal suo umore nero, ritenevano fosse afflitto da una strana forma di pazzia da loro denominata Melanconia. Il popolino, malignava invece che il principe fosse in potere delle streghe.

Una splendida notte di luna piena il principino perse del tutto la testa e andò errando per le montagne finché capitò ai piedi di una rupe, alta e dritta come una torre. Smanioso di vedere la luna più da vicino, cominciò ad arrampicarsi per le pareti verticali della rupe. Su e su e su, salì aggrappandosi alle rocce, finché venne avvolto dai densi vapori di una nube che ne rendeva invisibile la cima.

Miracolo, la nube si staccò dalla rupe e salì in alto nel cielo trasportando sulla luna il principino. Fuori di sé dalla gioia egli poté contemplare le impronte dei suoi piedi stampate sul suolo lunare. Superò poi un cancello d'argento e davanti ai suoi occhi apparve una sconfinata distesa di fiorellini bianchi, in tutto simili alle stelle alpine. Finalmente arrivò in vista di una città e quando ne varcò le mura si accorse che le case e le piazze e gli alberi erano bianchi, ogni cosa era bianca e lucente come candida neve.

Il principe si diresse trionfante al palazzo reale, al suo interno ammirò le pareti di alabastro dei saloni e giunse al cospetto di una splendida regina che aveva la pelle color del latte, gli occhi chiarissimi e i capelli platinati. Per giorni e giorni la regina ascoltò appassionata il principe che le narrava le meraviglie della terra e dei suoi abitanti. Egli parlava sciolto e brillante, aveva scordato ogni tristezza e in preda a un totale appagamento, avrebbe desiderato restare lì per sempre.

Però, la luce abbagliante che emanava da ogni cosa lo costringeva sovente a chiudere le palpebre dal fastidio e col passare dei giorni gli occhi cominciarono a dolergli dal bruciore. Temendo di diventare completamente cieco il principe supplicò la regina di sposarlo e di andare a vivere con lui sulla terra. Ella, per amore, acconsentì alla richiesta e i due novelli sposi entrarono nella nuvola miracolosa per scendere sulla terra.

Allorché approdarono sulle Alpi, il principe riacquistò subito la salute e si precipitò a cogliere un mazzo di rossi rododendri per mostrarle con orgoglio i colori del mondo terrestre. Al castello, la regina fu accolta festosamente da tutti i sudditi del regno. La figlia della Luna ammirava stupita la varietà dei paesaggi alpini, il verde dei laghi, il rosa dei tramonti e tutti quei dolci colori che per lei rappresentavano una assoluta novità.

Ma col tempo la regina cominciò a soffrire. La notte rimaneva sveglia alla finestra. Aveva nostalgia della bianchissima luce della luna, non sopportava più di vedersi imprigionata tra le rocce oscure e tetre delle Alpi. Cominciò a pensare che sarebbe morta di crepacuore se fosse rimasta ancora sulla terra. Il suo sposo non trovava soluzione al problema e ricadde in preda alla disperazione.

Per fortuna il popolo dei nani accorse in loro aiuto. Alla prima notte di luna piena i nani salirono in vetta ai monti e alzate le mani sopra la testa, si misero a fare degli strani movimenti con le dita come se stessero afferrando alcunché di invisibile.

La regina si affacciò languente alla finestra e chiese al re dei nani che cosa mai stessero facendo.

«Stiamo filando i raggi della luna», rispose re Laurino.

In vetta ai monti, comparvero dei grandi gomitoli luminosi che i nani srotolarono lungo le pareti fino alla base delle rocce. Abilmente, essi intrecciarono una meravigliosa rete luminosa che diffondeva il chiarore lunare da tutte le pareti delle dolomiti.

La regina si riprese all'istante e rivolta al principe esclamò entusiasta:

«Oh, ora sì, sono diventati più belli e più lucenti della luna i tuoi Monti Pallidi!»

I nani erano i discendenti di un popolo numerosissimo che da tempo immemorabile abitava una regione del lontano Oriente. Al culmine del loro splendore essi furono invasi da un popolo di feroci guerrieri. Costretti a fuggire, andarono in cerca di una nuova sede ove vivere in pace. Purtroppo ovunque arrivassero, i nani venivano scacciati e nessuno voleva averli entro i confini del proprio regno, sicché si erano rassegnati a vivere nascostamente, appartati fra i monti.

Tuttavia da quel giorno le peripezie dei nani erano finite perché il principe dell'antico popolo dei Reti, al colmo della gratitudine, permise loro di restare nel suo regno ove vissero per lunghi anni felici e contenti.

 

* * *

 

Deliziato dalla favola di Gerione, lo ringrazio per la carica di entusiasmo che mi ha comunicato e mi rialzo in piedi pimpante:

«Ora proseguirò fin sulla vetta. Volete venire con me?»

«Ma no. Neanche per idea, non si può proseguire oltre, questa soglia che vedi affacciarsi è il limite estremo dell'abisso».

«Comunque sia voglio andare avanti».

«Ma sei pazzo!- In preda all'agitazione- Finirai in mezzo agli strapiombi, senza poter proseguire né tornare indietro».

«Beh, arrivederci amico», incamminandomi.

«Fermo, fermo!- mi trattiene per un braccio- Non andare, rifletti! Ascolta ti prego...»

«Che vuoi ancora?»

«Tu non sai che razza di mostro abita gli strapiombi!»

«Sì... un serpente con cento teste», scrollando le spalle.

«Non scherzare, ti giuro che ho visto le orme del drago stampate sulla roccia!»

«Impossibile», sorridendo.

«E' così, credimi, il drago Ouroboros comanda il Vento del Nord e ti farà precipitare nel vuoto!»

Ouroboros? Mi ghe sboro, penso fra me e proseguo.

Immediatamente il passaggio sul fianco della montagna si fa molto esposto, diviene strettissimo, una semplice scanalatura orizzontale incisa sulla parete. Il cunicolo è alto meno di mezzo metro: potrei superare l'ostacolo solo avanzando prono a forza di gomiti e ginocchia. Mi spingo imperterrito nella scanalatura strisciando sulla roccia ghiacciata e stando bene attento a non battere la testa contro gli spigoli prominenti. Nel contempo tengo sempre sott'occhio l'orlo del precipizio, sul fianco sinistro lo strapiombo cade a goccia d'acqua per centinaia di metri. Sudo e nel lucido calcolo del rischio che sto correndo un brivido mi attraversa e mi fa rizzare i capelli. D'un tratto comincia a spirare forte il Vento del Nord, le sue raffiche si abbattono violente contro la parete. L'aria e il freddo si insinuano sotto la pelle di daino, la mia testa oscilla sotto l'impeto delle folate, ho la sensazione che il vento stia per trascinarmi via.

Ma riesco a farcela. Percorsi una ventina di metri il passo è superato: veramente ho provato cosa vuol dire avere la vita appesa a un filo. Inaspettatamente, la via diventa molto facile e la mia tensione si muta in una gioia incontenibile. Non ci sono più tratti esposti né voragini, trovo invece un ambiente incredibilmente suggestivo ed ancestrale immerso in un maestoso silenzio. Un vallone dalle scalee di roccia forma un monumentale anfiteatro a semicerchio calato in un'atmosfera talmente inconsueta che non mi meraviglierei affatto se un rettile dalle forme spaventose sbucasse da dietro l'angolo.

Fra i detriti del suolo scopro l'inspiegabile presenza di una conchiglia pietrificata, ha una forma spiraleggiante e un diametro di ben quaranta centimetri. Camminando trovo altre conchiglie, sono bivalvi, alcune enormi. Che strano prodigio! Salire sulla cima di un monte per ritrovare il mare. In effetti la base dell'anfiteatro ricorda vagamente un fondale marino, potrebbe essere una baia. Forse ai primordi del tempo un tiepido mare ricopriva la zona e appena sotto il pelo dell'acqua proliferavano alghe e spugne e magari le barriere coralline. Mi immagino un clima tropicale, un paesaggio semi desertico su cui batte perennemente un vento infuocato dall'arsura.

E questo cos'è? Un dente enorme, pietrificato, con il bordo aguzzo e seghettato. Che impressione! E' lungo venti centimetri. Lo farò vedere al mio amico. Il vegliardo aveva ragione, un dente del genere non potrebbe appartenere a nessun altro animale. Può stare solo nella bocca di un drago.

Proseguo. Risalgo il vallone procedendo sulla ghiaia e poi a grandi passi sui facili gradoni che portano in direzione Nord. Una volta in alto, monto sul ripiano di un nevaio e lo attraverso diagonalmente fin dove termina la neve, a destra di una imponente cresta rocciosa.

La vetta è lì a pochi passi, facile da raggiungere. Sono ancora pieno di energia sì, ma le giro le spalle lasciandola inviolata.

Il sole ha disseminato il nevaio di riflessi puntiformi che luccicano. Lo ripercorro a ritroso. Al suo margine inferiore mi imbatto in un folto gruppo di corvi, se ne stanno beatamente appollaiati sul candore. Li scaccio con lo schiocco rumoroso di due pietre, eccoli si alzano in volo oscurando il cielo. Levando in su lo sguardo, nel bel mezzo dello stormo vedo un corvo con le penne bianche come la neve, bianco il becco e bianche le zampe. Aleggia leggero sul vento delle cime, spiega candide dita al cielo planando con le penne laterali delle ali. Mentre volteggia su ampi semicerchi atteggia la coda a ventaglio, a tratti si mette controvento e rimane a mezz'aria, sospeso nel vuoto.

Di colpo non distinguo più nulla. Il vento si abbatte sul nevaio, solleva una miriade di cristalli scintillanti che fanno dello spazio un abbaglio di luce.

Abbandono alla svelta il nevaio mentre le raffiche mi frustano la nuca e i cristalli di ghiaccio mi punzecchiano il collo. Affretto il passo, comincio a saltellare da un masso all'altro, agile e scattante scendo giù a raggiungere il vegliardo esattamente nella posizione in cui l'avevo lasciato.

Gerione esulta:

«Vederti ancora vivo è un vero miracolo, Dio sia ringraziato!» e mi incalza subito di domande per farsi dire cosa ho visto.

Volessi sforzarmi di fornirgli un fedele resoconto di quei luoghi non potrei trovare parole atte a descriverne la selvaggia bellezza. D'altronde, sono anche un po' seccato nei confronti di quel montanaro, ha cercato in tutti i modi di scoraggiarmi. Così escogito lì per lì una versione del tutto falsa, per incutergli un terrore ancora maggiore di quello che ha:

«Dovevo camminare sulla lama del rasoio, precipizi a destra e a sinistra. Poi, come per incanto un pianoro e al centro...»

«Cosa hai visto?»

«Una fessura profondissima che spaccava a metà la montagna, una voragine spaventosa larga un paio di metri tra sponda e sponda».

«E tu?»

«Ho gettato dentro un masso e non l'ho udito rimbalzare, era un abisso senza fondo, arrivava fino all'inferno! E indovina che ne è uscito?»

«Che cosa?»

«Il drago».

«Ouroboros?»

«Esatto, un terrificante lucertolone con la pelle grigiastra e rugosa, alto cinque metri e lungo almeno venti. Ritto in piedi su due zampe, grosse come colonne e dotate di tre poderosi artigli da uccello. Avanti al petto agitava due zampette ridicolmente minute e sollevava in aria la coda per bilanciare il peso del corpo. Scuoteva in alto un testone colossale e ruggiva: Groaarh! Groaarh! Mi ha caricato, ma io non mi sono mosso... fermo immobile... e quello mi si è piantato vicinissimo, tanto da sbattermi in faccia il suo alito fetido, che sensazione! Sbuffando retraeva la sua grossa lingua e spalancava le zanne delle enormi mascelle, a un palmo dalla mia testa! Ha cercato di atterrarmi con una sferzata della sua coda ben lunga e robusta».

«E tu?»

«Ho schivato il colpo, d'istinto gli ho guidato l’estremità della coda verso le mascelle spalancate e gliel'ho ficcata in gola».

«L'hai ucciso?»

«E' morto soffocato, sputando i denti tra spasmi atroci che facevano sussultare la montagna».

Gli mostro l'enorme dente di pietra.

 

* * *

 

Dopo la scalata del Trono del Demonio ho smesso di campare a suon di zuppe annacquate e ho scordato la porta in faccia al palazzo dello zotico. Ora, non ho più motivo di lamentarmi dell’ospitalità dei valligiani, anzi è una vera pacchia, il vecchio della montagna ha preso per oro colato tutte le frottole sul drago, vinto da ammirazione incondizionata mi ha invitato a fruire della sua dimora e fatto partecipe della sua generosa dispensa, stracolma di formaggio, noci e frutta conservata. Ho trascorso lieti giorni in sua compagnia. Nel passato fu fabbro valente e adesso è uno degli anziani più rispettati nella vallata. A differenza dei contadini di Zoldo, che non possiedono nulla all'infuori del loro ventre, Gerione ha una proprietà di terra libera, un allodio. Consiste in un giardino colmo di alberi da frutto, ora rinsecchito dall'inverno e coperto di brina, ma nella stagione del raccolto si dice sia talmente carico di mele, pere e ciliege, e di castagne, lamponi e altre delizie, da sembrare il paese della cuccagna.

Un dì, mentre passeggiamo fra l'intrico dei suoi rami, oso introdurre un argomento spinoso:

«La malga di Mas di Sabbe ha fama di essere luogo di ritrovo per i balli sfrenati di diavoli e streghe, eppure ti giuro che da quando vi ho messo piede non ho visto l'ombra di una strega».

Gerione è il solo a sapere esattamente ove si nascondano:

«Il Bosconero, là è pieno di streghe - bisbiglia -, ce ne sono in tutti i cantoni. Però adesso, da quando l'Inquisizione si è fatta più accanita, è diventato difficile avvicinarle... se ne stanno sempre più nascoste».

«Ti prego, vecchio mio, accompagnami al Bosconero. Muoio dalla curiosità di vederle».

«D'accordo, se insisti. Ma non dirlo a nessuno - lisciandosi la barba -. Ti porterò alla casa di una strega appena si fa la luna piena».

«Non possiamo andarci prima? Magari domani».

«Non essere impaziente. Le streghe sono scontrose e volubili. Il loro anno si compone di tredici mesi lunari, a meta mese fanno festa alla luna piena e sono meglio disposte a ricevere gli sconosciuti. La luce della luna ci consentirà di vedere meglio il sentiero poiché dovremo muoverci in piena notte, al riparo da occhi indiscreti».

Attendo con ansia l'arrivo luna piena, quindi ecco finalmente la notte concordata...

Sentieri impervi e selvaggi sovrastati dalle minacciose ali di roccia del Monte Civetta e un bosco impenetrabile in cui la luce della luna filtra a malapena. Nella penombra della fitta vegetazione i rami dei larici mi pungono il viso con gli aghi delle loro lunghe dita pendenti, accelero, inciampo sui tronchi divelti.

Questo vecchio premuroso mi sta guidando al nascondiglio della strega, certo non oso mettere in dubbio la sua esperienza di montanaro, ma ho la sensazione che si sia perso. Temo che finiremo nell'imboscata di un gruppo di streghe arcigne e deformi, ci faranno morire dallo spavento alla sola vista della loro bruttezza. Ossute, gobbe, con i bitorzoli sul naso adunco, gli occhi freddi e crudeli; come minimo ci picchieranno a sangue con le scope.

C'è un silenzio di morte. Una torre di roccia massiccia incombe con l'impressionante verticalità delle sue pareti scure. Un sibilo lacera la notte, fischia sopra le nostre teste ed esplode in modo sinistro.

Lunghe ore di faticoso cammino. A un tratto il bosco finisce ed il montanaro mi trascina alla scoperto su un piccolo altipiano erboso:

«Il pian del Crep, ecco la casa di Sybil!» e indica un tabia, una stamberga di legno adagiata sotto una corona di aspre rupi.

Dunque non si era perso. Devo ammettere che conosce alla perfezione questa regione dimenticata da Dio e dagli uomini.

«Sybil è la strega?» chiedo a conferma.

«Sì, vengo spesso da lei a farmi curare i malanni età. Le sue tinture medicinali mi hanno sempre giovato», borbotta.

Gerione bussa a lungo. Tutta vestita di nero, con un cappellaccio a cono sulla testa la strega si affaccia sull'uscio e non è laida e vecchia come mi aspettavo, ma giovane e attraente.

Sybil ci accoglie cordialmente all'interno. Due avvenenti occhi verdi promanano uno strano fascino felino e mi fissano con le palpebre aguzze come per carpire le mie intenzioni.

«Che cosa cerchi fra questi monti?», mi chiede.

«Desidero vedere il demonio - rispondo timidamente -, so che voi avete facoltà di evocarlo, Gerione mi ha detto che le vostre pozioni magiche consentono di visitare le sedi infernali, pur potendo ritornare sani e salvi sulla terra. E' vero?»

La strega non risponde ma con grazia ci fa cenno di seguirla, apre una botola sul pavimento di legno, scende i gradini di una scaletta e ci conduce nello scantinato. Giù c'è una stanza sufficientemente spaziosa. I ripiani appoggiati alle pareti sono pieni di erbe essiccate e disposte con ordine. Mi accosto per leggere i nomi incisi sul bordo orizzontale delle tavole, ciascun nome corrisponde ad una varietà botanica. Fiuto l'intenso profumo che emana dal timo e dal tiglio, l'effluvio del laudano e la fragranza di limone della verbena. Come un fanciullo occupato ad esplorare un ambiente a lui nuovo, estraggo da un sacchetto semiaperto un gambo lungo e rigido con le foglie frastagliate. Termina in un fiore violaceo, un grosso grappolo di petali ricurvi a forma di elmo.

«Aconitum Napellus - dice la strega -, questa pianta nasce dalla saliva fetida che cola dalla tre bocche di Cerbero».

Gerione spiega:

«Cerbero è un cane che ha tre teste ricoperte di serpenti e la coda irta di aculei, fa la guardia alla soglia dell'inferno e impedisce ai dannati di uscirne».

Già mi passa la voglia di visitare l'inferno. Con questa bestiaccia di mezzo potrei rischiare di non tornare sulla terra.

Mentre mi trastullo con il fiore in mano, la strega si avvicina alle spalle e mi bisbiglia in un orecchio:

«E' la pianta più velenosa che esiste. Uccide».

«Uccide?» balbetto mollando subito la presa e ricacciando il fiore nel sacchetto.

«Paralizza le vittime fino all'asfissia mortale».

Sul focolare bolle un gran pentolone. A tratti la vivacità del fuoco ne surriscalda il contenuto e una schiuma acquosa solleva il coperchio straripando oltre l'orlo del pentolone. La schiuma cola fino al fuoco. Le fiamme brontolano e friggono sotto l'effetto del liquido che attutisce la loro forza fin quasi a spegnerle. Lentamente il fuoco riprende vigore e mantiene vivo il gorgogliare del pentolone stabilizzandosi su una temperatura costante. Però, ciclicamente il fuoco si risveglia dal torpore e di nuovo il contenuto schiumoso fuoriesce regolando l'eccessivo ardore della fiamma.

Vado a curiosare dentro il pentolone, alzo il coperchio e vedo dei tuberi che si cuociono.

Deluso, spio allora al centro del tavolo il contenuto di un cestino. Sono dei funghi con il manico bianco e un'ampia cappella rossa disseminata di puntini bianchi.

Amanita Muscaria li denomina la giovane strega indicandoli col dito e strizzandomi l'occhiolino.

«Voi li mangiate?» le chiedo con circospezione.

«Certo!»

Li mangia? Spero proprio che non obblighi anche me a mangiarli, hanno tutta l'aria d'essere velenosissimi.

Mi guardo intorno disorientato. La mia attenzione cade su un rospo che se ne sta in un angolo del pavimento con gli occhi fissi ed insensibili:

«Mangiate pure quello?» e mi illumino nel tono scherzoso della battuta come chi cerchi di sdrammatizzare una situazione.

«Come no», risponde seria la strega.

Sento alla bocca dello stomaco un conato di nausea. Sono amaramente pentito, perché mai m'è venuta la sciagurata idea di finire in casa di una strega. Ormai è troppo tardi, non ho più la forza di alzarmi dalla sedia, sono soggiogato dai suoi occhi verdi. Sibyl si toglie il cappello e una cascata di capelli neri danza intorno al suo viso.

«Se vuoi vedere l'inferno mangia due cucchiai di questa polverina magica», mi esorta accattivante la strega.

«Ma che cos'è?»

«Strademonium».

«E che... sarebbe lo Strademonium?»

«E' una pianta coi semi neri e i fiori bianchi, ciò che all'inizio è nero col tempo diventa candido».

Cerco di tergiversare mentre reggo in mano il cucchiaio:

«Ma che sapore ha? Non sarà pericoloso?»

Sybil ingurgita due cucchiai colmi per incoraggiarmi. Mi decido a fare altrettanto. La polvere mi impasta la bocca e a stento trovo la saliva per mandarla giù.

 

 * * *

Poco dopo timori e scrupoli lasciano il posto ad una grande sedazione, sprofondo in un torpore ovattato. Ogni rumore si fa lontano e attutito. In preda a un dolce oblio, smarrisco il ricordo del tragitto nel bosco, non rammento il motivo della mia presenza in questa casa, né saprei dire che giorno sia oggi o che mese dell'anno. Comincio a percepire la bocca secca e asciutta. Ho fame d'aria, mi sembra di soffocare, non sopporto più di stare al chiuso e a tentoni salgo la scaletta, apro la botola e spalanco la finestra per respirare.

Finalmente una boccata d'aria fresca. Guardo fuori, ma? Nel posto prima occupato dalla corona di montagne ci sono le guglie e le maestose colonne di gigantesche cattedrali. Le facciate gotiche sono illuminate dal chiarore lunare, una luce fioca esce dalle ampie vetrate ogivali mentre i rosoni iniziano lentamente a ruotare su sé stessi.

Richiudo la finestra, stupefatto, sconcertato. Ad intervalli la vista mi si appanna. Cedo alla violenta eccitazione del delirio, il cuore mi batte all'impazzata, ho la gola arsa dalla sete e pur senza una goccia di sudore sento un caldo insopportabile che mi brucia la pelle. E' il calore delle fiamme dell'inferno, ormai prossime.

Segue una serie di allucinazioni.

...Vedo un massiccio di puro calcare, provvisto di merli e torri come un castello incantato. Avanzo nella sua direzione camminando in un vapore denso che ricopre il terreno fino al ginocchio e si disperde qua e la in lingue e vortici agitati da un vento leggero. Arrivo al portone principale, un passaggio ad ogiva decorato e scolpito.

Appena entrato rimango a bocca aperta: l'interno è cavo, ombre di un verde latteo popolano l'enorme volta da cui pendono appuntite le stalattiti. Intorno, le pareti sono ricoperte da scultorei colonnati simili a fontane impietrite nell'attimo di traboccare piene di rivoli. Un cupo sottofondo di acqua che goccia rompe il silenzio di questo mondo immobile e sinistro.

Mi dirigo verso l'area al centro della caverna, scendo una decina di gradini scavati ad anfiteatro e raggiungo un pozzo rotondo. Guardo dentro. Il chiarore soffuso del luogo si raccoglie sulla superficie dell'acqua come in uno specchio, vi vedo il mio volto riflesso e lo stupore mi travolge. Appaio ringiovanito... di molto, ho i lineamenti di quando ero adolescente: occhi vispi, guance rosee e capelli arruffati. E' un pozzo prodigioso: la fonte stessa della Giovinezza!

Mi contemplo a lungo incuriosito, incredulo mi tasto la faccia con le dita. Dopo un po' giro lo sguardo verso il portone del castello, faccio per avviarmi ad uscire ma non riesco a sollevare le piante di piedi, sono incollate al suolo. Le caviglie si radicano in terra, cerco di liberarle con ripetuti sforzi delle ginocchia, inutilmente... vengo presto sopraffatto da una invincibile rigidità. Le gambe si immobilizzano del tutto. Disperato guardo di nuovo dentro il pozzo come vi potessi trovare una via di salvezza: e invece vedo la mia faccia soffusa di verde pallore. Giro le mani e osservo le palme, pure inverdiscono. Grido all'orrore! I piedi si trasformano in radici che penetrano contorte nel terreno. Le ginocchia si fanno grinzose e la pelle si muta in corteccia e le gambe si fondono in tronco che racchiude le cosce. Il fallo si erge ligneo a nodo del tronco, sento l'odore del muschio di quercia. Invano mi divincolo e torco il fianco, già il petto è oppresso dalla scorza e la schiena si stira dolente. Non posso che agitare le braccia sopra il capo, ma in breve le mani s'accartocciano in foglie e agito nient'altro che fronde. Ecco un'energica spinta mi stira in verticale nel fusto di una grande quercia svettante sopra il pozzo.

C'è un corto silenzio nella grotta. Il legno mi ha invaso la gola, nemmeno ho voce per gridare. Poi la montagna di calcare inizia a tremare e lampi e tuoni riempiono la cavità e le stalattiti si staccano dal soffitto e i colonnati rotolano giù dalle pareti, l'ampia volta ruota su se stessa e tutto quanto gira intorno all'alto tronco!

Bruscamente le allucinazioni finiscono. Mi ritrovo a barcollare in mezzo allo scantinato della strega e sono vittima di una violenta vertigine e incapace di coordinare i movimenti e di mantenere l'equilibrio, è come se la terra mi mancasse sotto i piedi. Finisco steso, sul pavimento di legno. Anche la vertigine si estingue. Mi coglie un intervallo di sonno ristoratore.

Dolce risveglio: Sybil nuda e incantevole, sdraiata accanto a me sul pavimento. Mi mostra sorridente i seni rigonfi e da sotto la cascata di capelli mi fissa con i suoi stupendi occhi verdi. Vengo pervaso da incontenibile eccitazione, in ginocchio allungo il braccio, la mia mano raggiunge la tetta turgida e la palpa, ma cos'è? Ho la disgustosa sensazione che la sua pelle sia vischiosa e appiccicaticcia, subito la ritraggo per un dolore urente alle dita.

La strega è sparita, sul pavimento c'è solo il rospo, inavvertitamente l'ho toccato mentre gironzolava su e giù imperterrito.

Ma non mi rassegno. Traboccante di lussuria cerco ansiosamente Sybil: non me ne importa affatto se poco fa ho visto un fantasma, una diavolessa o una donna in carne ed ossa, voglio comunque possederla e godermela subito. Il guaio è che un velo fastidioso mi offusca la vista e mi impedisce di mettere a fuoco gli oggetti. Ah! Finalmente il velo si è diradato, Sybil è ancora lì distesa sul pavimento, nuda e incantevole. Che succede, adesso? Le sue grosse tette si raggrinziscono rapidamente e pendono fiappe sull'addome rigonfio, i capelli neri diventano grigi in pochi secondi e poi bianchi, la pelle del viso si copre tutta di rughe, i denti si fanno gialli e consunti, la faccia arrossisce di colpo e le pupille si dilatano fino a eliminare il verde dell'iride. Come ferita a morte la strega caccia un urlo demoniaco e contorce violentemente le braccia e le gambe.

Vengo preso dal panico. Per cercare di alzarmi in piedi devo fare uno sforzo disumano. Lottando contro un'enorme spossatezza e articolando con difficoltà le parole, supplico Gerione di trascinarmi via da quella casa maledetta.

 

* * *

 

A parte quest'ultimo movimentato episodio, la vita pastorale che da quasi due mesi trascino lentamente sui monti sta diventando di una tranquillità eccessiva e comincio a sentire la mancanza della convulsa frenesia della mia città. La nostalgia è troppo forte... torno a Venezia. Anonimo e mascherato approfitterò del Carnevale e della gran baraonda che tocca l'apice nell'ultima settimana di febbraio.

Nell'oltrepassare il confine del mio Comune esco allo scoperto da un fitto boschetto. Sul prato, un verdeggiare di germogli annuncia la vicina primavera, sugli alberi le gemme di teneri ramoscelli spuntano già. Mi sono travestito. Ho sul viso una maschera di cuoio nero, in testa un berretto piegato sulle orecchie e indosso, sopra la calzamaglia gialla, una giubba attillata composta di pezze triangolari ricucite insieme in un esplosivo miscuglio di colori; la giacchetta è stretta da una cintura e appeso a questa ho un manganello di legno che, non si sa mai, potrebbe anche tornarmi utile in questi frangenti.

Durante il Carnevale in qualsiasi ora del giorno e della notte è consentito a chiunque di girare in città con la maschera addosso. Nessuno si è mai sognato di obbligare chicchessia a togliersela, nemmeno i gendarmi, dacché ogni maschera possiede per tradizione un tacito privilegio di immunità. Fatalità, doveva esistere un bellimbusto intenzionato ad infrangere la regola. Raggiunta la gran calca della vigilia del Giovedì Grasso ecco lo spiacevole incontro, un soggetto che porta sul capo una testa di lupo imbalsamato, con il pelo che scende sulla nuca e in avanti a coprire interamente il volto.

Solo i suoi occhi mi puntano sotto le zanne:

«Alto là, sior Batoccio!»

Mi blocca afferrandomi per le spalle e poi allunga le mani per strapparmi la maschera. Faccio appena in tempo a sbilanciarlo con una spinta e a falciargli le gambe con un calcio rasoterra. Mentre cerca affannosamente di rialzarsi sono già confuso tra la folla. Mi mescolo alla colorita fantasmagoria delle maschere. Ci sono tutti i camuffamenti possibili e immaginabili, oltre ai soliti Zanni e Colombina, ci sono finti re, finti frati, finti medici, finte contadine furlane, finti armigeri sul carroccio e finti briganti, finti gobbi, finti finti cioè i veri, veri gobbi che la gente scambia per maschere e non lesina loro gran pacche sulle spalle.

Lungo le calli, manipoli di scalmanati avanzano danzando con l'accompagnamento dei tamburi, un ritmo da far venire la pelle d'oca, che ti scuote dentro, ti ipnotizza e ti contagia la voglia di metterti in coda. Negli spiazzi dei Campi si balla la moresca, un ballo cadenzato che simula dei colpi di scherma, basta la scintilla di quattro note improvvisate e sono pronti tutti a danzarla, ma le ballerine più ammirate sono le bambine, ragazzine di dieci dodici anni che incantano le platee con i loro movimenti aggraziati, col portamento solenne e deciso, la mascherina calata sugli occhi.

In Piazzetta, personaggi tratti dalla mitologia calcano i palchi in curiosi e fantasiosi spettacoli, vere e proprie rappresentazioni teatrali ove è d'obbligo lo sfoggio delle più ardite trovate. A fianco gruppi di acrobati costruiscono piramidi umane secondo le complesse figurazioni che il popolo chiama Forze d'Ercole e poco dopo in Piazza S. Marco una folla atterrita e ammirata osserva a testa all’insù un abilissimo funambolo che si bilancia con la pertica e sale lungo una corda tesa fino alla sommità del campanile.

E' una gran festa di popolo. Ogni anno attira da mezza Europa schiere di visitatori che vanno ad impinguare le borse degli albergatori e dei commercianti.

Astrologi, cartomanti, esperti di Fisiognomia, Geomanzia, Cabala. I personaggi più pittoreschi del Carnevale fanno parte della combriccola dei ciarlatani e li si trova in ogni angolo della Piazza a vendere magie ed imbrogli. Costoro si guadagnano il pane vendendo fumo e sogni a modico prezzo e tuttavia ad alcuni di loro bisogna onestamente riconoscere non comuni doti di sottile destrezza. Primo fra tutti un prestigiatore alle cui magie ho l'onore di assistere.

Quel giovanotto snello si avvicina a me e mi persuade a riporre nella sua coppa una monetina di rame, «un solo bagattino per una magia strabiliante» declama con un'espressione mobilissima sul volto. Ricevuta la monetina posa la coppa sul tavolino, vi fa roteare sopra la spada, mulina fra le dita una bacchetta magica tanto velocemente da farla scomparire alla vista... e in un batter d'occhio rapido movimento delle mani e copre il bordo della coppa col disco inciso di segni magici. Infine, mi chiede di sollevare il disco dalla coppa. Mi avvicino lentamente per eseguire, sollevo il disco e sbuca fuori un piccione che vola via sbattendo le ali. Il bagattino è sparito dal fondo della coppa. La gente raccolta intorno applaude.

Uscendo da Piazza S. Marco faccio un breve tragitto sulla Riva degli Schiavoni, poi mi dirigo verso l'interno della città e imbocco le Fondamenta dell'Osmarin catturato da un suono indistinto di cornamuse in lontananza. Lungo le Fondamenta, man mano riconosco un rullare di tamburelli e le corde del saltèrio pizzicate col plettro, la musica proviene dall'altra parte del canale, dalle finestre gotiche di Ca' Priuli. Faccio il giro attraverso il ponticello della Salizzada Zorzi e mi fermo titubante sull'entrata principale.

Prima di entrare in quella dimora di nobili mi tolgo il berretto per rispetto quand'ecco qualcosa mi colpisce alla testa, un liquido mi cola lungo i capelli e istintivamente porto la mano al capo nel timore mi abbiano ferito. Odo delle risa sguaiate sul balcone appena sopra, il liquido è denso e appiccicoso e percepisco un odore stomachevole di uovo marcio. Mi pulisco alla meglio ed entro nel palazzo.

Nell'ampio salone vedo i musici, cantano i Carmina Burana in versione goliardica:

«Arpeggia l'asino e i buoi ballano,

dei ciechi conducono altri ciechi

e tutti quanti finiscono nel fosso.

San Benedetto frequenta le bettole,

S.Girolamo vende pesci al mercato.

Arpeggia l'asino e i buoi ballano,

il mondo intero cammina sulla testa:

tutto è sviato dal proprio cammino!»

Intorno, sui tavoli zeppi di gente si mangia fegato alla veneziana e arrosto di maiale, sul pavimento si gioca ai dadi. Alcuni discutono animosamente della Lega Lombarda, il solito ubriaco fradicio crolla con la fronte sul tavolo.

Tra quelli senza maschera non c'è nessuno di mia conoscenza. Tra i mascherati, chissà? Non lo posso sapere, a parte lì nell'angolo quella donna grassa come un suino: se pure è riuscita a celare il viso dietro la mascherina non può in nessun modo nascondere il suo deretano enorme e inconfondibile. E' la ricca moglie di Zuanne Zusto, il Procuratore di S. Marco. Ma chi c'è dietro di lei? Con la sua mole giunonica sta coprendo alla vista un uomo stravaccato sulla panca. Mi avvicino con risvegliato intento pettegolo. L'uomo sulla panca è probabilmente un nobile a giudicare dall'abbigliamento ricercato, ma con quei capelli rossi che escono da dietro la maschera sicuramente non è suo marito. Appena sono abbastanza prossimo da percepire odore di ascelle sudate, mi accorgo che la grassona ha introdotto la manina furtiva sotto la tunica del nobile e muovendo il pugno su e giù imprime alla stoffa un ritmico sobbalzare. Accelero il passo, mi giro intorno scandalizzato ma noto che la scena lascia i vicini indifferenti, e semmai li allieta.

Improvvisamente entra nel salone l'uomo dalla testa di lupo. Mi allontano terrorizzato e prima ancora che si accorga della mia presenza sono già sgusciato fuori dalla porta di servizio.

 

* * *

 

Giro per le calli. L'ansia mi assale, sono teso per l'incertezza del mio futuro, devo assolutamente raccogliere le ultime notizie sul mio processo, devo correre il rischio e avvicinarmi di soppiatto a casa mia per parlare con mio fratello. Chi lo sa? Magari la pena che mi hanno accordato è soltanto una grossa multa.

Passando nei pressi delle Fondamenta della Follatura varie pezze di lana e di feltro sono stese ad asciugare sui supporti di legno. Alcune donne muscolose attingono acqua dal canale e la versano in un'immensa tinozza, contemporaneamente due uomini armati di grosse mazze di legno vi battono la pezza immersa nel fondo. E' il procedimento della follatura mediante il quale la stoffa si restringe, s'ispessisce e diventava più resistente. Una terra apposita è stata aggiunta all'acqua per estrarre gli oli dalla stoffa, ha un odore pungente, di putredine. Odore che associo istintivamente alle immagini del mio primo tragico impatto con i Pozzi: il corridoio delle prigioni, fiocamente illuminato in alto da poche finestrelle strette e orizzontali.

Sono di fronte alla mia abitazione e aspetto che esca mio fratello o almeno che la mia carissima madre, come d'abitudine, si affacci un attimo alla finestra. Mi commuovo alla nostalgia della mia famiglia e mi è immensamente triste dover resistere alla tentazione di entrare in casa, ma non posso, non devo generare sospetti.

Chissa se sono giunte notizie di mio padre? Non lo rivedo dall’età di nove anni, da quando è partito per la Crimea e non è più tornato. Faceva parte di una spedizione commerciale indirizzata ai Tartari del basso Volga e dentro di me non è mai morta la speranza di vederlo ritornare un giorno all'improvviso, carico dei doni e delle meraviglie dell'Oriente. E' partito da semplice marinaio ma ai miei occhi egli rappresenta il vero avventuriero, colui che osa oltrepassare le frontiere della Cristianità, non potrò mai emulare il suo coraggio di pioniere.

Segue un'attesa snervante, ormai è quasi notte e da dietro le imposte del primo piano cominciano a palpitare le luci delle candele. Odo dei passi nella calle deserta, mi giro e vedo rincasare il mio fratello maggiore, ancora nei suoi abiti da muratore. Gli muovo incontro deciso scordando di essere avvolto nel mio bizzarro travestimento e conciato così lo colgo alla sprovvista. Egli mi fissa accigliato, sospettoso posa la mano sul martello in un atto di istintiva difesa.

«Sono io, Petrangésio!»

Nel riconoscere la mia voce la sua espressione si muta immediatamente in felice sorpresa.

Mi abbraccia:

«Sei tornato?»

«Son qua».

Chiedo notizie di nostro padre. Mio fratello stringe le labbra e scuote la testa in segno di diniego.

«Che nuove dall'Inquisizione?»

«Il manoscritto è ancora nelle loro mani, l'Inquisitore lo sta traducendo per esaminarlo attentamente».

«Non ha finito ancora di tradurlo?»

«Pare che il doge stesso ne voglia leggere la traduzione, confidenze di un avvocato nostro amico».

«A che pena mi vogliono condannare?»

«Non si sa niente», allargando le braccia.

«Saluta a casa, dì alla mamma che sto bene e che non si preoccupi per me. A tutti gli altri dì che son pellegrino in Terra Santa».

Mio fratello entra in casa.

Mi avvio sconsolato nella calle buia e deserta, però qualcuno mi sta venendo incontro con fare insidioso dall’estremità opposta della calle. Un boia incappucciato con in mano una finta mannaia, un uomo selvaggio con clava e pelliccia, un grottesco diavolo con la forca e Testa di Lupo che li guida. Mi blocco, faccio dietro - front, giro l'angolo di casa mia e mi allontano affrettando il passo. I quattro mi inseguono a distanza. Imbocco Calle del Carbon. Loro sono sempre dietro. Accelero il passo più che posso e mi dirigo alla riva attigua, ma loro si fanno ancora più sotto. Un attimo prima di Riva del Carbon giro di scatto per una calle stretta e lunga e comincio a correre, corro veloce verso Campo S. Angelo. Saranno senz'altro sbirri dell'Inquisizione camuffati così per spiare meglio i ricercati, penso impaurito. Cerco di seminarli, scelgo le calli più buie e tortuose intorno a Rio Terà degli Assassini, ma quelli sono sempre alle calcagna. Ho il terrore di finire in un vicolo cieco, ce ne sono tanti in questo quartiere. Freno. Mi nascondo nell’oscurità di un sottoportego, aspetto col cuore in gola finché con la coda dell'occhio li vedo passare oltre di gran carriera. Attendo ancora un po' ed esco allo scoperto nell'ampio Campo S. Angelo.

Al centro, vicino al falò che rischiara il Campo, c'è un orso incatenato al palo. Gli aizzano contro una muta di levrieri impegnandolo in un cruento combattimento a colpi di morsi e di unghiate. Cerco scampo tra la folla raccolta intorno allo spettacolo, c'è chi scommette per l'orso e lo incita ad uccidere i cani uno per uno, c'è chi applaude i cani e attende che lo sbranino vivo. Mi faccio piccolo piccolo in mezzo a un gruppone di soggetti con le birre in mano, tutti vestiti da inglesi con la coda. Inutile! I miei inseguitori sono già arrivati e si sono messi a danzare. Goffi e sgraziati oscillano sulle gambe, apposta con la faccia rivolta alle fiamme perché la luce dal basso renda ancora più lugubri le loro maschere. Testa di Lupo mi ha individuato e defilatosi dai suoi compagni mi grida alle spalle:

«Buonasera sior Batoccio!»

Lo anticipo, mi giro di scatto e lo colpisco a bruciapelo, la punta del manganello affonda nella bocca del suo stomaco. Testa di Lupo ulula dal dolore.

Fuggo da Campo S. Angelo a grandi falcate. Sono lucidissimo, albergo pensieri insolitamente vividi e veloci, privi di emozione, distaccati. Con movimenti automatici volo sopra i ponti e alla luce delle torce raggiungo Riva del Ferro. Mi affaccio sul Canal Grande: nelle vicinanze c'è un'unica gondola ormeggiata, fortunatamente una sola. La raggiungo con un balzo. Per pormi in salvo devo solo slegare frettolosamente le sue corde e poi con tutta calma remare alla riva opposta e mettere piede sull'approdo, a fianco di Ca' Barbarigo. Invece rimango lì impalato, in piedi al freddo sulla gondola, a guardare se arrivano. Nell'attesa gli attimi si dilatano. Provo in me una distorsione del senso del tempo, come se fluisse al contrario dal futuro al passato.

Eccoli! Frenano la rincorsa, si fermano sull'orlo della Riva, riuniscono il gruppetto davanti alla mia gondola. Con stupore li vedo agitare vistosamente le braccia e i fazzoletti per farmi oggetto di gran saluti. Al termine della pantomima i quattro uomini mascherati, a mo' di commiato, si calano le braghe e ridendo come ossessi mi mostrano i loro quattro culi ordinatamente in fila.

«Ostia, comincia a far freschetto», ironizzo mollando alla svelta gli ormeggi.

Ne prendo atto, finalmente si sono tolti la maschera: 'ste facce da culo non sono sbirri, sono solo degli sbandati, fanno parte di quel genere di burloni che si esaltano nelle bravate e negli scherzi pesanti. Mi hanno scambiato per un loro degno compare del quale Batoccio sarà il soprannome. Volevano spaventarmi e devo ammettere che ci sono riusciti.

 

* * *

 

Oggi è Giovedì Grasso, il giorno della decapitazione del toro. Nel tardo pomeriggio vado a curiosare davanti al Palazzo di Giustizia ma arrivo fuori tempo, si è già conclusa la cerimonia che commemora la vittoria sui friulani di Ulrico di Treffen. La folla che vi ha assistito si sta lentamente diradando, cerco un varco per avvicinarmi al palco ma non riesco a vedere né il toro con la testa mozzata né il fabbro nerboruto che l'ha staccata con un sol colpo di spada. L'unica cosa che vedo sfilare sono i rappresentanti dei canonici del Patriarcato di Aquileia, trottano in fretta e grugniscono spaventati, sono i dodici grassi porcelli.

Il Maiale è il santo patrono del Giovedì Grasso, perché ogni anno a Venezia questo è il giorno della sacrosanta abbuffata, la festa dell'ingordigia, la solennità dei crapuloni e degli insaziabili; vergogna di chi si finge sobrio e temperato, letizia di chiunque smani l'eccesso, cavalchi la smodatezza e morbosamente ricerchi l'esagerato; è il trionfo dei vizi e degli abusi, della trasgressione sfrenata e licenziosa, del peccaminoso agire che esalta cuori traviati e depravati, la via libera agli illeciti amori legittimati dalla provvida copertura della maschera.

Cala l'imbrunire, alle mie spalle si accendono le torce della Piazzetta. Vado a passeggiare sulle Fondamenta dell'Osmarin lungo il canale che allontana dal centro della città. Passo davanti alla staccionata delle ricche suore di S. Lorenzo, quasi tutte nobildonne relegate in convento per risparmiare la dote. Scruto distrattamente oltre il cancello e intravedo nel cortile una donna vestita da Colombina che si affanna a raggiungere di corsa l'uscita. Supera il cancello, lo richiude alle sue spalle e si appoggia ansimante al pilastro.

Chiedo preoccupato:

«Qualcosa non va, signora?»

Da dietro la maschera mi risponde la voce seccata e cavernosa di un uomo:

«Mi hanno beccato».

Comprendo al volo, è uno di quei gaudenti che si mascherano da donna per non venire scoperti nel mentre inducono in tentazione le povere suore, è un genuino rappresentante dei cosiddetti monachini, scaltri impostori perennemente dediti alle avventure galanti, soggetti specializzati che hanno trovato la loro nicchia all'interno del monastero. D'altronde, quelle leggiadre monachelle dai capelli arricciati e ben pettinati sotto il minuscolo velo, stuzzicano non poco la fantasia degli uomini con il loro seno mezzo scoperto, lasciato bene in vista dalla scollatura dei loro abiti bianchi alla francese. Il Patriarca di Venezia, qualche anno fa aveva fatto sprangare il monastero per impedire lo scandaloso corteo dei visitatori mascherati, ma risentite le gentildonne avevano appiccato il fuoco al cancello di legno.

Il monachino mi confida la sua disavventura con il tono di chi si vanta di una bravata:

«Incredibile, incredibile... Ero in dolce compagnia nella cella di una novizia. La monachella rideva forte mentre palpava le mie tette finte e faceva il confronto con le misure del suo seno, piccolo che poteva stare nel cavo di una mano. D'improvviso abbiamo sentito battere i pugni sulla porta. Puoi immaginare lo spavento! Eravamo in trappola, ho dovuto aprire».

«Chi era?»

«Due suore infuriatissime. Non hanno detto una parola, mi hanno fatto segno di andarmene con l'indice teso in direzione dell'uscio. La novizia si è gettata ai loro piedi terrorizzata: Chiedo perdono - ripete in falsetto il monachino -, confesso il peccato carnale, datemi pure la punizione che mi spetta ma... vi prego, vi imploro, non dite niente alla Superiora!».

«Che storia».

«Io chiaramente me la sono svignata, però mi sono fermato all'esterno e protetto dal buio ho curiosato dalla finestra della cella: le due consorelle hanno tolto l'abito all'ingenua novizia e l'hanno messa nuda in ginocchio, a capo chino con le mani giunte davanti al petto, poi la suora dalla carnagione olivastra ha tirato fuori una bacchetta flessibile e ha cominciato a frustarle la schiena. Ad ogni colpo la novizia faceva uno scatto in avanti e una smorfia di dolore.

Dopo alcune vigorose frustate l'altra suora, che aveva la bocca larga e le labbra esageratamente grosse, ha spinto a quattro zampe la novizia e si è chinata su di lei a sculacciarla a mani nude. Schiaffeggiava ora una chiappa ora l'altra, schioccava dei colpi secchi e precisi e la faceva piangere dal bruciore. Poi, la suora dalla bocca larga, si è messa in ginocchio dietro la novizia, con gli occhi fissi sulla fessura tra le due natiche e la lingua libidinosa che fremeva all'angolo delle labbra...».

«E che le ha fatto?»

«Le ha divaricato le natiche per guardare meglio, ha preso la mira e le ha ficcato un dito nel buco del culo. La novizia, presa alla sprovvista dalla sensazione del dito che entrava nel suo corpo, ha sollevato il capo infiammata di rossore, il suo sguardo si è incrociato con il mio e così le altre due mi hanno visto alla finestra. Perciò mi hai visto scappare».

«E adesso?»

«Mi travesto da cappellano e torno dalla monachella per confessarla».

Io non ho certo il coraggio di imitarlo, per uno ricercato dall'Inquisizione certe iniziative sono troppo rischiose, perciò abbandono il cancello di San Lorenzo e proseguo a bighellonare per le calli.

Fra gli svaghi notturni offerti in special modo dal periodo carnevalesco eccelle uno dei passatempi più antichi dell’umanità, a tutt'oggi fonte di alacri contese fra nobili e popolani. E' l'unica onesta occupazione cui io stesso potrei dedicarmi senza timore di venir scoperto dagli sbirri dell'Inquisitore. Ho sulle spalle il carico di lunghi mesi di vita solitaria fra le montagne e negli occhi ancora il fantasma di Sybil, nuda e incantevole, che mi mostra sorridente i seni rigonfi e da sotto la cascata di capelli neri mi fissa con i suoi stupendi occhi verdi. E' un'ossessione, diventa un bisogno impellente, sì devo per forza sfogarmi, non ce la faccio più a resistere. Ecco che travolto dalla precipitazione, trepidante, vado a caccia di mamole.

Mamole. Non le viole odorose, simbolo di modestia e pudicizia, bensì le rappresentanti dell'onorato mestiere di cortigiana.

A scatti, muovendo gli arti come un automa alessandrino, mi dirigo al sestriere di Rialto e comincio a gironzolare sulle Fondamenta di qua dal Ponte delle Tette, la miglior zona di ritrovo per simili avventure. Sul ponte superaffollato vedo sporgersi le cortigiane con le facce pesantemente truccate, gli abiti bizzarri e discinti, alcune con il seno nudo. Alzo gli occhi al balcone che dal mio lato sovrasta il ponte. E' affacciata una col vestitino di un vivace verde chiaro, la bella cortigiana ha ravvivato i capezzoli col carminio e tiene la scollatura abbassata per mostrare un seno prosperoso.

Sento una fitta di desiderio. Agito il berretto e la cortigiana ricambia mollemente il saluto ma appena dopo, a gran voce, cerca di adescare due nobili d'oltralpe, vestiti alla moda raffinata dei ricchi di Francia:

«Benvenuti a Venessia, la mona del mondo!».

La bella cortigiana mi attizza fin troppo, ho deciso che fa al caso mio, devo andarci prima che 'sti qua me la soffino, ha salutato prima me ed io ho la precedenza. Però uno dei due francesi, butterato per giunta, ha colto al volo l'invito, mi precede sulla soglia e con male maniere mi da uno spintone perché mi tolga di mezzo. D'istinto poso la mano sul manganello e tuttavia mi blocco, interrotto da un ripensamento. Meglio abbandonare il campo a questo guastafeste, gli sbirri sono lesti a sbucare per ogni nonnulla e non è il caso di cercare rissa, tanto meno per una cortigiana. Neanche fosse l'unica sulla piazza! Ho tutto il tempo per sceglierne una anche più bella di questa. E' la prima volta che vado a mamole e voglio spendere bene i miei soldi.

Nell'angolo fra due pareti vedo la moretta, una maschera nera ovale che vien tenuta su con la bocca, stringendo i denti su un bottoncino. Il gran mantello che avvolge la prostituta rende inquietante quell'apparizione silenziosa. Appena gli sono vicino la cortigiana spalanca con le braccia il pesante mantello, sotto è nuda, divarica un po' le cosce per mostrare meglio il pelo, ma ha le gambe magre e secche da far impressione.

Proseguo. Altre cortigiane. Le passo in rassegna sempre più indeciso. Questa è troppo bassa, questa ha le tette fiappe, sta' qua puzza come un letamaio, st'altra ha la mandibola in fuori, questa poi... sembra la madonna addolorata.

Obliqua nella penombra, avanza una cortigiana che finalmente mi piace, accattivante, alta e snella, con lunghi guanti sulle mani affusolate.

Ha la mascherina sugli occhi ma la bocca scoperta e abbondantemente cerchiata di rossetto:

«Ciao, sono Lilith».

Che voce profonda e sensuale. Il suo profumo dolciastro mi inebria, sa di mangereccio e godereccio. Vista da vicino ha lineamenti corporei veramente eleganti.

La sto già spogliando con gli occhi.

«Ti piaccio?» chiede.

«Certo che sì. Ma... ma mi consentiresti di tenere il viso coperto?» balbetto.

«E' tuo diritto, non preoccuparti è una domanda che mi sento rivolgere spesso. Né tu né io ci toglieremo la maschera», mi rassicura.

«D'accordo Lilith, terremo su la mascherina però... ci toglieremo tutto il resto», aggiungo in preda all'eccitazione.

Con il dito guantato mi fa cenno di andarle dietro. La seguo su per la scala esterna della casa. La sua camera è più che decorosa, le tende del letto sono ricamate e il pavimento è coperto da un tappeto di pelliccia. Appena entrato la spingo sul letto e mi avvento su di lei per alzarle la gonna. Ma quella, incredibilmente, fa resistenza:

«Aspetta! Aspetta un momentino».

«Che c'è?»

«E' meglio di no, sono vergine. Te lo prenderò in bocca».

«Che? Una puttana vergine, roba da matti, ma perché diavolo tutte a me devono capitare!»

«Non arrabbiarti, stavo scherzando, possibile che tu non sappia stare al gioco» e appoggia le sue labbra serrate sulle mie, come per farsi perdonare.

Irritato e perplesso mi tolgo con la mano il rossetto che mi ha lasciato addosso:

«Ma a che gioco giochiamo, se sei mestruata dillo subito così me ne vado».

«Ah no, non ho mai avuto le mestruazioni in vita mia».

«Impossibile, tutte le donne le hanno. A meno che...», a meno che non sia un uomo, finisco la frase mentalmente.

Gli guardo di nuovo la bocca mentre fa scivolare la lingua a inumidirsi le labbra e noto come il suo collo paia essere un po' troppo prominente per una donna. Mi viene un dubbio atroce: che sia un travestito? Per questo non vuole che gli alzi la gonna! Però mi pare impossibile, è così carina e femminile. Seduto alla sua destra, le accarezzo con le punte dei polpastrelli le guance imbellettate, su e giù in contropelo per sentire la barba, ma la pelle è perfettamente liscia. E' una prova certa, ho sbagliato a dubitare di lei. E adesso che cos'ha, sembra turbata, deve aver capito il perché delle mie carezze in contropelo.

Impacciato, mi azzardo a dire:

«Sai, di questi tempi... con tutti i travestiti che ci sono in circolazione».

«Ma stai scherzando? Secondo te che cosa sembro?»

«Una donna».

«E allora perché ti fai tanti problemi».

«Sembrare ed essere non è la stessa cosa».

Sospira esasperata, poi:

«Ritieni che fare l'amore fra uomini sia un'azione tanto abominevole?»

«Abominevole appunto».

«E se io fossi veramente un uomo? Cercando ciò che non puoi trovare finiresti per soddisfarti con quel che avrai trovato e così pian piano... scivolerai nell'azione abominevole che hai tanto in orrore. Come puoi illuderti che trovandomi uomo cesserai improvvisamente di desiderarmi, credi forse che possa sparire d'incanto quel qualcosa che ti è piaciuto in me quando posasti lo sguardo sul mio corpo? Al contrario, per appagarti ricorrerai ai mezzi offerti da un'immaginazione scatenata, ti convincerai di potermi trasformare in donna o peggio di poter diventare tu stesso donna».

Aveva un tono da amica premurosa, provocava nella mia testa un confuso avvicendarsi di emozioni, pensieri che nascevano da abbozzi contorti e si smorzavano prima ancora di liberarsi dal bozzolo e di certo lei ne aveva in pugno le fila come se la sua sottile ambiguità le desse prerogativa di tenermi in suo potere. Lilith sorride e disegna le fossette sulle guance, mi spia con la coda dell'occhio, getta indietro i suoi capelli neri, poi si avvicina, porta una mano alla mia nuca e mi bacia sulla bocca con impeto. Vacillo e cedo, ricambio il bacio, mi lascio trasportare in un molle abbandono, la mia mano accarezza i suoi fianchi da sirena, scivola sotto la veste a palpare il petto. E' un seno vero, non grande ma morbido e cedevole sotto la pressione delle dita.

Senza preavviso la cortigiana si slaccia la maschera e lentissimamente la fa scorrere davanti al volto: è affascinante come me l'ero immaginata, grandi ciglia scure ed occhi neri penetranti. E' una donna, pure se ha un che di efebico.

Mentre sta seduta sul bordo del letto mi inginocchio davanti a lei per toccarle i polpacci, alzo un po' la gonna e scopro le sue caviglie sottili. Le gambe sono assolutamente glabre come quelle di una bambina. Lilith fa un timido tentativo per allontanare la mia mano, ma appena salgo al ginocchio inizia a sorridere compiaciuta. Le accarezzo le ginocchia e scivolo avidamente verso l'interno delle cosce mentre lei allarga le gambe.

La sua voce sensuale tradisce l'eccitazione:

«Golosaccio».

Punto deciso alla radice della coscia e lei scatta in avanti col bacino offrendo il pube alle mie dita che frugano:

«Go l'oseo!»

Un pene piccolo ma duro, senza peli.

Mi fa ribrezzo:

«Ah!» lancio un urlo alzandomi in piedi indignato.

E' un uomo. Mi fissa come un animale braccato, con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati. Per un attimo il suo sguardo spaurito mi fa pena, ma a colpo mi giro. Me ne vado scendendo le scale di corsa senza nemmeno ricordarmi di chiedere i soldi indietro.

 

* * *

 

Lentamente e inesorabilmente inghiottito, sto sprofondando nel fango delle sabbie mobili... e più ci mi muovo per cercare salvezza, più mani invisibili mi tirano verso il basso. E' questa la sensazione viscerale che mi opprime mentre osservo dalla finestra le canne palustri limitrofe al mio alloggio, la squallida Taverna alla Laguna.

Lascio la finestra, mi stendo sul letto e osservo i mutevoli riflessi dell'acqua sul soffitto.

Da cinque giorni risiedo sotto falso nome nell'albergo più malfamato della città, noto per la discrezione con cui offre ospitalità ai più loschi soggetti. Che vita di merda. In pratica non faccio altro che sprecare il mio tempo girando a vuoto per le calli. Le strade straripano di ragazzi e ragazze, è tutta gente allegra e non occorre sforzarsi per trovare la compagnia giusta, eppure appena cerco di aggregarmi ad un gruppetto di maschere ben presto mi sento emarginato e finisco per staccarmene. La cosa dipende forse da me, non riesco a partecipare al divertimento come gli altri anni, non sono abbastanza spensierato. Per forza, ho una spada di Damocle che pende sulla mia testa, quella dell'Inquisitore! Come risultato, sto conducendo una vita raminga e solitaria che non si confà per nulla al mio carattere, né alla mia dignità.

Il giorno del mio esilio forzato, in gondola ricordo d'aver giudicato più fortunato di me l'ultimo degli straccioni cui era concesso di restare a vivere in patria... eppure adesso, che mi ritrovo pari straccione, capisco che senza la libertà e senza il privilegio di un adeguato inserimento nel convito civile non si può sopportare di vivere nemmeno nella propria città, per quanto la si ami. Sono caduto in disgrazia, vivo al bando dalla grande famiglia del popolo veneto, costretto mio malgrado a far parte di un'altra genia, quella che i concittadini privi di compassione considerano la famiglia del Diavolo: l'insieme dei vagabondi, dei giullari, dei lebbrosi e degli Ebrei.

Gli Ebrei, i più maltrattati di tutti! Dall'inizio delle crociate non si contano gli assurdi pretesti adottati per perseguitarli e massacrarli, capri espiatori per l'uccisione di Gesù Cristo, obbligati a portare il segno distintivo della rotella rossa, una vergogna non per loro ma per il perbenismo cristiano. Io non so capacitarmi del perché nella Cristianità, quasi al pari di un eretico, lo straniero debba rappresentare l'escluso per eccellenza. L'intolleranza è spesso soltanto un segno d'ignoranza.

Anche emarginato dai miei stessi concittadini... anche nella sventura... io resto fiero di essere veneziano, eppure ciò non comporta il disprezzo per chi semplicemente è diverso da me, perché rispetto e stimo la cultura di qualsiasi altro uomo, sia esso norvegese o spagnolo, siciliano o prussiano.

Mi alzo dal letto della mia camera e mi preparo a uscire. Ero l'unico rimasto ancora al chiuso, sull'uscio della locanda vengo sorpreso da un fracasso assordante, sono tutti fuori, tutti travolti da una grande allegria, una folla impressionante si accalca euforica in piazza San Marco.

E' Martedì Grasso, l'ultimo giorno di Carnevale e un evento particolarissimo verrà a mutare radicalmente il mio umore.

Dalla terra battuta osservo attentamente i gruppetti delle maschere alla veneziana che sfilano sfarzose sul Listone, lungo la striscia selciata. Sul volto la maschera classica è rigorosamente bianca. Tinte tenui avvolgono di veli il capo e tutto il corpo in mille fantasiose fogge. Quell'incedere lento e pomposo, tutto teso a far mostra di sì, altro non è che la vanitosa ostentazione della vacuità. Poiché dietro, dietro l'indefinibile ambiguità delle maschere non c'è nulla, rappresentano il niente e altro compito non hanno se non rivestire con veli colorati un'assenza di presenza. Proprio il loro essere simulacri inconsistenti, privi di nome o significato, genera il riverente silenzio con cui lo spettatore cela il proprio disorientamento. Consce del loro immenso potere, le inquiline del senza tempo enfatizzano la propria equivoca essenza adornando il capo di rose ed ancora il corpo con veli trasparenti e piume variopinte.

Sospinta dalla gran calca, una donna tra quelle maschere abbandona inaspettatamente il selciato del Listone, si è persa, gira alla ricerca dei suoi compagni. Subito mi conquista con la ricercatezza estrema del suo costume, con l'eleganza del portamento ed in particolare, con quel suo modo aggraziato di camminare ancheggiando. Un lungo vestito le scende fino ai piedi e pare vi abbiano preso posto tutti i fiori della terra tanto riccamente è decorato di motivi floreali. Ella cinge ai fianchi una larga cintura e porta una corona murale, alta sul capo, dai cui merli un velo trasparente cala ad avvolgerle i capelli. Il volto è coperto da una graziosissima maschera bianca, finemente decorata da un fregio e abbellita da pietre preziose. Sul petto, ha infilato una spilla d'argento a forma di chiave.

Si avvicina. Dietro la maschera due luminosi occhi celesti cercano il mio sguardo. Mi faccio avanti, la saluto con un inchino e la prendo delicatamente per mano. Lei stringe la presa e mi trascina via, vuol condurmi lontano dalla folla, solca la Piazzetta dei Leoni e imbocca un sottoportego basso e stretto in cui non si vede passare anima viva.

Sono un po' titubante, temo mi stia tessendo un inganno. Mi porta in fondo al sottoportego ove questo termina in un piccolo cortile circondato dalle case. Si ferma e si gira verso di me, i suoi occhi hanno mutato colore con la variazione di luce ed ora sono di un verde intenso, simile a quello dei canali.

«Chi sei?», le chiedo sottovoce. 

Non vuole o non può rispondere, con i guanti bianchi sfila la spilla d'argento che tiene chiusi i margini della scollatura e scopre le tette, belle e rotonde come due mele. Un soffio d'aria fresca le accarezza i capezzoli e li fa inturgidire. Indugio a contemplare quelle meraviglie, esito, quasi non oso toccarle.

Improvvisamente udiamo uno schiocco sopra le nostre teste, si spalanca un balcone e si affaccia qualcuno. La bella sconosciuta richiude la scollatura alla rinfusa e corre via in un batter d'occhio. Io mi attardo un attimo a spiare in alto, vorrei cercare di capire chi si sia affacciato, ma non vedo più nessuno.

Esco frastornato dal sottoportico, la mia compagna non è lì ad aspettarmi, perlustro la Piazzetta dei Leoni, ma ahimé è già svanita in mezzo alla confusione. Che guaio! Niente di più difficile del rintracciare qualcuno nel marasma del Carnevale, ma tento lo stesso. Batto su e giù le calli in lungo e in largo alla disperata ricerca di quella donna apparsa e scomparsa così stranamente.

Eccola! una volta tanto la fortuna mi assiste. Ha ritrovato il suo gruppetto di maschere e sta conversando sul cancello di un ricco palazzo affacciato sul Canal Grande. Poi il gruppetto si divide, per metà entra nel palazzo. Un secondo dopo ne esce con la fiacca il portiere.

Lo blocco fulmineamente sul portone:

«Buondì, scommetto che i tuoi sono i padroni più ricchi del sestriere, a giudicare da un palazzo del genere... Che famiglia è?»

«Orseolo».

«Ti trattano bene, suppongo».

«Beh, non posso lamentarmi, l'unica scassacassi è quella appena entrata, la riverita nobildonna Orseolo, fatalità questa notte se ne va in Romania anche la megera».

«Megera, non dirmi che la Orseolo è brutta?»

«Ha i mustacchi e la faccia tonda come la luna».

«Però ha un bel paio di... D'accordo, io l'ho vista mascherata, però non mi sembrava affatto che...»

«Ah ah! Forse ti confondi con l'altra, la padroncina».

«Probabile e quella che tipo è?»

«Mona irraggiungibile».

«Parte anche lei per la Romania?»

«Sì, se ne vanno tutti nell'isola di Candia, con il nuovo imbarco di coloni».

«E in quale città andrebbero a stabilirsi, se è lecito?»

«Archanes», risponde il portiere andandosene.

Ora credo di saperne abbastanza, la ragazza mascherata si appresta a partire per Creta, isola sotto il dominio del doge al pari della quarta parte della Romania, nome che i veneziani danno ai resti dell'Impero Romano d'Oriente.

 

* * *

 

Domani inizia la quaresima e non sarà più permesso nascondersi dietro una maschera, dovrò ricominciare a fuggire e ritornare fra gli sperduti monti di Zoldo a fare il bovaro.

Sono stanco, ho bisogno di riflettere... con calma. Qui fuori è impossibile, non sopporto più lo strepito di Piazza San Marco, mi irrita questo baccano infernale di tamburi, corni e zufoli della malora. Andrò alla basilica, lascerò fuori del suo portone il Carnevale morente e il suo urlo di animalità insoddisfatta, esausta forse ma non sazia.

La Basilica d'Oro è la mia dolce casa, sempre pronta com'è ad accogliere ogni veneziano nell'intimo del suo rifugio. L'interno della Basilica è pressoché deserto, l'essere soli in questo immenso edificio ispira soggezione. Mi incammino lungo la navata, muovo compunto verso l'altare maggiore. Presto assorbito nel silenzio e nella quiete del luogo.

In piedi sotto la cupola centrale, piego la testa all'indietro e le linee slanciate delle colonne attirano il mio sguardo verso l'alto e in alto percorro i mosaici illuminati dalle ultime finestre sopra la galleria e sto per venir colto da una leggera vertigine... quand'ecco noto un mosaico cui inspiegabilmente non avevo mai posto attenzione: un pozzo alla radice di un albero. E' il polo altissimo e profondissimo, l'asse attorno cui ruota l'intero universo ed i cui estremi si perdono senza limiti all'infinito. Ogni coscienza individuale è posta al centro del proprio universo percettivo, il mondo intero ruota intorno a noi, non c'è scampo, la coscienza umana è la sola ad avere una posizione privilegiata nel cosmo.

Uno spirito opportunamente purificato ha in sé facoltà di coincidere con quel raggio di luce sfolgorante, può scendere con esso nei più profondi abissi e risalire alle più sublimi altezze. Ma purtroppo io sono vittima delle torbide scelte di un cuore arido ed il mio spirito somiglia semmai ad un albero rinsecchito. L'Albero Secco tramandato da Alessandro Magno, il platano immenso e poderoso che si erge solitario nella sterminata e arida pianura del Khorassan. Se solo esistesse un modo per farlo rinverdire? Che spettacolo sarebbe vederlo ricoprirsi di foglie verdi su di una faccia e bianche nell'altra, mentre gli zeffiri sereni ne agitano la chioma in pieno rigoglio. Ci vorrebbe l'azione vivificatrice dell'acqua, l'acqua pura del pozzo, ecco di che cosa ho bisogno!

Nella navata sud mi fermo a pregare sotto l'immagine della Vergine. Alta e longilinea, ha una stella sulla fronte come Afrodite e avanti al seno protende le palme delle mani in un invisibile abbraccio. Ritta davanti alla porta del Paradiso, indossa una tunica bianca lumeggiata d'argento mentre un manto verde ornato a frange le scende dal capo. Solenne, maestosa, elegante, è la più bella immagine che io conosca del culto della Vergine. La vegliano due pavoni indiani, disegnati nel pavimento del mosaico ai suoi piedi.

Quindi esco. Un tetto di stelle ricopre Piazza S. Marco. Alzando gli occhi al cielo individuo la bella costellazione dell'Orsa Maggiore. Sposto lo sguardo sull'Orsa Minore e cerco la sua stella più brillante, l'ultima del timone del piccolo carro, ecco la stella Polare al centro della volta celeste, fra miriadi e miriadi di stelle polverizzate nella via Lattea.

«Chiunque Tu sia creatore di tutto questo: io Ti amo e ti prometto che riprodurrò in tuo onore lo sfolgorio del firmamento sulla volta di una cupola».

Ho già bene in mente il disegno: un rosone in mosaico, finto intreccio di archi e colonne ove le stelle traspaiono sullo sfondo. Al centro esatto la stella polare, splendente nelle sue otto punte fiammeggianti.

Incamminandomi vedo dei bagliori. Nella Piazzetta adiacente la basilica un rogo arde tra le due colonne gemelle, il luogo da sempre consacrato alle esecuzioni capitali. Mi avvicino incuriosito, salgo sui gradini e appoggio la schiena alla colonna di S. Teodoro.

Il popolo brucia un grande fantoccio e intona la nenia di addio al Carnevale:

«El va! El va! El va! El Carneval el va!»

Mi dirigo al molo. Oltrepasso i burchi del ponte della Paglia, costeggio le chiatte ormeggiate nei pressi e imbocco la Riva degli Schiavoni. La è attraccato il convoglio dei venti vascelli della carovana di primavera. A terra, dei coloni decisi a salpare prendono gli ultimi accordi.

Mi piacerebbe vedere per l'ultima volta quella nobile, mentre si imbarca per la Romania. Spero che salga sulla passerella col lungo vestito ove han preso posto tutti i fiori della terra, con la corona murale ed il velo trasparente sui capelli, con la graziosa maschera decorata dal fregio e abbellita dalle pietre preziose, divinamente mascherata come l'ho vista oggi altrimenti... altrimenti come farei a sapere che è lei, non ho visto il suo volto. Che controsenso. Assurdo: senza maschera non la conosco, con su la maschera la riconosco.

Ehi! un momento, ho trovato. Mi imbarco al volo, mi unisco alla sua carovana. La scoverò a Candia, dove andrà a stabilirsi con la famiglia. Archanes, Archanes! E' musica per le mie orecchie.

C'è una nave che riceve ancora gente, mi avvio deciso verso il suo ormeggio. Scocca lentamente la mezzanotte, i cupi rintocchi delle campane di San Francesco della Vigna decretano la fine del Carnevale e l'inizio della Quaresima. In lontananza il rogo non si vede più, è rimasto solo un cumulo di ceneri fumanti.

Mi sento sulle spine, temo che facciano controlli sulle persone in procinto di imbarcarsi, ogni minuto in più sul molo non fa che aumentare le probabilità di venire catturato. Devo sbrigarmi a mettermi in coda con gli altri, sono l'ultimo ad aver ancora il costume indosso e rischio di venire notato proprio per questo.

In fretta e furia mi cambio d'abito dietro un pilastro del molo. Appena finito appendo la maschera nera a un chiodo che sporge dal pilastro e mi inchino a raccogliere il mantello per avvolgermelo addosso... d'improvviso una voce roca alle mie spalle:

«Alto là, Petrangésio!»

Sussulto dallo spavento. Lentamente giro la testa e alla luce delle torce mi vedo venire incontro goffamente un nano vestito da buffone. Ha sulla testa un berretto a tre punte con tanto di sonagli. Cammina in bilico sull'orlo del molo, si equilibra a stento con il contrappeso di un fardello mentre pesta la coda a un gatto randagio che balza a mordergli le scarpe con l'intenzione di farlo precipitare in acqua.

Tiro un sospiro di sollievo. Si tratta di Hyla, uno che tutti conoscono per essere completamente matto, anche gli saltasse in testa di fare la spia nessuno al mondo gli darebbe retta. Mi si pianta a un palmo dal naso e con gesti teatrali inizia a declamare il testamento del Carnevale:

«Perché ognun debba esser de mi pago e contento, sin che la testa è libera far voggio el testamento e perché volentiera, e de gusto i lo leza, ghe lasso in soprapiù l'ultima mia scoreza» e girandosi con la gamba sollevata fa una rumorosa ed interminabile scoreggia.

Poi arcua le sopracciglia e mi fissa serio:

«Dove xe direto el to fantomatico vascello?»

Osservo Hyla in silenzio e poi rispondo:

«All'Isola Sommersa».

«Ehi la conosco, la famosa isola che non c'è! L'isola che si raggiunge non arrivandoci mai».

 

CONTINUA TERZO CAPITOLO

Esprimi un giudizio Libro degli ospiti