Capitolo Terzo
L’ISOLA SOMMERSA
Confinato nello scafo
del nostro vascello, mi sento come entro un vaso ermeticamente chiuso, eppure il
cielo mi confonde con la sua vastità: nubi madreperlacee alte nella stratosfera
e spessi cumuli di nuvole basse ma lontanissime all'orizzonte, mi comunicano la
profonda impressione di uno spazio sconfinato. Osservo dalla finestrella rotonda
le onde che si gonfiano e ancora il mare in lontananza, mare e mare e soltanto
mare intorno a me, in un'immensa distesa d'acqua.
Per lo ionico Talete
l'Acqua è l'Arché, ossia la sostanza originaria che nel trasformarsi ha dato
luogo a tutte le cose. Talete non era un ingenuo pensatore era un filosofo, e
non si riferiva all'acqua fisica ma al concetto di un acqua celeste ed
immutabile che non bagna le mani: l'Umido radicale, umida sostanza del
mare magnum dei filosofi.
Talete di Mileto,
Aristotele, Democrito di Abdera. Vado enumerando le teorie dei filosofi greci
intorno alla costituzione della materia mentre nel vascello sto con le dita
appoggiate sull'orlo della finestrella, col vento nei capelli e lo sguardo
smarrito nel turchese del mare. Per Aristotele la sostanza originaria è la Prima
Materia, potenza assoluta totalmente priva di forma. Oltre la percezione
sensoriale, oltre la molteplicità delle forme, essa rappresenta l'unico comune
substrato, impalpabile e sfuggente eppure materia.
Per Democrito, a
fungere da sostanza fondamentale, è invece un insieme di atomi indivisibili.
Gli atomi sarebbero talmente minuti da non poter essere colti con la vista, né
con l'udito, né con l'odorato, né con il tatto, né con il gusto, ma
esisterebbero eternamente nel vuoto dello spazio. Assumendo questo punto di
vista viene a cancellarsi il confine invalicabile posto tra le individualità di
un essere umano, di un albero, di una pietra, di un gabbiano... condizionamento
senza via d'uscita nel mondo della percezione sensoriale. Nella lucida
concezione di Democrito tutti gli esseri si fondono insieme nel vorticoso
movimento degli atomi, simile a grandi onde spumeggianti nel burrascoso oceano
del vuoto. Eternamente esistenti, gli atomi a composizione dell'individuo si
sottraggono alla freccia del tempo per cui l’immortalità dell'essere umano si
fa solida certezza nella dimensione atomica ove, non soggiacendo a nascita, non
si può essere soggetti a morte. L’irreversibilità del tempo, il processo di
putrefazione di un frutto, l'invecchiamento del corpo fisico, dal punto di vista
dell'infinitamente piccolo sono pure illusioni, se pur dure a morire.
L'Universo incarna così
la pienezza dello stato di perfetto equilibrio, è esente da limitazioni, non
nato e sempre identico a se stesso. Continuo ed omogeneo, rappresenta l'unico
sostrato del mondo dei nomi e delle forme, l'Uno senza secondo, causa
ciclica di produzione preservazione e dissoluzione del cosmo.
La Basilica d'Oro
illustra la creazione del cosmo attraverso i meravigliosi mosaici della Genesi.
Ho vive davanti agli occhi le gratificanti immagini della loro bellezza.
Sospesa sull'abisso una
tenera colomba aleggia leggera sulle acque:
Spiritus Dei
ferebatur super aquas.
Nei primi attimi della
creazione, sorge ex nihil una bolla di luce che si espande sempre più e
cresce con fulminea velocità ad immani dimensioni. Nel mosaico in questione, il
cosmo nascente è la piccola sfera sotto le ali bianche della colomba, la
perfezione della simmetria originaria è resa in modo esauriente dalla geometria
circolare, poiché è noto che facendo ruotare una sfera attorno ad un suo asse
qualsiasi essa rimane immutata.
Nel mosaico accanto, il
secondo giorno della creazione. Attorniata dagli angeli, la sfera del cosmo
abbraccia già le dimensioni del firmamento e scorre sulle acque per dividerle.
Al terzo giorno la gran massa delle acque riceve l'ordine di raccogliersi su se
stessa e la terra emerge all'asciutto, solidamente fissata nel mezzo delle
acque. Successivamente la terra viene popolata dalla moltitudine delle specie
delle piante e degli animali. Infine, al sesto giorno viene creato l'uomo.
Il mito iperboreo
dell'ordine cosmico che sorge dal chaos, risuona nella mia mente e ancora le
parole di Zagreo rivestono d'immagini dense di colore quei primi ineffabili
istanti...
All'origine Orizia
emerse nuda dal Chaos. Non trovando nulla di solido ove posare i piedi Orizia
divise il mare dal cielo e sola intrecciò una danza sulle creste delle onde.
Ebbra danzava sulla spuma quando si accorse del vento che le turbinava alle
spalle e riconoscendovi alcunché di nuovo e distinto da sé, pensò di iniziare
con questi l'opera di creazione. Si voltò d'improvviso e afferrato Borea, il
vento del Nord, lo sfregò ripetutamente fra le mani finché apparve il grande
serpente Ofione. Ma il vento le aveva raffreddato la pelle e Orizia continuava a
danzare per riscaldarsi, danzava a ritmo sfrenato, oscillava le anche, scuoteva
i seni eccitando Ofione col vibrare del suo corpo nudo. Il grosso rettile si
rizzò, le avvinghiò le membra e si unì a lei. Orizia assunse allora forma di
colomba e volteggiò leggera sulle acque dell'oceano. Fecondata dal serpente,
depose l'Uovo Cosmico e ordinò ad Ofione di circondarlo con le sue spire: per
sette volte il serpente si arrotolò intorno all'uovo e facendolo schiudere,
liberò tutte le cose che esistono nel mondo.
* * *
Il mare di Crono. E'
entusiasmante attraversare lo stesso mare anticamente solcato dagli Argonauti.
Attendo con fervore il nostro passaggio nelle vicinanze di Trieste, voglio
esaltare lo sguardo nella tumultuosa risorgiva del Timavo, la fonte che a dire
di Zagreo alimenta da sola l'intero oceano sboccando in superficie da un fiume
sotterraneo del quale nessuno conosce il tragitto. Ma non vedo ombra di coste.
In Istria mi lascio
prendere da rinnovato ardore. Desidero sfiorare come un falco la città fondata
a Pola dai Colchi... frenare in un porto lo slancio di un sogno leggendario e
magari approdare nella rocciosa e frastagliata Lussino, l'isola coperta di fiori
di giacinto. Dimora della famosa zia di Medea: la maga Circe. Ma con mia grande
delusione la carovana punta dritta a sud e soltanto dopo un lunghissimo tragitto
fa tappa in Dalmazia nel porto di Ragusa.
Nella sosta vengono
caricate le provviste. Scendo a terra dominato dalla morbosa frenesia di
incontrare la ragazza dell'ultimo di Carnevale. Con che ardente desiderio amerei
rivedere i suoi seni, godere di quella pelle lucida come la buccia delle mele.
Quanto intensa la mia speranza di riconoscere fra la gente degli occhi che
mutino alla luce da celesti a verdi e da verdi a grigi. Invece nulla. A Ragusa
non incrocio il suo sguardo e nemmeno a Corfù nello scalo successivo.
Trascorro la più parte
delle mie giornate sul ponte di passeggiata, con i gomiti appoggiati sui bordi
della nave, a spiare ogni vascello che si affianca nella beata lusinga di
intravedere una ragazza che abbia la sua altezza e corporatura o magari soltanto
la sua camminata aggraziata.
Nulla. Più passano le
settimane su questa nave, più mi rendo conto dell’assurdità della mia
ricerca. Che storia d'amore è questa? Con una nobile per giunta! A ben
giudicare non sono rimasto in sua presenza per più di dieci minuti, non l'ho
manco baciata e già la rincorro per i sette mari. In realtà me ne sono
infatuato per semplice effetto del totale isolamento in cui verso, è normale
che si finisca per ingigantire il primo occasionale incontro che viene ad
interrompere la nostra solitudine. Lei nemmeno si ricorderà di me.
Ora basta! Chiuso con
questi innamoramenti da adolescente, finiamola con questa lamentosa ricerca
della donna fatale. E' ridicolo. Una donna di nobile famiglia sarà sempre fuori
della mia portata, io sono soltanto un morto di fame. Ecco, me l'aspettavo,
disinganno e disillusione intaccano altresì la mia fede nell'Alchimia, del
resto la possibilità di fabbricare l'oro è svanita da tempo col sequestro del
papiro, insieme al papiro ho perso irrimediabilmente ogni speranza di diventare
ricco. Ah Rafael faccia d'angelo, se tu non m'avessi indicato quella locanda di
eretici ora non mi troverei qui, su questa nave, a navigare in un mare di guai.
Amico caro, ti giuro che se mi capita fra le mani quel dannato papiro lo rompo
in mille pezzi. Non ho bisogno di libri, non voglio più cadere negli inganni
dell'Alchimia.
Col suo disincanto
ellenico ha proprio ragione Zagreo:
I sogni e le
illusioni servono solo a rendere più sopportabile l'amarezza della vita, si
vedono cose che non esistono pur di non vedere ciò che ci angoscia.
Il viaggio del
convoglio prosegue all'insegna della noia sotto una bonaccia esasperante. Povero
di scali, privo di novità, il tragitto per Candia è a dir poco eterno. Le
nostre navi avanzano lentamente essendo dei vascelli mercantili. Provvisti di un
castello di prua e uno di poppa, due ponti ed una coffa da combattimento, sono
dei velieri tondi la cui lunghezza è tripla della larghezza e possiedono due
alberi forniti ciascuno di una vela triangolare, detta vela latina. La mia nave
è una taretta, ha lo scafo lungo e stretto, più basso, e ad un solo ponte, ma
in condizioni di scarso vento è la più adatta a bordeggiare. Per seguire la
rotta controvento la nostra taretta procede a zigzag e i marinai stringono il
vento navigando di bolina, ossia utilizzando un cavo che serve a tirare verso
prora il lato sopra vento delle vele, in modo che queste prendano il vento al
meglio possibile. Osservo costantemente le manovre di bordo, giusto per
distrarmi un po' mentre me ne sto in silenzio per conto mio. Sono un ricercato e
preferisco non espormi alla tentazione di scambiare parola con i passeggeri.
Perciò niente viene a rompere la monotonia di queste giornate di navigazione,
fino a una sera memorabile allorché cambiano repentinamente le condizioni
atmosferiche.
Doppiamo Capo Matapan
con estrema difficoltà a causa dell'irruenza del meltémi, un forte vento che
piomba ad annunciare bufera. Raffiche violentissime sono costantemente sul punto
di strappare la vela, i marinai calano allora il pennone e issano una piccola
vela triangolare fatta di tela resistente. In piedi sul ponte sento fischiare le
gomene, il vento mi strappa i capelli, m'impedisce di procedere in linea retta e
quasi riesce a stendermi a terra, ma io rimango cocciutamente attaccato alle
corde, esposto alla furia degli elementi: rimanere al chiuso in coperta mi
procura un'ansia maggiore. Appena sopra la mia testa nuvole caliginose
minacciano di traboccare pioggia e grandine da un momento all'altro. Il mare
mosso scuote paurosamente la nave, si sollevano onde di altezza e impetuosità
impressionante, il loro colore si fa sempre più cupo, finché la visibilità si
riduce del tutto e lascia il posto ad una nebbia di goccioline fitte e gelate.
Il fragore dei flutti continua a incalzare con la prepotenza di un urlo. Arriva
la tempesta. Una saetta tuona a bruciapelo e illumina nubi nere d'inchiostro. La
pioggia inizia a martellare all'improvviso, mi frusta la schiena e in un attimo
inzuppa la veste. La tempesta è talmente violenta che immagino passi presto,
invece peggiora. Le onde spazzano rabbiosamente la superficie del ponte,
comincio a scivolare sul bagnato, cozzo malamente un ginocchio sulla tolda,
capisco che l'urto di un'onda potrebbe scaraventarmi in acqua da un momento
all'altro. Mi decido allora ad andare in coperta e raggiungo gli altri che
pregano all'interno.
Passammo una notte
insonne sballottati dalle onde e nessuno ebbe la grazia di addormentarsi sapendo
che l'indomani avrebbe potuto ritrovarsi in fondo al mare.
All'alba un vento mite
e leggero soffia da ponente, lo zefiro viene a far da compagno al sereno.
L'umore dell'equipaggio si ravviva per lo scampato pericolo. Nel mare calmo
avvistiamo i delfini. Pinne argentee ruotano in superficie, scompaiono e
riappaiono. I delfini si inseguono festanti e poi si lasciano per raggrupparsi
ancora. Davanti alla prua un esemplare anziano mostra riflessi più chiari,
lattescenti, a colpo salta fuori dall'acqua e dalla posizione verticale piroetta
e torna sotto con una giravolta. La sua comparsa evoca nei miei ricordi la
trasformazione di Pelope in delfino bianco e ancora una volta rivedo
nell’oscurità della cella i lineamenti greci del mio sfortunato compagno, con
quella sua espressione seria dietro la barba e la mimica eloquente di un poeta
declamante...
Il sommo Zeus,
toccato nel cuore dall'efferato delitto commesso da Tantalo ai danni del proprio
figliolo, impose a Mercurio il pietoso compito di riportare Pelope alla piena
integrità. Raccolti ad uno ad uno gli sparsi resti del fanciullo, Mercurio li
fece bollire nel latte di un calderone sorretto dal tripode. Le membra prima
separate ora si stavano saldando bene insieme, ma c'era un pezzo mancante: la
spalla che Teti aveva inavvertitamente mangiato. Per porvi rimedio, la consorte
del Titano Oceano fabbricò una spalla in avorio di delfino e la sostituì alla
mancante. Rhea, soffiò in Pelope la vita e mentre Pan danzava per la gioia, il
ragazzo uscì vivo e raggiante dal calderone. Lo splendore della sua bellezza
adolescenziale colpì tanto profondamente Posidone che il dio del mare lo volle
con sé sull'Olimpo e ne fece il suo personale coppiere.
Nell'Olimpo però,
da lungo tempo Posidone non si dava pace per i continui rifiuti di Anfitrite,
una ninfa marina che sdegnava ostinatamente le sue proposte amorose e che
riusciva sempre a sfuggire agli inseguimenti grazie alle più strane e
fantastiche metamorfosi. Posidone pensò allora di affidare a Pelope il delicato
compito dell'inseguimento e lo trasformò per l'occorrenza in un candido
delfino. Per evitare il nuovo messaggero, la ninfa dai piedi d'argento si mutò
via via in seppia, piovra, ippocampo, medusa, ma non appena la raggiunsero le
parole gentili del delfino, cariche di inviti suadenti e persuasivi, la ninfa
cedette e si decise a concedere al dio i suoi favori. Posidone, al colmo della
gratitudine, immortalò il profilo del delfino tra le costellazioni del
firmamento.
* * *
Il porto della città
di Candia, finalmente si sbarca. La città rappresenta il nucleo principale
dell'isola e ciascuno dei centotrentadue feudatari ha l'obbligo di tenervi una
residenza, il che significa altrettanti ricchi palazzi che adornano il
capoluogo. Giro a zonzo per il centro. Ho una semplice tunica azzurra cinta ai
fianchi da un cordone, sul bordo rotondo del colletto è ricamata una linea
argentea mentre la sottana finisce appena sopra il ginocchio; porto calze
gialle, scarpe basse e aperte e fermate da un laccio al collo del piede.
Negli ultimi giorni di
navigazione l'acqua potabile ci veniva razionata. Ho una sete terribile e cerco
una fontana per bere. Per fortuna ce n'è una nella piazza, in fronte alla
basilica di San Markos. La fontana possiede un orlo ondulato e sinuoso con i
bassorilievi di Tritone che cavalca i delfini e con nove vasche absidate e
scolpite. Sulla sommità della fontana troneggia la statua di Posidone, ha un
braccio teso sul mare e punta l'orizzonte un attimo prima di scagliare il
tridente. Bevo acqua fresca a piene mani. Si calma l'arsura alla gola e mi sento
rinascere. Inclino leggermente indietro il capo e serro le palpebre dal
sollievo. Appena le riapro noto due ragazze uguali come due gocce d'acqua, alte
e longilinee e di non più di sedici anni, sedute sull'orlo della vasca. Le
osservo con aria innocente, hanno dei lineamenti troppo marcati però sono
attratto dal colore biondissimo dei loro capelli, quasi bianchi, un platino che
si intona piacevolmente con la loro carnagione abbronzata. Li hanno raccolti in
due lunghe trecce che scendono sul petto e vestono esattamente nella stessa
foggia e con le stesse tinte: rosa la veste leggera, stretta al collo ma ampia
sulle ginocchia e fornita di strascico; verde la sottoveste di lino con le
maniche aderenti che escono dagli spacchi alle ascelle.
Mi asciugo la bocca con
il dorso della mano e tanto per rompere il ghiaccio:
«Ciao belle!»
Una di loro risponde
con accento straniero:
«Chi è la più bella?
Magda, che sono io, o mia sorella Beata?», scherzando con fare vanitoso.
Mi gratto la testa e le
esamino attentamente per cercare tra loro la minima differenza ma invano, perché
sono del tutto identiche: stessi occhi chiari, stessa bocca sottile e naso
pronunciato, uguale ventre piatto, uguali gambe lunghe e piedi scalzi.
Per attirare la mia
attenzione la sorella, Beata, fa scorrere le mani su e giù lungo le cosce
slanciate:
«Scegli me, sulla
gamba destra ho un bellissimo neo che lei non ha».
I lineamenti di Beata
mi sembrano atteggiati in un'espressione leggermente più dolce, ma non riesco
proprio a decidermi.
«Allora chi è la più
bella?» incita di nuovo Magda e mi strizza l'occhiolino.
«Magda» rispondo
frettolosamente per trarmi d'impaccio.
«Oh, ti ringrazio di
avermi preferita, ma dimmi, cosa ho di più bello rispetto a mia sorella?»
«Il tono della voce»
concludo, e in vero ha la sonorità limpida e squillante dell'argento.
Regno di Danimarca?
Contea d'Olanda? Langravio di Turingia? Da dove arrivano queste due sirenette?
«Siamo sveve, - spiega
Magda mentre le accompagno lungo la piazza - nostro papà ha fatto il servitore
alla corte pugliese. Lui sa parlare in siciliano, in arabo e in greco. Abbiamo
abbandonato la corte in cerca di fortuna appena è morto Federico II».
«Che cosa? Federico II
è morto!»
«Ma dove vivi, sulla
luna? E' morto ancora il 13 dicembre del 1250».
Rimango confuso e
sconvolto, crollo a sedere sui gradini della basilica. Io che un tempo ero
l'uomo più aggiornato della Piazza ora non so nulla di un avvenimento del
genere: il trapasso dell'Imperatore della Fine dei Tempi.
«Come è morto?
Avvelenato dai Milanesi?» balbetto.
«Un suo medico arabo
ci ha detto che è morto di dissenteria».
Dunque queste due
mocciose frequentavano la corte imperiale. Le tempesto di domande:
«Voi potevate vedere
di persona l'Imperatore?»
«Certo, aveva un
fisico striminzito, la faccia tutta rossa e la testa pelata» risponde Magda.
«Va be’ che cosa
c'entra, era un uomo di fine intelligenza e viveva attorniato da una schiera di
saggi e di filosofi».
«Come no, - continua
Magda - c'era quel pazzoide di Scoto, mago e indovino, traeva auspici sul futuro
anche dagli starnuti. Secondo i suoi calcoli astrologici la vittoria su Parma
era una cosa più che scontata ed infatti... è stata la peggiore batosta di
Federico II, la Lega Lombarda gli ha portato via l'intero tesoro imperiale,
compresa la corona di gemme».
Aggiungo serio:
«Comunque si dice che
l'Imperatore abbia scritto di suo pugno un libro di falconeria, aveva una grande
passione per l'arte dell'andare a caccia di uccelli».
"Perché
sorridete?»
«...a caccia di
uccelli senza piume, tipo quelli dei valletti saraceni» e scoppiano a ridere.
Le ore scorrono veloci
in loro dolce compagnia e verso sera le gemelle mi trascinano in una tipica
taverna dell'isola. La taverna Phanes ha la facciata ricoperta di edera e
smilace e ai lati dell'ingresso due grossi cespugli di mirto diffondono la loro
fragranza sullo spiazzo antistante. All'interno è zeppa di gente. Musici
indiavolati stanno scandendo ritmi ossessivi al fragore di cembali, campane e
tamburelli, ma dopo un po' alternano un accompagnamento di flauti e cominciano
ad intonare dei cori pieni di passione e variazioni, oscillazioni e confusione.
Al tavolo le gemelle ordinano del malmsey. Un vino dolce, robusto e quasi
liquoroso.
Spavaldo alzo il
calice:
«Brindiamo a Bacco!»
urlo per farmi udire in mezzo a quel rumore assordante.
Beata mi sta osservando
mentre bevo un calice dopo l'altro:
«Attento, il vino è
un veleno che annebbia la mente».
«Baccus dulce
venenum. Alla giusta dose il veleno si trasforma in farmaco» preciso in
tono cattedratico.
«E tu da cosa dovresti
guarire?»
«Dalla secchezza delle
fauci» ribatto.
Le gemelle si stanno
divertendo. In quanto teutoniche mi aspettavo di trovare in loro un carattere
freddo e distaccato invece, forse addolcite dal clima mediterraneo, sono sempre
più allegre e scherzose e non fanno altro che ridere a crepapelle per ogni
stupidaggine che dico. Passo a simulare l'omaggio di un vassallo al suo signore
e metto le mie mani giunte entro le loro:
«Nobili fanciulle io
divengo uomo vostro».
Magda mi consegna il
suo anello:
«Ecco a te l'oggetto
dell'investitura».
Mi infilo l'anello:
«Ordinate pure, sono
pronto a qualsiasi impresa pur di rendervi servizio».
Magda punta i gomiti
sul tavolo e fissa in aria indecisa:
«Oh gentil cavaliere,
più o meno dovrai mutare il corso del Meno, e noi ti daremo le nostre grazie in
beneficio».
«Le vostre grazie?»
«Sì, in cambio ti
daremo tutto quel che vuoi» dichiara Magda pimpante.
«Proprio tutto? Anche
quel feudo di praticello soffice soffice, quel bel triangolino che avete in
mezzo alle cosce?»
«Certo. Perché no»
rispondono in coro.
«Starò ai patti, -
sempre più arrapato - ma come posso mutare il corso del Meno se non mi
specificate i termini della sottrazione?»
Le ragazze scoppiano a
ridere:
«Il Meno è il fiume
che passa per Francoforte, nel Regno di Germania».
Faccio una smorfia
incassando il tiro:
«Non voglio irritare i
vostri compatrioti deviando loro il fiume, vi prego concedetemi un'altra prova?»
E' la volta di Beata:
«Dovrai rubare per noi
il chiarore della luna» e di nuovo a ridere.
«Ho capito ho capito,
mi chiederete di volare come uno stornello o di catturare per voi il cinghiale
bianco, tutte cose impossibili. Ma non importa, anche se non avrò i vostri
favori mi accontento della vostra compagnia. Mi piace ogni cosa che fate».
Beviamo come spugne,
specialmente io, pur noto a Venezia come irrecuperabile e incallito astemio. Sì,
in effetti solo nelle grandi occasioni mi azzardavo a bere sì e no mezzo
calice, l'ultima volta fu tre mesi fa in compagnia di Zagreo. Dunque non sono
affatto abituato al vino e a reggerne l'abuso e ben presto vengo colto
dall'ebbrezza.
Una delle gemelle si
alza dalla sedia, fa il giro del tavolo e viene a sedersi seriosa accanto a me:
«Cavaliere, esigo da
te un comportamento franco. Certo, io percepisco il tuo carattere generoso e
retto, apprezzo il tuo modo delicato, ma ti voglio più sicuro, più persuasivo
nella condotta, disinvolto senza per questo diventare sfacciato, e sempre
sincero, aperto, schietto».
«Sarò sempre franco».
Poi si strofina sul mio
fianco e mi profferisce languide proposte amorose:
«Mio bel cavaliere,
questa notte mi concederò alle tue brame ma devi giurare fedeltà a me sola».
«Lo giuro».
«Giura di non toccare
mia sorella».
«Lo giuro sul mio
onore».
Al che scatta via dal
tavolo rapita dalle note di una melodia che conosce, raccoglie la sorella e va a
ballare al ritmo vivace dei musicanti. La gente fa largo e batte il tempo con i
piedi, applaude l'eleganza e le movenze del loro ballo di corte, una estampida.
Dopo un po' ritornano al tavolo, la gemella si siede sulle mie ginocchia a
rinnovare carezze e segnali di disponibilità amorosa, poi raccomanda:
«Sarai ligio al
giuramento di fedeltà?»
«Sì, mia Signora».
«Allora toccami la
tetta, nobile cavaliere» mi prende la mano e se la porta sul seno.
«Ma tu chi sei? Sei...».
L'altra gemella mi
canzona gongolandosi sulla sedia:
«Vassallo fellone,
vassallo fellone. Avevi giurato fedeltà a me sola!»
Brillo com'ero avevo
smarrito la facoltà di distinguere fra loro le gemelle. Magda e Beata se
n'erano ben accorte e continuavano a giocarci sopra alternandosi sulle mie
ginocchia ed ogni volta che mi azzardavo a chiedere loro il nome rispondevano
ora giusto ora l'inverso. Le gemelle erano l'una l'esatto specchio dell'altra e
più mi applicavo a discernere l’identità di ciascuna, più mi ritrovavo con
le idee confuse. Il colpo di grazia fu l'acquavite all'anice, liquore che assume
un aspetto lattiginoso allungato con l'acqua. Ci eravamo alzati tutti e tre e
ballavamo saltellando con le braccia alzate, arcuando il corpo e rovesciando la
testa all'indietro. Le due sorelle mi ruotavano intorno ancheggiando rapide in
una specie di trance, la musica le aveva invasate. Le osservavo incantato, con
gli occhi lucidi vedevo sdoppiarsi le linee dei loro fianchi. Sorridevano,
ciascuna aveva due volti e le gemelle erano diventate quattro. Un ritmo
primitivo echeggiava sempre più forte, mi entrava dentro irresistibile come una
lama di cristallo, la risonanza mi faceva vibrare da capo a piedi, mi dissolveva
in uno spazio etereo lontano e irreale, eppure ballavo con entusiasmo e con una
carica mai avuta, un'energia animale mi scuoteva le membra, mi sembrava d'essere
lanciato come una pantera nella notte.
Ma le gambe in realtà
non mi reggevano e inciampavo e riaccendevo le risa isteriche delle gemelle,
mantenevo a fatica l'equilibrio e le gemelle mi avevano dato un'asta e aveva una
pigna in cima e così subivo lo scherno dell'intera taverna... poi senza
preavviso un brivido che mi fa accapponare la pelle e mi drizza i capelli, una
strana vertigine e cado a terra riverso privo di sensi. Una gemella mi prende
per le braccia e l'altra per i piedi, di peso mi portano in un letto della
locanda e mi lasciano abbandonato nel sonno.
Il mattino dopo: brusco
risveglio. Ho riacquistato la facoltà di distinguere fra loro le gemelle, la
luce del giorno ha rotto l'incantesimo.
* * *
Continuando a
frequentare assiduamente le gemelle, il mio cuore e le mie attenzioni oscillano
di giorno in giorno dall'una all'altra finché mi impongo fermamente di
corteggiarne una sola, per non correre il rischio di perderle tutte e due.
Quale? Ho deciso per Magda. Il guaio è che Beata non si allontana un istante
dalla gemella e le sta perennemente attaccata alle costole! Architetto quindi un
piano per separarle e solo a Magda propongo una gita amena al boschetto sopra il
lago di Vulisméni, un lago curioso perché ritenuto senza fondo nella
tradizione del luogo.
Ma sul crocicchio
dell'appuntamento trovo al suo fianco l'immancabile sorella. Ci incamminiamo in
tre. Fra il profumo di corteccia sospinto a tratti dalla brezza calda e umida
del lago, il sentierino si inoltra nella macchia, folto intrico di bassi arbusti
di quercia spinosa dai fusti tortuosi e dal denso fogliame.
Un vento leggero agita
le foglie irte di aculei generando un fruscio musicale che attira l'attenzione
di Magda:
«Però prego l'Amore
che mi'ntende e mi
svoglia
come la foglia vento».
«Bella, cos'è una
poesia?» chiedo.
«Una canzonetta di
corte».
«Ehi, la scuola
siciliana dell'Amor cortese».
«Allora conosci
Rinaldo d'Aquino, Iacopo da Lentini?» replica sorpresa.
«No».
Prossimi alla cima di
una bassa collina possiamo ammirare il lago sottostante, comunica con il mare
attraverso uno stretto canale. Il posto ci piace per cui, nascosti dalla macchia
e riparati dal vento, ci sdraiamo in una piccola radura erbosa.
«Che lavoro fai -
chiede Magda -, sei per caso un piede polveroso?»
«No, non sono un
mercante, sono artigiano. Faccio il mosaicista alla Basilica d'Oro».
Beata mi fissa in viso
ed esclama:
«Oh, un artista
veneziano! Allora il codino dietro i capelli è il segno distintivo di quelli
come te?»
"Sì, è il segno
distintivo di coloro che non rinnegano ciò che hanno alle spalle, cioè
il passato della loro gente. L'anima artistica del mio popolo vive come un sogno
profumato nel cuore di chi come me non ignora le proprie radici, è il sogno che
Federico II voleva distruggere tutte le volte che ha cercato di cancellare le
nostre prerogative. Egli ci invidiava il valore immenso dei tesori custoditi a
Venezia, non capiva che il vero valore di quelle opere non è nell'oro o
nell'argento in cui sono forgiate ma nel segno che l'artigiano vi ha lasciato
nel tempo» rispondo compito rivolto a Beata.
Magda per dispetto mi
scioglie i capelli strappando il nastro che li teneva insieme alla nuca. Per
ripicca mi metto a disfare le sue trecce e si accende subito la lotta a
cavalcioni l'uno sull'altro. Magda si difende bloccandomi i polsi con forza
insospettata, riesce a divincolarsi e si alza. Fa finta di aver abbandonato ogni
resistenza, sta ferma in piedi con le braccia conserte. Allora mi piazzo davanti
a lei e finisco con calma di sciogliere il nodo a una treccia già mezza
scomposta.
Magda mi coglie di
sorpresa:
«Artista da strapazzo!»
e mi sferra una gran ginocchiata in mezzo alle cosce.
Saltello goffamente dal
dolore e infine crollo sull'erba. Mi ritrovo disteso sull'euforbia vicino un
gruppo di narcisi, petali bianchi e coroncina gialla al centro. Magda si sdraia
al mio fianco, scompone da sola le trecce e libera la sua chioma biondissima. Le
sfioro teneramente i capelli ed ella contrae le labbra e socchiude gli occhi ad
ogni passaggio della mia mano. Intanto spio Beata con la coda dell'occhio per
vedere se capisce la situazione e magari si allontana per un po'. Invece no,
Beata fa finta di non vedere, non vuole saperne di mollare la gemella. A 'sto
punto gioco il tutto per tutto e incurante di ogni riguardo comincio a baciare
Magda sulla bocca. Beata, imperterrita, è sempre lì seduta, dura come un
bastone, con un'espressione indifferente e forse solo un po' imbronciata. Mi
assale un sussulto di rabbia. In aperta sfida sfioro il seno di Magda e lo
spremo fin quando gli strappo un gridolino di sorpresa. Beata si alza di scatto
e sparisce a grandi passi dietro la collina, finalmente soli.
Magda allontana piano
la mia mano e mi sussurra che è vergine.
«Conosci il bacio alla
sveva?» mi chiede eccitata.
«No, com'è?»
«Metti la lingua
dentro la mia bocca».
Eseguo e Magda inizia a
mordicchiare dolcemente la mia lingua.
Poi tocca a me
chiedere:
«Conosci il bacio
dell'ape maia?»
«No, com'è?»
«L'ape maia si posa
sulla corolla del fiorellino e gli lecca tutto il nettare, vibrando su e giù la
linguetta sul pistillo e poi passandola petalo per petalo».
«Dai fammi provare».
A labbra tese e serrate
imito il ronzio di un'ape e oscillo il capo mentre le sollevo delicatamente la
gonna colorata di rosa. Quindi scendo a trasmettere la vibrazione alla sua
pelle, ronzando scorro le labbra a contatto della coscia, liscia e glabra fino
alla piega dell'inguine, anch'essa glabra poiché il ciuffetto di peli è
spostato verso il centro. Poso la bocca sulla fessura, è incollata da una
patina umida e la apro con la punta della lingua, poi scendo leccando fin dove
la vulva finisce in basso e risalgo ritmando ogni passaggio sul bottoncino del
clitoride.
Magda è attraversata
dalla sorpresa per le nuove sensazioni che nascono dal suo corpo ed ha sul viso
un'espressione attenta e attonita. A tratti irrigidisce il tronco, contrae le
natiche comandata da un impulso irrefrenabile e spinge il pube contro il mio
mento. Alla fine si solleva dal suo letto di euforbia e rimane seduta in
silenzio. Le chiedo se le è piaciuto. Fa cenno di sì con il capo, mi guarda
seria per un attimo, poi sorride e abbassa la testa con delicatezza, come i
narcisi che chinano la corolla pendula.
E Beata, dove sarà
mai? Una lieve preoccupazione mi distoglie dallo stato di esuberante
spensieratezza. Ordino a Magda di aspettarmi sul posto mentre vado a cercare sua
sorella. Cammino lungo il sentiero per una abbondante decina di minuti. Non la
vedo. Ma dove si è ficcata? Supero l'apice della collinetta, inizio la discesa
e finalmente la trovo con le ginocchia fra le mani accovacciata sotto una
quercia.
«Scusa, - accenno fra
l'imbarazzato e il pentito - ti stavamo cercando, perdonami per prima».
«Non fa niente. Io e
mia sorella ci capiamo, non c'è problema». Sospira, si alza in piedi davanti a
me e mi fissa acutamente negli occhi con la bocca socchiusa.
Mi sento di nuovo
confuso e disorientato, le gemelle si somigliano in tutte le loro scelte e forse
anche nella preferenza per lo stesso ragazzo. I suoi occhi chiari mi stanno
persuadendo che attraverso Magda in fondo non ho fatto altro che accendere un
interesse sopito per lei o forse la preferivo fin dall'inizio e vittima di una
scelta affrettata non trovavo il coraggio di ammetterlo.
La sua dolcezza mi
riconquista piano piano, ma irresistibile. Beata mi fa un sorriso così tenero
che il cuore mi scoppia nel petto, attraverso i suoi tratti adolescenziali mi è
ora manifesto l'impenetrabile mistero di una giovinezza che si fa eterna nella
sua bellezza. Poso la mia sulla sua fronte pura, col corpo la premo contro la
quercia, le stringo le trecce nei pugni, m'irrigidisco nel tentativo estremo di
arginare un fiume in piena. D'impulso la bacio sulle labbra e assaporo dalla sua
bocca il gusto genuino della felicita ritrovata.
Dopo un po' torniamo
dalla sorella rimasta sul posto ad attenderci. Alla vista di Magda non riesco a
nascondere il turbamento che mi rode. Magda e Petrangésio, Beata e Petrangésio,
di nuovo Magda e Petrangésio, che giri di ballo. Questa volta mi pare sia Magda
ad essere imbronciata come se avesse letto l'accaduto negli occhi miei e di sua
sorella.
E' già l'ora di
rincasare. Sulla via del ritorno le gemelle confabulano fra loro in un idioma
incomprensibile, non è tedesco - mi spiegano sbrigativamente - ma un dialetto
normanno di origine norvegese, lingua materna ereditata dai loro avi che svevi
in realtà non erano. Intuisco che Magda chiede qualcosa alla sorella, questa
annuisce con la testa e continua a fissarmi con la coda dell'occhio. Non sono
mai stato così imbarazzato in vita mia.
Ad un certo momento
Magda mi afferra per un braccio e mi dice all'orecchio senza tanti preamboli:
«Domani faremo l'amore
insieme io te e mia sorella, lei mi ha detto che è d'accordo».
Davanti all'inaspettata
dichiarazione uno stupore muto rimane stampato sul mio volto, chi si immaginava
che le ragazze della corte imperiale fossero così disinibite.
Comincia ad imbrunire,
le accompagno a casa tenendole entrambe sottobraccio. Magda ha ritrovato il suo
buon umore e intona per me una canzonetta:
«Ohi! e non dovrà più
splendere nella notte
più candido che neve
il corpo suo ben fatto?
Tanto m’ingannò
l'occhi
da crederlo il chiarore
della splendente luna.
Ahimé, il giorno
spunta...».
Siamo arrivati. Le
saluto e torno al mio albergo. Fare l'amore con due ragazze è un'idea
estremamente eccitante e mentre mi rigiro insonne nel letto la mia fantasia si
scatena ad immaginare i modi e le varianti più idonee per misurarmi con quelle
due sirenette. Nell'intreccio voluttuoso dei corpi, gioco con i grossi capezzoli
di quattro tettine a punta, sode e dure da star dritte anche a schiena distesa.
Mi aggroviglio con le loro cosce lunghe e tornite, sento tante dita affusolate
sulla mia pelle, godo delle loro lingue che si alternano nella mia bocca e sul
mio sesso. Un simile turbinio di pensieri mi provoca un sonno breve e agitato,
le due ragazzine mi hanno sconvolto la ragione, sono totalmente in loro balia,
sballottato in un'altalena di emozioni incontrollabili. Avevo creduto che
fossero psicologicamente un po' fragili, per via del loro essere gemelle, ed
invece il più vulnerabile sono io, tanto che temo di toccare la soglia della
follia. Perché ho paura di due innocenti maliziose fanciulle? Nell'Isola che
non c'è, due dolci vergini hanno teso l'insidia della loro rete da caccia ed io
sono finito intrappolato nel potere suggente delle sue maglie invisibili.
All'alba si installa
nella mia mente un richiamo prepotente che credevo avere scordato: la signora
dell'ultimo di Carnevale. Convinto di sottrarmi al sortilegio delle due ninfe e
di ritrovare il senno perduto, decido improvvisamente di partire alla volta di
Archanes. Interminabili piantagioni di ulivi riconsegnano alla pace il mio
spirito.
* * *
Archanes fa parte della
regione costiera del sestriere di San Polo, uno dei sei sestrieri in cui è
stata suddivisa l'isola al pari di Venezia. Il paesello è adagiato al centro di
lievi colline ricoperte di basse vigne rinomate per l'uva da tavola. Semplici
case in muratura imbiancata occupano il fondovalle e gli scoscesi pendii. Su di
una altura prospiciente, chiamata Fùrnu Korifì, c'è una ripida scalinata che
porta ad un nucleo disabitato formato da un centinaio di stanze in pietra
collegate fra loro da corridoi in muratura. Sono le rovine di un popolo
sconosciuto e infondono al luogo il fascino arcano.
Evidentemente, in mezzo
alle casupole dei popolani greci una villa patrizia non può certo passare
inosservata, il che rende fin troppo facile rintracciare la ragazza della
famiglia Orseolo. Ecco che dall'unico elegante palazzo del centro esce una
giovane aristocratica: ha la sua altezza e la sua camminata, è veneziana, è
lei!
Il cuore mi batte
all'impazzata, le faccio subito un inchino, mi avvicino per vederla meglio da
presso e incautamente le poso lo sguardo sul petto in cerca della spilla
d'argento. Irritata, sprezzante, la ragazza passa oltre senza degnarmi di uno
sguardo, le leggo in volto quella solita manifesta ripugnanza che le nobili
riservano agli uomini di categoria inferiore.
No, forse mi sbaglio,
gli occhi sono chiari ma non abbastanza, non sembrano i suoi, sarà meglio
chiedere informazioni in giro. Entro nella locanda del centro, l'oste è
veneziano sicché mi è sufficiente interpellarlo per ottenere informazioni più
precise. Il palazzo degli Orseolo è in realtà nelle vicinanze del mare, un po'
appartato rispetto al centro.
Edificato secondo lo
stile delle ville venete, possiede classiche finestre ogivali che in quel clima
assolato svolgono alla perfezione il loro compito di proteggere dalla luce
eccessiva. I muri sono spessi. Il secondo piano ha una terrazza orlata di merli,
il terzo piano si riduce ad una piccola torre fortificata. Il muretto di pietra
che circonda il parco della villa è interrotto da un cancello abilmente
lavorato e sorretto al lati da due colonne gemelle. I loro capitelli in stile
ionico terminano con volute a spirale e portano scolpita la vocale Omega, ultima
lettera dell'alfabeto greco ed iniziale di Orseolo.
Prima di varcare la
soglia ho un attimo di perplessità. Non vedo l'ora di dare un volto a quella
sconosciuta ma nel contempo avverto il pericolo possa andare perduto l'alone di
fascino che l'ha avvolta finora. Non voglio infrangere un sogno che ho coltivato
con amore dentro di me: l'ho trasformata in una eterea creatura della mia mente,
l'ho immaginata nelle sembianze di una superba regina ed ora, nell'imminente
confronto con la realtà, temo di compromettere tutto.
Rompo ogni indugio,
prendo coraggio e supero il cancello, nel prato interno due lepri si rincorrono
veloci. Percorro il sentiero ombroso del parco e poi tra i gigli e le erbe
profumate proseguo in un giardino, costeggio al suo centro la fontana dei pesci
e infine, sotto i rampicanti, vado a bussare al portone d'entrata.
Al socchiudersi
dell'uscio appare lei, la ragazza dell'ultimo di Carnevale e non può essere
altri che lei, con quegli occhi celesti dolci come il miele, inconfondibili. Però
la pensavo più giovane, avrà un ventidue anni, ha il colorito un po' pallido
ed i capelli dai riflessi rossicci. In effetti me l'immaginavo assai più bella
di quel che non sia e devo ammettere che pur nella gentilezza dei lineamenti...
sopracciglia sottili, collo candido e bocca ben disegnata sopra la fossetta del
mento, ella ha un viso comune a tante altre ragazze veneziane.
Finalmente ho scoperto
chi si cela dietro la maschera bianca decorata dal fregio e abbellita dalle
pietre preziose; lei al contrario non mi ha riconosciuto, non può immaginare di
avere ora davanti a sé l'uomo della maschera di cuoio nero.
La nobile ha dei lunghi
capelli cinti alla fronte da una coroncina d'argento adorna di perle e porta una
tunica bianca in fine e sottilissimo cotone di Bucherame; sopra, indossa un velo
roseo, avvolto intorno al corpo come un mantello per coprire ciò che la tunica
trasparente lascerebbe troppo facilmente intravedere. Nell'atto di scostare la
tenda dal portone la mantellina scivola un po' dalle spalle e scopre
un’instante la tunica, quanto basta per riconoscere il profilo gonfio dei suoi
seni: la tunica è così aderente da recare la delicata impronta dei capezzoli
ed il cordone legato appena sotto le ascelle non fa che evidenziare le rotondità
di cui vedo in trasparenza le belle linee.
Mi sento sopraffare,
vacillo come sotto l'urto di un'onda troppo vasta e per alcuni attimi una densa
oscurità occupa la mia mente. Sono sull'orlo di cedere, quando una compiacente
espressione dei suoi occhi suscita in quel buio una scintilla:
«Signora gentile, sono
un veneziano appena giunto con la carovana di primavera e cerco lavoro come
maggiordomo. Ho saputo dall'oste che la vostra illustre famiglia è qui da poco
tempo. Immagino abbiate già trovato servitù greca a sufficienza, ma suppongo
che vi manchi un maggiordomo, una sorta di siniscalco atto a coordinare e a
stimolare i vostri sottomessi per ottenerne la massima efficienza. Solo un
veneziano con la mia esperienza può fare al caso vostro. Nobile Donna, io vi
prego, accettate il mio servizio».
«Se ne può parlare,
entrate pure».
Mi pare di varcare le
porte del paradiso, la cosa promette bene, troverò lavoro e chissà, forse il
suo amore.
Entriamo in un ampio
soggiorno affrescato con scene marine e ci fermiamo al cospetto di una nobile
d'una certa età, una cinquantenne esageratamente obesa, quasi più larga che
alta, sprofondata nei cuscini di una possente poltrona ornata ad intaglio. Ha la
faccia a luna piena, un po' di peli al labbro superiore e la gobba di un bufalo.
Regge fra le mani un rosario d'argento e subito comincia a sfogarsi mentre sto
in piedi compunto ad ascoltarla:
«Un veneziano! Ah, il
clima di quest'isola maledetta mi rovinerà l'esistenza, fa già troppo caldo,
in giardino c'è un'afa insopportabile, mi obbliga a starmene in casa all'ombra.
Tu sapessi, la calura mi provoca una sete inestinguibile e l'eccesso di luce mi
fa calare la vista, faccio sempre più fatica a ricamare i panni d'altare per la
chiesa».
Quando infine mi
concede la parola apro la bocca per proporle la mia offerta di lavoro, ma la
giovane mi previene:
«Si è offerto di fare
il maggiordomo per noi».
La matrona mi squadra
allibita, sicché rimango muto e impacciato mentre ella va assumendo un contegno
distaccato e un tono pieno di superbia:
«Sei troppo giovane
per fare il maggiordomo, ti manca sufficiente autorità per comandare i greci a
bacchetta, possediamo trenta famiglie di contadini tra il grande vigneto di
Vathypetro e tutti gli oliveti di nostra proprietà. Quella marmaglia non ha
voglia di far niente, ogni volta che si ordina qualcosa ci mettono il doppio del
tempo. Per non parlare delle domestiche greche che non sanno nemmeno
apparecchiare la tavola. Puah! Per fortuna siamo state previdenti, noi qui
abbiamo una lavandaia, un sarto e un cuoco che sono veneziani... come pure
Putiferio, il nostro fedelissimo servitore che ha l'incarico di custodire la
stalla e di controllare stoviglie e candele. E' un ragazzo veramente serio,
nonostante il soprannome».
La matrona ridacchia
sotto i baffi e si gira indicando alle sue spalle un servitore paffuto e mezzo
pelato benché giovane, con l'occhio porcino, le sopracciglia rade e
l'espressione sonnolenta e amimica di uno che si sia appena alzato dal letto.
Intuisco che il soprannome del servitore afferma il contrario della sua natura,
il suo aspetto esteriore non evoca per nulla un putiferio, la fastidiosa
confusione creata da persona che urli scompostamente, bensì evoca una
tranquilla e silenziosa impassibilità.
«Tu invece chi sei?-
riprende a dire la balena - Il primo venuto, un illustre sconosciuto che viene a
bussare alla porta! Non credere che fare il maggiordomo qui da noi sia semplice,
nient'affatto, il lavoro è raddoppiato perché manca mio figlio. E' via per
lavoro e non tornerà prima di 40 giorni. Bel tipo anche quello. Mica si
accontenta di aver appena ricevuto un piccolo feudo, e non gli basta avere il
magazzino pieno di tessuti... macché, deve mettersi a trafficare con i carichi
di allume. Ci occorre l'allume per fissare da noi i colori sui tessuti
dice lui, e così ne inventa un'altra di nuova per svignarsela, invece di
rimanere qui a pensare alla famiglia. Non ha fatto in tempo a posare piede a
Candia e organizzare il feudo in fretta e furia che ha voluto subito ripartire
con un convoglio, ha detto che non poteva perdere l'occasione, a Bisanzio
lo aspettava un carico di allume. Per conto mio vuol fare troppe cose insieme e
finisce per trascurare sua moglie, una Cornaro poi».
Ahi, ahi... sua moglie.
Ma allora è sposata, questo complica le cose. Comunque sia, insisto:
«Proprio per l'assenza
del padrone vi è utile un maggiordomo di fiducia. Vi sarà più facile istruire
e addomesticare il personale, sorvegliare la qualità dei pranzi ed assumere
messaggeri per portare le lettere. Potrei aiutarvi a calcolare meglio i profitti
e le tasse, a controllare i raccolti, la compravendita delle merci, la
riparazione dei carri, il modo di uccidere il bestiame e di curarlo».
«Onestamente ha
ragione - interviene la giovane alzando un po' il tono -. In sostituzione di
vostro figlio, la responsabilità di amministrare il feudo pesa unicamente su
noi due e fra poco verremo sopraffatte dal carico di faccende se non riusciamo a
demandare una parte degli incarichi. Voi non uscite mai di casa però a me tocca
girare ogni momento per i terreni, ieri ho dovuto interessarmi personalmente
perfino per ingrassare le ruote di un carro, lo sapete pure che i contadini non
muovono un dito se non sono costretti».
La suocera appoggia il
mento sul palmo della mano e indecisa riflette sulle argomentazioni appena
udite. Ne approfitto per rincarare la dose:
«I villici conoscono
mille trucchi per imbrogliare il padrone con falsi pesi e false misure, tutti
conoscono la sordida guerriglia del contadino greco che sabota le corvè, ruba
nei campi di nascosto e fa il bracconiere nelle riserve del signore».
La giovane:
«Dobbiamo pur
difenderci da simili razzie!»
«E va bene, Rézia, lo
assumiamo. Lo terremo in prova fino al ritorno di mio figlio, visto che non sarà
possibile informarlo per lettera della nostra decisione».
«Vi ringrazio nobili
Signore, lieto di pormi al vostro servizio».
«A proposito come ti
chiami?» mi chiede Rèzia.
«Delfino».
Per la circostanza ho
tirato fuori il mio secondo nome, non lo uso mai e quasi nessuno lo conosce, mi
è venuto in mente osservando la parete del soggiorno: sull'affresco appena
sopra la porta compaiono cinque delfini azzurri che nuotano in un mare
lattescente e pescoso.
* * *
Un paio di settimane
volano via senza che giunga l'occasione propizia per rivelare alla padroncina la
vera identità della mia persona.
Pur avendo accettato la
mia assunzione la signora Orseolo ha costantemente alcunché da ridire intorno
al mio operato, e forse a ragione, poiché in effetti pratico un mestiere frutto
di improvvisazione. Per fortuna la Cornaro preferisce credere che quelle
lamentele siano espressione del carattere petulante e brontolone della suocera
piuttosto che della mia inesperienza. Nonostante le molte gaffes, ottengo stima
e collaborazione da parte dei servitori perché li tratto umanamente e con
rispetto, tutti quanti, compresa la giovane schiava berbera che proprio per
questo mi si è affezionata. Solo con Putiferio è impossibile stabilire una
intesa, diffidenza e sotterranea ostilità nascono in lui dall'invidia e dal
risentimento verso di me perché si ritiene defraudato dalla mia intromissione.
Comunque nel complesso le varie faccende vanno in porto e la padroncina mi ha
dimostrato la sua piena fiducia mettendomi nelle mani le chiavi della villa.
Una sera la Cornaro mi
manda a chiamare mentre è sola nell'ampia terrazza merlata, vuole lasciarmi
delle disposizioni. Salgo in fretta le scale e la trovo seduta ad attendermi.
Indossa un vestito alla moda tutto blu e ricamato di stelle, ha lo strascico e
lunghissime maniche che scendono dai polsi fino a terra. Una cuffia di lino
ricamato le raccoglie i capelli con l'ausilio di una reticella metallica che
all'altezza delle tempie sale in alto e in fuori con due protuberanze a
semiluna. La scollatura squadrata è poco ampia. La sua pelle è quella di una
principessa, lucida e bianca, colorito che serba gelosamente umettandosi la
pelle con il latte di asina e rinfrescandola con la rugiada che i servi le vanno
a raccogliere all'alba.
Mi accoglie con un
accenno di sorriso:
«Devi portare pazienza
per le lamentele della signora Orseolo, non è mai contenta di nulla. Ho fatto i
conti delle spese e delle entrate registrate e ho constatato che le cose non
vanno poi male».
«Faccio del mio meglio»
rispondo con un inchino.
«La Orseolo è
asfissiante con il suo bigottismo, pensa che ha convinto mio marito a cedere un
quarto del feudo alla Chiesa, tutto per avere la sicurezza di un posto in
paradiso».
«E' una Signora molto
generosa, fa spesso l'elemosina ai poveri» ma Rézia sembra non aver udito.
«In che sestriere
abitavi a Venezia?» sussurra in tono d'intesa.
«A San Marco. Avete
forse nostalgia di Venezia?»
«Sì un po' - e
sospirando si gira per sottrarre alla mia vista la sua espressione rabbuiata
-.Qui mi annoio, non ho amiche, - si confida - ho perso perfino la compagnia
della mia serva prediletta, piuttosto che rinunciare al suo fidanzato per venire
a Candia ha preferito licenziarsi».
«Perché non visitate
l'isola, è stupenda!»
«Viaggiare è
pericoloso, non mi fiderei nemmeno della mia scorta».
«Organizzate qualche
festa nella villa...».
«Mio marito non vuole
gente per casa, è selvatico e scontroso, e che altro potrebbe essere uno che si
chiama Orso Orseolo» conclude concitata.
«Vostro marito avrà
pur ricevuto visite quando abitavate a Venezia?»
«Beh, un paio di
amici, facevano interminabili partite con quei maledetti scacchi di ebano».
«Ma allora come
passavate le vostre giornate nella capitale?»
«Segregata nelle mie
stanze, perennemente reclusa come una monaca nel chiostro, non uscivo nemmeno
per andare a messa perché gli Orseolo possedevano una cappella all'interno del
palazzo. Passavo l'esistenza a cucire, a leggere salmi e a guardare dalla
finestra le gondole che passavano. L'unica cosa che mi dava un po' di conforto
era la lettura di un libro...».
«Che libro?»
«Il romanzo di
Alessandro Magno, il condottiero che ha conquistato le terre del Levante fino ai
confini con le Indie. Trainato da due grifoni, ha esplorato il fondo dei mari e
le meraviglie dei cieli».
«Ah sì, il
bassorilievo della facciata nord della Basilica d'Oro, Alessandro sul carro
trionfale e i grifoni che intrecciano le code» esulto.
Ma dato che mi guarda
in modo strano, cambio discorso:
«Avevate altri libri?»
«No».
«Non avevate un
laboratorio di telai? E' un buon diversivo per le nobili stare a capo di quegli
ambienti di sole donne, se non altro per chiacchierare con le filatrici».
«Sì lo avevamo».
Riprende contrariata:
«Mi sarebbe piaciuto
comandare il telaio, ma mio marito ha lasciato a sua madre l’esclusività del
compito».
«E voi non vi siete
ribellata?»
«Lo sai bene che è
inutile ribellarsi, l'uomo è il padrone della donna».
«Perdonatemi se vi
faccio troppe domande. Ma ha forse qualche rancore contro di voi?»
«Sì, forse».
«Dite, se potete».
«Non gli ho dato
ancora una discendenza, sebbene si sia sposati da molto. Avevo dodici anni
quando ho celebrato le nozze».
«E' il minimo
consentito dalla Chiesa».
«Lo so, fu per volontà
dei miei genitori».
Si alza in piedi e va
verso il parapetto della terrazza. Nel grazioso incedere solleva appena la gonna
con la mano, ha i piedi nascosti dallo strascico ricamato di stelle sicché
sembra scivoli leggera sul pavimento, senza muovere le gambe. Si ferma tra i
merli di pietra del parapetto e fissa lontano oltre il mare.
Mi accosto, deciso a
rivelarle la mia identità:
«Noi ci siamo già
incontrati a Venezia, -sottovoce- ma voi non potete ricordare».
«Dove? Hai lavorato
alla festa di matrimonio di mia sorella?» puntandomi gli occhi addosso alla
luce della torcia.
«Ricordate l'ultimo di
Carnevale? La calle ove mi conduceste per mano...».
Rezia arrossisce
confusa e abbassa il capo:
«Oh, eri dunque tu.
Quel giorno avevo perso il gruppetto dei nostri amici, ero completamente ubriaca»
e lo dice con un'intonazione che lascia trasparire, scoperta e vulnerabile,
tutta la sua femminilità.
Le prendo una mano:
«Sono venuto fin qui
per il semplice desiderio di rivedervi, vivo nella nostalgia del breve momento
di felicità che mi avete regalato quel giorno a Venezia, da allora non ho fatto
altro che pensarvi, intensamente. Ho attraversato il mare alla vostra ricerca ed
ora che vi ho trovato, rendo omaggio alla donna nobile e gentile che è in voi».
«Tu sei tutto matto»
esclama ridendo.
«Sarà che mi avete
fatto andare fuori di testa» mormoro fissandola dritto negli occhi.
Lei si morde le labbra
e mi scruta con la coda dell'occhio:
«Per fortuna che non
c'è mio marito, altrimenti ti farebbe scorticare vivo».
«Io ti amo»
accostandomi con la voce carica di emozione.
«Proprio un bel guaio»
annuisce eguagliando il tono della mia voce.
«Oltre, e più
dell'amore, io sono una sola cosa con te, acqua della tua acqua, goccia del tuo
mare».
Rezia mi viene così
vicina che trovo subito la sua bocca da baciare. Oh sì, quanto, quanto! Mai
labbra di donna suscitarono in me gioia più intensa. Era un'emozione
estremamente violenta ed estremamente delicata, sorpreso e incredulo non
riuscivo a capacitarmi per virtù di quale miracolo un bacio, un semplice bacio,
potesse darmi tanto!
Intanto era scesa la
notte e il suo vestito riluceva di stelle come una galassia, candide gocce
sparse in cielo dalle mammelle di una dea. Rezia sorride, abbassa una spallina e
poi l'altra e scopre quelle tette che da mesi sognavo senza posa. Ora posso
sfiorarle con le dita e leccarne dolcemente i capezzoli.
* * *
Eludere la sorveglianza
perpetua dell'intrigante suocera di Rezia non era certo un compito facile e
richiedeva una buona dose di astuzia. Così avevamo preso l'abitudine di darci
appuntamento col buio nel giardino del parco ove restavamo appartati vicino la
fontana, una grande vasca di pietra piena di pesci. La signora Orseolo abitava
al piano superiore, le nostre camere da letto erano invece al pianterreno e
davano sul giardino, per cui, fingendo di andare a dormire, ci era sufficiente
scavalcare le finestre per poterci tranquillamente incontrare nel cuore della
notte.
Nascosti dagli ulivi e
inebriati dal profumo dei cipressi, stavamo comodamente adagiati nell'erba,
stesi sotto i gigli che sembravano vegliare su di noi. I baci di lei erano dolci
come latte e miele e a quella fonte la mia sete non si estingueva mai, più
insistevo ad attaccarmi alla sua bocca più cresceva in me il desiderio di nuovi
baci, e decine e decine di volte tra una carezza e l'altra le dichiaravo il mio
amore.
Una delle ultime sere
di aprile, alzandoci dal prato, ci sediamo sul bordo della fontana. Rézia
indica il centro della vasca e mi confessa quanto la ecciti la Leda col cigno,
una statua marmorea in effetti molto sensuale: vestita solo di una stretta
collana di perle, Leda ghermisce con la mano il lungo collo del cigno e sfiora
con le sue labbra il becco dell'uccello; il grosso cigno dischiude appena le
ali, preme le zampe palmate contro i fianchi di lei e penetra tra le sue cosce
con la coda di piume, in amoroso amplesso.
Ella mi sussurra:
«Vorrei che un mago ti
trasformasse in cigno così potrei imitare Leda e accoppiarmi con te».
«Certo, mentre ti
monto ti farei aria con le ali, quando c'è afa» mimando con le mani uno
sbattere d'ali.
«Mhm, mi piace...
farsi pizzicare i capezzoli col becco, mi fa venire i brividi. Capita anche a te
di avere qualche fantasia erotica?»
«Come no- in realtà
fantasie del genere non me ne venivano mai -. Se il mago potesse trasformarti
nell'acqua della fontana, io vorrei essere mutato in un... pesce palla».
«Un pesce palla? Perché?»
spalancando gli occhi.
«Boccheggia
boccheggia, ti sedurrei con le bollicine d'aria della mia bocca» e gonfio le
guance per fare il gesto del pesce che boccheggia. Ma il mio gesto istrionico
risveglia soltanto le sue risa.
L'argento luccica nella
penombra, è la sua spilla a forma di chiave, quella stessa che Rezia portava al
petto l'ultimo di Carnevale:
«Sono le chiavi di S.
Pietro?» domando per scherzo.
«Sì, io sono la
Papessa!»
Faccio per inchinarmi a
baciarle l'anello ma mi fermo a mezz'aria, colto da un ripensamento:
«Ma non è possibile,
il papa può essere solo uomo, Habet duos testiculos et bene pendentes».
«Non è vero, è
esistita anche una Papessa».
«Quando mai?»
«Dopo la morte di papa
Leone. Si era travestita da uomo ma era una ateniese di nome Giovanna».
«La Papessa Giovanna!
E come andò a finire?»
«Sopraffatta dalla
passione per un diacono restò incinta e un bel giorno... assalita alla
sprovvista dalle doglie partorì in un affollato vicolo di Roma».
«Mi immagino lo
sbigottimento dei passanti, un momento prima fanno ala al suo passaggio, si
inginocchiano supplici e osannanti, poi l'incredibile: a meta vicolo il papa si
sente male apre le gambe e partorisce».
Rezia muta espressione,
si fa seria in volto, ha sentito un fruscio e si gira spaventata. Da dietro un
cespuglio, avvolta in veli traslucidi, sbuca la giovane schiava berbera;
sedendosi fra noi bacia Rézia sulle labbra e poi lievemente la mia bocca.
Ha sentito le nostre
battute sulla Papessa e inizia con parole pacate e vibranti:
«Nella notte dei
tempi, Zeus fu partorito a Candia in una grotta. Sua madre era la madre di tutti
gli dei, la dea suprema che non ha alcuno sopra di lei...»
«Qualcuno avrà pur
generata?» obietto.
«La Grande Dea è
sorta dall'Oceano, sotto le ali nere della Notte».
«Dal nulla».
«Proprio così».
«Dunque l'eterno
femmineo?» accenno.
«Sì, l'eterno
scorrere della sostanza umida».
«Però i ministri del
culto erano uomini».
«No erano donne».
«Donne? La donna, si
sa, può essere solo incarnazione e strumento del diavolo! Chi ti ha raccontato
queste storie?» scandalizzato.
«A quei tempi vigeva
nella società il matriarcato, le sacerdotesse celebravano i loro riti ebbre del
vino dei primissimi agricoltori del Mediterraneo."
«Ubriache» interviene
Rézia.
«Ubriache... e
ballavano al ritmo fragoroso dei tamburi».
«Un ritmo di tamburi
assordanti, come può elevare lo spirito al divino?» obietta.
«Il ritmo scuotente
trasmette un'energia primitiva, risveglia un’animalità irruente, ossessiva, e
tuttavia infonde un sacro trasporto. Le melodie del coro comunicano la dovuta
carica emotiva e al culmine della frenesia le sacerdotesse danzanti vengono
invasate, cavalcate dalla Dea fino a frantumare i limiti della coscienza».
«E la Papessa che le
guida?» chiede Rezia.
«Balla nuda al chiaro
di luna, stringe serpenti con le mani e si abbandona alla voluttà della carne
per comunicare con la Grande Dea assisa in trono tra le due pantere».
«Anche questo! I
nostri preti dicono che il sesso è una cosa spregevole e impura» controbatte.
* * *
La notte del primo
maggio Rezia arriva euforica all'appuntamento, l’è balenata l'idea del bagno
di mezzanotte. Raggiungiamo insieme la spiaggetta poco distante, lei si ferma
alle mie spalle e si slaccia dai fianchi la larga cintura da amazzone.
Intorno è chiaro. Una
luna piena incredibilmente grande e luminosa traccia sul mare una scia di
riflessi argentei, innumerevoli luci che nella frazione di un attimo si
accendono e si spengono lampeggiando sulle onde. Non dissimile da quel fugace
brillare m'appare l'effimera mia vita, dispersa nell'immensa schiera di esseri
che si creano e si annichilano nel grande oceano dell'esistenza.
I miei pensieri volano
al bellissimo, estasiante inno a Rhea:
«Signora assoluta
delle fiere selvagge
vieni nella notte al
fragore dei cémbali,
rapida come il vento
sul carro di leoni.
Potenza incarnata nella
sposa di Crono
apri all'amore con la
tua magica chiave,
sciogli soave
l'intricato nodo del cuore.
O vergine pura, madre
degli immortali,
vieni nella notte al
fragore dei cémbali
e donaci ricchezza,
serenità e fortuna».
Girando la testa in
dietro verso Rézia mi accorgo che s'è frettolosamente spogliata e nuda stringe
con le mani i seni rigonfi, drizzando i capezzoli in una vibrazione di piacere.
Si bagna nell'acqua fresca mentre io mi sdraio lungo il bagnasciuga, a
contemplare il divino incedere di quel corpo illuminato dal chiarore lunare.
Mi è presto accanto,
tanto vicina da poter carezzare con lo sguardo la rugiada di gocce che luccica
sulla sua pelle. Sento sulle anche l'umido contatto del suo corpo bagnato, Rézia
mi solleva la tunica e si posa a cavalcioni sul mio membro... vi oscilla
leggera, prima sospesa sulla punta poi scivolando fino in fondo, a ritmare su e
giù ondate di indescrivibile voluttà. Intensissimo e ineluttabile, l'orgasmo
viene a travolgere la ricerca stessa del piacere e la soffoca nell'appagamento.
Poco dopo Rezia s'allontana e va a recuperare i suoi vestiti mentre io rimango a
lungo steso sulla riva, immerso e abbandonato in uno stato di torpore profondo.
Ad occhi chiusi rivedo
i mosaici del soffitto della Basilica d'Oro e mi soffermo sui colori smaglianti
dell'albero sopra il pozzo: il verde delle fronde, il tronco dorato e
tripartito, il rosso vivo dell'incavo alla sua radice, il grigio perla e il
bianco del pozzo. Ma? Adesso ho capito. L'albero sopra il pozzo è il Mercurio
Filosofale!
Penso al contatto con
la potenza immensa della Prima Materia... ed ecco improvvisamente mi sento
invaso da una potenza infinita, quella della materia indifferenziata substrato
di ogni cosa... mi assale una certezza assoluta, esperimento la verità con
un’intensità tremenda, tremenda, incredibile, senza paragone... ho la chiara
consapevolezza dell'unita dell'universo... sono al di fuori del mio corpo,
proiettato in tutte le direzioni dello spazio... sono ovunque... sono ogni cosa,
partecipo intimamente di ogni essere. La mente vuota... serena, libera e
pacificata.
E' per me la prova
tangibile e concreta che l'Alchimia non mi ha ingannato, un immane potere ha
effettiva dimora dietro l'innocua immagine di quel mosaico. I tesori del mondo
intero non valgono la suprema avventura di questa esperienza, allorché la Prima
Materia pensa se stessa attraverso la mente di un uomo e accende se stessa nel
bagliore di quella folgorazione.
Mi sento trapassare da
parte a parte da delle scariche di fulmini. Un fuoco mi sale alla testa lungo la
spina dorsale. La schiena s'irrigidisce e rigirandomi sui ciottoli appuntiti mi
accorgo di non percepire le sensazioni dolorose. Il respiro è affannoso, ha
assunto un ritmo veloce a pieni polmoni, poi rallenta, lascia spazio a brevi
periodi di apnea. Segue l’immobilità completa. Mi è impossibile spostare gli
arti, anche muovere un dito. Rimango a lungo in quello stato, non so dire
quanto, a me parve un’eternità, avevo perso completamente la nozione dello
spazio e del tempo.
Man mano che riaffiora
la debole percezione di ciò che mi circonda, mi giunge il fragore dei flutti
che abbattendosi sulla riva rompono il profondo silenzio della notte. Lacrime
scendono, prima di gioia poi di compassione verso tutti gli esseri, e vedo
sfilare l'intera generazione delle specie, dagli enormi cetacei ai più fragili
insetti che lottano per la sopravvivenza. Partecipe dell'interezza della natura
mi confondo nei loro atti d'amore, nel volo felice di due gabbiani come nel
polline che scende sulla corolla e là si riposa. Mi fondo nel sottobosco della
verde vita, sono pioggia che cade su foglie riarse, risalgo le vette innevate,
esploro gli abissi marini ed ecco inumidirsi la mia pietra porosa... sono roccia
di un'isola sommersa.
Un coro gregoriano
risuona dalle navate di una immensa cattedrale: Dies irae dies illa, solvet
saeculum in favilla... e nel medesimo istante vedo da ogni parte
innumerevoli bocche e braccia e palme protese. Milioni di occhi mi fissano
sgomenti, son tutti lì, presenti all'appello, i vivi come i morti. C'è l'amato
mio nonno che mancò precocemente, ne odo la calda voce: mi chiama come mi
chiamava da bambino. Ci sono i miei amici di Venezia, e i miei nemici, sì anche
loro, là in disparte. Più oltre una moltitudine di storpi che tende le mani e
sgrana gli occhi, a schiere avanzano i derelitti, miriadi e miriadi di
sconosciuti che soffrono la malattia, l'ignoranza, il rifiuto, la prigionia.
Qualcuno mi sta venendo
incontro nel buio, è Zagreo, con i suoi ricci neri, la barba incolta e un
sorriso luminoso sulle labbra. Lui non poteva mancare, finalmente lo
riabbraccio, ora è più vicino che mai, come nei pozzi, la notte in cui lo
tenni abbracciato piangendo, la morte non ci ha divisi siamo ancora uno, uno per
l’eternità.
Sul bagnasciuga sento
sussurrare il mio nome:
«Petrangesio».
Non riesco ad aprire
gli occhi, le palpebre mi rimangono incollate. Passano alcuni minuti prima che
possa socchiudere gli occhi in fessura e vedere Rezia, china su di me con i
raggi della luna che filtrano attraverso i suoi capelli.
«Che cosa ti è
successo? Ti senti male?» chiede preoccupata.
Non posso articolare le
parole, i tentativi mi costano uno sforzo spropositato. A poco a poco rientro in
me, mi guardo le mani per prendere possesso del mio corpo, sollevo la testa e mi
guardo intorno per capire dove sono.
«Che ora è?» chiedo
per prima cosa, senza ascoltare la risposta.
«Dimmi perché soffri?»
supplica Rezia per ottenere una spiegazione.
Mi alzo lentamente e
appena in piedi sento un brivido lungo la schiena, un raggio di luce mi
attraversa e prosegue illimitatamente oltre i piedi e la testa, sto per
richiudere gli occhi, devo lottare per non sprofondare nuovamente in
quell'estasi.
«Rézia - pronuncio
con dolcezza - non esistono parole al mondo... non c'è modo di spiegarti ciò
che ho provato. Questa incapacità mi spiace, come al pittore che dipinge e
cancella, dipinge e cancella ma non riesce a riprodurre l'oggetto esattamente
come vorrebbe. Cercherò di spiegartelo con uno scritto, parole comunque
inadeguate».
«Accetterò le tue
parole inadeguate, non è da biasimare a che s'appiglia l'uomo che cade in mare.
Ma...».
Appoggio il dito indice
sulle sue labbra:
«Ti prego, ora non
farmi altre domande. Non so quale fra gli umori corporei abbia potuto produrre
questo stato di sonno inusuale, non può essere stata la pituita, né l'eccesso
di sangue, di bile gialla o nera che sia. Dev'essere stato un umore del tutto
sconosciuto anche ai nostri medici».
Rézia tace e mi getta
le braccia al collo. In piedi nel bagnasciuga restiamo abbracciati a lungo con
l'acqua alle caviglie, ad ascoltare le parole del mare.
* * *
Le finestre della villa
illuminate dalle torce e all'interno un gran trambusto: al ritorno dalla
spiaggia comprendiamo di essere stati scoperti.
Rimango appostato
dietro i rampicanti mentre Rezia, spaventatissima, si decide ad entrare in casa
per prima. Spiando dalle finestre la seguo con lo sguardo, di fronte a lei la
signora Orseolo urla ed impreca furibonda, agita con gran foga un mantello e lo
mostra alla servitù che si è raccolta intorno. E' il mio mantello di cotone!
L'ho dimenticato ai piedi del davanzale, nel giardino, mentre aiutavo Rézia a
scavalcare la finestra della sua camera.
Inteso come stanno le
cose, purtroppo non mi resta che allontanarmi dalla villa, o meglio, scappare
via al più presto, perciò entro nella mia camera dalla finestra socchiusa,
prendo i miei soldi e metto alcuni vestiti nella bisaccia, appena in tempo per
udire la nobildonna che batte i pugni sulla porta chiusa a chiave. Salto dalla
finestra e mi dileguo a gambe levate.
La signora Orseolo ha
ordinato al cameriere Arione e ad altri due giovani greci di rincorrermi per
riacciuffarmi. Anche il grasso cuoco ed il sarto ossuto mi inseguono in coda ma
presto si perdono per strada. I greci, più veloci di me, all'ingresso del paese
stanno per raggiungermi quando di botto si fermano tutti e tre ed Arione mi
grida alle spalle:
«E' stato Putiferio a
fare la spia. Fa buon viaggio, porcellone di un veneziano!»
Passano i giorni. Solo
e pensoso i più deserti campi vado misurando a passi tardi e lenti, rifuggo
l'interagire con la gente e oltrepasso gli abitati a sguardo spento. Spesso, il
bisogno di lei si fa intenso, bruciante, insopportabile, mi convince che non
potrò resistere a lungo senza il conforto dei suoi baci... allora ansimo come
un folle, cerco sulle mani il profumo rubato ai suoi capelli, evoco il tepore
dolce della sua pelle e sento l'umida sua bocca incollata, morbida sulla mia.
L'amore che nutro per lei è un albero dalle tenere foglioline e non posso
sradicarlo senza morirne, poiché esso possiede lunghe radici che penetrano in
profondità nel mio cuore. L'immagine di Rézia è costantemente impressa nei
miei occhi. Nell'acqua chiara e sopra l'erba io l'immagino viva e sorridente, e
quanto più selvaggio e più deserto è il luogo tanto più bella l'adombro nei
miei pensieri. Il volto suo si stampa nella natura incolta ed ogni qualvolta
appare, pallida sulle rocce, riesco a dimenticare me stesso e la mia pena. Tanto
mi appaga quest'illusione che altro non chiederei, se solo potesse durare in
eterno.
Errando senza meta,
supero la cittadina di Rethimnon e cambio direzione dirigendomi verso l'interno
dell'isola. Raggiungo così l'altipiano pianeggiante e circolare di Omalòs,
coperto di acquitrini e abitato solo da pastori. Salgo ancora fino al passo da
cui posso ammirare il maestoso innalzarsi delle Montagne Bianche, fittamente
ricoperte da pini enormi e da isolati cipressi. E' incredibile, eppure anche in
primavera inoltrata quelle pendici sono solcate da lingue di neve che scendono
ripide lungo i fianchi.
Calo di quota.
Oltrepasso il remoto villaggio di Samaria e la nei dintorni, mi capita di
perdere le tracce del sentierino. Finisco nel fondo ghiaioso di un torrente, un
continuo susseguirsi di gole profonde e impressionanti, incassate tra le più
alte cime delle Montagne Bianche. Pareti a picco salgono sopra la mia testa per
oltre seicento metri mentre l'ampiezza del corridoio scavato dall'acqua non
supera i tre metri. Nel camminare mi massacro i piedi sui ciottoli, ostacolato
dal rigoglio degli oleandri, costretto a superare ripetutamente il letto del
torrente e talvolta piccoli strapiombi di roccia in discesa. Percorro
faticosamente una ventina di chilometri. Avanzando verso il fondo delle gole le
pareti si accostano sempre più e a tratti il passaggio diventa talmente angusto
che se fossi a cavallo rimarrei sicuramente incastrato, incapace di voltare il
cavallo o addirittura di scendere da sella. Dopo quasi otto ore finalmente
sbocco allo scoperto e mi affaccio su un'ampia insenatura: senza saperlo sono
sceso al livello del mare e sono finito sulla riva opposta dell'isola.
Mi denudo sprizzante di
entusiasmo e mi tuffo nelle calde acque del Mar Libico. Nuoto. Le spalle
spuntano in superficie come il dorso di un delfino e si inarcano. Roteo insieme
le due braccia, tese parallelamente verso il fondo, e in sincronia vibro a piedi
uniti il colpo di coda che imprime la spinta in avanti. Quindi allargo al
massimo il torace e gonfio d'aria i polmoni... per un attimo mi abbandono
all'inerzia, il bacino si immerge, penetrando trascina con sé il peso del
corpo. Intanto le mani si risollevano a pelo dell'acqua e caricano la bracciata
dietro la schiena. Ecco le braccia sfiorare la schiuma delle onde e disegnare un
semicerchio nell'aria per ricongiungersi davanti alla fronte. La testa
s'immerge. Tenendo gli occhi aperti sott'acqua osservo le dita che generano scie
di bollicine, gocce di mercurio richiamate a grappoli in superficie.
Rallento man mano il
ritmo per assaporare meglio il piacevole benessere che sta invadendo tutto il
mio corpo poi, all'improvviso mi lancio in uno scatto vigoroso proiettando
intorno gli schizzi di schiuma. I muscoli del torace guizzano sotto la pelle, le
natiche si contraggono rapide e le anche oscillano, su e giù, nella foga di un
appassionato amplesso col mare.
Ansimante, mi riposo
galleggiando sul dorso. L'eco delle onde risuona dentro le gole e le creste
disegnate dal gioco dei flutti rimbalzano i miei pensieri a quell'ultima notte
con Rézia. L'afflato amoroso mi ha sospinto ad innalzarmi oltre ogni altezza, a
scendere oltre ogni abisso, e ora raccolgo nuovamente in me le sensazioni di
tutte le cose create, avverto d'essere simultaneamente ovunque, in mare, in
terra e in cielo, ho la percezione di non essere mai nato, di essere ancora un
embrione, d'essere giovane, vecchio e oltre... uscito da me stesso, mi sono
rivestito di un corpo che non muore.
Solo nell'estasi, la
conoscenza della Prima Materia può essere raggiunta in tutta la sua evidenza,
altro mezzo non v'è poiché la mente, instabile per natura, è sempre incline
ad associarsi ad altre percezioni. Avendo realizzato identità tra la Prima
Materia ed il Mercurio Filosofale, la mia mente con tutte le sue attività è
svanita... Non potrei esprimere con parole, né concepire con pensieri lo
splendore ineffabile della loro unione. In questo oceano essenza di beatitudine
la mia mente si è disciolta, come un chicco di grandine nel mare.
Esco dall’acqua e
m'incammino. Dirigendomi a est, lungo la costa raggiungo Ierapetra e da lì
varco il punto più stretto dell'isola, affacciandomi nuovamente sulla
frastagliata costa settentrionale. Col suo color smeraldo il Mar Egeo tinge una
baia di superba bellezza naturale, mentre un bianco manto di chiese ricopre
ovunque il pendio. Nei presso del villaggio di San Nikòlaos mi decido ad
entrare in una di esse. E' una chiesetta bizantina ad una navata e con volta a
botte, la cupola che corona l'edificio presenta delle decorazioni di notevole
efficacia ornamentale. Questi disegni geometrici sono il segno lasciato dal
periodo iconoclastico allorché, proibite le raffigurazioni religiose ed il
relativo culto delle immagini, si giunse ad una ipertrofia dei motivi
ornamentali (come negli esempi eccelsi dell'architettura araba). Ma proprio qui,
accanto ai resti degli affreschi raschiati dalla furia iconoclasta, la fortuna
mi ha riservato una magnifica sorpresa.
Una stella splendente
in uno squarcio di nubi dorate, la discesa della colomba dello Spirito Santo e
sulla riva rocciosa, aspra e frammentata, il Battista coperto di pelli che
battezza con le mani: è un bellissimo mosaico del Battesimo di Gesù. Al
centro, il Messia è immerso nel fiume fino alla cintola mentre l'acqua limpida
ne lascia trasparire i contorni evanescenti. La sua mano benedicente esce in
superficie mentre, sulla riva, tre stupendi angeli si prosternano a adorarlo.
Grande la ricchezza dei dettagli, un'ascia bipenne sotto un cespuglio, una
moltitudine di pesci colorati sotto la tremula increspatura delle onde e come
non poteva mancare, il genio del fiume con l'anfora in mano.
Per ore e ore rimango
incantato a contemplare gli effetti plastici evocati dai contorni tenui e da una
ricercatezza cromatica che sa sfruttare abilmente tutte le possibili sfumature
di colore: questo mosaico è una grande opera da maestro.
* * *
Da San Nikòlaos mi
spingo ad est in direzione della cittadina di Sitìa. Lungo le coste rocciose si
inerpica imperiosa una strada maestra. La percorro fiancheggiato ai due lati da
continui cespugli di ginestre in fiore. Per tutta la zona mi sembra di
attraversare un superbo giardino, profumato come il respiro di una dea. Le
candide rocce della costa sono abbellite da un'esplosione di fiori primaverili:
primule dalle foglie turgide e venose, orchidee, ninfee, margherite, papaveri...
bianche campanule, splendidi iris, e anemoni, ciclamini e mirto.
La vegetazione è in
prepotente risveglio, ogni pianticella cerca il suo spazio vitale, lo strappa al
vicino, un bisogno impellente spinge a cercare la luce, a crescere di più per
non rimanere in ombra. Nuove tenere radici assorbono dalla terra arida il
maggior nutrimento possibile, le foglioline sfruttano ogni residua umidità
dell'aria, i boccioli sono impazienti di aprirsi per sottrarre ai concorrenti le
api. Irresistibile, pressante, violenta, la vita è in pieno rigoglio e sfoggia
il suo rinnovato vigore, lo stesso con cui è riuscita a negare l'inverno.
Guardandomi
attentamente intorno, ho riconosciuto due portentose piante magiche, una è la
famosa mandragora dalla radice a forma di corpo umano, l'altra è il vischio, le
cui bacche adornano come perle i rami delle querce. Ho identificato alcune delle
piante medicinali che vidi nella casa della strega, per esempio il timo
(profumatissimo), il salice piangente, la melissa dai fiori rosati, il ricino e
il fieno greco.
Gironzolando oltre i
margini della strada con gli occhi fissi a frugare il terreno, mi ritrovai tra
l'erica e i tulipani... Dall'alto di una rupe a strapiombo sul mare osservavo
incantato i gabbiani che volteggiavano a volo radente, in basso in lontananza,
simili a puntini bianchi su un blu intenso che si perdeva all'infinito, senza
apprezzabile confine tra il cielo e il mare. Fu allora che capii perché gli
antichi avessero eletto quest'isola a culla e dimora degli Dei: immersi in un
ambiente di tale bellezza sorge del tutto spontaneo pensare al divino e creare
miti immortali che diano anima e poesia ad un qualcosa che ovunque in questa
terra si respira e si avverte.
Utilizzando la stessa
strada dell'andata faccio ritorno a San Nikòlaos. Dai greci ho ricevuto
indicazioni esatte circa l'ubicazione della zona descritta da Zagreo quale sua
residenza. E' verso l'interno dell'isola e devo salire parecchio, arrampicandomi
lungo una via che sale tra colline aride ed aspre. Appena raggiungo quota, una
nube bassa mi impedisce la vista. Cammino nella nebbia. Al suo diradarsi non più
pietraie, ecco invece lo spettacolo del verde altipiano di Lassìthi, segnato
dal disordinato rifiorire di una terra fertile ma abbandonata a se stessa.
Raggiunti i resti del villaggio incendiato dai veneziani, mi metto a cercare
confusamente finché trovo le rovine di un mulino. Ha fondamenta di pietra a
forma di ferro di cavallo allungato e potrebbe essere il mulino di Zagreo.
I mulini a vento furono
immessi in Europa dalla Cina e dalla Persia e la loro introduzione a Candia seguì
allo sbarco dei primi crociati di ritorno dall'Oriente. L'arrivo dei veneziani
ne aveva semplicemente incrementato l'uso, perfezionandolo in base
all'esperienza acquisita a Venezia ove già i mulini andavano assumendo sviluppo
industriale nell'ambito delle più varie applicazioni, tipo la follatura dei
tessuti, la lavorazione della carta o del ferro.
Il mulino da macina di
Zagreo era speciale, non era solo la sede in cui i contadini greci portavano il
loro frumento, facevano la coda e aspettavano la farina, ma anche un luogo
privilegiato d'incontro. Sedendomi sulle sue rovine mi par di vedere Zagreo
sotto le pale in movimento mentre organizza la rivolta contro il tiranno
veneziano e arringa un gruppo sempre più folto di contadini e diseredati,
scuotendo gli animi con l'accorato e irresistibile appello ai miti antichi della
sua gente.
Faccio ritorno ad
Archanes. Una quindicina di chilometri prima della città di Candia sono già
sul luogo. Vorrei incontrare qualche servitore della villa Orseolo e mi apposto
presso i negozi usualmente frequentati per le provviste.
Dalla latteria esce la
giovane schiava berbera avvolta nei vivacissimi colori del suo abbigliamento
esotico, quasi fosse arrivata oggi stesso dai regni arabi e avesse portato con sé
il loro profumo sensuale e carezzevole. E' carica di bracciali e collane di
metallo. Porta degli orecchini d'argento i cui contorni ricalcano una figura
femminile, vi si riconosce una gonna triangolare e il volto scolpito in rilievo
al centro del torace, mentre dei piccoli pendagli affusolati pendono in luogo
delle mani e dei piedi. La schiava tiene la bocca coperta da un fazzoletto e ha
occhi dalle grandi ciglia, allungati, incredibilmente teneri. Si chiama Ishtar,
un nome pieno di fascino, e le origini di lei sono a dir poco misteriose dato
che non si ritiene araba, ma figlia di un popolo che abita il deserto.
Mi saluta con i suoi
modi dolci, festosamente, e trattomi in disparte, mi racconta le ultime notizie:
«Mentre eri via è
ritornato il padrone. Quella megera della signora Orseolo gli ha spifferato
tutto e lui è andato in bestia, si è messo a urlare ai quattro venti che la
moglie l'aveva tradito, l'ha presa a schiaffi davanti a noi e ha cominciato a
insultarla brutalmente.
Gli gridava che è più
puttana di Eva, che si è messa in testa certe cose solo perché sono proibite.
Per lussuria, dunque, gli faceva spendere soldi con le tuniche di Bucherame...
per eccitare un servo, invece di comportarsi da moglie casta, come si conviene
in una buona famiglia».
«E lei cosa
rispondeva?»
«Nulla, non ha più
aperto bocca, subiva tutto in silenzio ad occhi bassi».
«Che altro le ha
detto?»
«Che conosceva la
debolezza delle donne e non era tanto per l’infedeltà in sé ma perché lo
aveva tradito con un morto di fame. Questo proprio non gli andava giù,
sua moglie si era rovinata la reputazione e aveva disonorato la famiglia.
Ho tutto il diritto
di punirti
-diceva- e ringrazia il cielo se non chiedo alla Chiesa l'annullamento del
matrimonio... per sterilità, non è certo un mistero dopo dieci anni di
matrimonio. Per castigo, - minacciava stringendo i pugni - pretendo che
d'ora in avanti tu mi segua in tutti i miei viaggi di lavoro, tutti, anche i più
disagevoli e lontani. Ti inculcherò io il controllo di te stessa e l'obbedienza
al marito.
Mentre noi saremo in
viaggio, autorizzerò mia madre ad amministrare da sola il feudo. Quanto a quel
pezzente, lo denuncerò per adulterio alle autorità di Candia e lo farò
incatenare al remo di una galera!»
«Povera Rezia, cosa le
tocca sopportare per colpa mia, che pena mi fa».
«Il signor Orseolo
predica bene ma razzola male. Il giorno in cui mi ha comprata mi ha fatto
spogliare nuda davanti al venditore e la notte stessa mi ha posseduta, poi ha
giurato che mi avrebbe uccisa se lo avessi rivelato a qualcuno».
«Dimmi, quando sarà
il loro prossimo viaggio?» le chiedo con un barlume di speranza.
«Fra dieci giorni si
dirigono in Oltremare».
«Dove, dove vanno
esattamente, lo sai?»
«Vanno a... a Paphos,
un porto di Cipro, sarà la loro prima sosta. Ho udito il marito parlare a lungo
di un commerciante di Paphos con cui deve concludere un importante affare. Dovrà
dedicare diversi giorni all'acquisto di chermes, cotone e tessuti in seta, in
cambio di lanerie e fustagno veneziano».
«Ti ringrazio, sei una
vera amica, ma ti prego Ishtar concedimi un ultimo favore, consegna di nascosto
questa lettera a Rezia, ti supplico, per me è molto importante».
La schiava berbera
accetta. Ricevuto lo scritto Rezia ne imparerà a memoria le parole e lo brucerà
per non lasciare tracce. Eccone il contenuto:
...non è da
biasimare a che s'appiglia uomo che cade in mare...
Con argentea chiave
egli apre d'un tratto le porte del mondo invisibile ed il suo petto s’inonda
d'amore sciogliendo l'intricato nodo del cuore. La Dea dalla potenza assoluta,
dolcissima appare sopra le acque del mare: ha la pelle umida di rugiada e con le
mani spreme il suo latte virgineo, mentre nuda cavalca il fedele delfino
oscillando leggera sulla schiuma. Sulle sue ali piumate egli ha riconosciuto gli
occhi dei vivi e dei morti e nel silenzio della notte viene rapito fuori dal
tempo, nell’onnipresenza. Il Mercurio dei Filosofi tocca la Prima Materia
nell'immutabile simmetria e le particelle dello Spirito suo entrano in unità
con quelle del tutto, egli ha il respiro ansimante e paralizzato, non riesce a
proferire parola, un brivido gli corre sulla schiena e la mente si perde tra
vuoti spazi.
O scintilla di
gioia, viene colui che rinuncerà a te in dono a ogni essere.
CONTINUA
QUARTO CAPITOLO