Capitolo Terzo

L’ISOLA SOMMERSA

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Confinato nello scafo del nostro vascello, mi sento come entro un vaso ermeticamente chiuso, eppure il cielo mi confonde con la sua vastità: nubi madreperlacee alte nella stratosfera e spessi cumuli di nuvole basse ma lontanissime all'orizzonte, mi comunicano la profonda impressione di uno spazio sconfinato. Osservo dalla finestrella rotonda le onde che si gonfiano e ancora il mare in lontananza, mare e mare e soltanto mare intorno a me, in un'immensa distesa d'acqua.

Per lo ionico Talete l'Acqua è l'Arché, ossia la sostanza originaria che nel trasformarsi ha dato luogo a tutte le cose. Talete non era un ingenuo pensatore era un filosofo, e non si riferiva all'acqua fisica ma al concetto di un acqua celeste ed immutabile che non bagna le mani: l'Umido radicale, umida sostanza del mare magnum dei filosofi.

Talete di Mileto, Aristotele, Democrito di Abdera. Vado enumerando le teorie dei filosofi greci intorno alla costituzione della materia mentre nel vascello sto con le dita appoggiate sull'orlo della finestrella, col vento nei capelli e lo sguardo smarrito nel turchese del mare. Per Aristotele la sostanza originaria è la Prima Materia, potenza assoluta totalmente priva di forma. Oltre la percezione sensoriale, oltre la molteplicità delle forme, essa rappresenta l'unico comune substrato, impalpabile e sfuggente eppure materia.

Per Democrito, a fungere da sostanza fondamentale, è invece un insieme di atomi indivisibili. Gli atomi sarebbero talmente minuti da non poter essere colti con la vista, né con l'udito, né con l'odorato, né con il tatto, né con il gusto, ma esisterebbero eternamente nel vuoto dello spazio. Assumendo questo punto di vista viene a cancellarsi il confine invalicabile posto tra le individualità di un essere umano, di un albero, di una pietra, di un gabbiano... condizionamento senza via d'uscita nel mondo della percezione sensoriale. Nella lucida concezione di Democrito tutti gli esseri si fondono insieme nel vorticoso movimento degli atomi, simile a grandi onde spumeggianti nel burrascoso oceano del vuoto. Eternamente esistenti, gli atomi a composizione dell'individuo si sottraggono alla freccia del tempo per cui l’immortalità dell'essere umano si fa solida certezza nella dimensione atomica ove, non soggiacendo a nascita, non si può essere soggetti a morte. L’irreversibilità del tempo, il processo di putrefazione di un frutto, l'invecchiamento del corpo fisico, dal punto di vista dell'infinitamente piccolo sono pure illusioni, se pur dure a morire.

L'Universo incarna così la pienezza dello stato di perfetto equilibrio, è esente da limitazioni, non nato e sempre identico a se stesso. Continuo ed omogeneo, rappresenta l'unico sostrato del mondo dei nomi e delle forme, l'Uno senza secondo, causa ciclica di produzione preservazione e dissoluzione del cosmo.

La Basilica d'Oro illustra la creazione del cosmo attraverso i meravigliosi mosaici della Genesi. Ho vive davanti agli occhi le gratificanti immagini della loro bellezza.

Sospesa sull'abisso una tenera colomba aleggia leggera sulle acque:

Spiritus Dei ferebatur super aquas.

Nei primi attimi della creazione, sorge ex nihil una bolla di luce che si espande sempre più e cresce con fulminea velocità ad immani dimensioni. Nel mosaico in questione, il cosmo nascente è la piccola sfera sotto le ali bianche della colomba, la perfezione della simmetria originaria è resa in modo esauriente dalla geometria circolare, poiché è noto che facendo ruotare una sfera attorno ad un suo asse qualsiasi essa rimane immutata.

Nel mosaico accanto, il secondo giorno della creazione. Attorniata dagli angeli, la sfera del cosmo abbraccia già le dimensioni del firmamento e scorre sulle acque per dividerle. Al terzo giorno la gran massa delle acque riceve l'ordine di raccogliersi su se stessa e la terra emerge all'asciutto, solidamente fissata nel mezzo delle acque. Successivamente la terra viene popolata dalla moltitudine delle specie delle piante e degli animali. Infine, al sesto giorno viene creato l'uomo.

Il mito iperboreo dell'ordine cosmico che sorge dal chaos, risuona nella mia mente e ancora le parole di Zagreo rivestono d'immagini dense di colore quei primi ineffabili istanti...

All'origine Orizia emerse nuda dal Chaos. Non trovando nulla di solido ove posare i piedi Orizia divise il mare dal cielo e sola intrecciò una danza sulle creste delle onde. Ebbra danzava sulla spuma quando si accorse del vento che le turbinava alle spalle e riconoscendovi alcunché di nuovo e distinto da sé, pensò di iniziare con questi l'opera di creazione. Si voltò d'improvviso e afferrato Borea, il vento del Nord, lo sfregò ripetutamente fra le mani finché apparve il grande serpente Ofione. Ma il vento le aveva raffreddato la pelle e Orizia continuava a danzare per riscaldarsi, danzava a ritmo sfrenato, oscillava le anche, scuoteva i seni eccitando Ofione col vibrare del suo corpo nudo. Il grosso rettile si rizzò, le avvinghiò le membra e si unì a lei. Orizia assunse allora forma di colomba e volteggiò leggera sulle acque dell'oceano. Fecondata dal serpente, depose l'Uovo Cosmico e ordinò ad Ofione di circondarlo con le sue spire: per sette volte il serpente si arrotolò intorno all'uovo e facendolo schiudere, liberò tutte le cose che esistono nel mondo.

 

* * *

 

Il mare di Crono. E' entusiasmante attraversare lo stesso mare anticamente solcato dagli Argonauti. Attendo con fervore il nostro passaggio nelle vicinanze di Trieste, voglio esaltare lo sguardo nella tumultuosa risorgiva del Timavo, la fonte che a dire di Zagreo alimenta da sola l'intero oceano sboccando in superficie da un fiume sotterraneo del quale nessuno conosce il tragitto. Ma non vedo ombra di coste.

In Istria mi lascio prendere da rinnovato ardore. Desidero sfiorare come un falco la città fondata a Pola dai Colchi... frenare in un porto lo slancio di un sogno leggendario e magari approdare nella rocciosa e frastagliata Lussino, l'isola coperta di fiori di giacinto. Dimora della famosa zia di Medea: la maga Circe. Ma con mia grande delusione la carovana punta dritta a sud e soltanto dopo un lunghissimo tragitto fa tappa in Dalmazia nel porto di Ragusa.

Nella sosta vengono caricate le provviste. Scendo a terra dominato dalla morbosa frenesia di incontrare la ragazza dell'ultimo di Carnevale. Con che ardente desiderio amerei rivedere i suoi seni, godere di quella pelle lucida come la buccia delle mele. Quanto intensa la mia speranza di riconoscere fra la gente degli occhi che mutino alla luce da celesti a verdi e da verdi a grigi. Invece nulla. A Ragusa non incrocio il suo sguardo e nemmeno a Corfù nello scalo successivo.

Trascorro la più parte delle mie giornate sul ponte di passeggiata, con i gomiti appoggiati sui bordi della nave, a spiare ogni vascello che si affianca nella beata lusinga di intravedere una ragazza che abbia la sua altezza e corporatura o magari soltanto la sua camminata aggraziata.

Nulla. Più passano le settimane su questa nave, più mi rendo conto dell’assurdità della mia ricerca. Che storia d'amore è questa? Con una nobile per giunta! A ben giudicare non sono rimasto in sua presenza per più di dieci minuti, non l'ho manco baciata e già la rincorro per i sette mari. In realtà me ne sono infatuato per semplice effetto del totale isolamento in cui verso, è normale che si finisca per ingigantire il primo occasionale incontro che viene ad interrompere la nostra solitudine. Lei nemmeno si ricorderà di me.

Ora basta! Chiuso con questi innamoramenti da adolescente, finiamola con questa lamentosa ricerca della donna fatale. E' ridicolo. Una donna di nobile famiglia sarà sempre fuori della mia portata, io sono soltanto un morto di fame. Ecco, me l'aspettavo, disinganno e disillusione intaccano altresì la mia fede nell'Alchimia, del resto la possibilità di fabbricare l'oro è svanita da tempo col sequestro del papiro, insieme al papiro ho perso irrimediabilmente ogni speranza di diventare ricco. Ah Rafael faccia d'angelo, se tu non m'avessi indicato quella locanda di eretici ora non mi troverei qui, su questa nave, a navigare in un mare di guai. Amico caro, ti giuro che se mi capita fra le mani quel dannato papiro lo rompo in mille pezzi. Non ho bisogno di libri, non voglio più cadere negli inganni dell'Alchimia.

Col suo disincanto ellenico ha proprio ragione Zagreo:

I sogni e le illusioni servono solo a rendere più sopportabile l'amarezza della vita, si vedono cose che non esistono pur di non vedere ciò che ci angoscia.

Il viaggio del convoglio prosegue all'insegna della noia sotto una bonaccia esasperante. Povero di scali, privo di novità, il tragitto per Candia è a dir poco eterno. Le nostre navi avanzano lentamente essendo dei vascelli mercantili. Provvisti di un castello di prua e uno di poppa, due ponti ed una coffa da combattimento, sono dei velieri tondi la cui lunghezza è tripla della larghezza e possiedono due alberi forniti ciascuno di una vela triangolare, detta vela latina. La mia nave è una taretta, ha lo scafo lungo e stretto, più basso, e ad un solo ponte, ma in condizioni di scarso vento è la più adatta a bordeggiare. Per seguire la rotta controvento la nostra taretta procede a zigzag e i marinai stringono il vento navigando di bolina, ossia utilizzando un cavo che serve a tirare verso prora il lato sopra vento delle vele, in modo che queste prendano il vento al meglio possibile. Osservo costantemente le manovre di bordo, giusto per distrarmi un po' mentre me ne sto in silenzio per conto mio. Sono un ricercato e preferisco non espormi alla tentazione di scambiare parola con i passeggeri. Perciò niente viene a rompere la monotonia di queste giornate di navigazione, fino a una sera memorabile allorché cambiano repentinamente le condizioni atmosferiche.

Doppiamo Capo Matapan con estrema difficoltà a causa dell'irruenza del meltémi, un forte vento che piomba ad annunciare bufera. Raffiche violentissime sono costantemente sul punto di strappare la vela, i marinai calano allora il pennone e issano una piccola vela triangolare fatta di tela resistente. In piedi sul ponte sento fischiare le gomene, il vento mi strappa i capelli, m'impedisce di procedere in linea retta e quasi riesce a stendermi a terra, ma io rimango cocciutamente attaccato alle corde, esposto alla furia degli elementi: rimanere al chiuso in coperta mi procura un'ansia maggiore. Appena sopra la mia testa nuvole caliginose minacciano di traboccare pioggia e grandine da un momento all'altro. Il mare mosso scuote paurosamente la nave, si sollevano onde di altezza e impetuosità impressionante, il loro colore si fa sempre più cupo, finché la visibilità si riduce del tutto e lascia il posto ad una nebbia di goccioline fitte e gelate. Il fragore dei flutti continua a incalzare con la prepotenza di un urlo. Arriva la tempesta. Una saetta tuona a bruciapelo e illumina nubi nere d'inchiostro. La pioggia inizia a martellare all'improvviso, mi frusta la schiena e in un attimo inzuppa la veste. La tempesta è talmente violenta che immagino passi presto, invece peggiora. Le onde spazzano rabbiosamente la superficie del ponte, comincio a scivolare sul bagnato, cozzo malamente un ginocchio sulla tolda, capisco che l'urto di un'onda potrebbe scaraventarmi in acqua da un momento all'altro. Mi decido allora ad andare in coperta e raggiungo gli altri che pregano all'interno.

Passammo una notte insonne sballottati dalle onde e nessuno ebbe la grazia di addormentarsi sapendo che l'indomani avrebbe potuto ritrovarsi in fondo al mare.

All'alba un vento mite e leggero soffia da ponente, lo zefiro viene a far da compagno al sereno. L'umore dell'equipaggio si ravviva per lo scampato pericolo. Nel mare calmo avvistiamo i delfini. Pinne argentee ruotano in superficie, scompaiono e riappaiono. I delfini si inseguono festanti e poi si lasciano per raggrupparsi ancora. Davanti alla prua un esemplare anziano mostra riflessi più chiari, lattescenti, a colpo salta fuori dall'acqua e dalla posizione verticale piroetta e torna sotto con una giravolta. La sua comparsa evoca nei miei ricordi la trasformazione di Pelope in delfino bianco e ancora una volta rivedo nell’oscurità della cella i lineamenti greci del mio sfortunato compagno, con quella sua espressione seria dietro la barba e la mimica eloquente di un poeta declamante...

Il sommo Zeus, toccato nel cuore dall'efferato delitto commesso da Tantalo ai danni del proprio figliolo, impose a Mercurio il pietoso compito di riportare Pelope alla piena integrità. Raccolti ad uno ad uno gli sparsi resti del fanciullo, Mercurio li fece bollire nel latte di un calderone sorretto dal tripode. Le membra prima separate ora si stavano saldando bene insieme, ma c'era un pezzo mancante: la spalla che Teti aveva inavvertitamente mangiato. Per porvi rimedio, la consorte del Titano Oceano fabbricò una spalla in avorio di delfino e la sostituì alla mancante. Rhea, soffiò in Pelope la vita e mentre Pan danzava per la gioia, il ragazzo uscì vivo e raggiante dal calderone. Lo splendore della sua bellezza adolescenziale colpì tanto profondamente Posidone che il dio del mare lo volle con sé sull'Olimpo e ne fece il suo personale coppiere.

Nell'Olimpo però, da lungo tempo Posidone non si dava pace per i continui rifiuti di Anfitrite, una ninfa marina che sdegnava ostinatamente le sue proposte amorose e che riusciva sempre a sfuggire agli inseguimenti grazie alle più strane e fantastiche metamorfosi. Posidone pensò allora di affidare a Pelope il delicato compito dell'inseguimento e lo trasformò per l'occorrenza in un candido delfino. Per evitare il nuovo messaggero, la ninfa dai piedi d'argento si mutò via via in seppia, piovra, ippocampo, medusa, ma non appena la raggiunsero le parole gentili del delfino, cariche di inviti suadenti e persuasivi, la ninfa cedette e si decise a concedere al dio i suoi favori. Posidone, al colmo della gratitudine, immortalò il profilo del delfino tra le costellazioni del firmamento.

 

* * *

 

Il porto della città di Candia, finalmente si sbarca. La città rappresenta il nucleo principale dell'isola e ciascuno dei centotrentadue feudatari ha l'obbligo di tenervi una residenza, il che significa altrettanti ricchi palazzi che adornano il capoluogo. Giro a zonzo per il centro. Ho una semplice tunica azzurra cinta ai fianchi da un cordone, sul bordo rotondo del colletto è ricamata una linea argentea mentre la sottana finisce appena sopra il ginocchio; porto calze gialle, scarpe basse e aperte e fermate da un laccio al collo del piede.

Negli ultimi giorni di navigazione l'acqua potabile ci veniva razionata. Ho una sete terribile e cerco una fontana per bere. Per fortuna ce n'è una nella piazza, in fronte alla basilica di San Markos. La fontana possiede un orlo ondulato e sinuoso con i bassorilievi di Tritone che cavalca i delfini e con nove vasche absidate e scolpite. Sulla sommità della fontana troneggia la statua di Posidone, ha un braccio teso sul mare e punta l'orizzonte un attimo prima di scagliare il tridente. Bevo acqua fresca a piene mani. Si calma l'arsura alla gola e mi sento rinascere. Inclino leggermente indietro il capo e serro le palpebre dal sollievo. Appena le riapro noto due ragazze uguali come due gocce d'acqua, alte e longilinee e di non più di sedici anni, sedute sull'orlo della vasca. Le osservo con aria innocente, hanno dei lineamenti troppo marcati però sono attratto dal colore biondissimo dei loro capelli, quasi bianchi, un platino che si intona piacevolmente con la loro carnagione abbronzata. Li hanno raccolti in due lunghe trecce che scendono sul petto e vestono esattamente nella stessa foggia e con le stesse tinte: rosa la veste leggera, stretta al collo ma ampia sulle ginocchia e fornita di strascico; verde la sottoveste di lino con le maniche aderenti che escono dagli spacchi alle ascelle.

Mi asciugo la bocca con il dorso della mano e tanto per rompere il ghiaccio:

«Ciao belle!»

Una di loro risponde con accento straniero:

«Chi è la più bella? Magda, che sono io, o mia sorella Beata?», scherzando con fare vanitoso.

Mi gratto la testa e le esamino attentamente per cercare tra loro la minima differenza ma invano, perché sono del tutto identiche: stessi occhi chiari, stessa bocca sottile e naso pronunciato, uguale ventre piatto, uguali gambe lunghe e piedi scalzi.

Per attirare la mia attenzione la sorella, Beata, fa scorrere le mani su e giù lungo le cosce slanciate:

«Scegli me, sulla gamba destra ho un bellissimo neo che lei non ha».

I lineamenti di Beata mi sembrano atteggiati in un'espressione leggermente più dolce, ma non riesco proprio a decidermi.

«Allora chi è la più bella?» incita di nuovo Magda e mi strizza l'occhiolino.

«Magda» rispondo frettolosamente per trarmi d'impaccio.

«Oh, ti ringrazio di avermi preferita, ma dimmi, cosa ho di più bello rispetto a mia sorella?»

«Il tono della voce» concludo, e in vero ha la sonorità limpida e squillante dell'argento.

Regno di Danimarca? Contea d'Olanda? Langravio di Turingia? Da dove arrivano queste due sirenette?

«Siamo sveve, - spiega Magda mentre le accompagno lungo la piazza - nostro papà ha fatto il servitore alla corte pugliese. Lui sa parlare in siciliano, in arabo e in greco. Abbiamo abbandonato la corte in cerca di fortuna appena è morto Federico II».

«Che cosa? Federico II è morto!»

«Ma dove vivi, sulla luna? E' morto ancora il 13 dicembre del 1250».

Rimango confuso e sconvolto, crollo a sedere sui gradini della basilica. Io che un tempo ero l'uomo più aggiornato della Piazza ora non so nulla di un avvenimento del genere: il trapasso dell'Imperatore della Fine dei Tempi.

«Come è morto? Avvelenato dai Milanesi?» balbetto.

«Un suo medico arabo ci ha detto che è morto di dissenteria».

Dunque queste due mocciose frequentavano la corte imperiale. Le tempesto di domande:

«Voi potevate vedere di persona l'Imperatore?»

«Certo, aveva un fisico striminzito, la faccia tutta rossa e la testa pelata» risponde Magda.

«Va be’ che cosa c'entra, era un uomo di fine intelligenza e viveva attorniato da una schiera di saggi e di filosofi».

«Come no, - continua Magda - c'era quel pazzoide di Scoto, mago e indovino, traeva auspici sul futuro anche dagli starnuti. Secondo i suoi calcoli astrologici la vittoria su Parma era una cosa più che scontata ed infatti... è stata la peggiore batosta di Federico II, la Lega Lombarda gli ha portato via l'intero tesoro imperiale, compresa la corona di gemme».

Aggiungo serio:

«Comunque si dice che l'Imperatore abbia scritto di suo pugno un libro di falconeria, aveva una grande passione per l'arte dell'andare a caccia di uccelli».

"Perché sorridete?»

«...a caccia di uccelli senza piume, tipo quelli dei valletti saraceni» e scoppiano a ridere.

Le ore scorrono veloci in loro dolce compagnia e verso sera le gemelle mi trascinano in una tipica taverna dell'isola. La taverna Phanes ha la facciata ricoperta di edera e smilace e ai lati dell'ingresso due grossi cespugli di mirto diffondono la loro fragranza sullo spiazzo antistante. All'interno è zeppa di gente. Musici indiavolati stanno scandendo ritmi ossessivi al fragore di cembali, campane e tamburelli, ma dopo un po' alternano un accompagnamento di flauti e cominciano ad intonare dei cori pieni di passione e variazioni, oscillazioni e confusione. Al tavolo le gemelle ordinano del malmsey. Un vino dolce, robusto e quasi liquoroso.

Spavaldo alzo il calice:

«Brindiamo a Bacco!» urlo per farmi udire in mezzo a quel rumore assordante.

Beata mi sta osservando mentre bevo un calice dopo l'altro:

«Attento, il vino è un veleno che annebbia la mente».

«Baccus dulce venenum. Alla giusta dose il veleno si trasforma in farmaco» preciso in tono cattedratico.

«E tu da cosa dovresti guarire?»

«Dalla secchezza delle fauci» ribatto.

Le gemelle si stanno divertendo. In quanto teutoniche mi aspettavo di trovare in loro un carattere freddo e distaccato invece, forse addolcite dal clima mediterraneo, sono sempre più allegre e scherzose e non fanno altro che ridere a crepapelle per ogni stupidaggine che dico. Passo a simulare l'omaggio di un vassallo al suo signore e metto le mie mani giunte entro le loro:

«Nobili fanciulle io divengo uomo vostro».

Magda mi consegna il suo anello:

«Ecco a te l'oggetto dell'investitura».

Mi infilo l'anello:

«Ordinate pure, sono pronto a qualsiasi impresa pur di rendervi servizio».

Magda punta i gomiti sul tavolo e fissa in aria indecisa:

«Oh gentil cavaliere, più o meno dovrai mutare il corso del Meno, e noi ti daremo le nostre grazie in beneficio».

«Le vostre grazie?»

«Sì, in cambio ti daremo tutto quel che vuoi» dichiara Magda pimpante.

«Proprio tutto? Anche quel feudo di praticello soffice soffice, quel bel triangolino che avete in mezzo alle cosce?»

«Certo. Perché no» rispondono in coro.

«Starò ai patti, - sempre più arrapato - ma come posso mutare il corso del Meno se non mi specificate i termini della sottrazione?»

Le ragazze scoppiano a ridere:

«Il Meno è il fiume che passa per Francoforte, nel Regno di Germania».

Faccio una smorfia incassando il tiro:

«Non voglio irritare i vostri compatrioti deviando loro il fiume, vi prego concedetemi un'altra prova?»

E' la volta di Beata:

«Dovrai rubare per noi il chiarore della luna» e di nuovo a ridere.

«Ho capito ho capito, mi chiederete di volare come uno stornello o di catturare per voi il cinghiale bianco, tutte cose impossibili. Ma non importa, anche se non avrò i vostri favori mi accontento della vostra compagnia. Mi piace ogni cosa che fate».

Beviamo come spugne, specialmente io, pur noto a Venezia come irrecuperabile e incallito astemio. Sì, in effetti solo nelle grandi occasioni mi azzardavo a bere sì e no mezzo calice, l'ultima volta fu tre mesi fa in compagnia di Zagreo. Dunque non sono affatto abituato al vino e a reggerne l'abuso e ben presto vengo colto dall'ebbrezza.

Una delle gemelle si alza dalla sedia, fa il giro del tavolo e viene a sedersi seriosa accanto a me:

«Cavaliere, esigo da te un comportamento franco. Certo, io percepisco il tuo carattere generoso e retto, apprezzo il tuo modo delicato, ma ti voglio più sicuro, più persuasivo nella condotta, disinvolto senza per questo diventare sfacciato, e sempre sincero, aperto, schietto».

«Sarò sempre franco».

Poi si strofina sul mio fianco e mi profferisce languide proposte amorose:

«Mio bel cavaliere, questa notte mi concederò alle tue brame ma devi giurare fedeltà a me sola».

«Lo giuro».

«Giura di non toccare mia sorella».

«Lo giuro sul mio onore».

Al che scatta via dal tavolo rapita dalle note di una melodia che conosce, raccoglie la sorella e va a ballare al ritmo vivace dei musicanti. La gente fa largo e batte il tempo con i piedi, applaude l'eleganza e le movenze del loro ballo di corte, una estampida. Dopo un po' ritornano al tavolo, la gemella si siede sulle mie ginocchia a rinnovare carezze e segnali di disponibilità amorosa, poi raccomanda:

«Sarai ligio al giuramento di fedeltà?»

«Sì, mia Signora».

«Allora toccami la tetta, nobile cavaliere» mi prende la mano e se la porta sul seno.

«Ma tu chi sei? Sei...».

L'altra gemella mi canzona gongolandosi sulla sedia:

«Vassallo fellone, vassallo fellone. Avevi giurato fedeltà a me sola!»

Brillo com'ero avevo smarrito la facoltà di distinguere fra loro le gemelle. Magda e Beata se n'erano ben accorte e continuavano a giocarci sopra alternandosi sulle mie ginocchia ed ogni volta che mi azzardavo a chiedere loro il nome rispondevano ora giusto ora l'inverso. Le gemelle erano l'una l'esatto specchio dell'altra e più mi applicavo a discernere l’identità di ciascuna, più mi ritrovavo con le idee confuse. Il colpo di grazia fu l'acquavite all'anice, liquore che assume un aspetto lattiginoso allungato con l'acqua. Ci eravamo alzati tutti e tre e ballavamo saltellando con le braccia alzate, arcuando il corpo e rovesciando la testa all'indietro. Le due sorelle mi ruotavano intorno ancheggiando rapide in una specie di trance, la musica le aveva invasate. Le osservavo incantato, con gli occhi lucidi vedevo sdoppiarsi le linee dei loro fianchi. Sorridevano, ciascuna aveva due volti e le gemelle erano diventate quattro. Un ritmo primitivo echeggiava sempre più forte, mi entrava dentro irresistibile come una lama di cristallo, la risonanza mi faceva vibrare da capo a piedi, mi dissolveva in uno spazio etereo lontano e irreale, eppure ballavo con entusiasmo e con una carica mai avuta, un'energia animale mi scuoteva le membra, mi sembrava d'essere lanciato come una pantera nella notte.

Ma le gambe in realtà non mi reggevano e inciampavo e riaccendevo le risa isteriche delle gemelle, mantenevo a fatica l'equilibrio e le gemelle mi avevano dato un'asta e aveva una pigna in cima e così subivo lo scherno dell'intera taverna... poi senza preavviso un brivido che mi fa accapponare la pelle e mi drizza i capelli, una strana vertigine e cado a terra riverso privo di sensi. Una gemella mi prende per le braccia e l'altra per i piedi, di peso mi portano in un letto della locanda e mi lasciano abbandonato nel sonno.

Il mattino dopo: brusco risveglio. Ho riacquistato la facoltà di distinguere fra loro le gemelle, la luce del giorno ha rotto l'incantesimo.

 

* * *

 

Continuando a frequentare assiduamente le gemelle, il mio cuore e le mie attenzioni oscillano di giorno in giorno dall'una all'altra finché mi impongo fermamente di corteggiarne una sola, per non correre il rischio di perderle tutte e due. Quale? Ho deciso per Magda. Il guaio è che Beata non si allontana un istante dalla gemella e le sta perennemente attaccata alle costole! Architetto quindi un piano per separarle e solo a Magda propongo una gita amena al boschetto sopra il lago di Vulisméni, un lago curioso perché ritenuto senza fondo nella tradizione del luogo.

Ma sul crocicchio dell'appuntamento trovo al suo fianco l'immancabile sorella. Ci incamminiamo in tre. Fra il profumo di corteccia sospinto a tratti dalla brezza calda e umida del lago, il sentierino si inoltra nella macchia, folto intrico di bassi arbusti di quercia spinosa dai fusti tortuosi e dal denso fogliame.

Un vento leggero agita le foglie irte di aculei generando un fruscio musicale che attira l'attenzione di Magda:

«Però prego l'Amore

che mi'ntende e mi svoglia

come la foglia vento».

«Bella, cos'è una poesia?» chiedo.

«Una canzonetta di corte».

«Ehi, la scuola siciliana dell'Amor cortese».

«Allora conosci Rinaldo d'Aquino, Iacopo da Lentini?» replica sorpresa.

«No».

Prossimi alla cima di una bassa collina possiamo ammirare il lago sottostante, comunica con il mare attraverso uno stretto canale. Il posto ci piace per cui, nascosti dalla macchia e riparati dal vento, ci sdraiamo in una piccola radura erbosa.

«Che lavoro fai - chiede Magda -, sei per caso un piede polveroso?»

«No, non sono un mercante, sono artigiano. Faccio il mosaicista alla Basilica d'Oro».

Beata mi fissa in viso ed esclama:

«Oh, un artista veneziano! Allora il codino dietro i capelli è il segno distintivo di quelli come te?»

"Sì, è il segno distintivo di coloro che non rinnegano ciò che hanno alle spalle, cioè il passato della loro gente. L'anima artistica del mio popolo vive come un sogno profumato nel cuore di chi come me non ignora le proprie radici, è il sogno che Federico II voleva distruggere tutte le volte che ha cercato di cancellare le nostre prerogative. Egli ci invidiava il valore immenso dei tesori custoditi a Venezia, non capiva che il vero valore di quelle opere non è nell'oro o nell'argento in cui sono forgiate ma nel segno che l'artigiano vi ha lasciato nel tempo» rispondo compito rivolto a Beata.

Magda per dispetto mi scioglie i capelli strappando il nastro che li teneva insieme alla nuca. Per ripicca mi metto a disfare le sue trecce e si accende subito la lotta a cavalcioni l'uno sull'altro. Magda si difende bloccandomi i polsi con forza insospettata, riesce a divincolarsi e si alza. Fa finta di aver abbandonato ogni resistenza, sta ferma in piedi con le braccia conserte. Allora mi piazzo davanti a lei e finisco con calma di sciogliere il nodo a una treccia già mezza scomposta.

Magda mi coglie di sorpresa:

«Artista da strapazzo!» e mi sferra una gran ginocchiata in mezzo alle cosce.

Saltello goffamente dal dolore e infine crollo sull'erba. Mi ritrovo disteso sull'euforbia vicino un gruppo di narcisi, petali bianchi e coroncina gialla al centro. Magda si sdraia al mio fianco, scompone da sola le trecce e libera la sua chioma biondissima. Le sfioro teneramente i capelli ed ella contrae le labbra e socchiude gli occhi ad ogni passaggio della mia mano. Intanto spio Beata con la coda dell'occhio per vedere se capisce la situazione e magari si allontana per un po'. Invece no, Beata fa finta di non vedere, non vuole saperne di mollare la gemella. A 'sto punto gioco il tutto per tutto e incurante di ogni riguardo comincio a baciare Magda sulla bocca. Beata, imperterrita, è sempre lì seduta, dura come un bastone, con un'espressione indifferente e forse solo un po' imbronciata. Mi assale un sussulto di rabbia. In aperta sfida sfioro il seno di Magda e lo spremo fin quando gli strappo un gridolino di sorpresa. Beata si alza di scatto e sparisce a grandi passi dietro la collina, finalmente soli.

Magda allontana piano la mia mano e mi sussurra che è vergine.

«Conosci il bacio alla sveva?» mi chiede eccitata.

«No, com'è?»

«Metti la lingua dentro la mia bocca».

Eseguo e Magda inizia a mordicchiare dolcemente la mia lingua.

Poi tocca a me chiedere:

«Conosci il bacio dell'ape maia?»

«No, com'è?»

«L'ape maia si posa sulla corolla del fiorellino e gli lecca tutto il nettare, vibrando su e giù la linguetta sul pistillo e poi passandola petalo per petalo».

«Dai fammi provare».

A labbra tese e serrate imito il ronzio di un'ape e oscillo il capo mentre le sollevo delicatamente la gonna colorata di rosa. Quindi scendo a trasmettere la vibrazione alla sua pelle, ronzando scorro le labbra a contatto della coscia, liscia e glabra fino alla piega dell'inguine, anch'essa glabra poiché il ciuffetto di peli è spostato verso il centro. Poso la bocca sulla fessura, è incollata da una patina umida e la apro con la punta della lingua, poi scendo leccando fin dove la vulva finisce in basso e risalgo ritmando ogni passaggio sul bottoncino del clitoride.

Magda è attraversata dalla sorpresa per le nuove sensazioni che nascono dal suo corpo ed ha sul viso un'espressione attenta e attonita. A tratti irrigidisce il tronco, contrae le natiche comandata da un impulso irrefrenabile e spinge il pube contro il mio mento. Alla fine si solleva dal suo letto di euforbia e rimane seduta in silenzio. Le chiedo se le è piaciuto. Fa cenno di sì con il capo, mi guarda seria per un attimo, poi sorride e abbassa la testa con delicatezza, come i narcisi che chinano la corolla pendula.

E Beata, dove sarà mai? Una lieve preoccupazione mi distoglie dallo stato di esuberante spensieratezza. Ordino a Magda di aspettarmi sul posto mentre vado a cercare sua sorella. Cammino lungo il sentiero per una abbondante decina di minuti. Non la vedo. Ma dove si è ficcata? Supero l'apice della collinetta, inizio la discesa e finalmente la trovo con le ginocchia fra le mani accovacciata sotto una quercia.

«Scusa, - accenno fra l'imbarazzato e il pentito - ti stavamo cercando, perdonami per prima».

«Non fa niente. Io e mia sorella ci capiamo, non c'è problema». Sospira, si alza in piedi davanti a me e mi fissa acutamente negli occhi con la bocca socchiusa.

Mi sento di nuovo confuso e disorientato, le gemelle si somigliano in tutte le loro scelte e forse anche nella preferenza per lo stesso ragazzo. I suoi occhi chiari mi stanno persuadendo che attraverso Magda in fondo non ho fatto altro che accendere un interesse sopito per lei o forse la preferivo fin dall'inizio e vittima di una scelta affrettata non trovavo il coraggio di ammetterlo.

La sua dolcezza mi riconquista piano piano, ma irresistibile. Beata mi fa un sorriso così tenero che il cuore mi scoppia nel petto, attraverso i suoi tratti adolescenziali mi è ora manifesto l'impenetrabile mistero di una giovinezza che si fa eterna nella sua bellezza. Poso la mia sulla sua fronte pura, col corpo la premo contro la quercia, le stringo le trecce nei pugni, m'irrigidisco nel tentativo estremo di arginare un fiume in piena. D'impulso la bacio sulle labbra e assaporo dalla sua bocca il gusto genuino della felicita ritrovata.

Dopo un po' torniamo dalla sorella rimasta sul posto ad attenderci. Alla vista di Magda non riesco a nascondere il turbamento che mi rode. Magda e Petrangésio, Beata e Petrangésio, di nuovo Magda e Petrangésio, che giri di ballo. Questa volta mi pare sia Magda ad essere imbronciata come se avesse letto l'accaduto negli occhi miei e di sua sorella.

E' già l'ora di rincasare. Sulla via del ritorno le gemelle confabulano fra loro in un idioma incomprensibile, non è tedesco - mi spiegano sbrigativamente - ma un dialetto normanno di origine norvegese, lingua materna ereditata dai loro avi che svevi in realtà non erano. Intuisco che Magda chiede qualcosa alla sorella, questa annuisce con la testa e continua a fissarmi con la coda dell'occhio. Non sono mai stato così imbarazzato in vita mia.

Ad un certo momento Magda mi afferra per un braccio e mi dice all'orecchio senza tanti preamboli:

«Domani faremo l'amore insieme io te e mia sorella, lei mi ha detto che è d'accordo».

Davanti all'inaspettata dichiarazione uno stupore muto rimane stampato sul mio volto, chi si immaginava che le ragazze della corte imperiale fossero così disinibite.

Comincia ad imbrunire, le accompagno a casa tenendole entrambe sottobraccio. Magda ha ritrovato il suo buon umore e intona per me una canzonetta:

«Ohi! e non dovrà più

splendere nella notte

più candido che neve

il corpo suo ben fatto?

Tanto m’ingannò l'occhi

da crederlo il chiarore

della splendente luna.

Ahimé, il giorno spunta...».

Siamo arrivati. Le saluto e torno al mio albergo. Fare l'amore con due ragazze è un'idea estremamente eccitante e mentre mi rigiro insonne nel letto la mia fantasia si scatena ad immaginare i modi e le varianti più idonee per misurarmi con quelle due sirenette. Nell'intreccio voluttuoso dei corpi, gioco con i grossi capezzoli di quattro tettine a punta, sode e dure da star dritte anche a schiena distesa. Mi aggroviglio con le loro cosce lunghe e tornite, sento tante dita affusolate sulla mia pelle, godo delle loro lingue che si alternano nella mia bocca e sul mio sesso. Un simile turbinio di pensieri mi provoca un sonno breve e agitato, le due ragazzine mi hanno sconvolto la ragione, sono totalmente in loro balia, sballottato in un'altalena di emozioni incontrollabili. Avevo creduto che fossero psicologicamente un po' fragili, per via del loro essere gemelle, ed invece il più vulnerabile sono io, tanto che temo di toccare la soglia della follia. Perché ho paura di due innocenti maliziose fanciulle? Nell'Isola che non c'è, due dolci vergini hanno teso l'insidia della loro rete da caccia ed io sono finito intrappolato nel potere suggente delle sue maglie invisibili.

All'alba si installa nella mia mente un richiamo prepotente che credevo avere scordato: la signora dell'ultimo di Carnevale. Convinto di sottrarmi al sortilegio delle due ninfe e di ritrovare il senno perduto, decido improvvisamente di partire alla volta di Archanes. Interminabili piantagioni di ulivi riconsegnano alla pace il mio spirito.

 

* * *

 

Archanes fa parte della regione costiera del sestriere di San Polo, uno dei sei sestrieri in cui è stata suddivisa l'isola al pari di Venezia. Il paesello è adagiato al centro di lievi colline ricoperte di basse vigne rinomate per l'uva da tavola. Semplici case in muratura imbiancata occupano il fondovalle e gli scoscesi pendii. Su di una altura prospiciente, chiamata Fùrnu Korifì, c'è una ripida scalinata che porta ad un nucleo disabitato formato da un centinaio di stanze in pietra collegate fra loro da corridoi in muratura. Sono le rovine di un popolo sconosciuto e infondono al luogo il fascino arcano.

Evidentemente, in mezzo alle casupole dei popolani greci una villa patrizia non può certo passare inosservata, il che rende fin troppo facile rintracciare la ragazza della famiglia Orseolo. Ecco che dall'unico elegante palazzo del centro esce una giovane aristocratica: ha la sua altezza e la sua camminata, è veneziana, è lei!

Il cuore mi batte all'impazzata, le faccio subito un inchino, mi avvicino per vederla meglio da presso e incautamente le poso lo sguardo sul petto in cerca della spilla d'argento. Irritata, sprezzante, la ragazza passa oltre senza degnarmi di uno sguardo, le leggo in volto quella solita manifesta ripugnanza che le nobili riservano agli uomini di categoria inferiore.

No, forse mi sbaglio, gli occhi sono chiari ma non abbastanza, non sembrano i suoi, sarà meglio chiedere informazioni in giro. Entro nella locanda del centro, l'oste è veneziano sicché mi è sufficiente interpellarlo per ottenere informazioni più precise. Il palazzo degli Orseolo è in realtà nelle vicinanze del mare, un po' appartato rispetto al centro.

Edificato secondo lo stile delle ville venete, possiede classiche finestre ogivali che in quel clima assolato svolgono alla perfezione il loro compito di proteggere dalla luce eccessiva. I muri sono spessi. Il secondo piano ha una terrazza orlata di merli, il terzo piano si riduce ad una piccola torre fortificata. Il muretto di pietra che circonda il parco della villa è interrotto da un cancello abilmente lavorato e sorretto al lati da due colonne gemelle. I loro capitelli in stile ionico terminano con volute a spirale e portano scolpita la vocale Omega, ultima lettera dell'alfabeto greco ed iniziale di Orseolo.

Prima di varcare la soglia ho un attimo di perplessità. Non vedo l'ora di dare un volto a quella sconosciuta ma nel contempo avverto il pericolo possa andare perduto l'alone di fascino che l'ha avvolta finora. Non voglio infrangere un sogno che ho coltivato con amore dentro di me: l'ho trasformata in una eterea creatura della mia mente, l'ho immaginata nelle sembianze di una superba regina ed ora, nell'imminente confronto con la realtà, temo di compromettere tutto.

Rompo ogni indugio, prendo coraggio e supero il cancello, nel prato interno due lepri si rincorrono veloci. Percorro il sentiero ombroso del parco e poi tra i gigli e le erbe profumate proseguo in un giardino, costeggio al suo centro la fontana dei pesci e infine, sotto i rampicanti, vado a bussare al portone d'entrata.

Al socchiudersi dell'uscio appare lei, la ragazza dell'ultimo di Carnevale e non può essere altri che lei, con quegli occhi celesti dolci come il miele, inconfondibili. Però la pensavo più giovane, avrà un ventidue anni, ha il colorito un po' pallido ed i capelli dai riflessi rossicci. In effetti me l'immaginavo assai più bella di quel che non sia e devo ammettere che pur nella gentilezza dei lineamenti... sopracciglia sottili, collo candido e bocca ben disegnata sopra la fossetta del mento, ella ha un viso comune a tante altre ragazze veneziane.

Finalmente ho scoperto chi si cela dietro la maschera bianca decorata dal fregio e abbellita dalle pietre preziose; lei al contrario non mi ha riconosciuto, non può immaginare di avere ora davanti a sé l'uomo della maschera di cuoio nero.

La nobile ha dei lunghi capelli cinti alla fronte da una coroncina d'argento adorna di perle e porta una tunica bianca in fine e sottilissimo cotone di Bucherame; sopra, indossa un velo roseo, avvolto intorno al corpo come un mantello per coprire ciò che la tunica trasparente lascerebbe troppo facilmente intravedere. Nell'atto di scostare la tenda dal portone la mantellina scivola un po' dalle spalle e scopre un’instante la tunica, quanto basta per riconoscere il profilo gonfio dei suoi seni: la tunica è così aderente da recare la delicata impronta dei capezzoli ed il cordone legato appena sotto le ascelle non fa che evidenziare le rotondità di cui vedo in trasparenza le belle linee.

Mi sento sopraffare, vacillo come sotto l'urto di un'onda troppo vasta e per alcuni attimi una densa oscurità occupa la mia mente. Sono sull'orlo di cedere, quando una compiacente espressione dei suoi occhi suscita in quel buio una scintilla:

«Signora gentile, sono un veneziano appena giunto con la carovana di primavera e cerco lavoro come maggiordomo. Ho saputo dall'oste che la vostra illustre famiglia è qui da poco tempo. Immagino abbiate già trovato servitù greca a sufficienza, ma suppongo che vi manchi un maggiordomo, una sorta di siniscalco atto a coordinare e a stimolare i vostri sottomessi per ottenerne la massima efficienza. Solo un veneziano con la mia esperienza può fare al caso vostro. Nobile Donna, io vi prego, accettate il mio servizio».

«Se ne può parlare, entrate pure».

Mi pare di varcare le porte del paradiso, la cosa promette bene, troverò lavoro e chissà, forse il suo amore.

Entriamo in un ampio soggiorno affrescato con scene marine e ci fermiamo al cospetto di una nobile d'una certa età, una cinquantenne esageratamente obesa, quasi più larga che alta, sprofondata nei cuscini di una possente poltrona ornata ad intaglio. Ha la faccia a luna piena, un po' di peli al labbro superiore e la gobba di un bufalo. Regge fra le mani un rosario d'argento e subito comincia a sfogarsi mentre sto in piedi compunto ad ascoltarla:

«Un veneziano! Ah, il clima di quest'isola maledetta mi rovinerà l'esistenza, fa già troppo caldo, in giardino c'è un'afa insopportabile, mi obbliga a starmene in casa all'ombra. Tu sapessi, la calura mi provoca una sete inestinguibile e l'eccesso di luce mi fa calare la vista, faccio sempre più fatica a ricamare i panni d'altare per la chiesa».

Quando infine mi concede la parola apro la bocca per proporle la mia offerta di lavoro, ma la giovane mi previene:

«Si è offerto di fare il maggiordomo per noi».

La matrona mi squadra allibita, sicché rimango muto e impacciato mentre ella va assumendo un contegno distaccato e un tono pieno di superbia:

«Sei troppo giovane per fare il maggiordomo, ti manca sufficiente autorità per comandare i greci a bacchetta, possediamo trenta famiglie di contadini tra il grande vigneto di Vathypetro e tutti gli oliveti di nostra proprietà. Quella marmaglia non ha voglia di far niente, ogni volta che si ordina qualcosa ci mettono il doppio del tempo. Per non parlare delle domestiche greche che non sanno nemmeno apparecchiare la tavola. Puah! Per fortuna siamo state previdenti, noi qui abbiamo una lavandaia, un sarto e un cuoco che sono veneziani... come pure Putiferio, il nostro fedelissimo servitore che ha l'incarico di custodire la stalla e di controllare stoviglie e candele. E' un ragazzo veramente serio, nonostante il soprannome».

La matrona ridacchia sotto i baffi e si gira indicando alle sue spalle un servitore paffuto e mezzo pelato benché giovane, con l'occhio porcino, le sopracciglia rade e l'espressione sonnolenta e amimica di uno che si sia appena alzato dal letto. Intuisco che il soprannome del servitore afferma il contrario della sua natura, il suo aspetto esteriore non evoca per nulla un putiferio, la fastidiosa confusione creata da persona che urli scompostamente, bensì evoca una tranquilla e silenziosa impassibilità.

«Tu invece chi sei?- riprende a dire la balena - Il primo venuto, un illustre sconosciuto che viene a bussare alla porta! Non credere che fare il maggiordomo qui da noi sia semplice, nient'affatto, il lavoro è raddoppiato perché manca mio figlio. E' via per lavoro e non tornerà prima di 40 giorni. Bel tipo anche quello. Mica si accontenta di aver appena ricevuto un piccolo feudo, e non gli basta avere il magazzino pieno di tessuti... macché, deve mettersi a trafficare con i carichi di allume. Ci occorre l'allume per fissare da noi i colori sui tessuti dice lui, e così ne inventa un'altra di nuova per svignarsela, invece di rimanere qui a pensare alla famiglia. Non ha fatto in tempo a posare piede a Candia e organizzare il feudo in fretta e furia che ha voluto subito ripartire con un convoglio, ha detto che non poteva perdere l'occasione, a Bisanzio lo aspettava un carico di allume. Per conto mio vuol fare troppe cose insieme e finisce per trascurare sua moglie, una Cornaro poi».

Ahi, ahi... sua moglie. Ma allora è sposata, questo complica le cose. Comunque sia, insisto:

«Proprio per l'assenza del padrone vi è utile un maggiordomo di fiducia. Vi sarà più facile istruire e addomesticare il personale, sorvegliare la qualità dei pranzi ed assumere messaggeri per portare le lettere. Potrei aiutarvi a calcolare meglio i profitti e le tasse, a controllare i raccolti, la compravendita delle merci, la riparazione dei carri, il modo di uccidere il bestiame e di curarlo».

«Onestamente ha ragione - interviene la giovane alzando un po' il tono -. In sostituzione di vostro figlio, la responsabilità di amministrare il feudo pesa unicamente su noi due e fra poco verremo sopraffatte dal carico di faccende se non riusciamo a demandare una parte degli incarichi. Voi non uscite mai di casa però a me tocca girare ogni momento per i terreni, ieri ho dovuto interessarmi personalmente perfino per ingrassare le ruote di un carro, lo sapete pure che i contadini non muovono un dito se non sono costretti».

La suocera appoggia il mento sul palmo della mano e indecisa riflette sulle argomentazioni appena udite. Ne approfitto per rincarare la dose:

«I villici conoscono mille trucchi per imbrogliare il padrone con falsi pesi e false misure, tutti conoscono la sordida guerriglia del contadino greco che sabota le corvè, ruba nei campi di nascosto e fa il bracconiere nelle riserve del signore».

La giovane:

«Dobbiamo pur difenderci da simili razzie!»

«E va bene, Rézia, lo assumiamo. Lo terremo in prova fino al ritorno di mio figlio, visto che non sarà possibile informarlo per lettera della nostra decisione».

«Vi ringrazio nobili Signore, lieto di pormi al vostro servizio».

«A proposito come ti chiami?» mi chiede Rèzia.

«Delfino».

Per la circostanza ho tirato fuori il mio secondo nome, non lo uso mai e quasi nessuno lo conosce, mi è venuto in mente osservando la parete del soggiorno: sull'affresco appena sopra la porta compaiono cinque delfini azzurri che nuotano in un mare lattescente e pescoso.

 

* * *

 

Un paio di settimane volano via senza che giunga l'occasione propizia per rivelare alla padroncina la vera identità della mia persona.

Pur avendo accettato la mia assunzione la signora Orseolo ha costantemente alcunché da ridire intorno al mio operato, e forse a ragione, poiché in effetti pratico un mestiere frutto di improvvisazione. Per fortuna la Cornaro preferisce credere che quelle lamentele siano espressione del carattere petulante e brontolone della suocera piuttosto che della mia inesperienza. Nonostante le molte gaffes, ottengo stima e collaborazione da parte dei servitori perché li tratto umanamente e con rispetto, tutti quanti, compresa la giovane schiava berbera che proprio per questo mi si è affezionata. Solo con Putiferio è impossibile stabilire una intesa, diffidenza e sotterranea ostilità nascono in lui dall'invidia e dal risentimento verso di me perché si ritiene defraudato dalla mia intromissione. Comunque nel complesso le varie faccende vanno in porto e la padroncina mi ha dimostrato la sua piena fiducia mettendomi nelle mani le chiavi della villa.

Una sera la Cornaro mi manda a chiamare mentre è sola nell'ampia terrazza merlata, vuole lasciarmi delle disposizioni. Salgo in fretta le scale e la trovo seduta ad attendermi. Indossa un vestito alla moda tutto blu e ricamato di stelle, ha lo strascico e lunghissime maniche che scendono dai polsi fino a terra. Una cuffia di lino ricamato le raccoglie i capelli con l'ausilio di una reticella metallica che all'altezza delle tempie sale in alto e in fuori con due protuberanze a semiluna. La scollatura squadrata è poco ampia. La sua pelle è quella di una principessa, lucida e bianca, colorito che serba gelosamente umettandosi la pelle con il latte di asina e rinfrescandola con la rugiada che i servi le vanno a raccogliere all'alba.

Mi accoglie con un accenno di sorriso:

«Devi portare pazienza per le lamentele della signora Orseolo, non è mai contenta di nulla. Ho fatto i conti delle spese e delle entrate registrate e ho constatato che le cose non vanno poi male».

«Faccio del mio meglio» rispondo con un inchino.

«La Orseolo è asfissiante con il suo bigottismo, pensa che ha convinto mio marito a cedere un quarto del feudo alla Chiesa, tutto per avere la sicurezza di un posto in paradiso».

«E' una Signora molto generosa, fa spesso l'elemosina ai poveri» ma Rézia sembra non aver udito.

«In che sestriere abitavi a Venezia?» sussurra in tono d'intesa.

«A San Marco. Avete forse nostalgia di Venezia?»

«Sì un po' - e sospirando si gira per sottrarre alla mia vista la sua espressione rabbuiata -.Qui mi annoio, non ho amiche, - si confida - ho perso perfino la compagnia della mia serva prediletta, piuttosto che rinunciare al suo fidanzato per venire a Candia ha preferito licenziarsi».

«Perché non visitate l'isola, è stupenda!»

«Viaggiare è pericoloso, non mi fiderei nemmeno della mia scorta».

«Organizzate qualche festa nella villa...».

«Mio marito non vuole gente per casa, è selvatico e scontroso, e che altro potrebbe essere uno che si chiama Orso Orseolo» conclude concitata.

«Vostro marito avrà pur ricevuto visite quando abitavate a Venezia?»

«Beh, un paio di amici, facevano interminabili partite con quei maledetti scacchi di ebano».

«Ma allora come passavate le vostre giornate nella capitale?»

«Segregata nelle mie stanze, perennemente reclusa come una monaca nel chiostro, non uscivo nemmeno per andare a messa perché gli Orseolo possedevano una cappella all'interno del palazzo. Passavo l'esistenza a cucire, a leggere salmi e a guardare dalla finestra le gondole che passavano. L'unica cosa che mi dava un po' di conforto era la lettura di un libro...».

«Che libro?»

«Il romanzo di Alessandro Magno, il condottiero che ha conquistato le terre del Levante fino ai confini con le Indie. Trainato da due grifoni, ha esplorato il fondo dei mari e le meraviglie dei cieli».

«Ah sì, il bassorilievo della facciata nord della Basilica d'Oro, Alessandro sul carro trionfale e i grifoni che intrecciano le code» esulto.

Ma dato che mi guarda in modo strano, cambio discorso:

«Avevate altri libri?»

«No».

«Non avevate un laboratorio di telai? E' un buon diversivo per le nobili stare a capo di quegli ambienti di sole donne, se non altro per chiacchierare con le filatrici».

«Sì lo avevamo».

Riprende contrariata:

«Mi sarebbe piaciuto comandare il telaio, ma mio marito ha lasciato a sua madre l’esclusività del compito».

«E voi non vi siete ribellata?»

«Lo sai bene che è inutile ribellarsi, l'uomo è il padrone della donna».

«Perdonatemi se vi faccio troppe domande. Ma ha forse qualche rancore contro di voi?»

«Sì, forse».

«Dite, se potete».

«Non gli ho dato ancora una discendenza, sebbene si sia sposati da molto. Avevo dodici anni quando ho celebrato le nozze».

«E' il minimo consentito dalla Chiesa».

«Lo so, fu per volontà dei miei genitori».

Si alza in piedi e va verso il parapetto della terrazza. Nel grazioso incedere solleva appena la gonna con la mano, ha i piedi nascosti dallo strascico ricamato di stelle sicché sembra scivoli leggera sul pavimento, senza muovere le gambe. Si ferma tra i merli di pietra del parapetto e fissa lontano oltre il mare.

Mi accosto, deciso a rivelarle la mia identità:

«Noi ci siamo già incontrati a Venezia, -sottovoce- ma voi non potete ricordare».

«Dove? Hai lavorato alla festa di matrimonio di mia sorella?» puntandomi gli occhi addosso alla luce della torcia.

«Ricordate l'ultimo di Carnevale? La calle ove mi conduceste per mano...».

Rezia arrossisce confusa e abbassa il capo:

«Oh, eri dunque tu. Quel giorno avevo perso il gruppetto dei nostri amici, ero completamente ubriaca» e lo dice con un'intonazione che lascia trasparire, scoperta e vulnerabile, tutta la sua femminilità.

Le prendo una mano:

«Sono venuto fin qui per il semplice desiderio di rivedervi, vivo nella nostalgia del breve momento di felicità che mi avete regalato quel giorno a Venezia, da allora non ho fatto altro che pensarvi, intensamente. Ho attraversato il mare alla vostra ricerca ed ora che vi ho trovato, rendo omaggio alla donna nobile e gentile che è in voi».

«Tu sei tutto matto» esclama ridendo.

«Sarà che mi avete fatto andare fuori di testa» mormoro fissandola dritto negli occhi.

Lei si morde le labbra e mi scruta con la coda dell'occhio:

«Per fortuna che non c'è mio marito, altrimenti ti farebbe scorticare vivo».

«Io ti amo» accostandomi con la voce carica di emozione.

«Proprio un bel guaio» annuisce eguagliando il tono della mia voce.

«Oltre, e più dell'amore, io sono una sola cosa con te, acqua della tua acqua, goccia del tuo mare».

Rezia mi viene così vicina che trovo subito la sua bocca da baciare. Oh sì, quanto, quanto! Mai labbra di donna suscitarono in me gioia più intensa. Era un'emozione estremamente violenta ed estremamente delicata, sorpreso e incredulo non riuscivo a capacitarmi per virtù di quale miracolo un bacio, un semplice bacio, potesse darmi tanto!

Intanto era scesa la notte e il suo vestito riluceva di stelle come una galassia, candide gocce sparse in cielo dalle mammelle di una dea. Rezia sorride, abbassa una spallina e poi l'altra e scopre quelle tette che da mesi sognavo senza posa. Ora posso sfiorarle con le dita e leccarne dolcemente i capezzoli.

 

* * *

 

Eludere la sorveglianza perpetua dell'intrigante suocera di Rezia non era certo un compito facile e richiedeva una buona dose di astuzia. Così avevamo preso l'abitudine di darci appuntamento col buio nel giardino del parco ove restavamo appartati vicino la fontana, una grande vasca di pietra piena di pesci. La signora Orseolo abitava al piano superiore, le nostre camere da letto erano invece al pianterreno e davano sul giardino, per cui, fingendo di andare a dormire, ci era sufficiente scavalcare le finestre per poterci tranquillamente incontrare nel cuore della notte.

Nascosti dagli ulivi e inebriati dal profumo dei cipressi, stavamo comodamente adagiati nell'erba, stesi sotto i gigli che sembravano vegliare su di noi. I baci di lei erano dolci come latte e miele e a quella fonte la mia sete non si estingueva mai, più insistevo ad attaccarmi alla sua bocca più cresceva in me il desiderio di nuovi baci, e decine e decine di volte tra una carezza e l'altra le dichiaravo il mio amore.

Una delle ultime sere di aprile, alzandoci dal prato, ci sediamo sul bordo della fontana. Rézia indica il centro della vasca e mi confessa quanto la ecciti la Leda col cigno, una statua marmorea in effetti molto sensuale: vestita solo di una stretta collana di perle, Leda ghermisce con la mano il lungo collo del cigno e sfiora con le sue labbra il becco dell'uccello; il grosso cigno dischiude appena le ali, preme le zampe palmate contro i fianchi di lei e penetra tra le sue cosce con la coda di piume, in amoroso amplesso.

Ella mi sussurra:

«Vorrei che un mago ti trasformasse in cigno così potrei imitare Leda e accoppiarmi con te».

«Certo, mentre ti monto ti farei aria con le ali, quando c'è afa» mimando con le mani uno sbattere d'ali.

«Mhm, mi piace... farsi pizzicare i capezzoli col becco, mi fa venire i brividi. Capita anche a te di avere qualche fantasia erotica?»

«Come no- in realtà fantasie del genere non me ne venivano mai -. Se il mago potesse trasformarti nell'acqua della fontana, io vorrei essere mutato in un... pesce palla».

«Un pesce palla? Perché?» spalancando gli occhi.

«Boccheggia boccheggia, ti sedurrei con le bollicine d'aria della mia bocca» e gonfio le guance per fare il gesto del pesce che boccheggia. Ma il mio gesto istrionico risveglia soltanto le sue risa.

L'argento luccica nella penombra, è la sua spilla a forma di chiave, quella stessa che Rezia portava al petto l'ultimo di Carnevale:

«Sono le chiavi di S. Pietro?» domando per scherzo.

«Sì, io sono la Papessa!»

Faccio per inchinarmi a baciarle l'anello ma mi fermo a mezz'aria, colto da un ripensamento:

«Ma non è possibile, il papa può essere solo uomo, Habet duos testiculos et bene pendentes».

«Non è vero, è esistita anche una Papessa».

«Quando mai?»

«Dopo la morte di papa Leone. Si era travestita da uomo ma era una ateniese di nome Giovanna».

«La Papessa Giovanna! E come andò a finire?»

«Sopraffatta dalla passione per un diacono restò incinta e un bel giorno... assalita alla sprovvista dalle doglie partorì in un affollato vicolo di Roma».

«Mi immagino lo sbigottimento dei passanti, un momento prima fanno ala al suo passaggio, si inginocchiano supplici e osannanti, poi l'incredibile: a meta vicolo il papa si sente male apre le gambe e partorisce».

Rezia muta espressione, si fa seria in volto, ha sentito un fruscio e si gira spaventata. Da dietro un cespuglio, avvolta in veli traslucidi, sbuca la giovane schiava berbera; sedendosi fra noi bacia Rézia sulle labbra e poi lievemente la mia bocca.

Ha sentito le nostre battute sulla Papessa e inizia con parole pacate e vibranti:

«Nella notte dei tempi, Zeus fu partorito a Candia in una grotta. Sua madre era la madre di tutti gli dei, la dea suprema che non ha alcuno sopra di lei...»

«Qualcuno avrà pur generata?» obietto.

«La Grande Dea è sorta dall'Oceano, sotto le ali nere della Notte».

«Dal nulla».

«Proprio così».

«Dunque l'eterno femmineo?» accenno.

«Sì, l'eterno scorrere della sostanza umida».

«Però i ministri del culto erano uomini».

«No erano donne».

«Donne? La donna, si sa, può essere solo incarnazione e strumento del diavolo! Chi ti ha raccontato queste storie?» scandalizzato.

«A quei tempi vigeva nella società il matriarcato, le sacerdotesse celebravano i loro riti ebbre del vino dei primissimi agricoltori del Mediterraneo."

«Ubriache» interviene Rézia.

«Ubriache... e ballavano al ritmo fragoroso dei tamburi».

«Un ritmo di tamburi assordanti, come può elevare lo spirito al divino?» obietta.

«Il ritmo scuotente trasmette un'energia primitiva, risveglia un’animalità irruente, ossessiva, e tuttavia infonde un sacro trasporto. Le melodie del coro comunicano la dovuta carica emotiva e al culmine della frenesia le sacerdotesse danzanti vengono invasate, cavalcate dalla Dea fino a frantumare i limiti della coscienza».

«E la Papessa che le guida?» chiede Rezia.

«Balla nuda al chiaro di luna, stringe serpenti con le mani e si abbandona alla voluttà della carne per comunicare con la Grande Dea assisa in trono tra le due pantere».

«Anche questo! I nostri preti dicono che il sesso è una cosa spregevole e impura» controbatte.

 

* * *

 

La notte del primo maggio Rezia arriva euforica all'appuntamento, l’è balenata l'idea del bagno di mezzanotte. Raggiungiamo insieme la spiaggetta poco distante, lei si ferma alle mie spalle e si slaccia dai fianchi la larga cintura da amazzone.

Intorno è chiaro. Una luna piena incredibilmente grande e luminosa traccia sul mare una scia di riflessi argentei, innumerevoli luci che nella frazione di un attimo si accendono e si spengono lampeggiando sulle onde. Non dissimile da quel fugace brillare m'appare l'effimera mia vita, dispersa nell'immensa schiera di esseri che si creano e si annichilano nel grande oceano dell'esistenza.

I miei pensieri volano al bellissimo, estasiante inno a Rhea:

«Signora assoluta delle fiere selvagge

vieni nella notte al fragore dei cémbali,

rapida come il vento sul carro di leoni.

Potenza incarnata nella sposa di Crono

apri all'amore con la tua magica chiave,

sciogli soave l'intricato nodo del cuore.

O vergine pura, madre degli immortali,

vieni nella notte al fragore dei cémbali

e donaci ricchezza, serenità e fortuna».

Girando la testa in dietro verso Rézia mi accorgo che s'è frettolosamente spogliata e nuda stringe con le mani i seni rigonfi, drizzando i capezzoli in una vibrazione di piacere. Si bagna nell'acqua fresca mentre io mi sdraio lungo il bagnasciuga, a contemplare il divino incedere di quel corpo illuminato dal chiarore lunare.

Mi è presto accanto, tanto vicina da poter carezzare con lo sguardo la rugiada di gocce che luccica sulla sua pelle. Sento sulle anche l'umido contatto del suo corpo bagnato, Rézia mi solleva la tunica e si posa a cavalcioni sul mio membro... vi oscilla leggera, prima sospesa sulla punta poi scivolando fino in fondo, a ritmare su e giù ondate di indescrivibile voluttà. Intensissimo e ineluttabile, l'orgasmo viene a travolgere la ricerca stessa del piacere e la soffoca nell'appagamento. Poco dopo Rezia s'allontana e va a recuperare i suoi vestiti mentre io rimango a lungo steso sulla riva, immerso e abbandonato in uno stato di torpore profondo.

Ad occhi chiusi rivedo i mosaici del soffitto della Basilica d'Oro e mi soffermo sui colori smaglianti dell'albero sopra il pozzo: il verde delle fronde, il tronco dorato e tripartito, il rosso vivo dell'incavo alla sua radice, il grigio perla e il bianco del pozzo. Ma? Adesso ho capito. L'albero sopra il pozzo è il Mercurio Filosofale!

Penso al contatto con la potenza immensa della Prima Materia... ed ecco improvvisamente mi sento invaso da una potenza infinita, quella della materia indifferenziata substrato di ogni cosa... mi assale una certezza assoluta, esperimento la verità con un’intensità tremenda, tremenda, incredibile, senza paragone... ho la chiara consapevolezza dell'unita dell'universo... sono al di fuori del mio corpo, proiettato in tutte le direzioni dello spazio... sono ovunque... sono ogni cosa, partecipo intimamente di ogni essere. La mente vuota... serena, libera e pacificata.

E' per me la prova tangibile e concreta che l'Alchimia non mi ha ingannato, un immane potere ha effettiva dimora dietro l'innocua immagine di quel mosaico. I tesori del mondo intero non valgono la suprema avventura di questa esperienza, allorché la Prima Materia pensa se stessa attraverso la mente di un uomo e accende se stessa nel bagliore di quella folgorazione.

Mi sento trapassare da parte a parte da delle scariche di fulmini. Un fuoco mi sale alla testa lungo la spina dorsale. La schiena s'irrigidisce e rigirandomi sui ciottoli appuntiti mi accorgo di non percepire le sensazioni dolorose. Il respiro è affannoso, ha assunto un ritmo veloce a pieni polmoni, poi rallenta, lascia spazio a brevi periodi di apnea. Segue l’immobilità completa. Mi è impossibile spostare gli arti, anche muovere un dito. Rimango a lungo in quello stato, non so dire quanto, a me parve un’eternità, avevo perso completamente la nozione dello spazio e del tempo.

Man mano che riaffiora la debole percezione di ciò che mi circonda, mi giunge il fragore dei flutti che abbattendosi sulla riva rompono il profondo silenzio della notte. Lacrime scendono, prima di gioia poi di compassione verso tutti gli esseri, e vedo sfilare l'intera generazione delle specie, dagli enormi cetacei ai più fragili insetti che lottano per la sopravvivenza. Partecipe dell'interezza della natura mi confondo nei loro atti d'amore, nel volo felice di due gabbiani come nel polline che scende sulla corolla e là si riposa. Mi fondo nel sottobosco della verde vita, sono pioggia che cade su foglie riarse, risalgo le vette innevate, esploro gli abissi marini ed ecco inumidirsi la mia pietra porosa... sono roccia di un'isola sommersa.

Un coro gregoriano risuona dalle navate di una immensa cattedrale: Dies irae dies illa, solvet saeculum in favilla... e nel medesimo istante vedo da ogni parte innumerevoli bocche e braccia e palme protese. Milioni di occhi mi fissano sgomenti, son tutti lì, presenti all'appello, i vivi come i morti. C'è l'amato mio nonno che mancò precocemente, ne odo la calda voce: mi chiama come mi chiamava da bambino. Ci sono i miei amici di Venezia, e i miei nemici, sì anche loro, là in disparte. Più oltre una moltitudine di storpi che tende le mani e sgrana gli occhi, a schiere avanzano i derelitti, miriadi e miriadi di sconosciuti che soffrono la malattia, l'ignoranza, il rifiuto, la prigionia.

Qualcuno mi sta venendo incontro nel buio, è Zagreo, con i suoi ricci neri, la barba incolta e un sorriso luminoso sulle labbra. Lui non poteva mancare, finalmente lo riabbraccio, ora è più vicino che mai, come nei pozzi, la notte in cui lo tenni abbracciato piangendo, la morte non ci ha divisi siamo ancora uno, uno per l’eternità.

Sul bagnasciuga sento sussurrare il mio nome:

«Petrangesio».

Non riesco ad aprire gli occhi, le palpebre mi rimangono incollate. Passano alcuni minuti prima che possa socchiudere gli occhi in fessura e vedere Rezia, china su di me con i raggi della luna che filtrano attraverso i suoi capelli.

«Che cosa ti è successo? Ti senti male?» chiede preoccupata.

Non posso articolare le parole, i tentativi mi costano uno sforzo spropositato. A poco a poco rientro in me, mi guardo le mani per prendere possesso del mio corpo, sollevo la testa e mi guardo intorno per capire dove sono.

«Che ora è?» chiedo per prima cosa, senza ascoltare la risposta.

«Dimmi perché soffri?» supplica Rezia per ottenere una spiegazione.

Mi alzo lentamente e appena in piedi sento un brivido lungo la schiena, un raggio di luce mi attraversa e prosegue illimitatamente oltre i piedi e la testa, sto per richiudere gli occhi, devo lottare per non sprofondare nuovamente in quell'estasi.

«Rézia - pronuncio con dolcezza - non esistono parole al mondo... non c'è modo di spiegarti ciò che ho provato. Questa incapacità mi spiace, come al pittore che dipinge e cancella, dipinge e cancella ma non riesce a riprodurre l'oggetto esattamente come vorrebbe. Cercherò di spiegartelo con uno scritto, parole comunque inadeguate».

«Accetterò le tue parole inadeguate, non è da biasimare a che s'appiglia l'uomo che cade in mare. Ma...».

Appoggio il dito indice sulle sue labbra:

«Ti prego, ora non farmi altre domande. Non so quale fra gli umori corporei abbia potuto produrre questo stato di sonno inusuale, non può essere stata la pituita, né l'eccesso di sangue, di bile gialla o nera che sia. Dev'essere stato un umore del tutto sconosciuto anche ai nostri medici».

Rézia tace e mi getta le braccia al collo. In piedi nel bagnasciuga restiamo abbracciati a lungo con l'acqua alle caviglie, ad ascoltare le parole del mare.

 

* * *

 

Le finestre della villa illuminate dalle torce e all'interno un gran trambusto: al ritorno dalla spiaggia comprendiamo di essere stati scoperti.

Rimango appostato dietro i rampicanti mentre Rezia, spaventatissima, si decide ad entrare in casa per prima. Spiando dalle finestre la seguo con lo sguardo, di fronte a lei la signora Orseolo urla ed impreca furibonda, agita con gran foga un mantello e lo mostra alla servitù che si è raccolta intorno. E' il mio mantello di cotone! L'ho dimenticato ai piedi del davanzale, nel giardino, mentre aiutavo Rézia a scavalcare la finestra della sua camera.

Inteso come stanno le cose, purtroppo non mi resta che allontanarmi dalla villa, o meglio, scappare via al più presto, perciò entro nella mia camera dalla finestra socchiusa, prendo i miei soldi e metto alcuni vestiti nella bisaccia, appena in tempo per udire la nobildonna che batte i pugni sulla porta chiusa a chiave. Salto dalla finestra e mi dileguo a gambe levate.

La signora Orseolo ha ordinato al cameriere Arione e ad altri due giovani greci di rincorrermi per riacciuffarmi. Anche il grasso cuoco ed il sarto ossuto mi inseguono in coda ma presto si perdono per strada. I greci, più veloci di me, all'ingresso del paese stanno per raggiungermi quando di botto si fermano tutti e tre ed Arione mi grida alle spalle:

«E' stato Putiferio a fare la spia. Fa buon viaggio, porcellone di un veneziano!»

Passano i giorni. Solo e pensoso i più deserti campi vado misurando a passi tardi e lenti, rifuggo l'interagire con la gente e oltrepasso gli abitati a sguardo spento. Spesso, il bisogno di lei si fa intenso, bruciante, insopportabile, mi convince che non potrò resistere a lungo senza il conforto dei suoi baci... allora ansimo come un folle, cerco sulle mani il profumo rubato ai suoi capelli, evoco il tepore dolce della sua pelle e sento l'umida sua bocca incollata, morbida sulla mia. L'amore che nutro per lei è un albero dalle tenere foglioline e non posso sradicarlo senza morirne, poiché esso possiede lunghe radici che penetrano in profondità nel mio cuore. L'immagine di Rézia è costantemente impressa nei miei occhi. Nell'acqua chiara e sopra l'erba io l'immagino viva e sorridente, e quanto più selvaggio e più deserto è il luogo tanto più bella l'adombro nei miei pensieri. Il volto suo si stampa nella natura incolta ed ogni qualvolta appare, pallida sulle rocce, riesco a dimenticare me stesso e la mia pena. Tanto mi appaga quest'illusione che altro non chiederei, se solo potesse durare in eterno.

Errando senza meta, supero la cittadina di Rethimnon e cambio direzione dirigendomi verso l'interno dell'isola. Raggiungo così l'altipiano pianeggiante e circolare di Omalòs, coperto di acquitrini e abitato solo da pastori. Salgo ancora fino al passo da cui posso ammirare il maestoso innalzarsi delle Montagne Bianche, fittamente ricoperte da pini enormi e da isolati cipressi. E' incredibile, eppure anche in primavera inoltrata quelle pendici sono solcate da lingue di neve che scendono ripide lungo i fianchi.

Calo di quota. Oltrepasso il remoto villaggio di Samaria e la nei dintorni, mi capita di perdere le tracce del sentierino. Finisco nel fondo ghiaioso di un torrente, un continuo susseguirsi di gole profonde e impressionanti, incassate tra le più alte cime delle Montagne Bianche. Pareti a picco salgono sopra la mia testa per oltre seicento metri mentre l'ampiezza del corridoio scavato dall'acqua non supera i tre metri. Nel camminare mi massacro i piedi sui ciottoli, ostacolato dal rigoglio degli oleandri, costretto a superare ripetutamente il letto del torrente e talvolta piccoli strapiombi di roccia in discesa. Percorro faticosamente una ventina di chilometri. Avanzando verso il fondo delle gole le pareti si accostano sempre più e a tratti il passaggio diventa talmente angusto che se fossi a cavallo rimarrei sicuramente incastrato, incapace di voltare il cavallo o addirittura di scendere da sella. Dopo quasi otto ore finalmente sbocco allo scoperto e mi affaccio su un'ampia insenatura: senza saperlo sono sceso al livello del mare e sono finito sulla riva opposta dell'isola.

Mi denudo sprizzante di entusiasmo e mi tuffo nelle calde acque del Mar Libico. Nuoto. Le spalle spuntano in superficie come il dorso di un delfino e si inarcano. Roteo insieme le due braccia, tese parallelamente verso il fondo, e in sincronia vibro a piedi uniti il colpo di coda che imprime la spinta in avanti. Quindi allargo al massimo il torace e gonfio d'aria i polmoni... per un attimo mi abbandono all'inerzia, il bacino si immerge, penetrando trascina con sé il peso del corpo. Intanto le mani si risollevano a pelo dell'acqua e caricano la bracciata dietro la schiena. Ecco le braccia sfiorare la schiuma delle onde e disegnare un semicerchio nell'aria per ricongiungersi davanti alla fronte. La testa s'immerge. Tenendo gli occhi aperti sott'acqua osservo le dita che generano scie di bollicine, gocce di mercurio richiamate a grappoli in superficie.

Rallento man mano il ritmo per assaporare meglio il piacevole benessere che sta invadendo tutto il mio corpo poi, all'improvviso mi lancio in uno scatto vigoroso proiettando intorno gli schizzi di schiuma. I muscoli del torace guizzano sotto la pelle, le natiche si contraggono rapide e le anche oscillano, su e giù, nella foga di un appassionato amplesso col mare.

Ansimante, mi riposo galleggiando sul dorso. L'eco delle onde risuona dentro le gole e le creste disegnate dal gioco dei flutti rimbalzano i miei pensieri a quell'ultima notte con Rézia. L'afflato amoroso mi ha sospinto ad innalzarmi oltre ogni altezza, a scendere oltre ogni abisso, e ora raccolgo nuovamente in me le sensazioni di tutte le cose create, avverto d'essere simultaneamente ovunque, in mare, in terra e in cielo, ho la percezione di non essere mai nato, di essere ancora un embrione, d'essere giovane, vecchio e oltre... uscito da me stesso, mi sono rivestito di un corpo che non muore.

Solo nell'estasi, la conoscenza della Prima Materia può essere raggiunta in tutta la sua evidenza, altro mezzo non v'è poiché la mente, instabile per natura, è sempre incline ad associarsi ad altre percezioni. Avendo realizzato identità tra la Prima Materia ed il Mercurio Filosofale, la mia mente con tutte le sue attività è svanita... Non potrei esprimere con parole, né concepire con pensieri lo splendore ineffabile della loro unione. In questo oceano essenza di beatitudine la mia mente si è disciolta, come un chicco di grandine nel mare.

Esco dall’acqua e m'incammino. Dirigendomi a est, lungo la costa raggiungo Ierapetra e da lì varco il punto più stretto dell'isola, affacciandomi nuovamente sulla frastagliata costa settentrionale. Col suo color smeraldo il Mar Egeo tinge una baia di superba bellezza naturale, mentre un bianco manto di chiese ricopre ovunque il pendio. Nei presso del villaggio di San Nikòlaos mi decido ad entrare in una di esse. E' una chiesetta bizantina ad una navata e con volta a botte, la cupola che corona l'edificio presenta delle decorazioni di notevole efficacia ornamentale. Questi disegni geometrici sono il segno lasciato dal periodo iconoclastico allorché, proibite le raffigurazioni religiose ed il relativo culto delle immagini, si giunse ad una ipertrofia dei motivi ornamentali (come negli esempi eccelsi dell'architettura araba). Ma proprio qui, accanto ai resti degli affreschi raschiati dalla furia iconoclasta, la fortuna mi ha riservato una magnifica sorpresa.

Una stella splendente in uno squarcio di nubi dorate, la discesa della colomba dello Spirito Santo e sulla riva rocciosa, aspra e frammentata, il Battista coperto di pelli che battezza con le mani: è un bellissimo mosaico del Battesimo di Gesù. Al centro, il Messia è immerso nel fiume fino alla cintola mentre l'acqua limpida ne lascia trasparire i contorni evanescenti. La sua mano benedicente esce in superficie mentre, sulla riva, tre stupendi angeli si prosternano a adorarlo. Grande la ricchezza dei dettagli, un'ascia bipenne sotto un cespuglio, una moltitudine di pesci colorati sotto la tremula increspatura delle onde e come non poteva mancare, il genio del fiume con l'anfora in mano.

Per ore e ore rimango incantato a contemplare gli effetti plastici evocati dai contorni tenui e da una ricercatezza cromatica che sa sfruttare abilmente tutte le possibili sfumature di colore: questo mosaico è una grande opera da maestro.

 

* * *

 

Da San Nikòlaos mi spingo ad est in direzione della cittadina di Sitìa. Lungo le coste rocciose si inerpica imperiosa una strada maestra. La percorro fiancheggiato ai due lati da continui cespugli di ginestre in fiore. Per tutta la zona mi sembra di attraversare un superbo giardino, profumato come il respiro di una dea. Le candide rocce della costa sono abbellite da un'esplosione di fiori primaverili: primule dalle foglie turgide e venose, orchidee, ninfee, margherite, papaveri... bianche campanule, splendidi iris, e anemoni, ciclamini e mirto.

La vegetazione è in prepotente risveglio, ogni pianticella cerca il suo spazio vitale, lo strappa al vicino, un bisogno impellente spinge a cercare la luce, a crescere di più per non rimanere in ombra. Nuove tenere radici assorbono dalla terra arida il maggior nutrimento possibile, le foglioline sfruttano ogni residua umidità dell'aria, i boccioli sono impazienti di aprirsi per sottrarre ai concorrenti le api. Irresistibile, pressante, violenta, la vita è in pieno rigoglio e sfoggia il suo rinnovato vigore, lo stesso con cui è riuscita a negare l'inverno.

Guardandomi attentamente intorno, ho riconosciuto due portentose piante magiche, una è la famosa mandragora dalla radice a forma di corpo umano, l'altra è il vischio, le cui bacche adornano come perle i rami delle querce. Ho identificato alcune delle piante medicinali che vidi nella casa della strega, per esempio il timo (profumatissimo), il salice piangente, la melissa dai fiori rosati, il ricino e il fieno greco.

Gironzolando oltre i margini della strada con gli occhi fissi a frugare il terreno, mi ritrovai tra l'erica e i tulipani... Dall'alto di una rupe a strapiombo sul mare osservavo incantato i gabbiani che volteggiavano a volo radente, in basso in lontananza, simili a puntini bianchi su un blu intenso che si perdeva all'infinito, senza apprezzabile confine tra il cielo e il mare. Fu allora che capii perché gli antichi avessero eletto quest'isola a culla e dimora degli Dei: immersi in un ambiente di tale bellezza sorge del tutto spontaneo pensare al divino e creare miti immortali che diano anima e poesia ad un qualcosa che ovunque in questa terra si respira e si avverte.

Utilizzando la stessa strada dell'andata faccio ritorno a San Nikòlaos. Dai greci ho ricevuto indicazioni esatte circa l'ubicazione della zona descritta da Zagreo quale sua residenza. E' verso l'interno dell'isola e devo salire parecchio, arrampicandomi lungo una via che sale tra colline aride ed aspre. Appena raggiungo quota, una nube bassa mi impedisce la vista. Cammino nella nebbia. Al suo diradarsi non più pietraie, ecco invece lo spettacolo del verde altipiano di Lassìthi, segnato dal disordinato rifiorire di una terra fertile ma abbandonata a se stessa. Raggiunti i resti del villaggio incendiato dai veneziani, mi metto a cercare confusamente finché trovo le rovine di un mulino. Ha fondamenta di pietra a forma di ferro di cavallo allungato e potrebbe essere il mulino di Zagreo.

I mulini a vento furono immessi in Europa dalla Cina e dalla Persia e la loro introduzione a Candia seguì allo sbarco dei primi crociati di ritorno dall'Oriente. L'arrivo dei veneziani ne aveva semplicemente incrementato l'uso, perfezionandolo in base all'esperienza acquisita a Venezia ove già i mulini andavano assumendo sviluppo industriale nell'ambito delle più varie applicazioni, tipo la follatura dei tessuti, la lavorazione della carta o del ferro.

Il mulino da macina di Zagreo era speciale, non era solo la sede in cui i contadini greci portavano il loro frumento, facevano la coda e aspettavano la farina, ma anche un luogo privilegiato d'incontro. Sedendomi sulle sue rovine mi par di vedere Zagreo sotto le pale in movimento mentre organizza la rivolta contro il tiranno veneziano e arringa un gruppo sempre più folto di contadini e diseredati, scuotendo gli animi con l'accorato e irresistibile appello ai miti antichi della sua gente.

Faccio ritorno ad Archanes. Una quindicina di chilometri prima della città di Candia sono già sul luogo. Vorrei incontrare qualche servitore della villa Orseolo e mi apposto presso i negozi usualmente frequentati per le provviste.

Dalla latteria esce la giovane schiava berbera avvolta nei vivacissimi colori del suo abbigliamento esotico, quasi fosse arrivata oggi stesso dai regni arabi e avesse portato con sé il loro profumo sensuale e carezzevole. E' carica di bracciali e collane di metallo. Porta degli orecchini d'argento i cui contorni ricalcano una figura femminile, vi si riconosce una gonna triangolare e il volto scolpito in rilievo al centro del torace, mentre dei piccoli pendagli affusolati pendono in luogo delle mani e dei piedi. La schiava tiene la bocca coperta da un fazzoletto e ha occhi dalle grandi ciglia, allungati, incredibilmente teneri. Si chiama Ishtar, un nome pieno di fascino, e le origini di lei sono a dir poco misteriose dato che non si ritiene araba, ma figlia di un popolo che abita il deserto.

Mi saluta con i suoi modi dolci, festosamente, e trattomi in disparte, mi racconta le ultime notizie:

«Mentre eri via è ritornato il padrone. Quella megera della signora Orseolo gli ha spifferato tutto e lui è andato in bestia, si è messo a urlare ai quattro venti che la moglie l'aveva tradito, l'ha presa a schiaffi davanti a noi e ha cominciato a insultarla brutalmente.

Gli gridava che è più puttana di Eva, che si è messa in testa certe cose solo perché sono proibite. Per lussuria, dunque, gli faceva spendere soldi con le tuniche di Bucherame... per eccitare un servo, invece di comportarsi da moglie casta, come si conviene in una buona famiglia».

«E lei cosa rispondeva?»

«Nulla, non ha più aperto bocca, subiva tutto in silenzio ad occhi bassi».

«Che altro le ha detto?»

«Che conosceva la debolezza delle donne e non era tanto per l’infedeltà in sé ma perché lo aveva tradito con un morto di fame. Questo proprio non gli andava giù, sua moglie si era rovinata la reputazione e aveva disonorato la famiglia.

Ho tutto il diritto di punirti -diceva- e ringrazia il cielo se non chiedo alla Chiesa l'annullamento del matrimonio... per sterilità, non è certo un mistero dopo dieci anni di matrimonio. Per castigo, - minacciava stringendo i pugni - pretendo che d'ora in avanti tu mi segua in tutti i miei viaggi di lavoro, tutti, anche i più disagevoli e lontani. Ti inculcherò io il controllo di te stessa e l'obbedienza al marito.

Mentre noi saremo in viaggio, autorizzerò mia madre ad amministrare da sola il feudo. Quanto a quel pezzente, lo denuncerò per adulterio alle autorità di Candia e lo farò incatenare al remo di una galera!»

«Povera Rezia, cosa le tocca sopportare per colpa mia, che pena mi fa».

«Il signor Orseolo predica bene ma razzola male. Il giorno in cui mi ha comprata mi ha fatto spogliare nuda davanti al venditore e la notte stessa mi ha posseduta, poi ha giurato che mi avrebbe uccisa se lo avessi rivelato a qualcuno».

«Dimmi, quando sarà il loro prossimo viaggio?» le chiedo con un barlume di speranza.

«Fra dieci giorni si dirigono in Oltremare».

«Dove, dove vanno esattamente, lo sai?»

«Vanno a... a Paphos, un porto di Cipro, sarà la loro prima sosta. Ho udito il marito parlare a lungo di un commerciante di Paphos con cui deve concludere un importante affare. Dovrà dedicare diversi giorni all'acquisto di chermes, cotone e tessuti in seta, in cambio di lanerie e fustagno veneziano».

«Ti ringrazio, sei una vera amica, ma ti prego Ishtar concedimi un ultimo favore, consegna di nascosto questa lettera a Rezia, ti supplico, per me è molto importante».

La schiava berbera accetta. Ricevuto lo scritto Rezia ne imparerà a memoria le parole e lo brucerà per non lasciare tracce. Eccone il contenuto:

...non è da biasimare a che s'appiglia uomo che cade in mare...

Con argentea chiave egli apre d'un tratto le porte del mondo invisibile ed il suo petto s’inonda d'amore sciogliendo l'intricato nodo del cuore. La Dea dalla potenza assoluta, dolcissima appare sopra le acque del mare: ha la pelle umida di rugiada e con le mani spreme il suo latte virgineo, mentre nuda cavalca il fedele delfino oscillando leggera sulla schiuma. Sulle sue ali piumate egli ha riconosciuto gli occhi dei vivi e dei morti e nel silenzio della notte viene rapito fuori dal tempo, nell’onnipresenza. Il Mercurio dei Filosofi tocca la Prima Materia nell'immutabile simmetria e le particelle dello Spirito suo entrano in unità con quelle del tutto, egli ha il respiro ansimante e paralizzato, non riesce a proferire parola, un brivido gli corre sulla schiena e la mente si perde tra vuoti spazi.

O scintilla di gioia, viene colui che rinuncerà a te in dono a ogni essere.

 

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