Capitolo Quarto
IL CAVALlERE ROSSO
A fine maggio decido di
imbarcarmi per Cipro, anch'io con destinazione Paphos. Rézia non sarà mai mia
sposa, non succederà che tornando a casa la sera la trovi ad aspettarmi davanti
al focolare, né ci capiterà di parlare a lungo di noi guardando nella fiamma;
so che non sarà mai possibile, la condizione di adulteri e le differenze di
casta non ci consentono di costruire una vita comune alla luce del sole, ma non
per questo mi arrendo. Mi farò valere ad ogni costo, sono pronto ad affrontare
qualsiasi sacrificio pur di rivederla, per lei ho attraversato l'Adriatico e lo
Ionio e se necessario la seguirò in capo al mondo. Prima o poi Orso Orseolo
dovrà assentarsi per comprare il chermes. La lascerà da sola e se potrò
approfittarne, lo farò.
Salpiamo le ancore
dalla città di Candia, sono a bordo di un mercantile genovese che esporta
legname ai mussulmani. Assi costosissime, lunghe e tutte d’un pezzo. La nave
cessa di costeggiare le rive settentrionali dell'isola e prende il largo
spavalda nel golfo di Mirabello. Sopra un ripido isolotto, collegato alla
terraferma da una stretta lingua di sabbia, si ergono in lontananza le
fortificazioni del caposaldo veneziano di Spinalonga. Imponenti torri con
piccole feritoie e merlatura a sbalzo lo rendono baluardo inespugnabile a
sbarramento dell'insenatura di Oloùs, importante centro di estrazione del sale.
Mura massicce cingono l'intero isolotto, i bastioni Barbarigo, San Michele,
Molino, sporgono taglienti agli angoli dell'isola e l'arco del bastione Riva
domina la porta principale, stretta tra due enormi colonne. Sul lato occidentale
dell'isola sono arrampicate le case e i magazzini, più in alto corre una
seconda cinta muraria, edificata sulla cresta rocciosa e armata di numerose
fortificazioni dette cavalieri.
Lasciato il golfo,
segue il mare aperto. Mentre vengo cullato dalle onde le mie sensazioni vanno a
fluttuare in senso opposto alle categoriche affermazioni che hanno preceduto la
partenza. Non capisco perché il mare abbia sempre l'effetto di sciogliere i
miei più radicati propositi. Ora mi sento di nuovo in balia degli eventi,
paragonabile a un tronco d'albero alla deriva, trascinato e sballottato dalla
corrente. Pur tuttavia, mi figuro amena e lussureggiante la spiaggia sconosciuta
ove i flutti sospingeranno il mio relitto, tronco inerme che va a depositarsi
tra le dune e insabbia di giorno in giorno sotto l'azione inesorabile del vento.
Migliaia e migliaia di granellini sollevandosi in aria ne levigheranno la
superficie, l'ostacolo vincerà la loro caotica corsa e li farà depositare ai
lati del tronco, creando una duna in fiore là dove non esisteva.
Cipro è all'orizzonte.
Ci stiamo avvicinando velocemente. Sotto la chiglia, banchi di corallo colorano
di rosso i bassi fondali della baia di Paphos. La nave approda alla costa e
getta le ancore. Si sa che l'essere sulla stessa barca fatalmente conduce a
fraternizzare, è successo anche a me e andandomene saluto calorosamente
l'equipaggio, benché sia interamente composto da spilorci genovesi. Scendo al
trotto la passerella e mi scaravento sulla vicina spiaggia, impaziente di
calpestare terra dopo un così lungo viaggio di mare. La sabbia è finissima e
dorata, anche più fine del lido di Venezia. Ho sul viso un'espressione
raggiante di contentezza, che soddisfazione ritrovare sotto di me la sensazione
della terraferma, quel saldo massaggio sotto le piante dei piedi che solo la
gente di mare sa apprezzare a pieno.
Il gran caldo dei primi
di giugno. Tolgo la tunica e mi metto a torso nudo, rimango solo con le brache
attillate di cotone, tolgo anche le scarpe a punta arricciata. Cammino a piedi
scalzi tra le palme da datteri e mi aggiro tra un posto e l'altro saltellando
sulla sabbia bollente. A corta distanza vedo un pellicano sul suo nido, poche
cannucce ammucchiate in una piccola depressione della sabbia. Il genitore si
dirige verso di me avanzando goffamente sulle pinne e bilanciandosi sulle ampie
ali semi aperte. Vistosi scoperto, è mosso dal paterno istinto di attirare su
di sé l'attenzione dell'intruso e distoglierla nel frattempo dai due piccoli
sistemati entro il nido. Il grosso uccello bianco ha un collo allungato che
continua in un gozzo giallo sotto il lungo ed affilato becco. Appena mi è
abbastanza prossimo, noto sulla punta del suo becco una piccola macchia di color
rosso vivo. Proprio a cagione di questa macchia è sorta la leggenda del
pellicano a corto di cibo che suole ferirsi il petto col becco per nutrire i
piccoli con il sangue che ne sgorga. Ho nella bisaccia un ultimo pesce e glielo
getto. L'uccello accetta volentieri il pasto fortuito e se ne ritorna pigramente
al nido. Non voglio perdermi lo spettacolo e mi apposto non lontano, appoggiato
e nascosto dietro una palma per osservare comodamente il pellicano. E'
indaffarato a nutrire i suoi piccoli batuffoli di piume con il rigurgito del
pesce triturato.
Intanto sullo sfondo,
nel laghetto salmastro appena dietro la spiaggia, vedo approdare stormi di
fenicotteri che vanno ad unirsi agli aironi cinerini e a qualche rara gru. Gli
ambienti costieri di Cipro sono luogo di ritrovo per le varie specie di uccelli
migratori che provengono dalle foci del Nilo e proseguono poi nel continente
europeo. Poco più all'interno, laddove iniziano le piantagioni di canna da
zucchero, vi sono invece i molti uccelli residenti tipo le originali e
diffusissime capinere, le pernici e le gazze sassaiole.
Prima notte a Paphos. A
mezzanotte l'usignolo mi obbliga a lasciare il giaciglio, non rinuncio ad
ascoltare le note del suo canto melodioso. Mi affaccio alla finestra: brilla nel
cielo una falce di luna calante. Diafane al chiarore lunare, le case
addormentate sul pendio lasciano intravedere il loro cuore carico di nostalgia,
trepido e paziente nell'attesa del navigante che tarda a tornare. Il rumore del
mare accompagna i virtuosismi dell'usignolo come fosse un'orchestra distante e
la notte vi aggiunge la sua voce: vento che soffia, foglie che ripetono emozioni
lontane. Nelle pause sapienti dell'usignolo, quando anche il mare tace... una
veste oscura incanta la mente ed i sensi e la notte rivela il suo segreto: il
silenzio che turba come la radice della paura e del profondo desiderio.
* * *
Di buon mattino mi
metto alla ricerca di Rezia e perlustro strada per strada la piccola comunità
di Paphos, interrogando osti e albergatori se abbiano visto aggirarsi una coppia
di nobili veneziani. Rintracciarla in un porto di mare è ben più difficile che
ad Archanes ma sono ottimista, mi fido ciecamente delle indicazioni della
schiava Ishtar. Nel pomeriggio batto la periferia di Paphos. In groppa
all'asinello sto oltrepassando un boschetto di ulivi dai rami contorti e di
cipressi slanciati in verticale. Il profumo dei cipressi mi riporta al giardino
della villa Orseolo, al cigno che cingeva Leda e alle allettanti lusinghe della
mia avventura con Rezia.
Eccola, e non si tratta
di un miraggio, è lei assorta nei suoi pensieri, pallida con i capelli dai
riflessi rossicci, seduta sui resti di un capitello fra cumuli di pietre
lavorate e frammenti di antiche colonne. Salto giù dall'asino e l'abbraccio
forte:
«Ti amo troppo. Non
posso stare senza di te!»
«Nemmeno io, da quando
ti ho perso ti penso sempre» risponde affondandomi le dita nei capelli.
«Vieni qua a pensarmi?»
«Sì, mi piace questo
posto, la gente di Paphos dice che qui sorgeva il tempio di Afrodite».
«Ne ho sentito
parlare. Nei tempi antichi migliaia e migliaia di pellegrini sfidavano i
pericoli di un lungo viaggio di mare per venire in questo tempio a venerare la
statua di Afrodite, scolpita in un marmo bianco come il latte. Dietro l'altare
del tempio veniva celata agli sguardi una pietra sacra a forma di cono, a
nessuno era dato profanarla».
«Pensa, dal tempio han
portato via un sacco di pietre per costruire uno zuccherificio a Paphos, è
gente che non capisce niente!»
«Vieni via, monta in
groppa che andiamo in un posto dove nessuno ci può scoprire» tirandola per un
braccio.
«Non posso, è troppo
pericoloso mio marito è in città» piagnucola.
«Se non ti sbrighi ti
rapisco, non sto scherzando, ti porto via con la forza».
Rezia mi guarda
sorpresa, poi guarda l'asino, lo indica col dito e scoppia a ridere:
«Con quell'asino!»
Esaurita la risata
un'ombra di preoccupazione le attraversa il viso:
«Attento Delfino, mio
marito ti ha già denunciato!»
«Delfino è il mio
secondo nome, a Venezia mi conoscono tutti come Petrangesio, il mosaicista della
Basilica d'Oro, e non me ne importa un fico delle denunce di tuo marito, se è
per questo sono già ricercato dagli sbirri dell'Inquisizione».
«Cosa?»
«Sono reo contumace, a
Venezia avranno già bruciato la mia statua».
«Che cosa hai
combinato?»
«Mi hanno trovato in
casa un manoscritto proibito».
«Lo vedi, il nostro
amore non può avere futuro, tu sei solo un avventuriero senza scrupoli»
sentenzia con alterigia.
«Avventuriero per
forza è chiunque va pel mondo in disgrazia della sua patria - scandisco
lentamente in tono ferito -. Dal giorno della mia fuga da Venezia sono un uomo
in preda al tormento, non mi rassegno a vivere in nessun luogo, se non oggi qui
e domani altrove. Ho pace solo vicino a te».
Rézia si sente a
disagio per avermi trattato con sufficienza, un'impercettibile velo di vergogna
le cala sugli occhi e le sue guance arrossiscono graziosamente come due rose in
mezzo ai gigli. Mi porge i fianchi chinando il capo confusa e si lascia alzare
in groppa. L'asinello s'incammina e ci conduce lontano.
Sulla baia denominata
Petra Tou Romiu si erge imponente un enorme scoglio marmoreo il cui bianco
candore risalta sull'intenso blu verde del mare. Il vento d'occidente solleva
grandi cavalloni che si gonfiano rapidi e s’infrangono sulla riva danzando
vorticosi. Nei pressi del bagnasciuga chiazze di schiuma bianca ribollono di
miriadi di bollicine, create e annichilate nelle fugaci fluttuazioni del moto
ondoso.
Ci tuffiamo subito
nelle acque della baia, le più fresche dell'isola per effetto delle correnti e
di numerose sorgenti sottomarine. Abbracciati e immersi fino alla cintola ci
scambiamo baci appassionati. A un tratto lei si stacca dalle mie braccia e si
avvia verso la riva camminando spedita nell'acqua che le arriva sotto il
ginocchio.
Da dietro la guardo
incantato: il suo sedere è quanto di più perfetto abbia mai potuto ammirare,
rotondo, le natiche disegnate con leggiadra armonia, ai miei occhi un autentico
miracolo della natura. Rézia, ancheggiando s'allontana e rompe nella giostra di
un ballo la bella simmetria delle sue natiche gemelle.
Le corro dietro
irresistibilmente attratto, mi tuffo ad afferrarla per le caviglie, la
sbilancio, e la faccio ruzzolare con le braccia protese in avanti. La sua buffa
posizione è un invito ad approfittare, avido le blocco le anche a pelo
dell'acqua e le mordo la carne molle dei glutei. Lei lancia un gridolino di
dolore immaginario, mi sfugge, ma mentre drizza le ginocchia per rialzarsi...
un'isola bruna fa capolino dove finisce la fessura che le divide le chiappe, Rézia
ride e scappa via proiettando alti cerchi di schiuma all'intorno. Rinnovo la
rincorsa.
Raggiunta alle spalle,
la blocco in piedi nella morsa delle mie braccia, incollato alla sua schiena
porto avanti le mani a premerle le poppe. Poi, con la lenta pressione del mio
peso la piego in ginocchio a quattro zampe. Ora posso osservare le linee dolci
delle sue spalle, scostarle teneramente i capelli e mordicchiarla sulla nuca. La
pelle d'oca le avviluppa il corpo in un'esile rete dalle maglie invisibili,
Rezia piega la testa all'indietro, inarca la schiena in un brivido di piacere e
si abbandona tutta alle mie tentazioni. Allora, gonfio di voglia, penetro nel
folto dell'isola bruna, oscillando e danzando al ritmo delle onde.
Si libera impetuosa
un'energia repressa. Mentre crollo prono sul dorso della mia compagna proietto
lo sguardo sulla riva: vicinissimo, riluce il profilo di due manti maculati,
sono due giovani leopardi, hanno il portamento altero, le zampe agili e
silenziose, gli occhi verdi e taglienti come lame. Eleganti superano al trotto
un tronco riverso, si rincorrono sulla spiaggia, sono la sublime incarnazione
della vitalità selvaggia e aggressiva. Fredda bellezza di una energia
incontenibile, unghie e zanne di una forza primordiale... pericolosamente
distruttiva, forgiata nella sottile e penetrante violenza di un fascino
irresistibile. Rezia è pimpante, i felini sono appena scomparsi dietro le
rocce, gli domando se l'hanno spaventata, ma lei spalanca gli occhi e scoppia a
ridere. Ho avuto una allucinazione visiva. Non mi era mai successo. Forse sono
matto.
Nell'apprestarsi ad
abbandonare le sue dolci acque, Rezia si china a sussurrarmi all'orecchio:
«Ora mi devo vestire».
In risposta raccolgo
dal fondale limpido una grossa valva di conchiglia bombata e pettinata e ancora
seduto nell'acqua, gliela mostro esultante:
«Eccoti il vestito!»
Divertita, prende la
conchiglia dalle mie mani e maliziosa la accosta a coprire il pube:
«Mi calza proprio a
pennello».
Sulla riva, mette su
per primi gli stivaletti a metà polpaccio e ancora nuda inizia a lottare col
vento per annodarsi i capelli, lunghi sulla schiena e belli del color del rame.
Quindi si affretta ad indossare la gonna rosso mattone tutta ricamata di fili
dorati, stringe la cintura alla vita e copre il capo con un ampio velo azzurro.
Il vento le incolla addosso le vesti e mi vieta ancora di staccare lo sguardo da
quelle sue curve.
Mi angustia vederla
rivestita così alla svelta, vorrei fermare il tempo e il magico incanto di
questi attimi d'amore, incatenarla a braccia alzate sull'enorme scoglio... nuda,
completamente nuda ma ricoperta di splendidi gioielli. Una coroncina alta e
ingioiellata ai cui lati dei pendenti di perle ricadono sulle spalle, collane di
turchesi e lapislazzuli, bracciali d'argento ai polsi e sul braccio, anelli di
topazi e zaffiri che luccicano sul candore della pietra.
Montiamo in sella,
schiocco la lingua e l'asino si muove. E' piccolo ma robusto e il dolce peso
aggiuntivo non sembra affaticarlo più del solito. Fisso avanti lo sguardo sul
sentierino alberato per Paphos. Come in una favola a lieto fine Rézia è in
groppa alle mie spalle ed io non posso sottrarmi al bisogno incessante di
contemplarla, di confinarla entro l'immagine della sua bellezza, vestita d'acqua
e conchiglie e pietre preziose, è più forte di me e mi giro a guardarla.
Sorride e il suo sorriso mi persuade di aver ritrovato per sempre il paradiso,
invece...
L'indomani Rézia non
sarebbe venuta all'appuntamento, avrei perso bruscamente le sue tracce. Sparita!
Scomparsa all'improvviso da Paphos, partita insieme a suo marito per
destinazione a me ignota. Non mi resterà che vagare insistentemente per l'isola
nella vana speranza di ritrovarla.
* * *
In quel tempo Cipro era
un regno vassallo del Sacro Romano Impero. Enrico I vi dominava in nome della
dinastia francese dei Lusignani, ma fin dall'inizio del suo regno l'isola fu
travagliata dalla lotta fra due opposte fazioni che se ne contendevano il
controllo. Da una parte c'era il lignaggio del tutore di Enrico I, quel Giovanni
di Ibelin che aveva esercitato il governo effettivo dell'isola durante
l'infanzia del re, dall'altra parte c'era la fazione rivale di Amalrico Barlais
e dei suoi quattro baroni.
Nel luglio del 1228
l'Imperatore Federico II intervenne attivamente nella faida fra le due famiglie,
cogliendo l'occasione della sua tappa a Cipro durante la crociata in Terra
Santa. Lo spunto fu dato da un sontuoso banchetto organizzato in suo onore dagli
Ibelin nei pressi di Limassol, nel grande castello fortificato di Kolossi.
Quella festa divenne tristemente famosa perché guastata dall'ingresso degli
armigeri imperiali a spade sguainate. Giovanni di Ibelin fu minacciato di
arresto se non avesse fatto atto di sottomissione incondizionata all'Imperatore
e consegnato tutte le fortezze. Di malanimo, gli Ibelin dovettero riconoscere la
sovranità di Federico II su Cipro e accettare di dare i loro figli in ostaggio,
ma non appena l'Imperatore ripartì per la crociata essi ruppero la pace loro
imposta e ripresero le armi contro Amalrico Barlais.
Dalla Terra Santa
Federico II spedì in risposta il contingente di Etienne de Botron che piegò
gli Ibelin e li cacciò dall'isola con tutta la loro consorteria. In tal modo
l'Imperatore poté affidare ufficialmente la tutela del giovane Enrico I ad
Amalrico Barlais, che acquistò la reggenza dell'isola mediante una forte somma
in denaro. Malgrado ciò la contesa fra le due famiglie era solo apparentemente
risolta, il lignaggio degli Ibelin covava un odio duraturo nei confronti degli
avversari e la rivincita non si fece attendere. Nel luglio del 1229, gli Ibelin
fecero vela per l'isola assetati di vendetta, sospinsero nel nord dell'isola
Amalrico Barlais e attaccarono le formidabili piazzeforti in cui si erano
arroccati i suoi quattro baroni. Ne seguì uno strascico di rappresaglie
all'insegna del più bieco terrore e soltanto adesso i combattimenti andavano
scemando con l'ormai pieno controllo di Cipro da parte del lignaggio vincente
degli Ibelin.
Nella faida di Cipro i
crociati Ospitalieri si sono schierati dalla parte vincente e contro il protetto
imperiale Amalrico Barlais. Ciò è la conseguenza dei dissapori avuti con
Federico II all'epoca della crociata in Terra Santa durante la quale, in
ossequio alle direttive papali, essi avevano manifestato una palese e caparbia
opposizione all'Imperatore scomunicato.
Proprio in questi
giorni assolati di giugno, gli Ospitalieri hanno piegato l'ultima sacca di
estrema resistenza che avversava le loro truppe asserragliate nell'antica
fortezza di Kolossi. I crociati l'avevano edificata dopo averne ricevuto le
terre da re Ugo, il padre di Enrico I, ed ora Kolossi di Limassol è la sede
incontrastata della Commandaria dell'ordine cavalleresco degli Ospitalieri.
Ma non tutti a Limassol
sono prodi cavalieri a cavallo, c'è anche chi come me deve accontentarsi di
girare in groppa a un asino. Col mio fedele compagno ho percorso alla ricerca di
Rézia una trentina di chilometri lungo la costa a sud est di Paphos e ora
imbocco la strada che conduce sotto le mura merlate del castello di Kolossi.
Gruppi di Ospitalieri sfrecciano a cavallo, le otto punte della croce di Malta
sventolano bianche sul nero dei lunghi mantelli. Sono armati di tutto punto con
lancia, spada, scure da combattimento e pugnale, e lanciati al galoppo frustano
con le briglie il collo dei cavalli, enormi cavalli da guerra alti al garrese
quanto il mio mento. Si solleva un turbine di polvere e gli zoccoli schizzano il
terriccio sulla mia tunica azzurra mentre, intimorito, scosto l'asino ai lati
della strada.
C'è in giro un gran
fermento, gli ultimi irriducibili ribelli di Amalrico sono caduti nelle mani
degli Ospitalieri. Si dice che alcuni morti giacciano ancora sul campo, resti
del fallito contrattacco ai bordi della fortezza. Costeggio tutt'intorno le alte
mura esterne e curiosando direttamente nei luoghi degli scontri vedo poco
distante una macchia di rosso, spicca in primo piano sul fogliame di un enorme
mandorlo secolare addossato alla facciata posteriore del castello, è il colore
smagliante del panno carminio che ricopre una maglia ferrata. Appartiene ad un
cavaliere impiccato a testa in giù, con le mani legate dietro la schiena,
appeso per una sola gamba ad un grosso ramo dell'albero. E' un uomo d’età
matura, la corporatura è massiccia e la sua altezza sembra superiore alla
media. In terra, appena sotto la sua testa giace lo scudo, una rosa rossa in
campo bianco con sei giri concentrici di petali.
Scendo dall'asino e mi
avvicino ai rami del mandorlo per costatare se l'uomo è morto. La sua chioma
bionda pende sciolta in giù, intrisa di sangue. Mi giunge alle narici l'odore
del sangue raggrumato. Ha la faccia gonfia, bluastra, però... osservandolo
attentamente mi sorge il dubbio che possa essere ancora vivo.
Qualcosa luccica in
alto sotto il fango degli stivali, concentro lo sguardo tra i raggi che filtrano
attraverso il fogliame e mi accorgo dei suoi speroni d'oro cesellato. E' molto
strano che gli aggressori non se ne siano appropriati, forse avevano fretta
oppure sono stati vittima di un attacco inatteso. Decido di impadronirmene
subito, prima che attirino l'attenzione di qualche altro crociato di passaggio.
Controllo che non mi
veda nessuno, rimonto sull'asino e tolgo agevolmente lo sperone dal piede che
penzola libero a ginocchio piegato. Poi, stando in piedi sulla sella, cerco di
slegare il nodo gordiano che lega alla caviglia l'altro piede e ne blocca lo
sperone. Quel nodo è un intreccio formidabile di corde, sotto il peso del corpo
si è stretto tenacemente ed è impossibile scioglierlo. Rinuncio ad inutili
sforzi e avvicinate le spalle dell'impiccato alla groppa del mio asino, recido
col coltello la corda che pende tesa. Guidando la caduta del cavaliere sono
riuscito a adagiarlo riverso sulla sella, anche se sotto la spinta del
contraccolpo ruzzolo in terra. Mi rialzo. Gli tolgo lo sperone rimanente e lo
infilo nella borsa della sella, insieme all'altro.
Nel mentre sono
indaffarato a richiudere la borsa odo una voce imperiosa alle mie spalle:
«Che stai facendo?»
due crociati Ospitalieri mi fissano minacciosi, immobili sui loro giganteschi
cavalli.
«Lo sto portando a
cristiana sepoltura» rispondo loro compunto e senza badarli ordino all'asino di
muoversi. L'asino non vuole fare un solo passo in avanti, si intestardisce,
qualcosa deve averlo spaventato. Lo tiro con forza per le briglie. Niente da
fare. Devo tirarlo per le orecchie perché alzi lo zoccolo e cominci a muoversi.
I due crociati si scostano e mi lasciano passare mentre mi allontano dal
castello.
Nei dintorni la
vegetazione spoglia ispira una selvaggia desolazione. Potrebbe essere il luogo
adatto per seppellire il cavaliere, sempre che sia morto. Comunque nel dubbio è
meglio aspettare un po', per non rischiare di seppellire cristianamente un uomo
vivo. Durante il tragitto il cavaliere va assumendo un colorito più roseo e a
un certo punto mi pare che sollevi il torace sotto la maglia ferrata: sorpreso
balzo giù dall'asino, metto il palmo della mano davanti al suo naso e colgo un
impercettibile alito di respiro, miracolosamente è ancora vivo.
In fretta mi dirigo al
monastero di Sant'Elena. Questo sorge poco distante, sulla riva di un lago
stretto entro una breve penisola, il luogo di fondazione scelto dalla madre
stessa di Costantino. Dentro il chiostro fiorito del monastero chiedo aiuto a un
giovane frate francescano e adagio il cavaliere sul soffice tappeto erboso,
sotto i rami spinosi di un grande arbusto di melograno. L'albero dalla corteccia
rosso grigiastra ha un fusto contorto, si erge vigoroso per almeno otto metri e
l'ombra della sua folta chioma può fornire al ferito il necessario refrigerio.
Il cavaliere riprende
coscienza e spalanca occhi di un colore grigio cinereo. Allora alzo la mano tra
le foglie oblunghe del melograno e ne colgo il frutto tondeggiante. Tolgo la
buccia gialla arancio soffusa di rosso e metto in bocca al cavaliere alcuni semi
succosi che gli danno sollievo. Per farlo respirare meglio gli levo la maglia
ferrata:
«Spiacente cavaliere,
non c'è una dolce damigella a toglierti l'armatura e a curare le tue ferite, ma
perlomeno qui sei al sicuro, siamo in un monastero».
Da pallide e bluastre
che erano, le sue labbra hanno adesso il colorito rosso acceso del rubino, il
cavaliere sembra ritornato pienamente in sé e quindi mi azzardo a domandargli:
«Ricordi qualcosa di
quel che ti è successo?»
Egli solleva il tronco
e porta la mano alla testa:
«Hélas, mi hanno
fracassato la testa, ho percepito uno strano ronzio e ho perso conoscenza».
Parla in volgare
francese, lingua peraltro non molto differente dal veneziano; il frate traduce
le parole che mi risultano incomprensibili e così riusciamo ad intenderci a
sufficienza.
«Rammenti, - gli
domando - quando eri appeso all'albero?»
Corruga la fronte
spaziosa e mi fissa sgomento con il suo sguardo adamantino:
«Quale albero? Ah si,
mi pare, ma ero in bilico tra la vita e la morte, ricordo soltanto delle strane
visioni».
«Sforzati di
ricordare, - insiste il francescano - si dice che in punto di morte ai giusti
venga incontro un angelo del Paradiso».
«Altro che Paradiso,
mi ritrovai a galleggiare dentro un tunnel tenebroso, quella galleria sembrava
senza fine, era il ventre di un enorme drago. Ho estratto la spada dal fodero e
ho cominciato a menare colpi a destra e a manca contro le pareti del suo stomaco».
«Ostreghéta, deve
aver preso una bella botta in testa» commento.
«Il drago si
contorceva rabbiosamente sotto i miei colpi, le pareti del suo stomaco
rimbombavano di conati spaventosi e a un tratto fui vomitato fuori dalle sue
fauci. Il mostro mi abbandonò su una riva brumosa e si allontanò nel mare
agitando le zampe a forma di pinna e la sua lunghissima coda. Era buio. Come un
naufrago feci qualche passo di perlustrazione e vidi una cosa incredibile».
«Lo spirito di un
defunto?» chiedo.
«No! Nell’oscurità
della notte un uovo lucente scendeva dalla luna sospinto dal vento. Oscillava
leggero e man mano la sua luce si ingrandiva nel cielo».
«Ti è caduto in
testa?» accenno.
«No! Appena toccò
terra una luce bianchissima avvolse ogni cosa ed io volavo entusiasta alla
ricerca del suo punto d'impatto. Lo trovai, l'uovo era adagiato su uno stupendo
tappeto di rose dai petali candidi, lucenti e profumati, e... semi seduto
sull'uovo c'era il Cavaliere Rosso, la sua armatura era così rossa che
arrossava gli occhi a fissarla e anche più rosso del fuoco era lo scudo, solo
la lama era d'acciaio splendente:
Non è ancora giunta
la tua ora. Hai un compito da svolgere! mi ha detto.
Ero in bilico sul punto
del non ritorno eppure mi attardavo indeciso e riluttante, stavo mille volte
meglio là dove ero: il candore di quel luogo mi comunicava una serenità
perfetta e una beatitudine senza confronti.
Gli istanti
cominciarono a stirarsi, il Cavaliere Rosso alza a due mani la spada sopra la
testa e lentamente con un movimento molto molto rallentato, va a colpire l'uovo.
Vedo frantumarsi a poco a poco il guscio e l'urto proiettare intorno degli
schizzi di sangue. Grosse gocce gocciolavano nell'aria descrivendo
lentissimamente una parabola finché esplodevano sulle rose, ne piegavano i
gambi e intrisero i loro petali.
Il tempo torna a
contrarsi. Rapide, le corolle assorbono il sangue, lo bevono come avide bocche
dalle labbra vellutate, agitano i petali come lingue, le spine come denti e il
loro colore si muta da bianco in rosso vivo».
«Le rose ti hanno
divorato?» azzardo.
«No! D'improvviso
vengo proiettato sopra i rami del mandorlo, levito qualche metro sopra il mio
corpo che penzola impiccato a testa in giù. Sono spettatore indifferente e
distaccato dei quattro crociati che percuotono il mio petto con le mazze».
«Ma poi sei tornato
dentro il tuo corpo?» chiedo.
«Sì, poco dopo fui
risucchiato all'interno del mio corpo» fissandomi sprezzante.
* * *
Teobaldo Spadalunga,
tale è il nome del cavaliere, rimane qualche giorno tra i frati di Sant'Elena a
curarsi un paio di costole rotte e un'ampia ferita al cuoio capelluto. Io avrei
dovuto proseguire per la costa orientale dell'isola, per dimenticare Rézia
avevo in mente di tuffarmi nei molli piaceri di Famagosta, città celebre per la
prosperità e per i suoi vizi, ma per il momento rimando e resto con lui al
monastero.
Il terzo giorno già
cammina spedito entro le solide mura del monastero mentre percorre avanti e
indietro il giardino. All'ombra delle palme e tra le siepi, Teobaldo da sfogo ai
sentimenti mentre l'incenso delle funzioni si mescola al profumo di fiori.
Piuttosto che finire a Cipro ad ammazzarsi fra Cristiani, si rammarica sarebbe
stato più onorevole finire prigionieri del sultano d'Egitto, insieme a quel
santo re di Francia. Mi racconta che un paio di anni fa Luigi IX aveva svernato
a Cipro prima di dirigersi in Egitto. Quel re cavaliere, alto e biondo,
consumato dalle pratiche ascetiche, era un principe assetato di carità e
innamorato della pace. Ma per colpa di Innocenzo IV i compagni di Teobaldo non
poterono unirsi alla crociata: il papa aveva proibito a tutti gli uomini
dell'Imperatore di parteciparvi attivamente. Così restarono a presidiare
l'isola, fedeli ad un impegno preso con Federico II.
Mediante l'espressione
sconsolata del volto e dei gesti, Teobaldo cerca di farmi capire quanto fu
grande la sua personale frustrazione allorché, appena un anno fa, venne a
sapere della disfatta del delta del Nilo e della cattura di Luigi IX. Con
atteggiamento di circostanza mostro comprensione per i suoi sentimenti e
tuttavia gli faccio presente come non sia il caso di rammaricarsi per la mancata
partecipazione alla crociata, visto che i superstiti giunti stremati a S.
Giovanni d'Acri furono poche migliaia. Il sultano aveva sì liberato il re
grazie ad un ingente riscatto di bisanti, ma aveva riservato ben altra sorte ai
cavalieri catturati, li aveva fatti uccidere al ritmo di trecento per sera.
Egli replica:
«I mussulmani sono
ormai a ridosso di Bisanzio, la Chiesa deve arginare con tutti i mezzi il
vertiginoso avanzare dell'Islam e deve riconquistare la fiducia dei giovani se
non vuole la fine di ogni crociata, n'est-ce pas?»
«Ma perché la vedi
così tragica, è passato solo un anno dalla crociata di Luigi IX e poi il regno
di Gerusalemme è ancora saldo».
«Sì, d'accordo, ma
l'ideale delle crociate sta perdendo terreno fra i giovani, non esistono più i
novelli cavalieri che partivano pieni di entusiasmo da Ratisbona, come ai tempi
del Barbarossa. Chissà cosa è cambiato?»
«I giovani colgono
nelle crociate il peso di un bilancio negativo, fatto di risultati mediocri.
Quale buon frutto abbiamo raccolto dalle crociate in Terra Santa, a parte le
albicocche?».
«C'è poco da
scherzare, se l'Occidente non si fosse mobilitato compatto ora io e te
parleremmo in arabo. Non capisci? Islam e Cristianesimo sono dei colossi che si
fronteggiano in una lotta all'ultimo sangue, ciascuno dei due mira ad un
controllo esclusivo sull'intero Mediterraneo. A gran fatica la cristianità è
riuscita a riconquistare la Spagna e la Sicilia, e solo con enormi sacrifici ha
strappato ai mussulmani il Regno di Gerusalemme, ma ora il nostro momento
favorevole sembra dileguarsi».
«La Cristianità ha
perso la sua occasione d'oro quando si è affacciato sul Mediterraneo il terzo
grande colosso».
«Quale colosso, s'il vous plait?»
«L'Impero mongolo.
Purtroppo le tribù dei mongoli idolatri hanno sconfitto quelle convertite al
Cristianesimo e la Chiesa ha perso il suo alleato decisivo, il solo che avrebbe
potuto indebolire e annientare il potere mussulmano in tutta l'Asia.
Cinquant'anni fa a nord del deserto del Gobi, Gengis Khan sgominò le tribù del
Prete Gianni e così s'infranse il sogno di un imperatore mongolo che in nome di
Cristo avrebbe potuto lanciare la moltitudine delle sue genti contro i
mussulmani».
«E tu credi che il
capo delle barbare genti di Gog e Magog si sarebbe mosso in nome di Cristo?».
Gli spiego
dettagliatamente che il Prete Gianni era un cristiano nestoriano e come re delle
tribù della Mongolia centrale aveva iniziato un approccio amichevole con
l'Occidente. Aveva spedito a Federico II una lettera e insieme una pietra che
valeva, a suo dire, più di tutto il sacro romano impero. Nella lettera, per
sondare la saggezza dell'Imperatore cristiano gli aveva chiesto quale fosse la
cosa migliore del mondo e Federico II aveva risposto che la cosa migliore era la
giusta misura, risposta saggia e bene accetta.
Tuttavia l'Imperatore
trascurò di porre domande intorno alla natura e alle virtù della preziosissima
pietra, sicché il Prete Gianni ne fu risentito e temendo che la pietra perdesse
ogni virtù provvide a farla ritirare. I magici poteri della pietra consentivano
di vivere sott'acqua e di rendersi invulnerabili o invisibili, e avrebbero
permesso a Federico II di far resuscitare la leggendaria Aquila nera dipinta
sulle sue insegne.
Teobaldo si avvia
pensoso verso il chiostro e inizia a passeggiare all'ombra degli archi acuti del
porticato:
«Sono un reduce della
crociata di Federico II» spiega.
«Quando sei partito?»
«Nel 1228».
«Ti confesso che non
ho mai ben capito i termini della diatriba tra il papa e Federico II circa la
questione della crociata, perché mai l'Imperatore è stato scomunicato se ha
portato a termine con successo la sua crociata? Immagino tu ne sappia qualcosa».
«Gregorio IX, papa fin
troppo vigoroso nella parola e nell'azione, pretendeva dall'Imperatore una
totale sottomissione e cercava ogni possibile pretesto per dimostrare al mondo
che Federico II agiva contro gli interessi della Fede.
Ricordo il settembre
del 1227, quando con gli animi accesi eravamo tutti ammassati a Brindisi,
insieme ai cavalieri tedeschi, ai mercenari e ai pellegrini, tutti pronti a
salpare. Esplose un'epidemia di colera e l'Imperatore, sebbene febbricitante,
diede ugualmente l'ordine di partenza ai superstiti. Dopo un breve tragitto in
mare, la malattia di Federico II purtroppo si aggravò e costrinse la flotta a
ripiegare. Gregorio IX prese la palla al balzo, disse che l'Imperatore non era
stato ai patti e lo scomunicò, tutto questo nonostante la spedizione non fosse
stata annullata ma semplicemente rinviata alla guarigione di Federico II.
L'anno successivo la
crociata poté finalmente ripartire con sessanta navi fra galee e vascelli
d'appoggio. La flotta costeggiò le isole Ionie, Creta, Rodi, l'Asia Minore e
fece tappa a Cipro. A suo tempo, colui che assegnò il regno di Cipro a Guido di
Lusignano fu il padre di Federico II, perciò l'Imperatore sbracò a
Limassol a pretendere i suoi diritti di vassallaggio».
«Sì, ne ho sentito
parlare».
«Io fui tra quelli che
ricevettero l'ordine di entrare ad armi sguainate al banchetto degli Ibelin».
«Nel salone del
castello di Kolossi» aggiungo e mi par di vedere la scena.
«Le musiche si
interruppero bruscamente e dai tavoli riccamente imbanditi si alzarono di scatto
i presenti, quel giorno avevano deposto gli abiti neri per il lutto del re
Filippo di Francia e si erano vestiti di scarlatto per festeggiare l'Imperatore.
Federico II tuonò il suo duro ammonimento davanti ai ciprioti sbalorditi:
«Sir Giovanni di
Ibelin vi chiedo in spirito d'amicizia che mi rimettiate tutti i redditi che
avete ricevuto come reggente di Cipro e tutto ciò che i diritti reali hanno
dimostrato essere di valore e hanno procurato sin dalla morte di re Ugo, padre
di Enrico, e cioè i redditi di dieci anni giacché questo è il mio privilegio
secondo l'usanza dell'Impero».
«Che arroganza».
«Da Cipro mi sono
imbarcato con l'Imperatore alla volta della Terra Santa. Ero ansioso di
combattere duramente, di faticare e di soffrire, volevo dimenticare
l’infelicità della mia vita nel sudore della battaglia. Invece...».
«Invece?»
«Dovetti assistere
alle manovre tutte diplomatiche di Federico II».
Teobaldo mi spiega che
l'Imperatore aveva stretto legami di alleanza con al-Kamil, il sultano egiziano
preoccupato dalle mire espansionistiche di suo fratello al-Mu'azzam, l'allora
governatore di Damasco e alleato dei Turchi.
Chiedo se la crociata
ha puntato dritto su Gerusalemme.
No, risponde che approdò
a Tiro. L'Imperatore fu accolto dai cavalieri Templari che si prostrarono in
terra ad abbracciargli le gambe. Dovevano comunicargli una importante notizia.
Strizzo l'occhiolino e
insinuo che si sa pur com'è, fra eretici se la intendono... I Templari pare
siano adoratori del demonio, si dice che in segreto adorino Baphomet, una
creatura che ha testa e zampe da caprone, braccia e seni di donna, fianchi
coperti di scaglie e ali da pipistrello.
Teobaldo obbietta che
sono soltanto dicerie.
Insisto, gli rendo noto
che quei sodomiti usano leccarsi l'ano davanti al loro idolo!
Nega risentito, afferma
che nessuno ne ha le prove e mi ordina di smetterla con queste calunnie. Fa
dietro - front nel corridoio del chiostro quindi riprende a narrare dei
Templari, intenti a riferire all'imperatore la notizia dalla morte del
governatore di Damasco, nemico e fratello del sultano egiziano al-Kamil.
L'inatteso evento modificò gli accordi dell'alleanza, nel senso che al-Kamil
avrebbe colto l'occasione al volo per dirigersi alla conquista del nodo
commerciale e militare di Damasco, mentre l'Imperatore in cambio della non
belligeranza avrebbe ottenuto Gerusalemme, città di per sé in preda al più
misero abbandono ma culla del Cristianesimo.
«Con la firma di un
trattato, senza un sol colpo di spada, l'Imperatore ottenne l'obiettivo della
sua crociata» conclude.
«Però non gli fu
tolta la scomunica».
«L'Imperatore non se
ne fece scrupolo, benché interdetto dalla scomunica entrò nella basilica del
Santo Sepolcro e si mise sul capo la corona del Regno di Gerusalemme».
«Beh, il popolo come
l'ha presa?».
«Male. In realtà la
volontà di imporre ovunque il suo impero universale aveva scontento i Franchi
d'Oltremare e quando Federico II si imbarcò ad Acri, la folla inferocita lo
riconobbe e lo bersagliò con il tiro di budella e frattaglie raccolte da un
vicino macello».
«Che bella figura.
Fortuna sua che almeno i crociati gli erano rimasti fedeli».
«Non tutti, per la
verità alcuni se li era inimicati, soprattutto i crociati Ospitalieri,
estromessi a causa dell'opposizione che avevano più volte manifestato nei suoi
confronti. Ne beneficiarono i suoi fedelissimi, i cavalieri Teutonici cui assegnò
tutte le terre conquistate».
Dal chiostro entriamo
in una sala interna stipata di banchi, i monaci vi tengono esposta la loro
collezione di minerali. Teobaldo li guarda distrattamente, senza interesse. Io
invece ne sono affascinato, mi soffermo attento sui cubetti frastagliati di un
campione di rame, vi noto le incrostazioni verdi che ne hanno tolto la
lucentezza, poi osservo dei cristalli a forma di piramide, si tratta di zolfo,
mi attrae il suo colore giallo limone, come pure il giallo metallico e
iridescente della pirite. I monaci hanno scritto il nome vicino a ciascun pezzo:
Gesso, il cristallo chiaro e trasparente geminato a coda di rondine; Salgemma,
il cubo perfetto e incolore; Terra d'Ombra e tanti altri.
«Che ne è del tuo
Ordine?» chiedo a Teobaldo sollevando il capo dalla collezione.
«Non faccio parte di
un Ordine cavalleresco formalmente riconosciuto, diciamo che un gruppo di
cavalieri stava coagulando le proprie energie in attesa di distinguersi in Terra
Santa e venire accettato come Ordine vero e proprio. Però al seguito di una
crociata diplomatica come quella di Federico II non ne abbiamo avuto
l’opportunità ed in pratica siamo rimasti nel novero delle truppe
irregolari... crociati senza nome».
«E la rosa sullo
scudo?».
Teobaldo non risponde,
da un colpo di tosse e appoggia la mano sul torace dolente. Riprende cambiando
discorso:
«Il nostro Gran
Maestro riuscì tuttavia a strappare una promessa a Federico II. L'Imperatore
avrebbe riconosciuto ufficialmente l'Ordine se avessimo riconquistato Cipro,
poiché subito dopo la sua partenza e nonostante la pace da lui imposta, gli
Ibelin avevano ripreso le armi contro i rivali. Il Granmaestro dovette perciò
unirsi al forte contingente di cavalieri che fece vela per Cipro sotto il
comando di Etienne de Botron».
«Così vi siete
cacciati nei guai».
«All'inizio avemmo
successo e finalmente riuscimmo a distinguerci per valore. La spedizione piegò
le resistenze degli Ibelin che questa volta furono costretti a consegnare tutte
le fortezze e ad andarsene».
«Per lasciare il posto
alla fazione di Amalrico Barlais?».
«Esatto, egli acquistò
dall'Imperatore la reggenza dell'isola».
«Per quanti soldi?».
«Diecimila marchi. Sì,
ma non durò a lungo. Appena sembravano calmate le acque non tardò a calare
funesta la vendetta degli Ibelin che tornarono sull'isola a rinnovare la faida
degli orrori e delle uccisioni. Col tempo purtroppo le cose volsero a loro
favore e oggi gli Ibelin hanno il pieno controllo dell'isola.
Come vedi sono finito
impastoiato fino all'ultimo in questa faida, il tutto per ottemperare al voto di
obbedienza prestato al Granmaestro. Costui, cieco di fronte all'imminenza della
sconfitta definitiva, fidava ancora nel miraggio della fondazione del suo ordine
e ha continuato imperterrito a mandarci al massacro contro le forze soverchianti
degli Ospitalieri. E' stato un sacrificio inutile ma non potevo tirarmi
indietro, gli amici e i nemici m'avrebbero avuto per un vile.
Ora tutto è perduto,
la vendetta degli Ibelin è compiuta. E pensare che avevo lasciato la Francia
per liberare la Terra Santa dai mussulmani».
Mentre usciamo dalla
stanza un drappello di frati francescani attraversa frettolosamente il chiostro,
ma egli non sembra vederli, è assorto, sta viaggiando lontano col pensiero,
oltre le mura del convento. La sua chioma ricciuta riceve ora la luce del giorno
e la bocca socchiusa è al solito accesa come un rubino.
Gli poso una mano sulla
spalla come per distoglierlo dai suoi tristi pensieri:
«Credimi, la guerra è
pur sempre un male e non soltanto quando è fra cristiani. Tuttavia rispetto la
nobiltà dei tuoi propositi, so che per te il fine ultimo è la liberazione dei
luoghi santi e mi spiace ti abbiano allontanato dalla Palestina per sostenere le
faide dei signorotti di Cipro».
Con gli occhi lucidi mi
rivela cosa gli passava per la mente:
«Gerusalemme,
sguarnita e abbandonata è caduta nelle mani dei Turchi. Dopo un mese di assedio
i Turchi avevano promesso libera ritirata ai Cristiani e seimila fra uomini
donne e bambini fuggirono da Gerusalemme diretti alla costa. Ma quando, di
lontano, si volsero per l'ultimo estremo saluto alla città celeste, sorpresi
videro sventolare sulle torri le bandiere franche. Precipitosamente fecero
marcia indietro, convinti che fossero giunti rinforzi all'ultimo momento. Fu un
fatale errore. Sotto le mura li attendeva un agguato mortale, furono massacrati
a migliaia ed i rimanenti fatti schiavi.
Non c'era nessun
crociato a difendere quegli innocenti, sarebbe stato mio dovere proteggere
quelle donne e quei bambini e invece... ancor'oggi quell'eccidio pesa sulla mia
coscienza».
* * *
Teobaldo afferra una
scala di legno appoggiata al muro e sale agilmente sopra il tetto del chiostro.
Lo seguo e ci ritroviamo in cima a un terrazzo popolato da un gran numero di
gatti, oltre una decina di grossi esemplari che accolgono con sorniona
indifferenza la nostra intrusione, soltanto i più vicini a noi prendono con
calma le debite distanze allontanandosi a coda dritta verso l'alto.
Fissiamo muti la
distesa dell'orizzonte: una stretta striscia di terra arida separa dal mare il
lago salato, e poco profondo, che occupa quasi interamente la penisola in cui si
trova il monastero. Appena sotto di noi tra le canne, nuotano folti gruppi di
anatre selvatiche, i beccaccini saggiano il fango con il lungo becco e l'airone
cenerino se ne sta immobile all'aspetto della preda. Sulla riva opposta,
presso l'arco di costa rocciosa che si inoltra nel mare, superbi falchi dalle
ali lunghe e snelle cacciano controvento schierati in formazioni collettive.
Sono noti come i falchi della regina Eleonora.
Allorché ci sediamo
sul bordo del terrazzo con le gambe sospese penzoloni dalle mura, prendo la
parola in tono sommesso. Mi sforzo di fargli intendere come troppo spesso le
aspirazioni dei crociati siano state pervertite e allontanate di proposito dai
loro nobili obiettivi. Quante volte sono state esse strumentalizzate a causa di
ambizioni di parte, mi chiedo, quanti i compromessi fomentati dai potenti, da
uomini attratti unicamente dal possesso di nuovi feudi e ricchezze. Gli porto un
chiaro esempio di spedizione travestita da crociata: la quarta crociata del
1202.
Nel corso di questa il
governo veneziano riuscì a distogliere i crociati dalla Palestina e
dall’Oltremare e lo fece al fine di consolidare la sua affermazione politica
ed economica in Romania, per ottenere un incontrastato predominio su tutto il
Mediterraneo orientale.
Il doge Enrico Dandolo
aveva costruito in cambio di 85000 marchi d'argento la potente flotta che
avrebbe dovuto trasportare i crociati in Terra Santa. Dicono che fu uno
spettacolo stupefacente la visione di quelle duecento navi nel porto di Venezia,
cariche d'armi e di bei cavalli da guerra, con gli scudi vermigli disposti
intorno ai parapetti e gli stendardi multicolori spiegati al vento, mentre i
cavalieri intonavano estasiati:
«Veni creator
spiritus,
mentes tuorum visita,
imple superna gratia,
quae tu creasti pectora».
Però gli animi si
raffreddarono subito quando si trattò di fare i conti con i veneziani, perché
mancavano ancora 34000 marchi d'argento, nonostante il comandante dei crociati
Bonifacio di Monferrato avesse radunato il denaro dai diecimila presenti e
nonostante i nobili avessero consegnato perfino il vasellame d'oro e d'argento.
In effetti nelle galere e nelle navi da trasporto era stato previsto posto per
il triplo degli uomini presenti, mancavano in molti all'appello, rimasti a casa
o imbarcati altrove per proprio conto.
I Veneziani erano adusi
a leggere il vangelo secondo i propri interessi e sfruttarono quel credito per
ricattare i crociati, per sviarli dalla Terra Santa e dirigerli su mete foriere
di lucrosi saccheggi, atti a saldare il debito fino all'ultimo marco.
«Il saccheggio di
Zara, dal vangelo secondo marco d'argent» commenta Teobaldo.
Vedo che hai capito
l'antifona, rispondo. I soldati di Cristo furono trasformati in mercenari di
Venezia e nonostante il malcontento generale ci fu quella prima diversione verso
la città di Zara, ribelle al dominio di Venezia e aspirante a divenire sua
rivale. Caduta la città e ripulita meticolosamente di ogni oggetto di valore,
fu concordata una seconda diversione dalla meta originaria, questa volta niente
meno che verso lo sfolgorante miraggio di Bisanzio.
Teobaldo si rialza in
piedi e lancia un sasso contro il gatto più grasso della compagnia provocando
un fuggi fuggi generale dei nostri vicini:
«Bisanzio, la superba
Bisanzio. L'incantatrice che avvelena la Cristianità con il lusso e la
mollezza. Quella città scismatica era cristiana solamente di nome, il suo
imperatore Alessio III era un usurpatore e un ipocrita, sospetto di patti
segreti con il Saladino!»
Tutte buone scuse,
ribatto. Comunque Bonifacio di Monferrato mosse da terra il primo attacco alla
città e fu respinto dai mercenari danesi ed inglesi della guardia varega.
Mercenari contro
crociati! esclama lui concitato e sentenzia che quando un impero deve ricorrere
ai mercenari vuol dire che è giunto sulla soglia dello sfacelo.
Riprendo con ordine la
mia narrazione a partire dai veneziani, rimasti sulle navi e decisi semmai a
penetrare dall'estuario che fiancheggiava a nord la città, il Corno d'Oro.
Spezzata la grossa catena che ne bloccava l'ingresso essi sbaragliarono presto
la flotta bizantina ridotta a poche navi dai legni marci e tarlati,
conquistarono diverse torri e incendiando le case vicine. Il primo uomo a
sbarcare fu lo stesso Enrico Dandolo, benché ultra ottantenne e cieco. Il doge
stava ritto e armato a prua della sua galera, aveva in mano lo stendardo di San
Marco in oro su fondo rosso (quel rosso ocra che traeva colore e origine dalla
terra di Sinope) e appena la galera cozzò la banchina, il Doge ordinò a gran
voce ai marinai di condurlo subito a terra o altrimenti li avrebbe puniti a
dovere.
Teobaldo Spadalunga è
attento alla mia descrizione, si sta entusiasmando a sentir parlare di
battaglie.
Spiego come dopo un
mese si giunse all'assalto decisivo e come i crociati si valsero egregiamente
delle macchine da guerra costruite dai veneziani, mangani per il tiro a
distanza, trabocchi che lanciavano proiettili al di sopra delle mura, baliste e
catapulte, oltre i comuni arieti, le scale e i martinetti. Tra tutti i mezzi
d'assedio il più efficace era una piattaforma da combattimento sistemata sugli
alberi maestri delle navi, da essa i crociati scendevano mediante scalette di
corda e piombavano dall'alto sui nemici appostati nelle mura.
Gli assediati
rispondevano agli attacchi con archi e balestre, e lanciavano i proiettili
incendiari del cosiddetto fuoco greco, che costringeva i veneziani a coprire in
fretta le loro navi con panni inzuppati d'acqua. Una notte poi i greci cercarono
di incendiare la flotta nemica sorprendendola nel sonno con dei battelli in
fiamme, ma i marinai veneziani furono lesti ad uncinarli e li trascinarono via
in zona non pericolosa.
Giorni di duri
combattimenti si susseguirono a ritmo serrato finché fu conquistata una torre e
vennero avvolte delle funi ai suoi merli, dalle funi altri salirono sulla torre,
caddero le torri vicine e infine cadde la città.
«Devo continuare?»
chiedo.
«Avanti» mi esorta
Teobaldo.
Mi tratteneva il timore
di offendere i suoi sentimenti di crociato. Avrei voluto moderare i termini
della descrizione, non infierire con particolari raccapriccianti, evitare
implicite condanne, usare i toni pacati del sereno distacco che raffredda le
passioni legate ad avvenimenti ormai lontani nel tempo ed invece... non riesco a
non farmi trascinare dalla cruda violenza delle immagini.
Comincio cautamente col
domandargli se ha un'idea di quanto abbagliante fosse lo sfarzo di Bisanzio, la
fiera magnificenza dei suoi monumenti, l'aristocratica bellezza dei suoi
palazzi, la ricca moltitudine dei negozi e dei magazzini esorbitanti di
mercanzie. Non esisteva al mondo città più nobile e raffinata, non un polo di
attrazione più fulgido.
Ebbene, i Vandali a
confronto dei cristianissimi crociati avrebbero fatto meno danno. Per tre giorni
la popolazione fu martoriata da rapine e violenze di ogni genere, migliaia di
cittadini vennero uccisi senza motivo e ai più irriducibili vennero ficcati i
rospi in gola, una morte orribile. I crociati assalivano i conventi,
rincorrevano le monache per i corridoi, stappavano loro le vesti e le
violentavano a turno.
La Basilica di Santa
Sofia fu spogliata di tutto ciò che si poteva asportare ed il resto fu ridotto
a brandelli. I crociati giocavano a dadi sugli altari, bevevano ubriachi dai
sacri calici e le prostitute ballavano in chiesa e una di loro cantava canzoni
oscene, assisa sul trono del patriarca. Alcuni crociati avevano fatto entrare i
muli nella basilica perché volevano caricare l'argento cesellato e l'oro
divelto alle decorazioni, ma gli animali erano caduti sul pavimento scivoloso e
non riuscivano a rialzarsi, così li avevano trafitti con la spada e avevano
insozzato di sangue il luogo sacro.
I sacerdoti venivano
sistematicamente minacciati di morte se si rifiutavano di consegnare le
reliquie, gli oggetti in assoluto più ricercati e ben valutati. I crociati
facevano a gara per impadronirsi del braccio o della mascella di un santo, chi
andava fiero del piede di San Cosma, chi ostentava un dente di San Lorenzo, chi
la veste della Madonna o una goccia del sangue di Cristo. In compenso, per tre
volte fu appiccato il fuoco alla città e furono distrutti irreparabilmente
testi unici e preziosissimi, conservati nelle famose biblioteche di Bisanzio.
Certo, a conclusione i
veneziani ottennero il saldo del loro debito e intascarono la somma di denaro
convenuta e anzi, pretesero in aggiunta la metà dell'ingente bottino
accumulato. Detto per inciso, le sculture dei quattro cavalli bronzei che
troneggiano sulla facciata della Basilica di S. Marco sono lì a rammentare le
prede di guerra di allora.
* * *
Sei giri concentrici di
petali, rosa rossa in campo bianco: una mattina riporto a Teobaldo il suo scudo,
l'ho recuperato nel luogo dell'impiccagione.
Il cavaliere è da solo
nella cella che i frati gli hanno assegnato in foresteria. E' seduto sull'unico
mobile presente, un letto sbilenco. I frati gli hanno accordato il lusso del
letto poiché col dormire in terra sul pagliericcio i suoi dolori al torace si
acuivano. A mo' di barella, quattro piccole ruote sono incastrate sulle gambe
del letto, il che lo rende trasportabile ovunque ce ne sia bisogno.
Appoggio lo scudo sul
pavimento di marmo e distolgo il cavaliere dai tormentosi pensieri in cui come
suo solito è immerso:
«Ecco il tuo scudo, è
intatto».
«Oh grazie, mon
cher».
«Non lasciartelo più
sfuggire».
Mi fissa guardingo:
«C'è stato un
terremoto, questa notte?».
«Pare di no, io non mi
sono accorto di nulla».
«Un prodigio allora?».
«Perché mai?».
«Nel pieno della notte
mi sono svegliato di soprassalto, il letto tremava e le ruote cigolavano e si
muovevano avanti e indietro, scivolavano nel marmo come fosse vetro e andavano a
sbattere contro la parete, e avanti e indietro sempre più rapide. Rischiavo di
cadere sul marmo o di sfracellarmi contro la parete, facevo di tutto per
rimanere incollato al letto, ho dovuto fare degli sforzi sovrumani per non
venirne sbalzato fuori. Ero tutto coperto di sudori freddi. Ho sentito un
rimbombo, un ruggito tremendo, come se la terra si scuotesse e si aprisse sotto
di me, poi improvvisamente è tornata la calma... e mi sono riaddormentato».
«No, non c'è stato
nessun terremoto, te lo sei semplicemente sognato, sei ancora stordito per la
gran botta che hai preso in testa».
Osservo Teobaldo nella
nuda cella. E' vestito con un rozzo saio del convento. Ci scherzo sopra:
«Hai forse intenzione
di farti frate?».
«In pratica, è come
se lo fossi».
«Raccontami qualcosa
di te. Non mi parli mai della tua vita privata» e mi siedo sul pavimento ad
ascoltarlo.
«Ereditai il diritto
al cavalierato da una nobile famiglia di Vannes, in Bretagna. Ho quarantun anni
e sono il maggiore tra due fratelli, ma come cavaliere feci voto di povertà
rinunciando al feudo della famiglia in favore del fratello minore. Partii da
casa a diciotto anni e andai errando per la Francia. Alcuni mesi dopo ero già
in procinto di partire per la crociata, che come si sa è viaggio oltremodo
lungo e incerto, per cui volli prima salutare la mia famiglia. Cavalcai giorno e
notte, attraversai il Ducato di Aquitania, superai a Nantes le acque della Loira
e giunsi stremato in Bretagna.
Avevo avvistato i
dolmen e i menhir, finalmente ero nelle vicinanze di Vannes. Arrivai davanti al
cancello di casa mia, ma con sorpresa lo trovai sbarrato, il passaggio era
bloccato da quattro guardie armate e minacciose. Feci loro presente che ero il
fratello maggiore ma queste non vollero sentir ragioni, avevano ricevuto ordine
perentorio di non lasciarmi passare, mio fratello temeva che fossi tornato a
rivendicare i possedimenti della famiglia. Quel pomeriggio mi sarei accontentato
di un letto per riposarmi dall'estrema stanchezza, mi sarebbe bastato un po' di
zuppa per rifocillarmi e invece mi avevano sbattuto la porta in faccia.
Amareggiato, girai il
mio cavallo e me ne tornai via. C'era la bassa marea, le spiagge avevano
acquistato una smisurata profondità e si erano ricoperte di alghe scure. Il
granito rosa delle scogliere mutava colore al tramonto e sulle rocce si
stampavano ombre viola, grigio perla e blu notte; calato il sole, forme
inquietanti s'impossessarono dei profili creati dall'erosione, vedevo le
silhouette di enormi diavoli e streghe, di mostri e draghi spaventosi.
Dov'erano finite le
amate scogliere della mia fanciullezza, avevo forse vissuto in sogno la mia
vita? Improvvisamente il mio paese, la mia gente, la famiglia in cui ero
cresciuto, tutto mi appariva estraneo e mi faceva sentire un intruso».
Come mai - rimugino fra
me - un uomo ricco, affascinante e coraggioso come lui, ha voluto abbandonare
ogni cosa per una vita di privazioni?
«Dimmi Teobaldo, se ti
è lecito farmene confidenza, cosa ti ha spinto ad abbracciare la cavalleria?»
«Un amore infelice per
una ragazza della Bretagna. Si chiamava Aretusa. La vidi per la prima volta
mentre assisteva al nostro torneo. Eravamo quindici contro quindici in una finta
battaglia senza spargimento di sangue, la mia squadra ottenne la resa degli
avversari e li catturammo tutti, io mi ero messo particolarmente in mostra e
alla fine del torneo andai al palco della fanciulla per renderle omaggio. Lei mi
sorrise e mi gettò in pegno il suo fazzoletto carminio. Da allora presi i suoi
colori e mi vestii sempre di rosso.
Suo padre però non
accettò mai la mia corte. Fu irremovibile, aveva già deciso di darla in sposa
ad un altro, un certo Odoardo».
«Ma lei lo amava?».
«No, Aretusa non lo
amava affatto e si rifiutò di obbedire al padre, che per castigo la recluse nel
palazzo».
«Perché la ragazza
non ha fatto ricorso al tribunale ecclesiastico?».
«In Francia i preti
non difendono le donne che denunciano nozze forzate, il consenso all'unione è
diritto primario dei genitori».
«Potevi rapirla».
«Ci ho provato... una
volta, ma il tentativo è fallito. Credimi, ho fatto di tutto per impedire che
quel matrimonio andasse in porto. Ho perfino sfidato Odoardo ad una giostra,
volevo incontrarlo a cavallo in duello armato, l'avrei disarcionato e combattuto
a terra, vinto al giudizio dei punti e umiliato davanti agli occhi di Aretusa,
ma quel vile ha rifiutato di misurarsi. In preda al più cupo sconforto, ho
deciso di andarmene lontano dalla Bretagna e di prendere i voti cavallereschi;
voto di castità compreso, pure quello, tanto non potevo avere in mente altra
donna all'infuori di lei».
«Davvero la gente si
sbaglia quando dice che i Bretoni sono incostanti e volubili».
«Ora vivo di ricordi,
dei dolcissimi momenti trascorsi con lei alla fonte... L'acqua sgorgava da sotto
le rocce ricoperte di muschio e ben nascosta dalla fitta vegetazione ella si
bagnava nuda con me, in mezzo al galleggiare delle ninfee. Avrei voluto mutare
me stesso in acqua e avvolgere per intero ogni centimetro della sua pelle,
toccare nello stesso istante davanti dietro e a lato ogni rotondità del suo
corpo, lambire ogni piega dei suoi arti, agitare come alghe i suoi capelli e
inumidire come muschio il suo pube. Che bello! Essere fresca limpida corrente
che accarezza l'intimo delle sue cosce e dolcemente culla il suo peso su
invisibili braccia d'acqua che appena increspano la superficie.
Invece per mala sorte,
un demone invidioso si è impossessato di quelle acque, l'ha terrorizzata
chiamandola ripetutamente per nome, l'ha risucchiata e inghiottita nel vortice
di un gorgo senza ritorno. Irrimediabilmente preclusa ai miei sensi, ella espia
la mia inabile virtù. Mai più le mie mani potranno raggiungerla, le acque di
quella fonte sono sprofondate tumultuosamente nell’oscurità della terra e si
sono immerse in caverne insondabili e inarrivabili.
Oh mia Aretusa, fonte
proibita che sei dolce nel momento d'amore e amara nel ricordo».
* * *
Oggi è l'ultimo
giorno. La nostra permanenza tra i frati è al termine. Nella spoglia chiesetta
del monastero, Teobaldo fissa nel vuoto con i suoi occhi cinerei, sembra che
sogni il sogno di un orizzonte illimitato. Mi inginocchio al suo fianco:
«Hai negli occhi la
Terra Santa?».
«Sì... Quando vi
sbarcai per la prima volta fui sconcertato da quel deserto di arida sabbia,
raramente interrotto da oasi di palme e melograni e verdi alberi da frutto. La
conformazione del territorio era esattamente speculare a quella dell'Argoat, il
mio paese delle foreste, che è una sconfinata distesa di alberi interrotta da
poche radure abitate. Ma col tempo lo smisurato silenzio del deserto mi affascinò.
Laggiù le piste si
perdono dritte davanti a te a perdita d'occhio e la terra riempie ovunque lo
spazio, tutto intorno, fino al cerchio lontano dell'orizzonte. La sabbia è
rosso - dorata oppure bianca e finissima, pulita, i granelli scorrono fra le
dita come acqua. Le dune sembrano immobili e invece il vento le sposta in modo
impercettibile, ne cambia continuamente il profilo, e la notte, quando
giganteggia la luna piena, un gioco di ombre le trasforma in un mare di onde di
cristallo.
Nel deserto non c'è
nulla, quel che ti pare di scorgere è soltanto un miraggio lontano, acqua che
non esiste, golfi, insenature, isole illusorie, carovane di cammelli che non si
avvicineranno mai. Eppure il deserto vive e non solo nell'effimero rinverdire
che segue il prodigio di una pioggia: il deserto miracolosamente vive nel
pulsare delle città dei bambini. Ho ancora impressi negli occhi i ragazzini che
uscivano a nugoli dalle rovine degli insediamenti cristiani, piccole oasi di
speranza nel cuore del deserto».
Nel raccoglimento della
chiesetta decido di mettere al corrente l'amico delle mie disavventure con la
Santa Inquisizione:
«Teobaldo, sono
ricercato dall'Inquisizione per colpa dell'Alchimia».
Egli si volge a
fissarmi preoccupato:
«Mon Dieu! La
pietra filosofale proviene da Lucifero, in principio era la gemma meravigliosa
al centro del suo diadema, ma si è staccata quando l'angelo più splendente del
cielo è precipitato nell'abisso a causa della sua superbia».
«Il profeta Isaia»
accenno dalla Bibbia.
«Come sei caduto dal
cielo, o Lucifero che nascevi all'aurora! Sei stato abbattuto a terra, tu
seduttore delle genti, tu che dicevi nel tuo cuore: salirò in cielo, al di
sopra degli astri di Dio innalzerò il mio trono, sederò sulla sommità delle
nuvole e sarò simile all'Altissimo! Sarai invece trascinato negli Inferi, nel
profondo della fossa».
Teobaldo rimane per un
po' in preghiera in ginocchio sul banco. Poi, siccome gli ho salvato la vita si
sente in dovere di sdebitarsi e decide di aiutarmi. Mi rivela una confidenza
fattagli di recente dai monaci:
«Il 21 giugno, alla
vigilia del Corpus Domini, i crociati di Kolossi prenderanno dal loro forziere
un calice dorato e lo porteranno segretamente nella cappella di San Eustathios,
la chiesetta che appartiene ai monaci e sta entro le mura del cortile sul
davanti della fortezza. Nel pomeriggio i signorotti del castello vi si
recheranno per l'adorazione.
La coppa era di
proprietà della famiglia veneziana dei Morosini, di quella parte di loro che si
era trasferita a Bisanzio. Un avo del Doge Morosini la ricevette in dono di
nozze quando sposò la figlia del re d'Ungheria. A Bisanzio rappresentava
l'oggetto più prezioso della comunità veneziana: ha un valore inestimabile, è
tutta in oro finissimo, rubini grossi come mandorle ne adornano in cerchio il
bordo superiore e a metà manico, da parte a parte, v'è incastonato un diamante
giallo che brilla degli stessi riflessi dell'oro, si tratta di una pietra enorme
ed appartiene ad una varietà estremamente rara.
Nel lontano 1171 a
seguito dei soliti tumulti tra la colonia veneziana e quella genovese, le
guardie dell'imperatore Manuele Comneno avevano colto il pretesto per
precipitarsi ad arrestare i Veneziani di Bisanzio e sequestrare loro tutti i
beni. Fra gli oggetti tolti ai Veneziani c'era appunto il calice dei Morosini
che finì nel tesoro della Basilica di Santa Sofia e lì rimase».
«Come mai è finito a
Kolossi?».
«Con la caduta di
Bisanzio ed il sacco della città da parte dei crociati, il calice cadde nelle
mani degli Ospitalieri che lo trasferirono nella loro sede di Cipro, la fortezza
di Kolossi.
Se tu vuoi riscattarti,
impadronisciti della coppa d'oro e riportala al Doge Morosini, in tal modo ti
sarà facile ottenere i suoi favori e la libertà, o per lo meno una pena meno
grave poiché sei spontaneamente comparso a riconoscere il tuo errore. La notte
del 21 giugno dovrai agire da solo, io non posso entrare con te nel castello, mi
riconoscerebbero subito.
Non puoi fuggire tutta
la vita, è ora di tornare nella tua città a chiedere umilmente perdono».
«Sì, hai ragione,
devo tornare a Venezia e affrontare le mie responsabilità, ci sono obiettivi
nella vita di un uomo a cui non si può sfuggire. Ti ringrazio per avermi
indicato la via giusta».
«Non devi ringraziare
me, le giuste aspirazioni nascono dentro l'Anima del Mondo» mentre i suoi occhi
cinerei tornano a guardare lontano.
Viene l'ora di
separarci e di continuare ognuno per la sua strada. Ci avviamo insieme al
portone principale del monastero. Martedì scorso, a sua insaputa, avevo venduto
al mercato di Limassol i due preziosi speroni cesellati in cambio di uno scudo
d'oro, la moneta francese di re Luigi. Però adesso, dopo la sua confidenza sul
calice Morosini e le amichevoli esortazioni a redimermi, mi sento tremendamente
in colpa. Appena raggiunto il portone del monastero decido di tornargli lo scudo
francese e mi scuso per quell'azione indegna:
«Questo è l'oro dei
tuoi speroni servirà per ricomprarti la spada, ti prego di perdonarmi».
Teobaldo prende la
moneta senza replicare. Ha il capo fasciato da una benda, tiene lo scudo da
crociato al gomito e indossa la veste scarlatta sopra la maglia ferrata. I
monaci chiudono alle nostre spalle il pesante portone.
Al momento del congedo
definitivo, veniamo raggiunti dagli occhi supplicanti di un giovane ragazzo che
striscia verso di noi reggendosi sulle braccia tese poiché i suoi arti
inferiori, rattrappiti e deformati dalla malattia, sono ridotti ad inutili
appendici. Teobaldo, tira fuori lo scudo d'oro e lo consegna al ragazzo.
«Dove andrai Teobaldo
Spadalunga?» gli chiedo nascondendo a stento la commozione.
«In Terra Santa. Laggiù
ho ancora un compito da svolgere» risponde sorridendo.
* * *
Osserverò per prima
cosa l'ubicazione della chiesetta di San Eustathios e le abitudini del
sacrestano, devo elaborare un piano molto accurato se voglio impadronirmi del
calice senza correre rischi. Vestito da frate, attenderò dentro il
confessionale il giro di chiusura del sacrestano e mi metterò il più possibile
all'interno del confessionale, starò schiacciato nell'angolino dietro la tenda
sicché, semmai gli venisse in mente di controllare, anche spostando la tenda
non mi vedrebbe, e se per maledetta sfortuna mi dovesse proprio scoprire, posso
sempre dire che sono un frate di passaggio. Poi, a notte inoltrata, esco dal
confessionale, forzo la porticina dell'altare con il piede di porco e mi
impadronisco del calice ingemmato. Semplice! Per uscire basterà togliere la
spranga dal catenaccio del portone principale, la porta laterale viene sempre
chiusa a chiave... ma accidenti, se c'è un giro di chiave anche nel portone
principale, sono spacciato! Non è detto, basta avere un arnese affilatissimo
con cui intaccare il legno, mi devo portare dietro anche uno scalpello. Posso
lavorare comodamente tutta la notte intorno alla serratura, ammorbidire e
carbonizzare il legno col fuoco dei ceri... finisco con tutta calma il lavoretto
ed entro le prime luci dell'alba la serratura è già divelta. Mi resta soltanto
da uscire dalla chiesetta, il ponte levatoio viene regolarmente abbassato al
mattino presto.
Se però i crociati di
guardia alle mura mi dovessero vedere nel momento in cui esco dalla chiesetta?
Finirei impiccato. La paura mi stringe un nodo alla gola.
Arriva subito il 21
giugno, vigilia della grande festa del Corpus Domini. Nel pomeriggio mi mescolo
alla folla del castello. Il vasto cortile antistante è cinto tutto intorno
dalla cerchia di mura esterne che partono dai due angoli della facciata nord
della fortezza. Ho sottratto ai monaci di Sant'Elena un saio dalle maniche
svasate e ampie fin quasi a toccare terra.
Il Granmaestro degli
Ospitalieri ed i signori di Kolossi hanno terminato l'adorazione preliminare e
con gran boria se ne escono dalla chiesetta dei monaci; controllo che nelle
immediate vicinanze non vi sia alcuna sorveglianza armata, tutto è calmo come
nelle sere precedenti; osservando bene da lontano mi accerto che non entri più
nessuno e in orario prossimo alla chiusura muovo spedito verso il suo portone.
Entro. All'interno, le
fresche pareti imbiancate. Sono spoglie. Semplicemente una preziosa icona
dell'arcangelo Raffele ricorda la sacralità del luogo. E' sopra l'altare. Ritto
in piedi con due brocche, l'arcangelo alato solleva un gomito per travasare il
vino dalla brocca d'argento alla brocca d'oro che sorregge in basso con l'altra
mano. E' una raffigurazione molto elegante, con i colori scelti egregiamente.
La cappella è deserta.
Mi dirigo verso il confessionale e mi siedo ad attendere dietro le tende
rettangolari. D'improvviso sento dei passi pesanti e decisi, devono essere dei
crociati, sussulto dallo spavento e rabbrividisco sotto la tonaca. Li sento
inginocchiare con un tonfo, la punta delle loro spade batte sul pavimento, il
silenzio amplifica i minimi rumori. Intuisco che si dirigono all'altare, sento
sbattere e richiudere a chiave la porticina metallica, dietro è nascosto il
calice, probabilmente ne controllano la presenza.
Tutto il piano è
andato in fumo. Di nuovo i passi pesanti, si stanno avvicinando al
confessionale. Sono paralizzato dalla paura.
Un crociato sposta la
tenda col guanto:
«Padre, ho bisogno di
confessarmi».
Non fiato per timore di
avere la voce tremante.
Il crociato si
inginocchia sul pavimento a lato della tenda e comincia con voce lamentosa:
«Devo confessarle un
peccato, è successo una settimana fa dopo gli scontri sotto la fortezza. Deve
comprendere, ero ancora eccitato dalla frenesia della battaglia, avevo
combattuto in duello con un cavaliere, l'avevo ferito al braccio e stavo per
ucciderlo ma è riuscito a sfuggirmi grazie all'intervento del suo scudiero.
Noi avevamo vinto,
piegato definitivamente gli avversari e ancora sporchi di sangue ci siamo
lanciati al saccheggio di Palamidi, l'ultimo covo dei ribelli».
«Vieni al sodo, io non
capisco molto bene il Francese» con un filo di voce.
«Voilà. In
compagnia del mio scudiero mi sono precipitato a Palamidi alla ricerca del
cavaliere che avevo ferito, sapevo bene dove abitava...
Aveva una ricca casa di
pietra. Lo stemma scolpito sopra il portone era un mostriciattolo, donna nella
meta superiore e serpente dall'ombelico in giù. All'interno lui non c'era.
Abbiamo trovato sua moglie, teneva fra le braccia un bambino di pochi anni. Lo
scudiero le ha strappato dalle mani il bambino, io l'ho preso per i capelli e ho
minacciato di sgozzarlo con la spada se la moglie non mi avesse consegnato tutto
il denaro. Terrorizzata, è subito corsa a tirar fuori uno scrigno da sotto il
focolare e l'ha messo sul tavolo. Conteneva monete d'argento e qualche gioiello.
Poi ho voluto
controllare se il marito ferito fosse nascosto in casa, ho spalancato un
armadio, e niente, ho aperto una cassapanca e sorpresa, ho trovato dentro una
ragazza rannicchiata. Era la figlia sedicenne del cavaliere, pallida di paura.
L'ho tirata fuori per un braccio. E' stata colpa sua: si era nascosta come un
serpente e la cosa mi ha irritato, se si fosse mostrata subito non mi sarei
sognato di toccarla, così invece... le ho strappato la veste con uno strattone
e l'ho violentata lì per terra».
«La ragazza ha fatto
resistenza?» chiedo.
Il crociato fa una
breve pausa, non si aspettava che questo particolare potesse interessare al
confessore:
«All'inizio sì, si
divincolava e contorceva le gambe, ma poi le ho dato un ceffone col guanto
ferrato e si è lasciata allargare le ginocchia».
«Avevi ancora addosso
l'armatura?».
«Ero in guerra padre,
portavo ancora l'elmo e la maglia ferrata».
Fa un'altra pausa.
«E' finita la
confessione?» chiedo.
«No».
«Avanti allora».
«La madre, che
assisteva alla scena, ha tirato fuori un coltellaccio dalla cucina e mentre ero
offuscato dal piacere è scivolata alle mie spalle per tentare di sorprendermi.
Ma il mio fido scudiero si è accorto appena in tempo e girandosi di scatto ha
estratto la spada dal fodero e gliel'ha puntata sul cuore. Io mi sono rialzato,
ho ordinato alla donna di consegnarmi il coltello e con un sorriso malevolo ho
fatto cenno al mio scudiero di godersi pure la figlia».
«Poi?».
«Ho atteso con calma
che lo scudiero finisse, ho fatto sedere la madre sul bordo del tavolo e l'ho
stesa giù con la schiena, aveva dei grossi seni, poi... poi le ho tagliato la
veste col coltello e le ho fatto un piccolo sfregio sulla pelle di un seno... ho
piantato la punta del coltello sul legno del tavolo e da in piedi l'ho
violentata».
«La condizione di
cavaliere ti obbliga alla difesa dei deboli, non ad approfittarti di loro, devi
ricordare che il tuo ordine non è solo militare ma anche monastico». Taglio
corto perché non voglio addentrarmi nel catechismo, un campo dove per ignoranza
potrei dire qualche sproposito. Borbotto l'assoluzione. Non vedo l'ora che se ne
vada, per penitenza gli ordino solo tre avemarie.
Se la cava con poco,
meriterebbe le multe salatissime che sono in vigore a Venezia. Qui invece, chi
rischia la peggior punizione sono io: avendo ascoltato una confessione e avendo
assolto un penitente senza essere sacerdote, ho sufficienti motivi per farmi
consegnare in direttissima al braccio secolare.
Il crociato si congeda.
Scosto in fessura la tenda e vedo che finito di pregare va all'esterno a
raggiungere il compagno a guardia della cappella. Ha richiuso il portone alle
sue spalle.
Devo agire subito,
adesso o mai più. Il sacrestano non ha ancora fatto il giro, devo anticiparlo.
Rapido mi dirigo
all'altare, sono davanti alla porticina metallica, uso la mia sbarra incurvata e
col minimo rumore faccio saltare la serratura: splendente oro massiccio, sul
bordo superiore una moltitudine di rubini che brilla alla luce soffusa delle
candele, ai quattro lati quattro grossi smeraldi e incastonato a meta manico...
un magnifico diamante dai riflessi dorati, enorme, raggiante come la stella del
mattino che annuncia l'aurora.
Nonostante l'incombente
pericolo indugio a rimirare incantato la pregevole manifattura del calice: porta
incise in rilievo delle figure di spighe di grano, un lavoro d'artista dal
disegno ben riuscito ed accurato ma purtroppo destinato a sfuggire
all'attenzione della gente, penso fra me.
Il calice è vuoto. Lo
corico mentre la mano sinistra ne sorregge il peso e infilo il pugno entro la
sua concavità. Ho incrociato i polsi a manicotto e li premo contro l'addome
contratto, il calice è ben nascosto entro le ampie maniche che pendono fino
alle ginocchia.
Guardo verso il portone
d'uscita. Lungo il pavimento faccio le prove per quella che dovrebbe essere una
camminata disinvolta. Con l'aiuto di un gomito apro in fessura il portone e lo
spalanco poi con la punta del piede.
Le due guardie oseranno
perquisire un frate? Sono una per parte di fianco al portone. Passo in mezzo a
loro senza cappuccio e con gli avambracci ben incrociati. L'Ospitaliere che ho
appena confessato mi saluta riverente, gli rispondo con un cenno del capo.
Faccio quattro cinque
passi e mi blocco, mi giro su me stesso, fisso il crociato dritto in mezzo agli
occhi finché vi scorgo dei segni di imbarazzo, quindi gli dico severo:
«Mi raccomando, fate
bene la guardia al calice, è molto prezioso!»
Il ponte levatoio è
ancora abbassato, ancora per poco, comincia già ad imbrunire. Lo attraverso in
scioltezza. Le sentinelle non mi degnano di uno sguardo. Un secondo dopo possono
vedere soltanto le mie spalle.
E' fatta, ha
funzionato, e non so che santo ringraziare... beh, potrei ringraziare il dio
Mercurio, protettore dei ladri. Anche se in realtà, sto semplicemente
riportando il calice Morosini al suo legittimo proprietario. Dopo un duecento
metri tolgo il saio, ne strappo il cappuccio per inserirvi la coppa e avvolgo il
rimanente su di una pietra che getto nel fosso. Dai cespugli mi giro a
contemplare il ponte levatoio mentre viene sollevato, le prime ombre della sera
conferivano alcunché di fosco ai contorni del castello.
* * *
Il 25 giugno è atteso
a Paphos lo scalo della carovana partita in agosto da Venezia e ora sulla rotta
di ritorno dopo aver svernato in Oltremare nella città di Acri.
In groppa alla mia
fedele cavalcatura, ho raggiunto il porto di Paphos dopo un'intera notte di
viaggio. Mentre aspetto con impazienza l'arrivo della carovana ho dovuto
sacrificare il docile compagno dalle lunghe orecchie, l'asinello che come me
rimpiange il dolce peso di Rézia. L'ho venduto a dei contadini. Volevano
macellarlo a tutti costi ma non l'hanno fatto, sono riuscito a convincerli ad
usarlo come animale da lavoro. L'asino aveva denti ancora buoni, gli ho scurito
il pelo con un colorante e l'ho spacciato per un cucciolo della Catalogna,
invano i villici avrebbero atteso che crescesse per diventare enorme e forzuto.
In questi giorni di
trepida attesa ho avuto il piacere di conoscere un uomo sicuramente più forte
di qualsiasi animale da soma. Nel porto lo si nota subito, è parecchio grosso,
di corporatura robusta e massiccia, muscoloso ben al di sopra della media. Sale
in bilico sulle passerelle del molo e scarica a bordo la merce. Indossa una
tunica logora che gli arriva al ginocchio e tiene i piedi scalzi per meglio
aderire ai gradini abbozzati sul dorso delle passerelle.
E' un cipriota, uno
scaricatore di porto, e nel vederlo trasportare sulle spalle quei sacchi
pesantissimi non si può esimersi dal manifestargli ammirazione:
«Chi sei per sollevare
pesi del genere? Ercole in persona?».
«Ellah, veneziano» il
greco mi saluta con entusiasmo senza rilasciare quella rigidezza muscolare che
fa sembrare esagerato e sovrabbondante di energia ogni suo movimento. «Riconosco
il tuo accento, ho navigato su navi veneziane» dice in Francese continuando a
lavorare.
Quando finisce di
caricare i sacchi sulla nave si concede una pausa e mi viene vicino, la fronte
gronda un sudore che odora di legno di sandalo e i muscoli delle mandibole gli
guizzano nervosamente sotto la pelle:
«Amico mio! Tu conosci
le fatiche d'Ercole?».
«Beh, la fatica del
cervo...».
«Non del cervo, la
fatica della cerva dalle corna d'oro!» precisa.
«Sulla facciata della
Basilica di Venezia c'è un Eracle piuttosto gracile che porta una cerva sulle
spalle, è scolpito in un bassorilievo, un genere di rilievo appiattito ispirato
ai codici tedeschi; io nella Basilica ci lavoro però a dire il vero nessuno mi
ha mai raccontato la fatica nei suoi particolari».
«Te la racconterò io,
Erimanzio - stringendomi con forza la mano come se avesse intenzione di
stritolarmi le ossa -. Ercole mosse alla cattura della cerva di Cerinea
confidando nella sua forza prorompente, armato di una clava ricavata da un
tronco di oleastro e protetto dall’invulnerabile pelliccia del famoso leone
Nemeo. La cerva era consacrata ad Artemide ed era empio non solo ucciderla, ma
anche semplicemente toccarla. Le sue corna d'oro avevano attirato l'attenzione
della dea come pure le sue quattro magnifiche ed enormi compagne, ma mentre
queste ultime erano state catturate ed aggiogate alla quadriga divina, la cerva
di Cerinea era riuscita a mettersi in salvo».
«Le cerve non hanno
corna, poteva trattarsi unicamente di una renna, la sola specie che si adatti al
traino di un carro e la sola in cui la femmina sia cornuta» puntualizzo a mia
volta.
«Non è vero, mia
moglie non è una renna eppure ti assicuro che le corna le ha.
Chiamala come vuoi, la
cerva possedeva zoccoli di bronzo incredibilmente veloci e aveva corna d'oro
lucenti come i raggi del sole. Il monte di Cerinea era avvolto in un alone
carico di mistero, Ercole percepiva la costante presenza di un qualcosa di
incorporeo che condizionava i suoi passi. Egli inseguiva sul fango impronte
eccezionalmente grandi e profonde, si fermava davanti i segni lasciati sulle
cortecce da denti terribilmente aguzzi, la cerva rimaneva però confusa nel
fitto fogliame. Per un anno intero Ercole s’impegnò in una difficile e
affannosa ricerca, finché un giorno riuscì a stanarla... ma la cerva non si
lasciò domare e balzò via veloce e irraggiungibile.
Lontan d'ogni sentiero
ora scendeva ora saliva, valli e monti essa varcò, attraversava in un lampo
infinite foreste ed Ercole fu costretto in luoghi ostili e selvaggi pur di
seguire le sue tracce. Solo di tanto in tanto, sulle cime delle colline dirette
a settentrione, egli poteva veder luccicare in lontananza le corna d'oro della
cerva. Imperterrito Ercole continuava ad inseguirla. Attraversò l'Istria, varcò
il Po, si inoltrò a nord lungo la via dell'ambra e arrivò fin nel paese degli
Iperborei, agli estremi confini lambiti dal Mar Baltico.
Lassù egli la
raggiunse, in un giardino ove crescevano degli alberi carichi di splendide mele
d'oro. Tese fra quei rami la sua rete e riuscì a catturarla senza recarle
offesa. Quindi, con il benevolo permesso di Artemide, Ercole caricò la cerva
sulle proprie spalle e la riportò in Grecia».
Arriva un carro ricolmo
di sacchi e si ferma poco distante, il conducente scende. Seguo Erimanzio che si
avvia silenziosamente verso il carico.
Gli parlo alle spalle:
«Ho capito, il
racconto deve avere un significato allegorico, mi spiego, hai presente
l'Unicorno?».
«No».
Ai bordi del carro
Erimanzio piega il ginocchio verso un sacco che pesa oltre il quintale, emette
un grido soffocato, contrae l'addome e con uno sforzo poderoso alza il sacco
sulla spalla destra. I muscoli del dorso si gonfiano, le vene del collo si
inturgidiscono e le sue braccia possenti stringono il sacco come morse
d'acciaio.
Cammino al suo fianco
mentre si dirige con il carico verso la passerella:
«Mi ascolti?- con voce
stridula - Si dice viva nelle Indie, ha un unico corno sulla fronte, grosse
zampe da elefante, pelle glabra e molto spessa simile a un'armatura. E'
raffigurato sul pavimento della Basilica di Venezia e ti assicuro, non è il
docile animaletto che il popolo si figura in braccio alle vergini».
«E allora?».
Erimanzio si blocca a
un passo dalla passerella e scaraventa a terra il sacco, visibilmente irritato.
«Allora, -proseguo-
come l'introvabile unicorno è immagine dello Spirito così la renna dalle corna
d'oro è immagine dell'Anima. Ne deriva, se permetti, che la virtù di Ercole
non va intesa nel senso della forza fisica, bensì nel senso della forza d'animo».
«Non hai capito un
corno! - Esplode gesticolando con le grosse mani. - Come poteva caricare la
cerva sulle spalle senza avere muscoli eccezionali? Una cerva enorme e pesante
come quella! Cinque uomini robusti non bastano a sollevarla un millimetro da
terra. Hai mai visto la forza d'animo sollevare qualcosa?».
«Ma, ascolta...».
«E poi, - concitato -
senza le sue gambe grosse e super resistenti ti sembra che Ercole avrebbe potuto
inseguire la cerva per mezzo mondo?».
«L'anima sta al corpo
come l'intenzione di camminare alle gambe» cerco di spiegare.
Alza le spalle:
«Seghe mentali, seghe
mentali... la filosofia dei rammolliti».
* * *
Il 25 giugno non avrei
potuto festeggiare meglio il patrono: mentre oggi a Venezia si celebra il giorno
di San Marco a Paphos pronuncio davanti al capitano il giuramento prescritto dal
codice d'imbarco e puntuale salgo a bordo della carovana.
La mia nave reca
mercanzie, le meno voluminose ma le più preziose. E' una galera leggera, mezzo
di trasporto molto caro ma altrettanto sicuro, le galere veneziane sono infatti
veloci e facili da manovrare e sono in grado di controbattere efficacemente gli
attacchi dei pirati. Dai fianchi dello scafo lungo e stretto sporgono le
scalmiere che alloggiano il ginocchio del remo. E' una bireme, nel senso che per
ogni banco ci sono due uomini, uno accanto all'altro e ciascuno con un proprio
remo. Per sfruttare al massimo la disponibilità di posti, ai remi non ci sono
degli schiavi ma scalognati passeggeri che si pagano il viaggio remando. Pur
essendo adibita a fini mercantili la nave è armata, nel senso che ciascuno
degli ottanta uomini di equipaggio deve essere provvisto di scudo, elmo e cotta
di maglia; le armi a disposizione consistono in spade, lance e pugnali...
soprattutto armi bianche perché il corpo a corpo è decisivo sia negli assalti
di una flotta nemica sia per difendersi dai pirati all'arrembaggio.
La stiva è carica del
profumo delle spezie che arrivano dall'Oriente e dai lontani mercati dell'India.
Un naso esperto vi potrebbe riconoscere ed isolare ciascuna fragranza: la
corteccia aromatica della cannella, il pepe, lo zenzero pungente, la noce
moscata, i boccioli dissecati dei chiodi di garofano, il cumino, il coriandolo.
Sono tutte spezie ricercatissime, richieste da un enorme mercato e pagate a peso
d'oro. Il pepe, pur essendo il meno costoso, è quello più resistente al
trasporto e le grandi quantità che arrivano in occidente non sono mai
sufficienti, tanto che in molte località i diritti di transito sono pagabili in
pepe, come pure le imposte e le ammende. Le spezie vengono adoperate per
preservare dal deterioramento le carni e gli insaccati, per insaporire i cibi o
aromatizzare il vino cotto. Alcune sono utilizzate come droghe medicinali, tipo
la noce di galla e la costosa canfora di Sumatra, tipo l'ossido di zinco usato
per la cura degli occhi o lo zucchero dalle proprietà sedative.
Un effluvio dolciastro
emana dai legni pregiati, aloe odoroso dell’Indocina, sandalo dalle inebrianti
varietà bianca e rossa. Col nerissimo ebano si fanno calamai e anche dal
verzino si ottiene dell'ottimo legname. L'incenso viene prodotto con l'ausilio
degli alberi incidendo col coltello certe cortecce e raccogliendone le gocce
resinose; del pari il balsamo è secreto dagli alberi sotto forma di un liquido
che a contatto dell'aria diviene vischioso e solido. Ci sono ovviamente i
profumi veri e propri, tipo il benzoino o l'ambra grigia, quest'ultima ha
l'effetto di un potente afrodisiaco e viene ricavata da una formazione calcolosa
del capodoglio, un cetaceo delle coste tropicali del Madagascar.
Il cotone a fiocchi
figura nelle capienti stive delle altre navi, da noi al posto della bambagia c'è
la bambasina, un cotone più pregiato intessuto in maniera finissima. Abbiamo a
bordo anche i coloranti per le stoffe, come la radice rossa di robbia o la gomma
lacca. E per concludere in bellezza, ecco il nostro forziere. Le pietre preziose
giunte espressamente dall'isola di Ceylon: topazi, zaffiri, granate, ametiste.
Le perle dei cacciatori di ostriche e gli enormi diamanti del Deccan e i
turchesi del Khorassan, i lapislazzuli della Tartaria.
Tutte queste merci sono
state caricate nel porto di San Giovanni d'Acri, capitale del regno di
Gerusalemme dopo che la città santa è caduta definitivamente in mano
mussulmana. Acri è un centro commerciale attivissimo in cui trovano posto tutte
le colonie dei latini, cioè i Pisani, gli Amalfitani e soprattutto, in perpetua
discordia coi veneziani, i ricchi coloni Genovesi. La città importa dall'Europa
le merci di scambio che i veneziani acquistano nel Baltico e nell'Europa
settentrionale, ossia ambra, pelli, pellicce e i pregiati tessuti delle Fiandre.
Nell'entroterra siriano
c'è l'altro importantissimo nodo commerciale di Damasco, capolinea delle grandi
piste carovaniere provenienti dall'Oriente. Due sono le piste principali che
collegano la lontana India con la città: una di esse risale il corso del fiume
Indo, supera i colli dell'Hinducush, prosegue nel Khorassan persiano e poi,
attraverso Bagdad, costeggia il fiume Eufrate raggiungendo la Siria.
L'altra pista, via mare
dalle Indie, raggiunge a ovest il golfo stretto tra continente africano ed
asiatico e fa tappa in Arabia nel porto di Aden. Le sue navi risalgono poi le
coste del Mar Rosso parallelamente alla lunga barriera rocciosa che argina il
deserto arabico, quindi sbarca a La Mecca e prosegue via terra nel Mare di
Sabbia a dorso di cammello fino a Damasco.
La Via della seta,
grande itinerario terrestre, è invece riservata al broccato, alla mussolina,
alle balle di seta greggia e ai drappi lavorati in oro. Il viaggio delle
carovane dura circa dieci mesi, parte in Cina da Shangai, attraversa il deserto
del Gobi, sfiora Samarkanda e poi raggiunge le rive del Mar Caspio.
Dalla Cina arriva anche
il carbon fossile. Per i Veneziani è una semplice curiosità, cioè una pietra
nera estratta dalla montagna che arde mantenendo fuoco e calore molto meglio
della legna, però presso i cinesi pare sia un materiale usatissimo per scaldare
le stufe.
La cosa più bizzarra,
la salamandra, arriva dalla Mongolia. Bisogna sapere che essa non è l'anfibio
che vive nel fuoco senza bruciarsi, come risulta comune credenza, la salamandra
è invece un metallo incombustibile che si estrae dai giacimenti dell'Altai. Il
suo vero nome è amianto e si estrae in filamenti flessibili che messi nel fuoco
diventano bianchi come la neve. I mongoli vi fabbricano delle tovaglie di
tessuto resistente al fuoco sicché, quando le tovaglie si macchiano o si
insudiciano, le mettono sul fuoco e le lasciano temprare finché tornano
candide.
Messaggero delle
inesauribili meraviglie del Levante, lo stormo delle navi veneziane migra da
Cipro diretto a Occidente. Le ore di sole sono tante, l'afa di fine giugno è
insopportabile e la scalogna di dover remare col caldo vi assicuro è una cosa
esasperante. Per fortuna, verso la prima meta di luglio si leva un vento
favorevole che gonfia le vele e ci spinge verso l'Anatolia alla costante velocità
di quattro nodi.
CONTINUA CAPITOLO QUINTO