Capitolo quinto

IL LEONE ALATO

HOME

Le coste collinose dell'Anatolia, il braccio di mare che separa la Caria da una grande isola... La crescente intensità del via vai di imbarcazioni ci indica la vicinanza di un porto, finché distinguiamo sull'isola la teoria di torri che spunta dalla cinta delle mura crociate e lo spettacolo dei merli di un imponente palazzo fortificato: in posizione strategica sull'acuminata punta orientale, il porto di Rodi controlla il traffico marittimo della rotta per Gerusalemme.

L'isola brilla oggidì sotto la protezione dell'Ordine amalfitano dei Cavalieri di San Giovanni. In altri tempi avremmo ricevuto il saluto del famoso colosso di Rodi, trenta metri di un poderoso bronzo di Helios, il dio sole degli antichi greci.

Lasciamo il porto alle nostre spalle. Un altro stretto, questa volta tra le coste della Caria e la fruttifera Kos, l'isola ove Ippocrate giurava ad Apollo. Anticamente vi sorgeva l'Asklepeion, centro insieme medico e religioso dedicato ad Esculapio. L'Asklepeion domina ancor oggi da un'alta collina. Un tempo le sue tre enormi terrazze erano gremite di statue e torme di maestri e allievi dell'arte medica, e ovviamente di malati con ogni genere di affezioni. Come Rodi e Kos ciascuna delle dodici meravigliose isole del Dodecanneso è in realtà un mondo a sé, ciascuna con la propria peculiare atmosfera raccolta intorno ad un corredo mitologico esclusivo.

Sfiorando l'Anatolia in direzione nord, la nave solca un mare dalle stupende sfumature: gli scogli disegnano sott'acqua macchie di indaco, seguono a distanza strisce di verde chiaro e grigioverde, e all'orizzonte un verde smeraldo intenso. In mezzo a quel tripudio di colori attendiamo l'avvistamento della foce del Meandro, il cui bacino fluviale era anticamente abitato dalla tribù dei Carii. Dall'originaria sede iperborea, essi erano migrati a est sotto la guida di Telmisso e presso un'ansa del fiume avevano fondato la città di Laodicea.

Un canuto marinaio del nostro equipaggio, sporgendosi dalla nave riconosce l'antica Didimo e a braccio teso ne indica le rovine sul profilo della costa, là i Carii avevano innalzato un grandioso tempio ad Apollo. Egli l'ha visitato: il tempio ha un dittero che misura 40 metri per 80 e conta in tutto 112 possenti colonne. Sulla parte superiore dell'adito, ai lati di una cetra, sono scolpiti due superbi grifoni, leoni alati sacri ad Apollo. Il loro compito era quello di difendere le miniere aurifere degli Iperborei dagli incauti cercatori d'oro.

Il marinaio, un lupo di mare che ne sa una più del diavolo, fa sorridere la ciurma per il suo accanimento nel sostenere che, lo stesso leone alato in cima alla colonna di Piazza S. Marco, sia originario di quel tempio. Avrebbe avuto funzione di supporto ad una statua di Apollo in equilibrio sul suo dorso:

«Apolo el stava in piè su la schena del leon!».

Poco più oltre, tra le coste frastagliate della Caria è sempre lui ad avvistare per primo la foce ove il Meandro conclude la tormentosa serpentina del suo corso. Sulla foce sorgeva anticamente la città di Efeso e oggi restano le rovine del tempio di Artemide, rimasugli del poderoso colonnato innalzato alla sorella gemella di Apollo sulle fondamenta di un precedente tempio di Cibele. La furia distruttrice dei Cimmeri, che per oltre un secolo terrorizzò l'Anatolia costringendo re Mida al suicidio, ha lasciato in piedi una sola colonna e tuttavia la statua di Artemide è miracolosamente sfuggita alla devastazione.

Il vecchio lupo di mare, cui sole e salsedine hanno reso coriacea la pelle, fa divertire il gruppetto dei mozzi mentre mima, con eloquenti gesti delle mani, le decine di mammelle rigonfie che pendono dal petto della dea; descrive due leoni scolpiti sulle aperte braccia e poi sulla gonna fiori, api e ogni specie di animali, e sul collo una collana di grappoli d'uva, e sul capo una torre cilindrica le cui colonne s'innalzano solenni verso il cielo.

 

* * *

 

Nel cuore dell'Egeo c'è un ducato veneziano esteso su tredici isole. L'arcipelago delle Cicladi fu conquistato dai veneziani a seguito di una spedizione privata organizzata da Marco Sanudo nel 1206 ed ora Naxos ne è divenuta la sede principale.

La nostra carovana ha finito di superare le ultime isole settentrionali del Dodecanneso e vira verso il centro dell'Egeo in direzione dell'isola di Naxos, ove come d'obbligo effettua il primo scalo. Chora è il nome della cittadina arroccata sul cucuzzolo della collina che sovrasta il porto. La scelta di quella posizione elevata, serrata intorno alla fortezza, fu dettata dalla necessità di difendere la popolazione dalle feroci incursioni piratesche che in ogni epoca hanno martoriato l'isola.

Mi arrampico per le strette vie di Chora e salgo le gradinate assolate al canto delle cicale in festa.  Scale inerpicate sulle facciate delle case o ripidi gradini a semicerchio portano all'accesso delle abitazioni, qualche volta sormontato da stemmi nobiliari. Le porte dei più umili sono invece interrate e semi nascoste nella penombra, sotto il livello del selciato. La sonnacchiosa Chora con le sue case quadrate e imbiancate di gesso, con le sue imposte blu, le porticine blu, le ringhiere blu, i vasi blu e blu ogni cosa che non sia muro, sembra la fiabesca città dei nani.

Dall'alto delle mura della fortezza l'arido terreno dell'isola appare coltivabile. Il mio sguardo è rapito sulle pianure intorno, attratto dal gradevole contrasto tra il verde scuro delle siepi e il colore dorato dei campi di frumento. A tratti l'alternanza di oro e verde si rompe in modo esplosivo nei cespugli fioriti e macchie rosa e arancio si accendono vivide sul bianco delle case. Respiro spazi nuovi ed il celeste è più celeste oltre le dolci colline all'orizzonte.

Uscendo da un sottoportico e nell'imboccare una via in discesa, odo l'accompagnamento musicale di un canto che proviene da dietro il balconcino. Riconosco la famosa canzone dei gondolieri: Venetia mundi splendor. Colto alla sprovvista mi fermo ad ascoltare quelle note, presto sommerso da un'accorata nostalgia. Mi fa uno strano effetto sentire la musica di casa, così lontano e per troppo tempo lontano da Venezia.

E' un mottetto. Due voci femminili si inseguono e si rincorrono agili e sollecite, la voce più acuta scavalca la più bassa, la sorpassa, sale in alto, si esalta, e di colpo si smorza. Ricongiunte, chiare e soavi, le due voci di soprano gorgheggiano sul sottofondo del loro robusto accompagnatore, un trombone, quasi fosse la voce maschile di un tenore. L'Amen conclude il mottetto con l'enfasi di una fanfara, la vocale A viene stirata, sostenuta per un tempo interminabile, librata in aria, fatta oscillare come la coda di un aquilone.

I suoni, danno corpo alle immagini di un tenero tramonto sulle forme bombate di cupole d'oro... le note ne seguono il ritmo dei profili, fanno pausa ai pali del molo per subito riprendere vigore e d'incanto vedo passare i gondolieri che remano in piedi poggiati sui remi e cantano, alla luce delle lanterne.

All'indomani mi sveglio molto presto e già alle primissime luci del giorno salto giù dalla galera ancorata nel porto. A lato, sulla sommità di un piccolo promontorio a dirupo sul mare, si staglia imponente verso il cielo una enorme porta di pietra. Lassù mi sembra di distinguere qualcuno in mezzo ai resti di antiche rovine, c'è un piccolo gruppo di persone. Cerco le tracce del sentierino nella tenue luce di un'alba incipiente e salgo spedito sul promontorio. In cima non faccio domande, non oso turbare il clima di raccoglimento degli enigmatici personaggi fermi sulle pietre con lo sguardo rivolto all'orizzonte.

Che cosa stanno aspettando costoro, davanti la monumentale porta marmorea chiusa per sempre su un passato ormai condannato all'oblio? Ma è chiaro: sono convenuti quassù per il sorgere del sole e ripetono per l'ennesima volta un rito millenario. Supero i miei scrupoli e chiedo spiegazioni a uno dei presenti: trattasi appunto del tempio di Apollo.

L'astro spunta in questo istante imperioso e infuocato, traccia sul mare una scia dorata, una strada di luce compatta e dritta che viene a toccare le rive del promontorio. Me ne sto in piedi impacciato, sono consapevole della sacralità del luogo e ne afferro il momento magico, ma non so come onorare in modo adeguato questa spettacolare manifestazione del divino.

Sette mesi sono trascorsi dai giorni di Zagreo e ho dimenticato le parole dell'inno orfico ad Apollo, tento allora di ricapitolarne il contenuto. In sintesi, l'inno diceva che il dio incoronato d'alloro fu costretto ad una dura lotta con il guardiano di un oracolo. L'insidioso nemico era il serpente Pitone, acerrimo persecutore di Latona quando ancora ella era incinta del dio. Apollo era deciso a vendicare le aggressioni subite da sua madre, perciò puntò l'arco su Pitone tese la corda e scoccò la sua freccia invincibile. Trafitto, l'enorme serpente contorse le spire dal dolore, spalancò le orride mascelle e strisciando cercò di sfuggire, ma Apollo osò inseguirlo nei recessi del tempio della Terra e lo finì, dinanzi al sacro crepaccio.

Mi arriva l'ispirazione e improvvisando con le mie semplici parole, intreccio sugli sfumati ricordi dell'Inno di Orfeo una piccola devota poesia:

 

«O splendido Apollo dai riccioli d'oro,

bello di luce come il sole raggiante,

lancia dal cielo i tuoi dardi infuocati,

incalza implacabile Pitone il Serpente,

inchioda davanti alla sacra fessura

il persecutore di Latona incinta

e fissalo alla Terra con le frecce dell'alba.

 

Un canto si leva alto nell'immenso:

ritmo entusiasta è vibrare in sintonia,

giusta misura scoprire l'Armonia,

cogliere poesia, arte e saggezza

in nove sorelle di sublime Bellezza.

Artemide saltella la danza della Corda,

echeggia della lira la soave melodia,

l'aurea catena che riunisce cielo e terra.

 

Grifone difenderà la porta del tempio,

i doni avvolti nella paglia di frumento,

custodirà fiero degl'Iperborei l'oro».

 

Al canto del gallo il sole risplende alto nel cielo cancellando i veli arancioni e rosa dell'alba. Il tempio si svuota. Ognuno scende giù dalla collina e si dirige appagato alle proprie occupazioni. A Chora, già fervono intensi i traffici di carico e scarico dalle navi, presto la carovana ripartirà e i passeggeri si attardano ad affollare le più recondite botteghe dell'isola.

Mentre mi avvio pensoso al porto penso ad Abari, il sacerdote iperboreo che avrebbe conosciuto il segreto dell'invincibile dardo di Apollo (la Freccia del Tempo). Abari la custodiva nel tempio circolare dedicato al dio e la utilizzava di volta in volta per viaggiare a cavalcioni su di essa superando in un baleno gli oceani e i luoghi altrimenti invalicabili. La fatidica Freccia, diceva Zagreo, instaura la direzione univoca ed irreversibile dello scorrere del tempo: ponendo un prima e un dopo nell'ordinata successione che va dal passato al futuro, essa determina il senso implacabile degli eventi.

 

* * *

 

Candia, Cipro, Naxos... ho già visto tutto della Grecia? Nient'affatto, a mia insaputa mi sto avviando all'appuntamento più stupefacente. Dopo qualche ora di navigazione si delinea in controluce il profilo di un'isola mitica, evanescente e sfumata sullo sfondo. Per un curioso gioco di correnti più la nave si avvicina, più l'isola sembra allontanarsi. Prossimi a lambirne le rive una nube nasconde il sole, interrompe il controluce e la costa si staglia nitida nelle vicinanze, ma subito i flutti ci riportano lontano e l'isola ritorna evanescente.

Delo fu il centro sacro dell'Egeo, la capitale ideale di una nazione che si estendeva entro i confini di un mare, delle sue isole e delle sue coste. Fu l'Ombelico del mondo: qui nacque il cosmo da un punto di densità infinita, in una regione inesplorabile ove anche la Pitonessa esauriva ogni facoltà di predire il futuro. L'Omphalòs veniva custodito nel recinto più interno del santuario ed era una grossa pietra ovoidale che rappresentava il sacro ombelico. In superficie i sacerdoti di Febo vi avevano scolpito una rete intrecciata, per alludere alle infinite curvature dello spazio e del tempo.

Le rovine silenziose di un grande santuario. E' tutto ciò che rimane da contemplare mentre sfioriamo le sue rive flagellate dai flutti, si può comunque riconoscere la Via Sacra che conduceva al tempio di Febo e molti altri diroccati resti degli edifici di culto pagano. Le colonne spezzate e le pietre sparpagliate alla rinfusa sopra i lastricati, lasciano solo lontanamente immaginare cosa potesse essere un tempo quel grandioso baluardo di templi. Sull'isola incolta, oggi ridotta a rifugio di quaglie, cerco di ricostruire il santuario di Apollo nel periodo del suo massimo splendore quando era un luogo di straordinaria magnificenza e attirava re, principi e pellegrini da ogni parte dell'Egeo. A stento posso figurare nella mia mente i templi integri, dorati e dipinti con tinte tenui e ricercate; indovinare eleganti affreschi alle pareti, pavimenti musivi che nulla avrebbero da invidiare a quelli di San Marco e le statue intatte delle divinità sugli altari e i simboli sacri scolpiti da ogni parte. Quanti misteri, quante cose curiose... anche buffe, come ad esempio i grandi, enormi falli di pietra, orgogliosamente innalzati sui piedistalli del tempio di Dioniso.

Come doveva essere affollata la Via Sacra. Colma di pellegrini in atti di devozione, di schiere di novizi, di curiosi, uomini politici di passaggio, sacerdoti dei culti più disparati. Ecco le vesti variopinte, differenti per ogni culto e specifiche per ogni grado iniziatico; spiccano i copricapi egiziani dei sacerdoti di Serapide e le classiche divise dei Rabbini; incantano irresistibilmente i veli trasparenti delle sacerdotesse di Iside, i costumi sensuali e il trucco ammaliante delle siriane, languide veneratrici di Astarte.

In disparte, i sacerdoti delle divinità esotiche stanno a colloquio in civile confronto di idee, poi a gruppetti, abbandonano la ressa, escono dal recinto del santuario di Apollo e raggiungono i loro templi nella collina riservata ai culti stranieri, segno illustre del grande spirito di tolleranza e di rispetto che vigeva in Grecia nei confronti delle religioni altrui!

Odo la preghiera sommessa delle vergini davanti alla sfinge, si recidono una ciocca di capelli e la posano delicatamente sulla tomba di Laodice ed Iperoche. Laodice ed Iperoche, le vergini iperboree che si prodigarono in un lunghissimo viaggio per portare a Delo, avvolti nella paglia di frumento, gli oggetti sacri del culto apollineo.

Nel tempio di Febo risuona la voce ispirata della Pitonessa seduta sul tripode, ha masticato l'alloro e ora annuncia l'oracolo a un fedele ansioso di risposte. Le fa da sottofondo il suono chiaro e puro della lira, un fluire d'acqua cristallina che s'intreccia alla sua voce e al canto dei danzatori intorno all'altare: Ié ié Peana, ié ié Peana. Stanno danzando in cerchio il ballo della Gru e ondeggiano insieme avanti e indietro, indietro e avanti, per ore e ore, finché cadono a terra in preda al capogiro.

Profumo d'incenso esce dai recessi del tempio, si praticano riti segreti in onore a Febo; al termine gli iniziati si riuniscono nella navata e poco dopo dalle colonne del frontone parte una processione solenne, passa davanti alla fila dei nove leoni scolpiti, si snoda lentamente sulle pendici del Monte Cinto e nell'infilare l'entrata dell'Antro incrocia dei devoti che escono, hanno il volto stralunato di chi ha assistito a cruenti sacrifici.

Ben poco rimane oggi a testimonianza di quel sontuoso passato, innumerevoli ruberie hanno spogliato l'isola di ogni tesoro. Gli abitanti l'hanno completamente abbandonata. In quell'isola arida, fatta di strati di scisto e granito, oggi si può scorgere da lontano un unico segno di vita: la macchia verde di una grande palma da datteri radicata nell'esile scoglio al centro di un laghetto perfettamente circolare. Una palma, per ricordare il mito della nascita di Febo.

Leggenda narra che Latona si aggrappò alle fronde di una palma sullo scoglio nudo e sterile che appena affiorava a pelo dell'acqua. Caduto dal cielo come una cometa e sprofondato negli abissi del mare, lo scoglio vagava sommerso ed invisibile nelle acque dell'Egeo. Quando risalì sotto la superficie per diventare la piccola isola di Delo, ancòra non possedeva solido sostegno cui fissarsi e galleggiava sospinto dalla corrente, simile a un gambo di asfodelo cullato ora dal soffio del Noto ora da quello dell'Euro.

Con le spalle appoggiate al tronco della palma e le caviglie nell'acqua, Latona diede alla luce i due gemelli Febo e Artemide. All'istante Delo emerse all'asciutto, ben visibile a tutti i naviganti, e smise di spostarsi perché saldamente ancorata da catene adamantine. Il suolo che accoglieva Febo neonato si tramutò in oro, anche in oro si mutò la folta chioma della palma, come pure il letto del vorticoso torrente Inopo che traboccò colmo del prezioso metallo. Il magico nitore dell'oro faceva rilucere l'isola e per sette volte i cigni, sacri uccelli delle Muse, girarono intorno a Delo emettendo il loro canto melodioso.

Saluto il santuario che pian piano s'allontana. Forse il vasellame di qualche tesoro è ancora sepolto tra quei ruderi, ma non è questo che mi interessa. Ho la tentazione di scendere giù con la stessa foga smaniosa del cristiano a caccia di reliquie. Io mi accontenterei di un frammento del quarzo bianco e lucente che appartiene al basamento del tempio di Febo. E' un vandalico sacrilegio ma reca in sé l'illusione di impadronirsi del chiarore che i raggi di mille albe divine hanno imprigionato nella pietra.

Comunque non mi è possibile, la galera prosegue decisa la sua rotta, attraversa le Cicladi occidentali, entra nel golfo dell'Argolide e costeggia la costa greca del Peloponneso. Modone e Corone sono i due occhi di Venezia incastrati sulla punta della Morea. Il nostro comandante scende brevemente a Modone per raccogliere le ultime notizie sui pirati del Mar Jonio. L'insidia della pirateria è andata scemando negli ultimi anni rispetto alla baraonda d'inizio secolo quando i normanni assaltavano le navi pisane, i greci abbordavano le navi latine, i veneziani quelle anconetane e i corsari anconetani le navi veneziane. Anche i Ragusei dell'Adriatico meridionale e i Saraceni dell'Africa settentrionale hanno smesso di seminare ruberie e morte. Ancor oggi, tuttavia, il nome del famigerato corsaro genovese Alamanno da Costa o del siciliano Guglielmo Porco risveglia terrore al solo accenno. Ed è purtroppo notizia fresca l'arrembaggio di una nave anconetana da parte di corsari Almissani: hanno depredato i passeggeri e ripulito la nave; hanno sgozzato i bambini, violentato le donne e ridotto in schiavitù gli uomini validi; i rimanenti, vecchi o inabili che fossero, li hanno uccisi e abbandonati sulla riva.

Un paio di ricchi mercanti sono stati orrendamente squartati. Gli Almissani sapevano bene quel che fanno i mercanti appena vedono la bandiera col teschio: ingoiano le loro gemme preziose. Perciò hanno inciso l'addome dei poveretti e ancor vivi, tirate fuori le budella ne hanno dipanato il gomitolo per incidere longitudinalmente, col coltello che scivola lungo il tubo intestinale, con le mani nelle feci e nel sangue a frugare in cerca delle gemme.

 

* * *

 

Zara rimane una città incline alla ribellione. La lezione della quarta crociata non è stata sufficiente a placarla. La sua fazione di oppositori si appoggia al re d'Ungheria perché promette libertà dai monopoli commerciali veneziani. Per Zara può significare molto, ossia sottrarsi al controllo esclusivo e dispotico esercitato da Venezia sui traffici marittimi, nonché sfuggire all'imposizione di scambiare le merci in nessun altro luogo della Dalmazia e dell'Alto Adriatico all'infuori di Venezia. La rivolta del 1243, l'ultima di Zara e la quinta in ordine di tempo, ha dato adito ad un controllo ancor più severo, evidentemente Venezia non intende rinunciare a quello che considera semplicemente uno scalo di secondaria importanza ove caricare legno bestiame e schiavi, oltre ai consueti rifornimenti di derrate alimentari.

A Zara la nostra carovana fa l'ultima sosta. Ne approfitto per recarmi al cantiere edile della chiesa di Sant'Anastasia. Maestro Bernardo è ad un tempo architetto, ingegnere, capomastro e organizzatore del cantiere; si reca personalmente nella cava e nella foresta a scegliere i materiali da impiegare, né disdegna all'occorrenza di compiere lavori manuali, specie se si tratta di usare lo scalpello per rifinire le statue più importanti e delicate, egli non dimentica di aver cominciato la sua lunga carriera proprio come scalpellino.

Lo scorgo nel cantiere all'aperto, chino sul tavolo sta disegnando una sezione della chiesa mediante un piccolo compasso a puntasecca adoprato su della carta da stracci (la carta da stracci è una nuova applicazione dei mulini ad acqua e sostituisce in pratica le costose pergamene). E' attorniato dai più stretti collaboratori, incaricati di vegliare affinché le sue concezioni vengano materializzate e fedelmente riprodotte. Alcuni di loro, ricopiano il disegno di Bernardo sopra un ampio pannello formato da uno strato di gesso, inginocchiati a terra usano enormi compassi a settore curvo. Incidono il gesso a graffito e ingrandiscono i particolari della sezione per evidenziare con maggior chiarezza i pilastri che delimitano le navate laterali, gli archi rampanti di supporto e i contrafforti di sostegno. Altri collaboratori sono intenti a preparare dei modelli in legno che forniranno ai cavatori le esatte dimensioni cui devono attenersi nel dare forma alle pietre con piccone e scalpello.

Tutto intorno brulicano gli operai indaffarati, chi controlla il muro col filo a piombo, chi verifica lo spigolo con la squadra, chi misura la facciata con pertiche di ferro. Il cantiere è un alveare in costante attività. I manovali stanno scaricando dal carro una decina di grosse pietre tagliate e le portano via con le barelle. I muratori spalmano uno strato di malta con la cazzuola, vi posano sopra la nuova pietra e raschiano via la malta di troppo, poi controllano l’orizzontalità della pietra con la livella ad acqua e se pende da un lato, la aggiustano col martello finché si allinea perfettamente. In cima ai muri doppi della facciata ci sono delle impalcature: alcuni muratori lavorano lassù, sospesi sulla parete a strapiombo, sorretti soltanto dalle piattaforme dei graticci di vimini; a terra i compagni tirano su per loro le tinozze di malta, a forza di braccia e carrucole. Gli archi di pietra del colonnato non sono stati ancora eretti, però i carpentieri hanno già innalzato dei modelli curvi sopra i quali si potranno posare ad una ad una le pietre a cuneo destinate a dare agli archi la forma definitiva. Su tutto domina il maglio di contro all'incudine, accompagnato dal concerto degli scalpelli che echeggiano sui fregi di pietra.

Si sta mettendo in movimento la cosiddetta gabbia di scoiattolo. Somiglia ad una grande botte di due metri e mezzo di diametro e gira come una ruota attorno ad un grosso asse centrale. Sull'asse è avvolto un cavo di canapa collegato al peso da sollevare. Il marchingegno viene azionato dall'interno, dentro la gabbia c'è un uomo che si limita semplicemente a camminare in avanti ed è sufficiente il peso del suo corpo per farla ruotare su se stessa. L'uomo nella gabbia sta sollevando una pietra enorme, pesa almeno 500 chilogrammi e probabilmente si tratta di una chiave di volta.

Bernardo da Treviso alza gli occhi e mi riconosce. In un attimo si disimpegna dai suoi fratelli muratori, zoppicando mi viene incontro col regolo in mano e mi cinge le spalle con la mano libera. Attraversiamo un angolo della chiesa, i muratori stanno chiudendo il tetto di una cupola tonda, usano un'asta di legno con un estremo fisso ed uno mobile, fissano un capo dell'asta al centro geometrico della cupola e spostano l'altro capo verso l'alto in tutte le direzioni, a mo' di raggio della calotta in costruzione.

Entriamo in una baracca che funge da deposito di attrezzi. Sono emozionato:

«Ti ammiro Mastro Bernardo, innalzare una cattedrale è sempre opera d'inaudita arditezza».

«Spero di vivere abbastanza a lungo per vedere completata la costruzione. Così potrei tornare a vivere a Venezia. Tu, hai per caso intenzione di fermarti a Zara, nel nostro cantiere?».

«No, Maestro non posso... sono di passaggio, vengo dalla Romania».

Egli posa il regolo sul tavolo:

«Peccato. Certamente avrai imparato qualcosa di utile dal tuo viaggio».

«Beh... ecco qualcosa sì, ma non riguarda direttamente il mio lavoro, ricordi quando accennavi ai tre arcani del medaglione, Mercurio Sale e Zolfo, l'uomo che cavalca il mostro mezzo cane e mezzo ariete? Ebbene da allora ho iniziato a vedere le cose con occhio diverso e grazie ad un'improvvisa rivelazione ho finito per scoprire il significato anche dell'altro medaglione, il Pavone assiso sulla sfera.

La sua ruota dai cento occhi è l'emblema della Prima Materia, è lo specchio della verità, e chiunque vi si rifletta con gli occhi dello spirito immediatamente si riconosce nella sostanza dell'universo. Credimi Maestro non si tratta affatto di un concetto astratto, sebbene la Prima Materia sia pura potenzialità assoluta ho potuto sperimentarne direttamente la tremenda potenza e darei la vita perché ogni essere umano possa provare altrettanto. Questa esperienza mi ha cambiato profondamente, ora non ho più interesse per le ricchezze terrene: ho fra le mani una coppa preziosissima, se volessi venderla diventerei ricco all'istante e invece... invece la restituirò a coloro cui era stata sottratta, la famiglia del Doge. Lo vedi, se ora bramo dell'oro è soltanto quello filosofale, poiché la diretta conoscenza della Prima Materia vale più di tutto l'oro del mondo messo insieme».

«Lascia stare i voli pindarici dell'alchimia, smetti di fare il sognatore e torna coi piedi sulla terra. Causa l'inverno, a dicembre abbiamo fermato i lavori della cattedrale e abbiamo ricoperto i muri con paglia e letame perché il gelo non facesse danni. Della pausa ho potuto approfittare per riflettere sul progetto ma ho trovato anche il tempo per ascoltare un po' di sana filosofia: un frate di Zara ha avuto la bontà di parlarmi delle opere di Aristotele tradotte in latino da Giacomo da Venezia».

«Forse l'erudita filosofia di Aristotele nega valore ad esperienze come la mia?».

«Stai tranquillo, la via alla conoscenza era concepita da Aristotele non come sterile erudizione ma come una serie di esperienze e di stati d'animo che accentuano fortemente la sensibilità interiore. Per una filosofia rivolta più alla terra che al cielo la Prima Materia resta un concetto intelligibile, in altre parole è possibile accedere ad essa con un atto di pensiero e dunque pur essendo priva di forma può essere oggetto di esperienza diretta. In concreto...».

«Scusa se ti interrompo. Però, per quanto eccellente filosofo, Aristotele non ha mai trovato la pietra filosofale».

«Chi te lo dice, la pietra filosofale non è soltanto quella che trasmuta il piombo in oro, la si può intendere anche come espressione simbolica di una operazione interiore che richiama le operazioni di laboratorio solo per analogia. In questo senso Aristotele corona la ricerca della pietra filosofale nel concetto del Sinolo, cioè l'unione della sostanza e della forma nell'armonioso equilibrio tra l'Essere e il Divenire».

«Grandioso!».

«La pietra grezza così com'è nella cava è sostanza che giace in potenza, diventa forma sotto l'azione dello scalpellino che la trasforma in pietra tagliata, ma solo nel cubo perfetto della pietra cubica si ha il compimento, l'equilibrio e la stabilita che ci consente di usarla come pietra angolare su cui basare l'intera struttura dell'edificio».

«Sei un vero filosofo Maestro Bernardo, quel che dici è pieno di saggezza. Mi resta un ultimo dubbio... da molto tempo c'è un problema che mi assilla: io mi domando ove sia la dimora della Realtà.

E' nel Divenire, nell'implacabile scorrere del tempo? O è nella quiete dell'Essere che al tempo invece si sottrae? Che ne dice Aristotele?».

«A dire il vero... il frate non me ne ha parlato».

 

* * *

 

Non c'è un filo d'aria. Pur essendo in grado di bordeggiare, la nostra galera fa una sosta in alto mare insieme ai vascelli pesanti, la loro andatura risulterebbe così lenta che l'intero convoglio preferisce gettare le ancore e aspettare l'arrivo di un vento favorevole. Ne approfitto per tuffarmi in mare, il bordo del parapetto è solo a un paio di metri dalla superficie. Il tuffo carpiato mi riesce abbastanza bene, penetro in acqua a braccia tese, risalgo in superficie e afferro la corda che pende dal fianco della nave. Mi arrampico a forza di braccia puntando le gambe contro lo scafo, guadagno il parapetto, lo scavalco e approdo sul ponte.

Il ponte unico della nave è sovraffollato, le donne ricamano, i bambini giocano a rincorrersi, gli uomini si allenano con le armi e in disparte, alcuni mercanti fiamminghi discutono animatamente fra loro. Infilo la tunica sulla pelle bagnata e mi fermo ad osservare due uomini che si affrontano a torso nudo con delle mosse di lotta greco-romana. Il milanese, più alto e robusto, stringe le braccia come una morsa d'acciaio, le aggroviglia con le membra dell'avversario, lo atterra e lo costringe alla resa. Quindi si rialza dando la mano all'avversario, si gira sorridente e mi saluta appena mi riconosce.

Alberto Rossi è un trentenne del Comune di Milano e ha combattuto con la Lega Lombarda a Cortenuova. E' imparentato alla lontana con una famiglia di banchieri all'apogeo della ricchezza, ma a causa della loro avarizia non vi ha tratto alcun vantaggio e deve perciò guadagnarsi il pane facendo il servitore al soldo dei mercanti fiamminghi. Al contrario dei suoi parenti, i fiamminghi sono molto prodighi anche se lo costringono ad un incessante impegno per soddisfare le loro esigenze perché sono ghiotti, fannulloni e molli come il burro.

Sul ponte della nave il sole cocente batte sulle nostre facce e risfavilla negli occhi di Alberto, egli mi soverchia di ben tutta la spalla e la bruna capigliatura gl'inonda il collo e le ampie spalle. Mi intrattengo piacevolmente col nuovo amico mentre rievoca le ultime battaglie contro Federico II, abbiamo opinioni comuni di contro alla politica imperiale, ma qualcosa ci differenzia e traccia una linea di demarcazione tra le nostre rispettive posizioni.

Egli narra che nell'autunno inoltrato del 1237 Federico II li trasse in inganno e fece loro credere di ritirarsi a Cremona, per il riposo invernale delle truppe. Gli uomini della Lega fecero altrettanto e levate le tende da Pontevico, risalirono a nord lungo la riva sinistra del fiume Oglio per muoversi alla volta di Milano. Raggiunto il terreno ormai molle e fangoso di Cortenuova, stavano iniziando il trasbordo sulla riva opposta del fiume quando furono colti di sorpresa da un'avanguardia di Cavalieri Teutonici e di masnadieri di Ezzelino. Seguì ben presto il grosso dei ventimila imperiali alla carica. Con il fiume alle spalle i Lombardi erano sul punto di venire travolti e schiacciati, ma loro, duri sotto la pioggia, si schierarono intorno al carroccio carico degli stendardi consacrati, della croce e delle reliquie. Fu una autentica carneficina, ma riuscirono a resistere caparbi fino al calar del sole, allorché le due parti si ritirarono esauste negli accampamenti.

Le prospettive di dare battaglia il giorno seguente erano pessime, perciò approfittarono delle tenebre per andarsene di nascosto. Fu una disfatta umiliante: il carroccio con le ruote impantanate nel fango venne abbandonato al nemico, il podestà di Milano (un Tiepolo) fu ridotto in catene a Cremona, si contarono diecimila perdite tra morti e prigionieri, molti detenuti furono mutilati, e le vedove e gli orfani costretti a subire ogni sorta di tribolazioni.

Segue il mio turno:

«Anch'io fui in armi contro Federico II, dodici anni fa, durante la crociata anti - imperiale di papa Gregorio IX. Ero sotto il comando dell'ammiraglio Marco Zorzano e ho partecipato alla battaglia navale contro Ancona. La Marca Anconetana, ex feudo pontificio degli Estensi, era ritornata da non molto sotto il controllo di un vicario imperiale.

Quel giorno il mare era calmo, l'Adriatico era illuminato dai raggi obliqui di un sole già basso e rifletteva il cielo come uno specchio. Vedemmo spuntare il nemico all'orizzonte, un nugolo di vele protese su di noi col vento a favore. Presto le due schiere vennero ad impatto e nei pressi della costa si addensò una moltitudine di navi che si cercavano a vicenda nella mischia. Una lunga galera anconetana sfiorò la nostra a tutta velocità e i tiratori di balestra arrampicati sugli alberi ci scagliarono contro uno sciame di frecce. La balestra è veramente un'arma micidiale: accanto a me uno dei nostri uomini fu trapassato da parte a parte da una freccia d'acciaio e venne proiettato all'indietro contro il castello di prua, rimase appeso in piedi con la punta della freccia conficcata nella parete, impallidì e morì sul colpo.

Appena il vento cambiò direzione, ne approfittammo per dirigerci a tutta forza verso una nave vicina puntandole contro gli speroni della prua... ci fu un boato, l'urto si accompagnò ad una scossa violenta, la nave vibrò paurosamente e ci aggrappammo per non cadere a terra.

Subito le voci secche dei comandi, rumore di ferraglia, di armi sguainate: arrembaggio, arrembaggio!

I nostri armeggiano con ramponi e catene di ferro per saldare i fianchi delle due navi, alcuni appoggiano le scale e altri si arrampicano a mani nude sui bordi della nave nemica. Gli anconetani lanciano frecce sugli assalitori e li aspettano al varco sporgendo agguerriti le picche».

«Ma tu cazzo hai fatto?».

«Panico, avevo diciassette anni. Scappo indietro e finisco sulla spada spianata di un ufficiale: dal suo sguardo deciso capisco che se faccio un altro passo indietro mi uccide sul posto. E allora corro all'attacco, metto il pugnale fra i denti e salgo su per una scala, supero con un salto il bordo della murata e atterro sulla prua nemica a dare man forte ai nostri. Si cerca di strappare terreno sul ponte, avanziamo a scatti fulminei cui seguono ritirate altrettanto rapide e così avanti e indietro, a ondate, per alcune volte. Ad ogni ritirata il corpo a corpo lascia sul terreno morti e feriti. Gli anconetani non riescono a ributtarci in mare, si asserragliano attorno al trinchetto e si difendono coi coltelli, sembrano meno numerosi e dopo una lunga resistenza all'improvviso si arrendono. Vengono fatti tutti prigionieri. Sui pennoni della galera conquistata viene alzato lo stendardo di S. Marco. I galeotti cristiani vengono liberati dai ceppi e muniti di armi, gli infedeli restano legati ai remi.

La battaglia infuriò cruenta fino a sera, allorché cominciò a volgere a nostro favore. Intorno c'erano gruppi di tre o quattro navi incastrate insieme, i veneziani passavano speditamente dall'una all'altra alla rincorsa dei fuggiaschi. Gli anconetani allo sbando si tuffavano in mare, nuotavano disperatamente tra i remi spezzati e tra i rottami di carena che galleggiavano mezzi sommersi.

Con una manovra larga, gli equipaggi freschi della retroguardia veneziana si erano portati alle spalle della flotta nemica e l'avevano costretta a rasentare la costa con la chiglia a un pelo dal fondo. Accerchiate e strette in una morsa, le navi anconetane vennero catturate ad una ad una e ammassate al centro. Fu appiccato il fuoco a una galera, divampò rapidamente e si propagò al fianco delle navi vicine. I veneziani si liberarono in fretta dai vincoli dei ramponi e con una tempesta di frecce infuocate estesero l'incendio a tutte le navi nemiche.

Intorno alla ammiraglia di Marco Zorzano i marinai esultavano per la vittoria e intanto ci si allontanava dalla flotta anconetana in fiamme».

«Accidenti, chissà che spettacolo impressionante eh? vedere una flotta in preda alle fiamme, galere costosissime e perfette, costruite con lunghe fatiche e distrutte in un baleno».

«Sì, impressionante. Scesa l’oscurità, davanti ai nostri occhi si staglia uno scenario spaventoso: le navi si accendono in rapidi bagliori di fiamme, esplodono tizzoni ardenti che proiettano scie nella notte e, simili a lava incandescente, i riflessi del fuoco sull'acqua si rincorrono vividi. Gli alberi maestri cadono rovinosamente, con uno schianto secco. Si ode un sottofondo infernale di urla atroci, i galeotti incatenati ai remi e impotenti davanti al fuoco. L'odore acre della carne bruciata arriva dalle salme abbandonate sul ponte, divampano in un lampo per effetto dell'intenso calore.

La tragedia delle navi nemiche volge all'epilogo, dopo tanto clamore di battaglia un silenzio mesto e profondo scende sul mare. Gli anconetani s'inceneriscono nei roghi sull'acqua come nel corteo funebre di un funerale vichingo. Il fuoco si consuma divorando ingordo le ultime navi: si tinge di rosso brillante, l'onda che a sera spinge lontano le barche con il rogo, con tremulo baglior di luce muore danzando l'ultima fiamma, nel mare tenebroso».

Un silenzio glaciale segue per un attimo la mia esposizione, guardo Alberto profondamente negli occhi:

«Sarò forse un ingenuo sognatore, ma non riesco ad accettare che tante giovani vite siano finite inutilmente in preda alla morte a causa delle smodate ambizioni di un uomo, uno soltanto, curvo sotto il peso dei rimorsi».

Alberto mi appoggia una mano sulla spalla:

«Telo lì, sua eccellenza l'Imperatore doveva pur sbizzarrirsi a passare il tempo».

«Poteva allora limitarsi alle prede innocenti gettate nelle unghie dei suoi prediletti falconi. Non gli bastava... condurre sul terreno il falco incappucciato tenendolo sul pugno durante la cavalcata, seguire la muta dei levrieri che cercano di scovare gli uccelli e appena avvistata la preda, scappucciare il falcone per lanciarlo alla caccia. Non gli bastava... ammirare il Falco Pellegrino che solleva la testa arrotondata, gonfia il petto chiaro e barrato, spalanca le ali scure e volteggia in alto nel cielo scrutando lontano con i suoi occhi sporgenti. E vederlo d'improvviso chiudere le ali, gettarsi in picchiata sulla preda a velocità vertiginosa: ecco l'impatto, uno sfortunato volatile viene centrato, il falco gli ha sferrato il colpo d'artiglio, lo stordisce, gli fa perdere l'equilibrio e lo finisce con un colpo di becco sulle vertebre cervicali.

Immagino sia un passatempo attraente, misto di forza agilità e abilita di caccia, cruento... ma sempre meglio del lanciare l'aquila imperiale alla conquista dei Liberi Comuni».

«Il fatto è che se non era per quel tedesco figlio di macellaio, ce n'era sicuro un altro al suo posto. In ogni epoca il nostro travagliato mondo ha dovuto subire guerre e distruzioni a causa del prepotente di turno, perché appena un regno raggiunge prosperità e ricchezza subito si avventa sulle regioni confinanti, ed è sempre lo stesso male ricorrente, l'ingordigia sfrenata che schiaccia ed umilia i più deboli.

Quando i Romani cercavano oltre i mari e ai deserti nuovi regni da devastare e incatenavano principi e popoli liberissimi, si sono eletti a ladroni del mondo e hanno inaugurato il vicendevole divorarsi delle nazioni. I barbari, da loro schiavi che erano ne son divenuti i padroni. Terminate le invasioni barbariche sono arrivati i Bizantini e i Franchi e i Longobardi e gli Arabi, e non ha avuto fine la catena delle nazioni che sono oggi tiranne per maturare la loro schiavitù di domani».

«Se è così, ora è il turno dei Mongoli! L'Orda d'Oro dei discendenti di Gengis Khan ha invaso la Russia, ha saccheggiato Kiev e ha sconfinato nella Polonia e nell'Austria. Il gran khan dei Mongoli, ha messo in pericolo le frontiere dei baroni tedeschi, addirittura ha spedito una lettera a Federico II per invitarlo a sottomettersi al suo volere. L'Ungheria è stata invasa e distrutta e le orde tartare incombono ora direttamente sull'Adriatico, a Spalato si sono già affacciate sul Golfo di Venezia.

Quella massa umana spinta dalla violenza preme alle porte dell'Oriente annunciando sciagura al popolo greco: in Asia Minore i mongoli Turcomanni stanno smembrando l'Impero Latino d'Oriente e hanno risparmiato solo la stretta fascia costiera dell'Anatolia occidentale».

«L'indipendenza dei regni è cosa fragile no? sotto la continua minaccia di eserciti votati alla conquista. Eraclito diceva bene che la guerra è in tutte le cose, che la giustizia è conflitto e che tutto accade necessariamente come frutto di una lotta. Visto che ferro e fuoco non si possono evitare, non resta che imparare a vivere nel fuoco senza bruciarsi».

«Con la costanza della salamandra?».

«Eh».

«E' un vero miracolo che in mezzo a questa mischia di predoni Venezia sia rimasta indipendente per più di 500 anni e che tuttora rivendichi la propria autonomia sull’autorità dell'Impero e di chiunque altro, fosse anche il Papa».

«Non così per Milano. Noi ci appoggiamo di fatto alla sovranità indiscussa del Papa, sarà che siamo cittadini di un libero Comune e quello che vuoi... ma poi i milanesi, anche se non sembra, sarebbero disposti ad accettare pure la sovranità dell'Imperatore. Eh, sì. La questione non è se i milanesi riconoscano o no sul loro Comune un’autorità superiore, ma quali ne siano i limiti e le prerogative.

Comunque sono un guelfo, per la madonna. Mi inchino alla sovranità del Papa e non tornerei indietro neanche se mi ammazzano, senza contare che tra la mia famiglia e i ghibellini c'è sempre stata una vecchia ruggine, il mio bisnonno era andato a giurare a Pontida per la libertà dei Comuni».

«Mi son prima venessian e poi cristian. Impero e Chiesa non hanno mai accettato limiti alle loro prerogative, secondo mi i xe uno peggio dell'altro, avidi unicamente di preservare e mummificare il loro potere, due mostri sbucati fuori dall'Apocalisse.

La bestia scarlatta e la sua amante seduta sopra a gambe larghe, madre delle meretrici e delle abominazioni della terra, Babilonia la grande, la ricca signora che fornica con le sette lingue e le dieci verghe del suo compagno imperiale. Bestia riboccante di nomi blasfemi, colei che era e non è più».

«Porca puttana, mi pare che stiamo esagerando un po'».

«L'ho scontato sulla mia pelle. Senza la loro oppressiva presenza ogni comune potrebbe vivere in pace sul suolo italico, liberandosi dal fardello delle tasse e della corruzione onnipresente. Basterebbe allora istituire una sola grande Lega che va da nord a sud allargandosi anche ai comuni di Firenze, Roma, Napoli, inglobando Sicilia e Sardegna...».

«Una sola grande Lega? Non è mica facile. Ammesso che questa riesca a liberarsi dell'Imperatore, tutto finirebbe nel caos e nella disgregazione. Scusa tanto, ma non vedi l'incontrollabile formicolio di Comuni sparsi sul suolo italico, tutti infarciti di patriottismo cittadino, ognuno in guerra col vicino? Milano contro Cremona, Venezia contro Verona. E' un tale casino. Alleanze, guerre, tradimenti, e nuove alleanze e nuovi voltafaccia si intrecciano a ritmo vertiginoso. Al di fuori della Lega Lombarda non è pensabile altra forma di coesione fra Comuni, se non con i metodi dispotici di Ezzelino da Romano che solo grazie all'uso della forza ha potuto riunire sotto di sé Verona, Padova, Vicenza, Trento e per un paio d'anni anche Treviso».

«La Lega Lombarda ha commesso un errore. E se continua su questa strada non potrà certo estendersi al di là della pianura Padana. Si è intromessa a Verona con il pretesto di ristabilire la pace fra le fazioni in lotta, ha imposto alla città un podestà milanese e poi, quando Ezzelino le ha consegnato in catene il conte Rizzardo di San Bonifacio, lo ha liberato. I da Romano possedevano una lunga tradizione antisveva, Ezzelino era nella Lega, non dovevate beffarlo e sottrargli il sostegno politico per favorire i suoi rivali Estensi».

«Ma cazzo dici, pur dopo molti contrasti e con grande diffidenza Ezzelino era stato confermato nella Lega e se egli ha cambiato insegne è perché comodava ai suoi interessi.

Noi favorire gli Estensi? Bella scusa, ricordati che nella battaglia di Cortenuova, ben cinque anni dopo il tradimento di Ezzelino, gli Estensi erano ancora e sempre schierati dalla parte dell'Imperatore».

«Certo, erano filo - imperiali, ma voi li avevate lusingati per poterli tirare dalla vostra parte in cambio di Ferrara, e che cosa avete ottenuto dalla girandola di alleanze rovesciate? Che la Lega ha perso la Marca Trevigiana e ha guadagnato un avversario scottato e diffidente come Ezzelino. Egli ha combattuto nemici personali ed ex alleati con tanto di avvallo del bando imperiale e ha aperto il passo della Val d'Adige alle migliaia di cavalieri provenienti dalla Germania».

«Niente, non c'è soluzione a queste beghe senza fine».

«La soluzione equilibrata e realistica è una ventina di grandi Ducati, federati in un unico regno. Solo una Lega del genere potrebbe andare bene anche a Venezia, perché per essere amici bisogna che ognuno resti padrone in casa propria».

«Forse sì. Pensandoci bene non è poi un'idea tanto assurda, perfino la Germania è divisa in una ventina di regioni tra Ducati e Contee e in effetti queste sarebbero rimaste libere se non si fossero lasciate comprare dalla moneta sonante dell'Imperatore».

«Certamente. Ogni Ducato e quello veneziano ne sia d'esempio, può avere in sé la capacità di autodeterminarsi e questo vale per tutti i Ducati l'Europa».

«Basta che i Ducati con lingua simile vadano a formare un unico regno».

«Ecco, hai capito, ovunque c'è una lingua in comune c'è un regno da rispettare. La faremo finalmente finita con il Latino, la lingua universale del Sacro Romano Impero, la lingua morta della messa che nemmeno i preti capiscono più. Il futuro sarà nelle lingue volgari, perché esse sono le nazioni e le nazioni saranno il futuro. Il tempo dell'Impero è finito con Federico II».

L'espressione di Alberto si rabbuia:

«Grazie tante, a me il futuro mi mette in ansia. Cazzo ne so, prima o poi i successori dell'Imperatore potrebbero spuntarla sulla Lega Lombarda. Se questa volta dovessimo cadere sotto il giogo di un nuovo Imperatore sarebbe finita per sempre, non vedo futuro possibile. Quel pirla di Corrado IV si prepara a scendere in Puglia per rivendicare il titolo imperiale, il che è di pessimo auspicio».

«Comunque vada non bisogna mai disperare. Io mi consolo pensando che se fatalità un giorno, vittima di un Mongolo o di un perfido tiranno, il nostro Libero Comune dovesse cadere sul campo di una formidabile battaglia il popolo veneto continuerà pur sempre ad esistere, poiché se anche vengono cancellati i nostri confini non è detto che muoia la tradizione della nostra gente. Ne sia d'esempio l'ammirevole popolo ebraico che senza avere un proprio reame da più di millecinquecento anni e cioè da quando il regno d'Israele fu distrutto dagli Assiri, pur tuttavia ha mantenuto la fermezza di una compagine cosciente della propria peculiarità ed autonomia culturale».

 

* * *

 

Un preziosissimo calice d'oro massiccio, una moltitudine di rubini sul suo bordo superiore, quattro grossi smeraldi ai quattro lati e incastonato sul manico un diamante enorme, stupendo, raggiante di riflessi dorati come la stella del mattino che annuncia l'aurora: di sicuro non torno a mani vuote dal Levante, ho un tesoro inestimabile da consegnare ai piedi della regina dei mari.

Dopo aver costeggiato la Dalmazia e le coste dell'Istria, le vele della carovana si spingono nel golfo schierate come lo stormo di aironi in arrivo da un lontano continente. L'acqua della laguna è iridata, ha i riflessi mobili e cangianti dell'opale. Nidi abbandonati, costruiti con canne ed erbe palustri, occupano i salici degli isolotti.

In piedi sul ponte della nave fisso costantemente i canneti all'orizzonte. Attendo con ansia l'avvistamento. E' vicina. Lo sento. Da quando la lasciai ho subito una profonda trasformazione e non solo nell'animo, fisicamente sono cambiato al punto di essere quasi irriconoscibile. Sono molto più robusto di quand'ero partito: a forza di remare sui banchi della galera sono diventato muscoloso, pur restando stretto in vita e armonico nelle proporzioni. Sul viso la pelle è liscia e abbronzata, le labbra carnose hanno ritrovato un costante sorriso e i capelli, strapazzati dalla salsedine, si sono ricoperti di ciocche bionde che s'illuminano di riflessi dorati sotto i raggi del sole.

Ecco... Venezia esce dal mare! La prima potenza marittima del Mediterraneo emerge dalle acque. Sei secoli fa, era la sede di una minuta comunità di pescatori e salinai, una remota provincia bizantina sperduta tra paludi e canneti, ma metro dopo metro ha strappato lo spazio per le sue case alla viscida melma della laguna, si è fatta Libero Comune, ha resistito alle mire degli imperatori d'Oltralpe e con audacia sproporzionata ha proiettato nel lontano Levante le sue ambizioni. Oggi, grazie alla corale volontà di sopravvivere del suo piccolo popolo di mercanti, di falegnami e di artigiani, la città lagunare si impone vincente ad arbitro e protagonista nella scena del Mediterraneo.

L'approssimarsi del molo d'attracco di Riva degli Schiavoni mi comunica una tale frenesia che non sto nella pelle dalla voglia di scendere giù a riabbracciare forte la mia città. Al colmo della gioia, con il cuore che sta per scoppiarmi nel petto, mi sforzo di trattenere le lacrime davanti agli occhi della ciurma.

So che questo momento rimarrà indelebilmente stampato nella mia memoria. Affascinato dall'incanto della visione non riesco a staccarmi dal Leone assiso sopra la colonna della Piazzetta, a fianco delle architetture bizantine del Palazzo Ducale. E' in arrivo un temporale estivo e già si scorgono in lontananza i bagliori dei lampi, ma uno squarcio di cielo terso sovrasta ancora la colonna. Il Leone ha zampe possenti e i riccioli della criniera scendono ondulati sul collo a mo' di raggi solari, il volto ruggente è scolpito come una maschera su occhi imperscrutabili e le sue ali da cherubino si aprono maestose verso il cielo. Questa chimera a me cara sopra ogni cosa è l'emblema vivente di un'unica storia intessuta da milioni di vite. V'è chi la dice antica di mille e più anni, miracolosamente scampata a infiniti tentativi di annientarla, eppure la chimera vive, respira l'arco dei secoli, è ancora qui, integra, a testimoniare l'arcano mistero della Pax profunda ai centomila veneziani sparsi fra la città e le coste orientali del Mediterraneo.

All'improvviso dall'alto dell'albero maestro un marinaio grida a gran voce:

Viva San Marco! e quel nome, come goccia che cade in un vaso colmo e lo fa traboccare, trae ai miei occhi lacrime irrefrenabili.

Scendo a terra, è il 19 agosto. Che effetto mi farà incrociare lo sguardo terribile del Doge? Quale fine mi toccherà dopo avergli consegnato la Coppa?

Indossando una grande cappa di cotone entro direttamente nel cortile interno del Palazzo Ducale. Mi piazzo sulle panche del porticato con le spalle appoggiate al muro, fatalità sono seduto appena sotto la bocca del mascherone, quello in cui si depongono le denunce segrete indirizzate all'Inquisizione. E' comunque la posizione ideale per osservare indisturbato la scala che scende dal portale interno del Palazzo. Ho l'ampio cappuccio abbassato sugli occhi e spio di traverso fra le colonne e non stacco un momento lo guardo dalla scala, nella speranza di cogliere l'uscita del doge. Al centro del cortile mi fa compagnia un uomo alla gogna con i piedi trattenuti nei ceppi di legno.

Trascorro un giorno intero in trepida ed immobile attesa, nessuno mi riconosce. Solo la tonaca di alcuni domenicani di passaggio mi fa rabbrividire. Finalmente vedo il doge Marino Morosini che esce dal portale e scende frettolosamente la scala, lo seguo con lo sguardo e dalla sua direzione intuisco che va alla Basilica.

La Basilica d'Oro è collegata al Palazzo Ducale ed in pratica rappresenta la cappella personale del doge, tanto che la sede del vescovo sta altrove. Il Morosini non ama mescolarsi alle cerimonie ecclesiastiche ed alle messe sontuose della Basilica, se non quando vi sia costretto da obblighi formali. Egli preferisce raccogliersi entro una graziosa cappelletta basilicale addossata alla facciata che da sul cortile del Palazzo Ducale, appunto di rimpetto alla scala del portale interno.

Proprio alla cappelletta è diretto il doge, solo, senza scorta. E' invecchiato moltissimo; dalla notte del processo sono passati solo otto mesi, un periodo volato per me alla velocità della luce, eppure a vedere lui sembra siano trascorsi dei secoli.

Mi alzo dalla panca e lo seguo stringendo fra le mani la bisaccia che contiene la Coppa. Stremato, incapace di sopportare ulteriormente la penosa incertezza della mia condizione, sono pronto a rischiare il tutto per tutto. Non rinuncerò al compito che mi sono prefissato, un impulso imperativo e categorico mi obbliga a riconsegnare la Coppa al doge, ottenga o no il suo perdono affronterò il mio destino, qualunque esso sia.

Sono davanti alla porta della cappelletta. Busso. Entro al cospetto di Sua Serenità e da in ginocchio che era egli s'alza in piedi con aria interrogativa.

Spiego con voce calma:

«Voglio consegnare un prezioso oggetto: appartenente alla Sua nobilissima famiglia, andato perso quando Manuele Comneno arrestò i veneziani di Bisanzio, finito nelle mani dei Crociati Ospitalieri col saccheggio della Basilica di Santa Sofia. L'ho ritrovato a Cipro e lo porgo al suo legittimo possessore».

Estraggo il calice dalla bisaccia e glielo presento a braccio teso. Il doge lo afferra in silenzio con lo sguardo pieno di stupore, è ammaliato dal vivace luccicare del suo oro e delle sue pietre preziose, lo innalza sopra la fronte nel chiarore evanescente del tempietto.

La cappella sale slanciata ed elegante verso l'altissimo soffitto, al di sopra dei pilastri sei archi a sesto acuto si riuniscono all'apice e vanno a formare le nervature della volta a crociera. Lo spazio tra i sottili pilastri è interamente occupato da lunghe finestre ogivali che inondano di luce l'interno.

Oh chiara luce! Le vetrate multicolori diffondono un nitòre senza confronti e comunicano la netta sensazione di un luogo in cui regni il soprannaturale. Sospesi sopra la porta d'ingresso spiccano i dipinti degli scudi nobiliari di famiglie veneziane e fra questi lo stemma dei Morosini, una striscia azzurra in campo oro.

Il doge fa qualche passo sulle sue calzature scarlatte e posa la Coppa sull'altare. Prende poi del vino rosso, lo versa nel vaso finemente decorato di spighe e beve dal calice sollevandolo a due mani.

La mia mente arde d'intenso fervore, in ogni particella del mio spirito sento palpitare un'energia sconosciuta, una sensazione di totale pienezza appaga in me i lunghi tentacoli del desiderio. Per un attimo il mio spirito non ha più confini... sprofonda negli abissi del tempo, vi raccoglie la luce dell'anima e vibra all'unìsono con la grande Anima del Mondo.

Il Doge si volge sorridente:

«Ora mi rammento di te, sei Petrangésio, il mosaicista della Basilica d'Oro. Fra tre giorni ti comando da me in udienza al Palazzo Ducale».

Mi inchino ed esco.

 

* * *

 

«Il Papyrus Holmiensis non figura nell'Indice dei libri proibiti - sentenzia il doge seduto nella saletta delle udienze -. E' stato analizzato a fondo dall'Inquisitore, grande esperto di lingua greca latina ed ebraica. Egli me ne ha letto personalmente la versione tradotta.

Manifesta conclusione: il manoscritto è una semplice raccolta di ricette per fabbricare tinture e vernici, non contiene alcun riferimento a dottrine eretiche».

In piedi al centro della saletta, alzo gli occhi al cielo e faccio un ampio respiro di sollievo. Sopra le spalle del doge noto soltanto adesso un grande affresco del giuramento di Pontida.

Poi chiedo:

«Mi perdoni Sua Serenità, che ne è ... del mio compagno di cella?».

«Il greco?».

«Sì, Zagreo».

«Siamo ancora in attesa che il Consiglio voti la pena».

«Ma, allora è vivo?».

«Il giorno dopo l'interrogatorio abbiamo catturato il suo complice, un greco che ha confessato tutto.

Zagreo ha fatto scalo a Smirne e là, nell'Impero di Nicea, ha incontrato il complice. Hanno fatto il viaggio insieme su un mercantile genovese.

La missione di Zagreo non si esauriva a Verona col raccogliere i fondi di Ezzelino: bisognava consegnare a Genova un messaggio urgente di Giovanni Vatace.

Il messaggio dell'Imperatore di Nicea sanciva la disponibilità dei greci ad accettare il patto loro proposto dai genovesi. Il piano congiunto prevedeva un abbandono degli accordi tra genovesi e veneziani, nonché un trattato di alleanza tra Genova e Nicea per la riconquista di Candia».

Il doge Morosini è seduto su una poltrona riccamente intarsiata e indossa una semplice tunica che unicamente per il suo colore purpureo attesta la regalità del personaggio.

Egli intende conferirmi un incarico ufficiale per il vestibolo della Basilica e cioè la decorazione a mosaico della cupola laterale, proprio quella che esternamente corrisponde al riquadro dei quattro medaglioni della piazzetta dei Leoni:

«Da ora innanzi sei reintegrato nel tuo ufficio presso il laboratorio dei mosaicisti della Basilica d'Oro. Il vostro Capomastro è gravemente ammalato e si è ritirato definitivamente dal suo posto...».

«Oh, Mastro Apollonio, quanto mi spiace».

«Sarà tuo compito dirigere la decorazione della seconda cupola del vestibolo laterale, riprenderai la storia di Giuseppe iniziata da Mastro Apollonio, egli aveva finito la prima cupola ancora vent'anni fa ma il doge che mi ha preceduto, troppo impegnato a trattare con gli Armeni e a combattere Ferrara, non ha completato i mosaici.

Dovrai concepire lo svolgimento della storia come l'illustrazione di una lezione morale. Lo scopo catechetico, anzitutto, prima di quello storico ed estetico. Il mosaico dovrà essere facilmente comprensibile alla gran massa dei popolani che non può apprendere la Bibbia da una diretta lettura.

Poiché ha detto l'evangelista Marco: a voi è dato il mistero del regno di Dio, ma a coloro che ne sono privi, ogni cosa è fatta tramite parabole».

Uscito dall'udienza del doge, ritorno tra le vetrate della cappelletta. Essa è riservata al doge e a pochi altri eletti ma io vi avevo libero accesso in qualità di addetto alla manutenzione dei pavimenti musivi. Al suo interno prego San Marco con devozione, in ginocchio a terra sul mosaico con la punta delle mani giunte a contatto delle labbra. A capo del laboratorio non sono mai stato ed il ruolo di direttore dei lavori è pieno di incognite e responsabilità, perciò chiedo aiuto al nostro evangelista e invoco la sua benevola ispirazione per l'opera di abbellimento della cupola.

Poi alzo lo sguardo dal pavimento e nuovamente assaporo la suggestiva atmosfera che avvolge e satura quel luogo sacro. Osservo la volta che s'innalza con slancio e le altissime finestre istoriate che riempiono le pareti e creano una struttura così aerea che pare sorretta da un incantesimo. La luce del sole attraversa i vetri colorati e li fa rifulgere, l'effetto è carico di fascino, un vibrare di immagini pulsanti che danno vita a personaggi di sogno. Sulla finestra avanti a me è descritta l'apparizione che si verificò nel solstizio d'estate di duecento anni fa, allorché l'evangelista si mostrò ai fedeli della Basilica sotto la forma emblematica di un leone alato.

Mentre lo guardo con occhi trasognati, il leone di San Marco s'illumina sulla finestra, vibra in un gioco di vividi colori, fa risaltare i nitidi contorni della sua immagine e comincia ad animarsi di vita propria... Nel buio si accendono bagliori di fugaci esplosioni e lunghe colate di lava scendono dalle bocche aguzze dei vulcani: tra fiumi infuocati e zampilli ardenti che proiettano scie nella notte si scatena lotta furiosa tra il sulfureo leone e l'aquila d'argento vivo. Agitando ali maestose, l'aquila si difende col becco e con gli affilati artigli, si batte coraggiosa, accanita, ma è sul punto di soccombere e vittima del calore intensissimo del luogo, all'improvviso s'incendia.

Rimane un misero cumulo di ceneri. Ma ecco da questo prende corpo una sagoma d'uccello e tornata miracolosamente in vita l'aquila ricomincia a lottare. Il combattimento sembra destinato a non avere fine, più volte il leone serra le fauci sulle sue ali, la piega, la trascina in terra, cerca di assestarle il colpo di grazia con la zampata, inutilmente: all'ultimo momento, il leone deve ritirarsi veloce per non venire avvolto da un rogo di piume in fiamme. Così, mentre ogni volta l'aquila risorge dalle sue ceneri fresca e rinvigorita, con l'andar del tempo il leone è sempre più affaticato, coperto di ustioni e di profonde ferite.

Al colmo dell'ira il leone spicca un ultimo fulmineo balzo, calpesta rabbioso le ceneri fumanti, e grossi rivoli di sangue scendono lungo le zampe sulle polveri argentee e la cenere si mescola al sangue e il sangue accende la cenere e genera un eccezionale prodigio: il manto del leone riluce d'oro, ali incandescenti si fissano mirabilmente sul dorso felino!

 

* * *

 

Arnaldo da Villanova è un medico di successo, ha studiato a Montpellier e alla Sorbona di Parigi, la più celebre delle università. Alla Sorbona ha conosciuto gli alchimisti Alberto Magno e Ruggero Bacone e si mormora sia in possesso della pietra filosofale. Sempre in giro per l'Europa, noto per alcune sue guarigioni quasi miracolose, è ovunque ricercato da uno stuolo di nobili e popolani bisognosi di cure.

Nel mese di ottobre domino nuovamente la Piazzetta dei Leoni e tornato ad essere l'uomo più informato del sestriere, vengo a sapere del suo arrivo in città. Sono subito preso dal vivo desiderio di conoscerlo e di vedere finalmente da vicino un alchimista in carne ed ossa. Perciò una mattina raggiungo il suo ambulatorio e mi metto in coda con i malati, aspettando pazientemente il mio turno.

Tocca a me. Entro e sono alla presenza di Arnaldo da Villanova. Sulla scrivania sono appoggiati i suoi lunghi guanti di camoscio ed il berretto da medico. Dalla sua magnetica persona promana grandezza d'animo, vengo colto da soggezione e tuttavia sono subito esplicito:

«Non sono venuto per la salute del mio corpo, bensì per rendermi partecipe di una briciola del vostro sapere filosofico... qualche lume sull'alchimia».

«Sull'alchimia?- perplesso si sofferma un attimo a lisciare il mento ben rasato -. Sono cose da lasciar stare, non val la pena.

Chi vi ha detto poi che io ne sappia qualcosa».

«Vi prego siate caritatevole, non lasciatemi nel dubbio».

Apre la porta per vedere quanta gente abbia ancora in coda, quindi torna a sedere:

«Chi siete?».

«Sono un mosaicista, dirigo il laboratorio della Basilica d'Oro».

Udito ciò, scioglie le sue riserve ed assume un tono franco e cordiale come fossimo amici da lunga data:

«Ah, l'alchimia è scritta per intero sui medaglioni del portale centrale di Notre Dame, a Parigi. Quand'ero studente, dopo aver ascoltato la fisica aristotelica di Tommaso d'Aquino, andavo a riflettere in quella severa cattedrale e passavo ore ed ore a meditare sui medaglioni».

Colgo l'occasione per farmi decifrare l'ultimo oscuro medaglione della Basilica d'Oro:

«Anche nella nostra Basilica i medaglioni custodiscono dei segreti alchemici: sulla facciata laterale v'è un medaglione in cui è scolpito un uomo nudo che avanza tra due alberi di quercia, cavalca un leone sorridente e suona il flauto con gli occhi rivolti al cielo».

«Sì, è chiaro, trattasi della medesima operazione alchemica che a Notre Dame figura nel medaglione del grifone».

«Grifone, il guardiano delle miniere d'oro degli Iperborei? Lo stesso che veniva scolpito sui templi d'Apollo, le cattedrali dell’antichità?».

«Perché no, trattasi della medesima chimera, un animale mostruoso con corpo e zampe da leone ma testa e petto d'aquila. Il grifone simboleggia l'equilibrato compenetrarsi delle due opposte nature.

Gli alchimisti nel descrivere la realtà ricorrono a coppie di concetti complementari ognuno esclusivo dell'altro sebbene, pur escludendosi logicamente a vicenda, dipendano l'uno dall'altro per loro stessa definizione».

«Come ci può essere un equilibrato compenetrarsi tra due nature che si escludono a vicenda?».

«Hai studiato la geometria?».

«Un po'».

«Ponendo in connessione l'insieme dei campi del sapere umano si ottiene una visione unificata della realtà:  in geometria, per definizione, si considerano enti complementari il punto fisso e la circonferenza tracciati dal compasso».

«Non afferro».

«Pensa alle onde concentriche sollevate da un sasso che cade sulla superficie dell'acqua stagnante».

«Lo so è un'immagine che risveglia armonia».

«Pensa ora al fondersi del cerchio e del punto nella spirale».

«I cerchi concentrici della spirale? Sono un gioco di illusione ottica, non possono descrivere la realtà del mondo».

«Pensa a un mondo costituito da innumerevoli spirali che s'intrecciano l'una all'altra e vibrano insieme all'infinito».

Per un attimo Arnaldo da Villanova rimane assorto in silenzio, assente. Poi continua:

«A te dirò apertamente e in tutta sincerità che entrambi i medaglioni delle nostre care cattedrali simboleggiano la Pietra Filosofale. Nel grifone v'è l'armoniosa fusione del leone sulfureo e dell'aquila mercuriale. Una volta ricongiunti entro la compagine individuale, il Mercurio e lo Zolfo fanno da tramite all'ineffabile unione tra Fisso e Volatile sovra - individuali.

Così, in virtù della grazia divina, gli irriducibili princìpi del Macro e microcosmo trovano finalmente pace nella Pietra Filosofale».

Non riesco più a seguire l'intricarsi dei suoi ragionamenti, ho perso il filo mentre ripensavo al suonatore di flauto. Agitando le dita su un flauto immaginario aggiungo qualcosa giusto per trarmi d'impaccio:

«Perciò nella musica è l'armonia dei contrari, nell'uomo che suona il flauto come nella cetra d'Apollo».

Leggo nell'espressione del suo volto che la mia conclusione non c'entra per niente. Mi inchino, ringrazio e mi avvio per uscire.

La voce del medico mi blocca sulla soglia:

«A cosa stai lavorando, mosaicista?».

«Adorno una cupola della Basilica con la storia di Giuseppe».

«Domattina devo partire per università di Napoli ma sulla via del ritorno passerò per Venezia e verrò a trovarti nella cupola».

«Sarà per me un grandissimo onore».

Ringrazio di nuovo con una serie di inchini ed esco nella calle lasciandolo al suo pressante lavoro.

Il ponte di Rialto. Unico passaggio sul Canal Grande e spina dorsale di Venezia. E' sovraffollato, i venditori ambulanti lo hanno invaso e trasformato in un mercato a sé, mi meraviglio come questo ponte di legno non crolli sotto il peso di una tale densità di passanti. Salgo i gradini. Per avere un po' di spazio a mia disposizione devo fermarmi nel mezzo del ponte, nel tratto levatoio, quello che consente il transito degli alberi alle galere mercantili. Appoggio i gomiti sul parapetto e rifletto sulle parole dell'illustre medico, mi paiono di grande profondità speculativa ma non riesco ad afferrarne a pieno il reale significato.

Forse non sono sufficientemente iniziato al linguaggio contorto dell'alchimia o forse mi mancano la grammatica e la dialettica, le basi degli studi classici cui un artigiano come me non può accedere. Il grifone dovrebbe riunire in sé il simbolismo del Cielo e della Terra, magari legati insieme dall'aurea catena di Omero? O forse no, può darsi che gli opposti siano attirati l'uno verso l'altro semplicemente come la calamita attira il ferro...

Accidenti, ecco cos'è, mi sono scordato di porre la domanda cruciale, il dubbio che mi tormenta dal tempo della prigionia nei Pozzi, il mio antico e insoluto problema, risolto il quale scioglierei l'enigma degli opposti.

Dove collocare la Realtà ultima?! Nel Fisso o nel Volatile? In pratica: nel mondano o nello spirituale?

Mi sembra sia questa la questione fondamentale, sapere ove alberghi il reale nell'insanabile contrasto fra due mondi paralleli, quello terreno e quello celeste, l'uno ricettacolo del peccato l'altro espressione della perfezione.

Forse in nessuno dei due?

...nessuno dei due? Ma no, da qualche parte deve pur essere, priva di Realtà la vita perderebbe ogni senso, diventerebbe simile alla storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di rabbia, ma senza significato.

 

* * *

 

Mentre scendo i gradini del ponte di Rialto mi viene in mente Didi. Voglio comprarle un regalino, è un modo per ingraziarmela. Ho da farmi perdonare uno scherzo piccantuccio che le ho fatto. No, non si tratta della solita piramide cabalistica, l'oracolo che usai per raggirare quella fanciulla e permettere al mio amico di spassarsela. Didi è una cara ragazza e ne ho abusato fin troppo, non sospetta di niente ma non appena le consegnerò il dono intendo palesarle la burla. Chissà che sorpresa per lei.

Il quartiere commerciale di Rialto attira gente di ogni razza e colore: mercanti di Samarcanda, ricchi sceicchi d'Arabia, commercianti ebrei ed armeni, ambasciatori ungheresi, tedeschi dell'Hansa, trafficoni pisani e amalfitani, servitori neri, schiave egiziane, qualche raro mongolo Ilcano, marinai spagnoli, attori francesi, affaristi inglesi e olandesi. Rialto mi è sempre parso la sintesi del mondo intero sin da quando vi gironzolavo da ragazzino, curiosissimo a spiare le merci esposte alla rinfusa sulle bancarelle, e credevo veramente vi fosse rappresentata la completa varietà delle cose esistenti sulla terra.

Fra i chiassosi richiami dei venditori passo davanti a un commerciante di cavalli arabi, grandi e massicci destrieri da battaglia; dei veneziani si avvicinano mostrandomi sul braccio i girifalchi incappucciati, l'astore e il falco pellegrino; a lato, un commerciante russo invita i nobili a bere la cervogia, la birra con miglio e miele, e intanto declama i pregi delle sue pellicce di zibellino, ermellino, scoiattolo e volpe argentata, piuttosto che consegnarle alla spietata concorrenza dei tedeschi dell'Hansa egli ha preferito venire fin qui, a venderle di persona.

Le nobildonne veneziane chiacchierano rumorosamente sotto il porticato, a gara tastano le stoffe multicolori: i raffinati cremisini e i finissimi zendadi, i tessuti di seta e oro dei Curdi, la seta preziosa di Mosul, la seta Jasdi di Persia. Una ricca signora esce dalle colonne per controllare alla luce viva un drappo in seta colorato con l'indaco e le popolane la guardano con invidia mentre i loro mariti, con finto entusiasmo, chiedono il prezzo del tessuto in pelo di cammello... tutto per distrarle da quella seta costosissima, ben al di fuori della loro portata.

Le scene di quei poveri mariti imbarazzati mi rattristano e penso a Didi che è una setaiola e sbozzola, fila, tesse la seta tutto il santo giorno, ma per ironia della sorte non possiede un solo abito in seta. Ecco, se fossi ricco avrei già trovato cosa regalargli, un bel campione di seta Jasdi, purtroppo nemmeno io ho sufficiente denaro in tasca, devo accontentarmi di un dono più semplice. Mi guardo in giro.

Il pescivendolo ostenta sul banco il viscido prodotto della pesca: i branzini dalle bocche spalancate e dalle branchie vistose; le orate dalle scaglie cesellate, che emettono riflessi azzurrati, gialli e argentei; e lo scorfano, alquanto apprezzato nella zuppa di pesce ma oltremodo brutto e pericoloso, mostriciattolo marino le cui pinne da pipistrello nascondono spine velenifere.

Le chele degli scampi e le zampette dei gamberi brulicano nervosamente, le anguille vibrano nella vasca come serpenti d'acqua e i tentacoli che promanano dal corpo gelatinoso di una seppia s'intrecciano con quelli dei calamari.

Passeggiando, passo bruscamente da un odore all'altro, ho appena abbandonato il banco del pescivendolo e non ho ancora finito di godermi il profumo di un fioraio che mi giunge il lezzo di formaggi del negozio accanto e un attimo dopo, nell'imboccare la Ruga degli Speziali, ecco i profumi pungenti delle spezie d'Oltremare.

Allora mi fermo, entro nella bottega dello speziale e osservo ogni cosa con sguardo indagatore. Le spezie sono etichettate ed allineate sulle mensole di legno, entro vasi di vetro che lasciano trasparire i colori esotici e vivaci... gialli, rossicci, marroncini, lì la galanga, il tamarindo, il turbitto, più sopra il rabarbaro e il cubebe rampicante. Al bancone lo speziale sta pesando attentamente sulla bilancia un pugnetto di una rara pianta aromatica, è una novità giunta dall'oriente e ne orecchio il nome mentre vien detto al cliente: Spigo di Giava.

Come rinunciare al chiosco della fruttivendola? Ligio alla consuetudine mi fermo da questa ragazza prosperosa per scambiare qualche battuta di spirito, mi offro di darle una mano a raddrizzar banane, sorrido e intanto la spoglio con gli occhi. Indugio a lungo sulle sue curve apposta perché lei se ne accorga, so che quegli sguardi indiscreti la gratificano, quasi vada fiera del suo corpo e ci tenga ad esibirlo sulla piazza al pari delle sue ceste colme di frutti e aggraziate con fiori come cornucopie.

Trascinato da scabrose fantasie la succhio e la mangio fino a saziarmi di lei. Ha una bocca rossa come le ciliege, denti bianchissimi di cocco e una lingua tenera come la polpa di caco. Tutto il suo corpo è mangereccio, anche i polpastrelli sono pistacchi e le unghie mandorle acerbe. Il colore verde del vestitino nasconde le sue delizie quanto il manto di un albero da frutto... allora, con le dita scosto delicatamente le foglie di un rametto e scopro due lucide mele al posto delle tette e datteri appiccicosi ai capezzoli. Godo a indovinare liscio e tondo come un cocomero il suo sedere, vellutata come buccia di pesca la pelle delle cosce, e in mezzo, una bella susina succosa.

Arrivato in fondo al mercato, torno indietro verso il cuore di Rialto, svolto in Ruga dei Orefici ed entro nei muri di un edificio che ha le finestre ridotte a strette fessure. E' la gioielleria del mio amico, lui è un furbastro, espone sul banco monili ed anelli ma so bene quanto accuratamente nasconda le pietre più preziose. Per pura curiosità gli chiedo di mostrarmi un diamante del Deccan, egli lo estrae dal forziere e mi invita ad ammirarne la trasparenza ed i riflessi iridati.

Non ho certo le lire di grossi per acquistarlo, tuttavia:

«Mi piace, lo prendo, - scherzando - andrebbe giusto bene per farci un anello di fidanzamento, ti propongo in cambio una enorme pietra di carbon cinese... ti avverto subito che qualcosetta ci rimetti».

«Già, il carbone brucia e ti lascia come ricordo un bel mucchietto di cenere, questo invece è incombustibile e nessuna pietra al mondo lo può scalfire.

Per la tua innamorata ti posso dare... posso scambiare il tuo carbone con quella statuetta di Cupido» e indica sul banco una piccola statuetta di metallo dalle fattezze piuttosto grezze, un uomo adulto con la faretra sulla spalle.

«Ma quello è Apollo. Da dove arriva?».

«Da Montegrotto - risponde -. L'ha trovata un contadino che stava arando il suo campicello».

«Montegrotto, in quale zona della Grecia si trova, è forse un'isola?» chiedo infervorato.

«No, niente Grecia. E' vicino a Padova».

Deluso lascio perdere la contrattazione:

«Lasciamo stare, usa la tua statuetta per turlupinare qualche francese in gita di piacere. Io mi terrò il carbone».

«Prova a venderlo ai Mamelùcchi d'Egitto, quelli sì che sono svegli... Due dinar d'oro in cambio di un grande zaffiro blu, in autentico vetro di Murano».

Saluto ridendo ed esco nel via vai.

Non l'intrico del bazar di Damasco, ma il labirinto di calli e callette di Rialto! Apoteosi del superfluo, vortice di fantasia e tinte smaglianti, provetto ingegno dei manufatti in vetro, avorio e porcellana. Ecco le tovaglie di pizzo e le spade pregiate in acciaio indiano e il muschio afrodisiaco ricavato dal cervo e l'incenso dello Yemen a quaranta bisanti al vaso; laggiù, i vini della fiera dello Champagne, qui a lato l'olio di sesamo e la farina di sagu delle palme della Malesia, poco più in là i coralli del Mar Rosso e le conchiglie dell'Indocina con le loro forme bizzarre, spiraleggianti e uncinate.

Cerco qualcosa di bello per Didi e butto l'occhio distrattamente a destra e a sinistra in mezzo a quel grande assortimento. Finalmente mi decido davanti a una bancarella di bigiotteria, acquisto un paio di graziosi orecchini d'ambra, sono l'articolo più carino ma hanno un buon prezzo, sufficientemente all'altezza della mia borsa.

Nell'accingermi a pagare il venditore tiro fuori dal borsellino una moneta consunta che sul momento non riesco ad identificare, la giostro fra le dita, la giro e la volto, osservo una faccia e poi l'altra, e vi riconosco l'uomo e la donna congiunti in amplesso: ad occhi spalancati rivedo il dito di Zagreo che disegna il sole e la luna sulla parete dei pozzi.

La medaglia di Diomede! Sull'istante una folgorazione, ho la chiara consapevolezza di afferrare la Realtà ultima:

«Le molteplici forme del mondo e l'omogeneo sostrato della Prima Materia sono come le due facce di questa medaglia senza valore: la sua faccia visibile e la sua faccia invisibile mi costringono a scegliere senza sosta fra un punto di vista e l'altro, tra un mondo attuale e uno virtuale. Però le due facce sono soltanto aspetti complementari, corrispondenti ad un unico elemento di realtà insito nella moneta in sé.

Ora ne ho la certezza, la Realtà ultima è la Cosa Unica. La Pietra Filosofale è nell'unione del Sole e della Luna! Non a me la gloria ma alla grazia di Dio che sola concilia l'inconciliabile».

Colori, macchie indistinte prendono forma di oggetti, un suono confuso già udito ma non inteso mi desta da un sonno beato. La voce belante del commesso mi rituffa bruscamente nel chiasso del mercato:

«Sior! Sior beo! Voleu darme sto scheo?».

 

* * *

 

Dacché ho rimesso piede a Venezia, riabilitato e ufficialmente inserito nel laboratorio dei mosaici, un mucchio di cameriere mi fa la corte nella speranza di sposare un capo artigiano, ma io ho la mente occupata e non si tratta della ragazza degli orecchini.

Non ho scordato Rezia, né è passato giorno che non l'abbia pensata, da più di un mese controllo assiduamente se per caso sia tornata a Venezia. Sera dopo sera, cammino solitario lungo Calle dei Botteri e raggiunte le Fondamenta dell'Olio mi fermo sul bordo del Canal Grande, a fianco delle imbarcazioni che scaricano l'olio d'oliva proveniente da Candia. Seduto sulla riva opposta al palazzo di Rezia, me ne sto con l'animo sospeso nella speranza di vederla affacciarsi al balcone e passo ore e ore a fissare quell'edificio, al punto che ne ho imparato a memoria la posizione di ogni singola mattonella.

Posto a fianco di Ca' Sagredo, il palazzo è una pregevole costruzione a tre piani dotata di un'originale merlatura sul tetto e di un porticato che funge da fondaco a livello dell'acqua. Nei due piani superiori i balconcini dei loggiati possiedono colonnine orientaleggianti ad archi fioriti, intrecciati, e arricchiti elegantemente da preziose fasce e cornici. Sul lato sinistro della facciata ci sono tre semplici finestre quadrate, una per ciascun piano al centro di uno spazio di parete spoglia. Ancora più a lato, presso l'angolo che delimita la parete, c'è un raffinato balconcino ad ogiva. L'arco acuto del balconcino è ornato alla sommità da un giglio sistemato tra due cerchietti che, ciascuno col punto nel centro, sono i simboli astronomici del sole. Per finire, finissime decorazioni in oro aggiungono sfarzo ai marmi traforati e alle tinte delicate dell'intero rivestimento.

Le gondole in arrivo si assicurano alle strisce bianche e rosse dei pali dipinti con i colori araldici della casa; alcune persone scendono ed entrano nel palazzo, altre si riuniscono nel fondaco e ripartono, ma di Rezia nessuna traccia.

Ogni sera come di consueto, un lume si accende all'imbrunire nel balconcino che fa angolo. Se fosse la sua stanza? Lei potrebbe essere tornata a Venezia e il marito geloso potrebbe averle proibito di affacciarsi al balcone, magari l'ha rinchiusa nel palazzo ed è ripartito per la Romania.

Nel morboso attaccamento a quel genere di illusioni che traggono alimento da se stesse pur di non darsi per vinte, grido il suo nome a squarciagola:

«Rezia! Rezia!».

Niente, nessuno si affaccia. Patetico e imperterrito mi risiedo sull'argine, restio ad abbandonare il Canal Grande, e continuo a fissare ossessivamente quel lume acceso.

L'invincibile attrazione esercitata dall'arco fiorito e intrecciato del balconcino mi indurrà a perseverare nel quotidiano pellegrinaggio a quella dimora, anche ora, che è arrivato di nuovo il Carnevale e non vedo più uomini e donne approdare in gondola al palazzo ma uno spettrale andirivieni di maschere, evanescenti gelide immagini di un vuoto incolmabile che in me, ha nome nostalgia.

Rezia è tornata ad essere ciò che era in principio, la misteriosa signora dell'ultimo di Carnevale, la donna senza volto celata dietro una qualsiasi delle maschere che arrivano in gondola a palazzo. Potrebbe essere lei la alla tremula luce delle torce, dietro quella doppia maschera d'argento, vestita di carminio e guanti bianchi. Lei, avvolta in ampi veli rosa, con il gran turbante sul capo e il mazzo delle sette mascherine colorate. Lei, quella che ride al centro dell'allegro gruppetto o l'altra ancora... E forse è proprio così che la voglio, darle ancora un volto significherebbe negare la sua essenza impalpabile, poiché a me è dato possederla intimamente solo attraverso un velo trasparente che lasci appena indovinare le linee dolci del suo corpo. La custodisco priva di qualifiche, perfino del suo stesso nome, perché anche solo un nome può offuscare la bellezza inesprimibile della sua velata nudità.

Ottobre a Venezia. Un mese che dichiara subito guerra all'incombente grigiore dell'inverno. Il Carnevale è appena cominciato e già impazza nelle calli. Didi, la ragazza degli orecchini, appare in fondo a campo S. Maria Formosa puntuale all'appuntamento che le ho fissato pochi giorni prima, durante un trasbordo in gondola.

Quel giorno salii nella sua gondola alla fermata di riva Ca' da Mosto, le gondole multicolori sovraffollavano il Canal Grande cariche di passeggeri, si facevano strada in mezzo a una baraonda di barche e barconi, di burchi e burchielli, incrociavano le grosse imbarcazioni da trasporto colme di mercanzie o le zattere vuote degli ortolani chioggiotti che avevano già scaricato all'Erbaria i loro prodotti.

Le puntavo addosso lo sguardo protetto dalla maschera. Aveva gli occhi color dell'ambra, almeno ventidue anni, un bel colorito acceso e un qualcosa nei lineamenti che mi era stranamente familiare. Mi cullavo in quella sensazione di affinità, mi piaceva che ricordasse vagamente mia madre. Finché mi ravvidi, ricostruendole sul volto l’identità un tempo nota: in realtà quella ragazza era mia cugina, da bambini si giocava sempre insieme in Campo della Fava, ma a 13 anni lei e la sua famiglia se n'erano andati da Venezia. A motivo della maschera che ora portavo, mia cugina non m'aveva riconosciuto e così avevo colto lo spunto per corteggiarla per ischerzo, fino a quando non gli avessi rivelato chi ero. Grintoso, attaccai discorso col pretesto del fermaglio a falce di luna che raccoglieva con cura i suoi capelli castani, dissi che la sua pettinatura alla moda denotava buon gusto e la sommersi di complimenti, che mi venivano tanto più bene in quanto recitavo la mia parte senza la tipica ansia delle conquiste impegnative. Allegra e vivace, ella si mostrava una ragazza piena di spirito e intanto la gondola rosa salmone, drappeggiata di seta multicolore, passava ondeggiando sotto il ponte di Rialto. Raggiunto il centro sinuoso del Canal Grande, appena dopo Ca' Barzizza la gondola si fermò sulla destra a Ca' Businello. Scesero gli altri due passeggeri e restammo soli con il nostro fiacco gondoliere che un po' ammiccando, un po' prendendoci in giro, non trovò di meglio che mettersi a fischiare una sdolcinata melodia. Arrivati al traghetto di San Toma, ove l'angolo del Canal Grande si fa più acuto, la mia cuginetta mi saluta e si prepara a scendere, a me sarebbe toccato di proseguire e allora, stringendole la mano "voglio vederti ancora, incontriamoci un pomeriggio...", così con fare convincente ho fissato lì per lì un appuntamento galante e lei ci è cascata.

Rieccoci al pomeriggio dell'appuntamento in campo S. Maria Formosa. Didi si sta avvicinando. Sono venuto senza la maschera e voglio vedere la sua faccia quando mi riconoscerà, il divertimento sta tutto qui.

Si ferma a un passo da me. Ho un orecchino per mano e in piedi, rigido davanti a mia cugina, attendo che mi lanci le braccia al collo felice di rivedermi. Invece no, saluta e mantiene le distanze contegnosa. Rimango immobile e inespressivo.

Cerco di aiutarla:

«Allora, sai chi sono?».

«Come posso saperlo se non mi hai ancora detto il nome».

Rimango impalato come un fesso con i due orecchini che penzolano dalle mani trattenuti tra pollice e indice:

«Ehm, già è vero. Mi chiamo Pe... Pe…».

«Peppe Nappa» anticipa e ride del mio disorientamento.

Le metto addosso gli orecchini d'ambra e le sussurro:

«Hanno lo stesso colore dei tuoi occhi. Ascoltami bene, c'è un legame di... io...» sto per dirle che sono suo cugino ma i suoi occhi mi fissano con una tale affettuosa dolcezza che le parole mi vengono meno e prima ancora di richiudere la bocca inceppata, le sue labbra si posano sulle mie in un bacio leggerissimo, un breve istante che stabilisce l'umido contatto fra lingue.

Il gioco ha oltrepassato il limite, mi affretto a chiudere lo scherzo con la canzonatura finale:

«Io abito in Campo della Fava!» e soffermandomi sul doppio senso della fava, con gesto goliardico mi porto la mano in mezzo alle cosce.

Lei però non coglie, cambia repentinamente umore, si fa ombrosa, non parla più, sembra diventata timida e impacciata.

«Dunque ti ricordi di me?» insisto.

«No!».

Mi sa che sta mentendo. Ha intuito ma tarda ad ammetterlo, sta di fatto che adesso ormai più di così non ce la faccio a spiegarglielo e se lei non vuole saperne d'intendere... io non ne ho colpa.

Nel concordare gli appuntamenti successivi, benché ella abiti in Merceria San Salvador cioè sulla strada che faccio ogni giorno per andare al lavoro, la cuginetta mi impone di incontrarci nella parte opposta della città, nel lontanissimo campo di S. Giacomo dell'Orio, e questa stranezza, unita al perseverare di una certa sua reticenza, mi fa appunto ben supporre che abbia perfettamente capito chi sono e che tuttavia voglia far finta di niente.

Spero non si sia innamorata di me, macché! Sta piuttosto tramando qualcosa, vuole architettare una caustica vendetta per farmi perdere la faccia davanti a tutti i miei parenti. Chissà, forse non si espone perché ha un altro amante o magari è già sposata da un pezzo, comunque io non voglio darmi troppa pena né sforzarmi di indagare: i veneziani, si sa, in politica e in amore sono sempre stati misteriosi.

Ma alla fine di ottobre, dopo un'assidua frequentazione, ecco la reciproca, dolorosa presa di coscienza. E' sera inoltrata. Didi, si appoggia sfinita ad una colonna della chiesa di S.Giacomo dell'Orio, non ce la fa più a tenersi dentro il suo silenzio, mi fissa accorata con i suoi occhi color dell'ambra e finalmente si sfoga tra la vergogna e le lacrime:

«Io sono tua cugina Diana. Una delle figlie di tuo zio. Non ti ricordi quando giocavamo insieme da piccoli? Avevo i capelli tagliati corti come un ragazzino. Andavamo insieme a Cannaregio a caccia di quaglie con l'arco e le frecce, e si tornava sempre con un magro bottino - accenna al riso asciugandosi le guance -. Ricordi a Carnevale quella volta che ci siamo dipinti la faccia con l'impiastro bianco che non veniva più via?

Il seguito lo sai, a 13 anni ho finito l'apprendistato nella corporazione delle setaiole e la mia famiglia si è trasferita nell'Elide, giusto di fronte all'isola di Zacinto. Poi qualche mese fa siamo tornati, tuo fratello ci ha detto che eri lontano in pellegrinaggio... non sapevo fossi tornato. Perdonami ti prego. All'inizio non mi ero accorta di nulla, ma quando mi hai detto dove abitavi... è stato... è stato un colpo per me».

Diana cerca di indovinarmi i sentimenti scrutando i miei occhi allungati e socchiusi come due fessure. Sono imbarazzatissimo. Solo adesso mi avvedo quanto sia stato crudele lo scherzo di cui l'ho resa bersaglio e a stento trovo la forza per denunciare la responsabilità della mia leggerezza:

«Io me ne ero accorto fin dal primo momento e adesso non so più cosa dire, sono sconvolto... Son passati dieci anni ma mi ricordo tutto come fosse ieri. Un mese prima che tu partissi avevo preso l'abitudine di spiarti dal buco della serratura mentre facevi il bagno nuda, che spettacolo! Ero inebetito dallo sbocciare della tua giovinezza; eri un frutto proibito, ancora troppo acerbo per essere colto. Le emozioni risvegliate dal guardare il tuo corpo adolescente erano dardi avvelenati che avevano per bersaglio il mio cuore, diffondevano il loro veleno in ogni goccia del mio sangue ed erano la fonte maliziosa di una febbre incurabile. Mai un nemico mi fece tanto danno quanto i miei occhi.

Beh, ma ora che importa, anche se siamo un po' consanguinei... mica siamo fratello e sorella» dondolando la mano in aria.

«Poco ci manca, mio caro. L'incesto cade entro il quarto grado di parentela, noi siamo cugini stretti, abbiamo peccato ed è tutta colpa mia».

«Sei sicura che sia proprio peccato?» fissandola.

«Guglielmo il Conquistatore aveva sposato sua cugina Matilde ed è stato scomunicato».

«Sì, però poi è stato incoronato lo stesso re d'Inghilterra».

Diana abbassa gli occhi:

«Ho timore del giudizio degli altri. Ieri sera abbiamo fatto l'amore».

Le passo la mano sui capelli:

«Perché hai preferito tacere quando ti ho fatto capire chi ero, perché non volevi parlarne?».

«Avevo paura di perderti, mi sono innamorata di te dal primo momento, non so come sia potuto succedere... mi sembravi così convincente, mi ispiravi sicurezza. Ai sentimenti non si comanda, l'amore è un tiranno, non è in nostra facoltà decidere quando innamorarsi e di chi innamorarsi. Io brucio come dentro una fornace, non sono più padrona delle mie intenzioni» conclude mentre posa la testa con tenerezza sul mio petto.

Le afferro la nuca con la mano:

«La sincerità è il primo dovere del maschio e se vi rinuncia perde ogni sua forza, ma tu sei donna e ti è lecito nascondere i tuoi pensieri. Tu nascesti per me... il resto non conta» e nel gioco di un'altalena, ora lei si riposa fra le mie braccia ora io mi abbandono nelle sue.

Diana è una ragazza semplice e dolce, nei mesi successivi cerca di compiacermi in ogni cosa e mi riempie costantemente di tutte le attenzioni possibili ed immaginabili, come se avesse da farsi perdonare quella consanguineità che teme sia un impedimento al nostro amore.

Dopo un anno di fidanzamento deciderò di sposarla. A quell'epoca avrò compiuto trent'anni. La data del matrimonio resterà fissata per il 23 settembre 1252, giorno dell'equinozio d'autunno. Quel giorno davanti all'altare, nella Basilica d'Oro, il padre di lei la consegnerà sotto la mia tutela con le parole di rito:

«Ecco io ti do questa mia figlia per onorarla come sposa, per la metà del tuo letto e delle tue chiavi».

Quindi ci porgerà un calice di vino da bere insieme secondo l'usanza.

Dopo lo scambio degli anelli, il prete aggiungerà in tono solenne:

«Che il giogo che ella dovrà portare sia un giogo di pace e amore».

Si tratterà in vero di un caso di impossibilità di matrimonio a causa della nostra consanguineità e il prete non avrebbe assolutamente consentito a celebrare il rito non fosse per il fatto che Diana era gravida già da sei mesi ed il padre non era altri che io.

 

CONTINUA SESTO CAPITOLO