...ET MOURIR DE PLAISIR

di Valerio Evangelisti

Colonizzare l'immaginario. Sembrava impossibile, eppure basta disporre degli strumenti opportuni. Televisioni, mass-media, una stampa docile, un trend culturale. Finisce che intere generazioni si trovano immerse in un sogno, e lo scambiano per realtà. Ora, quali sono le caratteristiche di un sogno? Che si vive una vicenda priva di antecedenti e di conseguenze nel futuro. Esiste il presente e basta.
In un sogno analogo siamo immersi ormai da un decennio, con un'accentuazione negli ultimi anni. Sotto gli occhi ci scorrono immagini senza origine e senza spessore. Esalazioni di gas nervino uccidono o mandano all'ospedale migliaia di persone nella metropolitana di Tokyo? La notizia ci viene data in tempo quasi reale, eppure pare che accada su un altro pianeta. Nessuno si scompone più di tanto, se non per un tempo misurabile in minuti, o addirittura in secondi. Nella ex Jugoslavia si susseguono i massacri? Anche qui la commozione è legata ai singulti di un qualche telecronista, analoghi a quelli che accompagnerebbero una qualsiasi calamità naturale. Perché quella gente si massacra? Non lo sa nessuno, forse nemmeno i diretti interessati. Questione genetica, di razza, di religione. Ciò che importa è che la versione corrente faccia appello a eventi incontrollabili, in cui la volontà e la logica non abbiano parte alcuna. Così la notizia perde tutti i suoi contenuti nel momento stesso in cui viene diramata.
Non è sempre stato così. Fino a qualche anno fa, qualcuno, parlando di Jugoslavia, avrebbe menzionato le condizioni durissime imposte al paese dal Fondo Monetario Internazionale in cambio dei propri aiuti. Paragonando le date, si sarebbe accorto che proprio in quel momento le repubbliche più ricche reclamarono l'indipendenza, per scindere i propri destini da quelli delle regioni più povere. Avrebbe notato l'affanno della Germania nel riconoscere immediatamente le nuove entità statali appena sorte, situate ai propri confini. Avrebbe anche osservato l'entusiasmo con cui l'intero Occidente salutava la dissoluzione di un paese sedicente socialista. Ma a quei tempi si ragionava ancora per catene logiche, si scavava nella storia per ricercarne la più intima dinamica, affidata allo scontro tra forze sociali, politiche ed economiche contrapposte. Tutte cose che fanno a pugni con l'irrazionalità del sogno.
Adesso non è più così. Adesso siamo tutti Numeri Sei.

Il numero 6.

Qualcuno ricorderà quella straordinaria serie di telefilm intitolata "Il Prigioniero", concepita e interpretata dall'attore inglese Patrick Mc Goohan. Un individuo di cui si ignora tutto si trova rinchiuso in un assurdo villaggio di vacanze, simile a un Club Mediterranée, in cui tutti sono esageratamente felici. La radio non fa che parlare del bel tempo che c'è fuori, ogni abitante ha a disposizione una graziosa villetta. Non ci sono guardie, ma solo degli enormi palloni silenziosi che emergono dal mare ogni volta che il prigioniero tenta la fuga (gli altri non ci pensano nemmeno).
Il protagonista non ricorda la propria identità. Viene chiamato "numero 6" e basta. Il villaggio è agli ordini di un misterioso numero 2, che muta di continuo. Si intuisce che esiste un numero 1, ma non si sa chi è (il sospetto è che si tratti di un maggiordomo nano, che se ne va in giro con un grande ombrello multicolore, però anche questa ipotesi verrà smentita). Ogni volta che il prigioniero cerca di indagare sulla propria carcerazione, si trova sottoposto a lavaggi del cervello, nelle forme più insidiose. Da lui si vuole sapere solo perché ha "rassegnato le dimissioni", ma non viene mai specificato da che cosa. Di tanto in tanto finge di adattarsi alle regole di vita comune, ma queste gli sfuggono sempre, e quando crede di averne afferrato un brandello scopre che si tratta di un'illusione. Partecipa persino alle elezioni, folle carosello di sfilate demenziali e di programmi insensati. Lo spaesamento è la sua condizione normale, accentuata da sapienti messinscene destinate ad alimentare le sue speranze di fuga per spegnerle subito dopo.
Alla fine riesce in effetti a fuggire, dopo un confronto col numero 1. Gli strappa una maschera e appare un muso di scimmia; ma anche quella è una maschera che, strappata, rivela il volto dello stesso protagonista. Infine il numero 6 raggiunge Londra, molto più vicina di quanto si sarebbe creduto. Sale nel proprio appartamento, afferra la maniglia. La porta è la stessa della villetta che occupava al villaggio.
Chi ha avuto modo di vedere questa serie di telefilm non la dimenticherà mai più. E, non dimenticandola, potrà raffrontarla alla realtà odierna. La somiglianza è impressionante. La schiavitù del numero 6, sotto le apparenze di una libertà quasi totale, nasceva dalla mancanza di un passato, e dall'immersione in un clima onirico fatto di solo presente. Non appartiene alla stessa sfera autoritaria l'emergere di una psichiatria che ricerca (inutilmente, è chiaro) l'origine della malattia mentale esclusivamente nei meccanismi biologici del cervello, rifiutando programmaticamente l'analisi ambientale (e cioè venti lustri di approcci psicoterapeutici)? O di una storiografia che si adagia sulle invarianze e sui tempi lunghissimi, considerando gli episodi conflittuali quasi di semplice disturbo? O di un'economia ristretta alla sola realtà aziendale? O di una criminologia regredita alla fisiognostica lombrosiana?
Si potrebbe continuare. Ma ciò che preme rilevare è che l'esito di tante rinunce alla riflessione sono più manicomi (con conseguente rivalutazione dell'elettroshock), più carceri, l'imposizione del lavoro non creativo, tanto dilatato da riempire ogni spazio di vita, l'anomia, l'oblio del passato come chiave del presente (e del presente come chiave del passato). Fino alla creazione di un villaggio virtuale dove tutti sono felici ma nessuno è contento, perché nessuno è libero. Un villaggio in cui la morte intellettuale viene spacciata per piacere supremo, allo scopo di ottenere il consenso delle vittime - come è nella tradizione della letteratura e del cinema di vampiri da Carmilla a Lestat, passando per Dracula.
Quando è la vittima stessa a porgere la gola, significa che è all'opera un vampiro insidioso, che prima del sangue ha succhiato l'immaginazione. A quel punto o ci si ribella o ci si abbandona, ci si rassegna a mourir de plaisir.
Ma se si sceglie la ribellione, "la forza vindice della ragione", allora anche l'immaginario dovrà divenire campo di battaglia. Pena la vittoria del vampiro prima ancora che lo scontro abbia inizio.

Carmilla unbound.

Ci hanno raccontato delle balle. Nessun Van Helsing può vincere un vampiro. Aglio, paletti e crocifissi servono a poco o a nulla. Solo un vampiro può sconfiggere un altro vampiro. O comunque chi del nosferatu condivida la volontà, la determinazione, la capacità di lacerare la notte con lo sguardo penetrante del lupo o del felino. Contro Dracula, capace di affascinare la preda e di renderla consenziente, abbiamo deciso di scatenare Carmilla. O Mircalla. O Marcilla. O Millarca.
Poco importa il suo nome vero. Ogni volta che se ne è dato uno si è consegnata indifesa ai suoi nemici. Certo, ha continuato a vivere; ma ogni volta più fragile, più confusa, più evanescente.
Carmilla non è Dracula. Il vecchio Vlad (vecchio? diciamo decrepito, mentre Carmilla è sempre giovane) è una forza innaturale scatenata, che non parla e forse non ragiona (a parte l'orrida parodia di Coppola), agitato da istinti famelici di sopraffazione. All'inizio del romanzo di Bram Stoker ha, con Jonathan Harker, un dialogo di due paginette. Poi tace e succhia, perché succhiare è la sua normale maniera di vivere, se di vita si può parlare.
Carmilla di Karnstein è diversa. Seducente e trasgressiva, non teme affatto la luce del sole e non ama dormire troppo a lungo nei sepolcri. Si muove tra prati e fanciulle in fiore, impegnata in una lotta per la sopravvivenza che dura da secoli, contro una morte a cui non si è mai rassegnata (mentre Dracula è la morte stessa). Certo, dichiara di disinteressarsi dei contadini, ma ciò non basta a collocarla dalla parte della reazione. L'incomprensione verso i contadini è stata storicamente una caratteristica non già dell'aristocrazia, bensì del movimento operaio (qualcuno ricorderà forse il conflitto tra mezzadri e operai agricoli, nell'Italietta giolittiana; o, di converso, l'esaltazione del piccolo proprietario rurale operata da Maurras e dall'Action Française - per non dire della "contadinizzazione" delle campagne tentata da Mussolini).
Dracula è un vampiro notturno, Carmilla è un vampiro "lunare". Quando sceglie come terreno d'azione la notte, lo fa alla stessa maniera di Diana, di Ecate, di Abundia, di Persefone, di Iside. Divinità femminili e liberatrici, che guidavano la corsa sfrenata di legioni di donne alla luce suadente della luna, in conformità a ritmi biologici antichi e segreti. Ma Carmilla è soprattutto intelligenza e amore, le armi con cui soggioga vittime che tali non sono, perché la loro morte prelude a una vita eterna, difficile ma ricca di profumi e sapori. Mentre gli avversari di Carmilla - primo fra tutti il pedante e bigotto colonnello Spielsdorf - rappresentano, anche in virtù della loro carica militare, la morte veramente eterna, accompagnata da rituali (il taglio della testa) idonei a garantire che l'intelligenza rimanga davvero per sempre nella tomba.
In quest'epoca di sinistre virtuali e non reali, ci piace pensare a una sinistra che di Carmilla condivida il potere seduttivo, trasgressivo, lunare e libertario. Una sinistra nuovamente capace di soggiogare, però in virtù dell'intelligenza, e capace di alludere, nella sua lotta contro la morte, a una vita ai margini (ma più numerosi sono i vampiri, più quei margini si estendono) molto più affascinante di quella condotta in stato di catalessi nel gigantesco luna-park dell'immaginario colonizzato.
Il vecchio Dracula che, rivestiti abiti moderni, cerca di perpetuare la propria stirpe di succhiatori del sangue di una folla di schiavi, non può più essere affrontato con croci o con paletti - tristi reliquie pescate tra le leggende dei paesi che hanno visto la nascita ambigua e la morte ingloriosa del socialismo reale. E nemmeno può essere combattuto aderendo con tetro entusiasmo alle regole del nemico, presunte eterne e presunte inevitabili. Significherebbe accettare come dato di fatto la schiavizzazione dei tre quarti dell'umanità, ridotti a mera fonte di nutrimento. A beneficio di una élite di non-morti che, nei paesi in cui ha insediato i propri troni, governa i sudditi condannandoli al sogno forzato.
Solo una sinistra che risponda ai morsi con i morsi, all'ipnosi con la seduzione, all'animalità con l'intelligenza, all'omologazione con l'impulso di rivolta è in grado di ricacciare per sempre il mostro nel suo sepolcro.

Anche Baran e Sweezy sognano.

Ma è tempo di uscire dall'allegoria. Questa rivista si occupa di letteratura fantastica. Chi abbia saputo interpretare le metafore delle righe precedenti ha già capito il perché. Il neoliberismo ha saputo, attraverso un uso quasi scientifico dei mass media, penetrare nei cervelli e svuotarne gli angoli più riposti di ogni contenuto non funzionale. In pochi anni ha condotto un assalto senza precedenti alla sfera dell'immaginario, infettandola di non-valori, false certezze, distorsioni ottiche ispirate a una logica mortifera, che vede il più forte avere non solo il diritto di vincere la gara per la vita, ma anche quello accessorio di calpestare lo sconfitto, ignorandone l'umanità.
Spazi di immaginario possono però ancora essere raggiunti e liberati. Uno degli strumenti - non il migliore, ma solo uno dei tanti - è la narrativa, legata per sua natura a una fruizione diretta e individuale. Ma non la narrativa realistica (se è lecito usare un termine tanto improprio), che per tanto tempo la sinistra ha ritenuto l'unica proponibile e l'unica dotata di validità sociale e letteraria. In un mondo di sogni artificiali, la sua presa non è più la stessa di un tempo, anche perché le sue ambizioni si sono immiserite via via che l'effimero guadagnava terreno.
La narrativa "fantastica"(altro termine improprio), quando non scade nella pura commercialità, può invece rivelarsi uno strumento interpretativo, o quanto meno allusivo, più utile e fecondo. Si è parlato fin troppo del genere cyberpunk. Sta di fatto che, se qualcuno è ancora interessato ai temi dell'economia-mondo, della disumanizzazione indotta dalle tecnologie, dell'alienazione, di ciò che Marx chiamava la "sussunzione reale", non ne troverà traccia né in Susanna Tamaro, per dire il peggio, né in Sebastiano Vassalli, per dire il meglio (Paolo Volponi è un caso a parte e pressoché unico). Dovrà necessariamente ricorrere a Bruce Sterling e a William Gibson. Allo stesso modo, se vorrà sentire ancora parlare di imperialismo, dovrà leggere Lucious Shepard, Kim Stanley Robinson e gli altri autori anglosassoni di fantascienza detti umanisti. Con l'avvertenza che tutti costoro (fatta parziale eccezione per Robinson) non ne sanno mezza di imperialismo e di economia-mondo in senso wallersteiniano. Anzi, politicamente si collocano, nel caso migliore, alla destra di Craxi. Però è certo che, a furia di sognare (ma fuori dagli schemi), sono giunti a toccare brandelli di verità, e a farne oggetto di narrazione. Cosa che non è riuscita a tanti, paludati descrittori di un "reale" sempre più rimpicciolito.
E chi, meglio di certi scrittori horror come Ramsey Campbell, il primo Clive Barker, Skip e Spector ai loro esordi - ma non Stephen King, che appartiene al mercato delle saponette - è riuscito a rendere con spaventosa efficacia il disagio esistenziale, il vuoto di riferimenti, l'atrocità quotidiana della moderna "civiltà" urbana? Fatta salva l'area della cosiddetta fantasy, popolata da gnomi, elfi, maghimerlini e altre stronzate, la narrativa fantastica "di genere" o meno, se depurata dalla paccottiglia, risulta in ultima analisi l'unica forma di realismo possibile in un universo dalla realtà incerta.
Ma è inutile andare alla ricerca di nomi esotici e di riferimenti oltreoceano od oltremanica. Il fantastico italiano, pur tra le mille difficoltà di una cultura ostile, ha saputo talora disegnare con vigore e con compiuta pienezza culturale la mappa immaginaria di un'alienazione concreta. Due soli nomi. Vittorio Curtoni, in una serie di racconti scritti - si badi - negli anni Settanta, ha delineato una società in cui, a seguito di una guerra condotta con armi psichedeliche, è stato intaccato persino l' "inconscio collettivo", e un'umanità desolata si aggira smarrita tra le rovine della propria memoria, senza più consapevolezza della propria identità. Più vicino a noi Daniele Brolli, con un superbo romanzo di allucinante intensità, ha colto meglio di ogni altro la completa assenza di valori che ha reso sterili le nostre vite, facendo muovere in una cittadina balneare assunta a paradigma universale una piccola folla di psicopatici mostruosi e deliranti, rimasti paradossalmente gli unici portatori di verità.
Sono solo due esempi. Altri percorsi, anche radicalmente differenti, sono possibili. Questa rivista, pur senza eccessive pretese, nasce con l'intento di esplorarne il ventaglio, e comunque di recuperare a sinistra - una sinistra senza nome, ma combattiva e libertaria - un tema di analisi che, in Italia, è stato troppo spesso lasciato nelle grinfie di una destra odiosa, spesso addirittura nazisteggiante. Nella convinzione che la narrativa fantastica, con la sua natura di sogno consapevole, da cui si entra e si esce a volontà, costituisca un buon addestramento a evadere dai sogni imposti ed eterodiretti.


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