DI LA' DELLA RETE DI CONFINE
di Sandro Ricaldone
All'intreccio fra le pratiche letteraria e pittorica, ricorrente in molti autori del nostro Novecento (da Savinio a De Pisis, da Ardengo Soffici a Carlo Levi, allo stesso Montale (1)) non si è prestata, sinora, soverchia attenzione.
Segno, forse, di un'imprevedibile resistenza delle specializzazioni disciplinari (italianistica vs. critica d'arte) in un'epoca che si assume caratterizzata da collegamenti e connessioni intermediali, il mancato riconoscimento della contiguità fra le dimensioni poetico-narrativa e visuale dell'immagine finisce con l'alterare in certo modo la percezione complessiva della vicenda culturale italiana, oscurandone un tratto peculiare (2).
Fra gli esempi della funzione chiarificatrice che l'espressione grafica può rivestire nei confronti del modo letterario (e viceversa) uno dei più chiari s'individua nell'opera di Enrico Morovich, lo scrittore fiumano scomparso da poco più d'un anno, che alla nutrita produzione di racconti e romanzi iniziata negli anni '30 con la collaborazione a Solaria è venuto affiancando, in particolare negli anni del soggiorno genovese (1958-90), un corpus di disegni di notevole consistenza (3).
In realtà, la consuetudine di Morovich con il disegno rimonta agli anni in cui lo scrittore frequentava le scuole tecniche. "Morovich fa i pupazzetti, ma lo pupazzetterò ben io alla fine dell'anno" (4), soleva ammonire un insegnante di ragioneria ed economia politica.
Consta che, sempre in quel torno di tempo, si divertisse, su El Parco, "a vergare i primi segni graffianti della sua fantasia" (5), proseguendo poi l'attività su altri fogli studenteschi.
E, con l'autoironia di cui amava farsi schermo, lo scrittore segnala come "in assoluto il più grande ammiratore che io abbia mai avuto della mia 'arte' grafica" (6) il giovane figlio del suo capoufficio alla Banca d'Italia (7) dove si era impiegato dopo aver conseguito, nel 1924, il diploma di ragioniere.
Negli anni dell'esordio letterario, della guerra, dell'abbandono di Fiume, l'attività grafica subisce una lunga interruzione. Riprenderà solo al termine della lunga peregrinazione fra Napoli, Busalla, Lugo e Pisa che segna gli anni '50, quando - stabilitosi a Genova - "inavvertitamente, come per magia" Morovich si trova "contornato, invaso, assediato da tanti fogli di carta (...) sui quali hanno cominciato a prendere vita i volti un po' abnormi, ma non troppo, di una folla di personaggi, a me noti o sconosciuti, ma presto divenuti familiari" (8).
Sebbene, con il suo tipico understatement, Morovich li definisse in un "racconto a righe corte" rimasto probabilmente inedito "disegni senza speranza / d'uno scrittore in fase / di stanca" (9), i disegni hanno per lui un'importanza tutt'altro che marginale. Ne discute infatti con l'amico scrittore Osvaldo Ramous che lo esorta in una lettera del 16 gennaio 1972 (10) ad utilizzarli per illustrare i suoi racconti, pronosticandogli un grande successo.
Un suggerimento destinato a trovare attuazione nelle copertine di molti dei volumi moroviciani (inediti o ristampati) apparsi negli ultimi anni, ma che l'autore mostra di avere anticipato pubblicando nel 1967 nella rivista Le Arti, diretta da Garibaldo Marussi alcuni schizzi in margine ai racconti "I diavoli spenti" e "La Festa" (11).
Furono proprio questi disegni, scoperti per caso sfogliando la rivista acquistata su una bancarella, a far nascere l'idea di organizzare una piccola mostra di Morovich, conosciuto qualche tempo prima nella galleria di Caterina Gualco.
Dalla lettera del 6 novembre 1984, con la quale accetta la proposta, traspare un certo risentimento per lo scarso successo sin'allora incontrato: "Va bene l'idea di esporre qualche disegnino al "Sileno" e ringrazio in proposito anche Carlo Romano. Quando sarà il momento potrete eventualmente fare un passo da me e vedere se vi potranno andare bene dei disegnini (ormai vecchi) incorniciati ed appesi ai muri. Qualcuno è stato guardato con gran degnazione e fretta. Qualche altro è stato giudicato brutto, qualche altro ancora ha incontrato la curiosità più che l'ammirazione di qualche bambino".
Dalla mostra, che si fece nell'estate seguente, venne poi l'idea di un libriccino, "Disegni 60/70", (12), artatamente ignorato nelle bibliografie pubblicate, che uscì nel gennaio 1986 per le edizioni della libreria, suscitando positive reazioni fra i letterati amici (13).
Poi, negli anni della riscoperta dell'opera letteraria di Morovich, iniziata con le ristampe di Sellerio de "I giganti marini", originariamente pubblicato dalle edizioni Unimedia, e dei "Miracoli quotidiani", altre iniziative (14), curate in particolare da Gianni Baretta e da Bruno Rombi, hanno ampliato e consolidato il riconoscimento del Morovich "disegnatore".
S'è trattato, però, d'un riconoscimento quasi del tutto esteriore, propiziato più dall'efficacia caricaturale e dalla ludica vivacità delle figure che non sorretto da un'appropriata analisi della relazione fra la scrittura e l'attività grafica moroviciane.
Alla disattenzione degli studiosi di letteratura che hanno relegato i disegni nel ruolo ancillare dell'illustrazione hanno fatto riscontro nell'ambito della critica d'arte accostamenti non del tutto pertinenti (15) al Maccari strapaesano ed al Savinio inventore di faune in metamorfosi e qualche spericolato richiamo ai documenti scultorei e pittorici di quell'immaginario mostruoso che dall'antichità al medioevo (ed oltre) ha prodotto un esauriente campionario di combinazioni fantastiche (16).
Con riguardo ai contenuti, si sono distinte le "vignette grottesche" in cui si concentrano tratti aneddotici e satirici, dalle immagini che "familiarizzano con la caricatura" e dai "veri e propri disegni artistici d'impronta surrealista" (17).
A completare la tipologia così delineata potrebbero sovvenire altre classi: quella degli "ibridi" costituiti da figure bestiali sulle quali s'innestano volti umani, in cui Rombi scorge lo svezzamento, mosso da finalità etica, dell'animale "che è in ciascuno di noi ... attraverso i segni inconfondibili della sua fisionomia psichica" (18); una seconda erotica, ove campeggiano anatomie bizzarramente esasperate (19); d'ingenuo, memoriale paesaggismo l'ultima, con improbabili navigli alla fonda sotto cieli scanditi da nubi corrucciate.
Al di là dei riferimenti, non stilistici ma inventivi, azzardati nell'ambito delle arti contemporanee, e delle suddivisioni di genere, l'opera grafica di Morovich ripropone nitidamente il dualismo che ne anima la narrativa, ove si confrontano con mosse di continuo variate il registro naturalistico ove l'abnorme, l'evento miracoloso è accolto come svolgimento impreveduto e nondimeno necessario, ed il registro fantastico che invece si sforza di sovvertire l'ovvietà dell'esperienza sia pure in un quadro di riferimento dato da uno sfondo (la morte) comunque ineleggibile.
Ma se, per un verso, gli stereotipi del prete, del generale, del finanziere in tuba od anche gl'ibridi da baraccone che irridono la bestialità umana si rapportano al "miscuglio di cronache e di personalismi meschini" (20) che sostanziava le prove più antiche di Morovich, certi personaggi maculati e senza braccia, certi fiori parlanti, certi manichini tubiformi paiono di contro alludere ad una realtà estranea all'orizzonte umano, ma che - a dispetto della sua natura altra - ne subisce il fascino, accennando ad una sorta di correzione antropomorfica.
L'autore mostra con questi suoi esiti di volersi proiettare oltre lo schema del ribaltamento che talora lo conduce a costruire con funambolesca agilità verbale una trama ispirata ai profili svagatamente tracciati sul foglio, lasciando trasparire l'eventualità che nei suoi disegni, in taluni almeno, non siano da riconoscere mere appendici, chiose poste in margine al dato narrativo preesistente, ma la prosecuzione - in un territorio ignoto, ancora non svincolato dalla disposizione analogica del linguaggio visivo - del suo itinerario: al di là della "rete di confine" (21), dove nuove fiabe, presentite in questi racconti in cornice, vogliono germogliare".
(novembre 1995)
Note: