Questo Racconto scritto da Valerio Evangelisti per Delos n. 20, viene riproposto per diffondere conoscenza e come omaggio personale a Valerio Evangelisti.

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racconto di
Valerio Evangelisti


O GORICA TU SEI MALEDETTA

E' l'autore più acclamato del momento, forse di tutti i momenti che la fantascienza italiana abbia mai vissuto. Questa storia è uno dei pochi racconti dell'autore della saga di Eymerich, e sebbene il famoso inquisitore non sia fra i personaggi, la trama si ricollega strettamente al romanzo Le catene di Eymerich.

Rick Da Costa si fece passare il binocolo e raggiunse strisciando la feritoia della guardiola semidiroccata. Una spruzzata di nevischio gli si posò sui capelli grigi. Regolò l'oculare e si sforzò di inquadrare la salita che portava al castello. -- Ma guarda -- mormorò dopo un poco. Si lasciò scivolare lungo il cumulo di sacchi di sabbia e tornò ad accovacciarsi tra i suoi uomini. -- Hanno dei carri T-69 cinesi -- annunciò perplesso. -- Un modello completamente obsoleto.
-- Stanno venendo avanti? -- chiese il sergente Bidmead.
-- No. Li stanno semplicemente mettendo in fila. Ma non tarderanno a muoversi.
Una raffica di proiettili si schiacciò contro il muro della guardiola con un tintinnio rabbioso. -- Faremmo meglio a ritirarci -- disse Roheim, con voce calma. -- Anche se nevica, qui comincia a far caldo.
-- Sì. -- Da Costa raccolse il suo M76 finlandese, impugnandolo per il fusto fresato come se tenesse un bastone, poi saltò la cinta di sacchi che copriva i detriti del muro posteriore e corse verso la fila lontana delle baracche di lamiera. I cinque uomini che erano con lui lo imitarono, tenendosi ben distanziati. Dalla parte del castello non ci furono reazioni, a parte qualche raffica sparata a casaccio. I Poliploidi della RACHE dovevano essere intenti ad allinearsi dietro i carri, in attesa del segnale d'attacco. Le urla dei loro istruttori, che ogni tanto riuscivano ad attraversare la cortina silenziosa del nevischio, portate dal vento gelido, confermavano l'ipotesi.
Da Costa infilò il pertugio tra due pareti di lamiera cosparse di ghiaccioli anneriti. Appena dentro la baracca tirò il fiato, mentre gli altri lo raggiungevano. Il maggiore Gauss lasciò il tavolino accanto alla stufa e gli si fece incontro sorridendo. I soldati stravaccati ai quattro angoli della stanza continuarono invece a giocare a carte come se nulla fosse.
Svolse la sciarpa arrotolata attorno al colletto privo di mostrine e si avvicinò alla stufa. -- Stanno preparando un attacco coi carri, maggiore. Almeno credo. T-69, una dozzina circa.
Gauss si accarezzò il mento mal rasato. -- T-69? Sono anni che non ne vedo uno.
-- Anch'io. -- Da Costa allungò le mani verso la piastra quasi incandescente, cercando di riscaldarsi. I suoi uomini si radunarono in un angolo della stanza, ignorati dagli altri. Tra mercenari e soldati regolari della Euroforce non correva buon sangue.
Gauss guardò soprappensiero il panorama di squallore che si scorgeva dalla finestra, appannato dal vapore acqueo. I pochi edifici superstiti della cittadina recavano i segni del fosforo e del napalm. Dopo mesi di bombardamenti qualcosa si era alterato anche nell'aria. La neve, che cadeva ininterrottamente, al buio aveva una luminescenza strana, intensa. Una bruma gialla e malaticcia si sollevava a tratti dal suolo, in volute dense. Il cielo era grigio e vuoto, e grigie erano anche le poche foglie avvizzite rimaste sugli alberi. -- E' curioso che la RACHE pensi a un attacco frontale. Finora ha condotto la guerra alla maniera medievale, con assedi e imboscate. Lei, che ha combattuto con loro, saprebbe spiegarmelo?
-- Ho combattuto con la RACHE finché il mio governo la appoggiava -- rispose Da Costa, un po' piccato. -- Adesso quel governo non esiste più. Comunque la spiegazione è semplice. Da quando hanno preso il castello, sono loro che rischiano di trovarsi nei panni degli assediati. Questo movimento di carri mi ha l'aria di una sortita preventiva.
-- Allora ci sopravvalutano. Siamo ben lontani dall'averli circondati. -- Il colonnello indicò una bottiglia sul tavolino. -- Vuole bere qualcosa?
-- Che cos'è?
-- Un'acquavite di prugna che fanno da queste parti. O meglio, che facevano quando i pruni esistevano ancora. Non me ne chieda il nome.
-- E' proprio quello che fa per me.
-- Allora si serva, mentre io informo il comando.
Da Costa pulì il collo della bottiglia col palmo della mano e inghiottì una sorsata. L'acquavite scaldava, ma bruciava lo stomaco. Rimpianse per l'ennesima volta i rhum vellutati del Guatemala e del Nicaragua, quando gli Stati Uniti erano ancora una potenza e i consiglieri militari se ne stavano acquattati nelle retrovie. Per non dire del clima, e della trasparenza del cielo...
Gauss riattaccò il telefono da campo. -- Dobbiamo restare fermi. Tenerli d'occhio ma stare fermi. -- Fece una smorfia di disgusto. -- Pare che sia imminente un'iniziativa diplomatica.
Bidmead, che confabulava con i compagni, si girò di scatto. -- Cosa? Ci sta prendendo in giro?
Gauss era poco abituato a sentirsi interpellare da un subalterno in quei termini. Squadrò l'interlocutore. Un ragazzone biondo con una tuta mimetica di fantasia, da cui faceva capolino una maglietta nera recante la scritta "Eat lead... you lousy red!". Storse la bocca. -- Gli ordini sono ordini, sergente. Il comando sa quello che fa.
Bidmead non si lasciò intimidire dal richiamo al suo grado. Alzò le spalle. -- Non so perché diamo retta a voi tedeschi. Finora abbiamo perso una battaglia dopo l'altra. -- Emise un rutto per sottolineare il suo disprezzo.
Il faccione rosso di Gauss si alterò. Da Costa ritenne prudente intervenire. -- Chi le ha risposto, al comando? Il generale Macrì?
-- No, quello è passato dall'altra parte -- borbottò Gauss, distraendosi momentaneamente. -- Era Schlegel, il capo di stato maggiore. -- Indicò Bidmead, mentre gli occhi gli si rimpicciolivano. -- Ha sentito quello che ha detto? E' un suo uomo, no?
Da Costa lo guardò con aria ironica. -- E cosa dovrei fare? Punirlo? -- Poi, a bassa voce, spinto da un rancore soffocato per troppo tempo: -- Questa guerra è tutta vostra, e l'Euroforce è tutta tedesca. Lo sanno anche i sassi. Ma ci lasciaste almeno combattere...
-- Lei come si permette di... -- cercò di replicare Gauss. Le labbra gli tremavano tanto per la sorpresa e lo sdegno che la frase si risolse in un balbettio.
-- Mi permetto eccome -- proseguì Da Costa, in tono piano ma fermo. -- Due anni fa avete chiamato a raccolta i freedom fighters di tutto il mondo contro la RACHE. Ed eccoci impantanati in una guerra fatta di trattative e ritirate, ritirate e trattative. Tutto perché la Germania conta di raggiungere l'Egeo con i propri TIR carichi di lavatrici senza troppe dogane tra i piedi.
Alcuni soldati della Euroforce rannicchiati lungo le pareti si alzarono in piedi, cupi in viso. Il gruppetto dei mercenari si strinse attorno a Da Costa, come se dovesse proteggerlo da un'aggressione imminente. In quel momento, però, giunse dall'esterno il fragore di un'esplosione, seguita da altre due.
Roheim corse alla porta e mise fuori la testa. -- Ehi -- gridò, -- i carri si muovono! Ci stanno attaccando! --

Il sergente Grol correva alle spalle dei carri armati in movimento con un diavolo per capello. Le compagnie di Poliploidi stentavano a coordinarsi, e vagavano qui e là come orde di ciechi. Parecchi uomini - ma era lecito chiamarli uomini? - erano già finiti sotto i cingoli, dopo avere inciampato sulla neve. Uno di essi si era sollevato senza un braccio, e ora roteava su se stesso lanciando attorno spruzzi di sangue.
Strattonò per la manica un caporale istruttore, smarrito quanto lui. -- Ma non c'è modo di allinearli? -- urlò. -- Qui è un manicomio!
Il caporale, un giovane dai capelli biondi tutti arruffati, scosse la testa. -- Il ghiaccio ha ricoperto le fotocellule dietro i carri. Loro seguono le fotocellule.
-- E cosa aspettate a ripulirle?
-- Il ghiaccio è tanto carico di fosfati e di altre porcherie che sembra colla. E poi cercare di toglierlo è troppo pericoloso. Senza il segnale, da un momento all'altro i Poliploidi possono cominciare a sparare avanti, a casaccio. -- Il giovane allargò le braccia con aria infelice. -- Sono abituati così.
A conferma delle sue parole, proprio in quel momento un Poliploide sollevò l'AK 47 e fece partire una raffica. Un paio di proiettili trafissero un compagno, che continuò a camminare come se nulla fosse. Gli altri colpi rimbalzarono contro la corazza posteriore del carro che sferragliava davanti al gruppo. Un carrista, sorpreso, sollevò per un attimo la testa fuori della torretta, ma la riabbassò subito e chiuse lo sportello.
Grol alzò le braccia, esasperato. -- Un manicomio! Un manicomio! -- Dai primi ranghi partirono altre raffiche, finché l'intera massa dei Poliploidi cominciò a sparare alla cieca, inseguendo i carri che acquistavano velocità nella discesa. Pareva un torrente di lava che lanciasse improvvisi zampilli di fuoco sparsi per la sua colata, mentre scendeva la collina in direzione di una città soffocata da una nebbia pesante.
Grol, che si era gettato a terra, dopo qualche secondo si rialzò, aggiustandosi il berretto sformato. -- Be', se non altro vanno nella direzione giusta -- mormorò all'istruttore, in ginocchio al suo fianco.
Quello non rispose. Lo osservò e vide che un proiettile piovuto da chissà dove gli aveva trapassato la gola, trasformandolo in una statua intenta a pregare un dio che non era da nessuna parte. Alzò le spalle e si avviò con calma verso la cinta poligonale del castello. Non aveva lacrime da dedicare alla morte di un imbecille.
Vicino al posto di guardia un cartello scritto a mano, quasi sepolto dalla neve fosforescente, informava che quella era la sede del governo della Balcania occidentale, di cui Gorica - un tempo Gorizia - era la capitale. Si trattava di pietose finzioni. La Balcania non aveva altro governo che la RACHE, a meno che non si volesse chiamare governo l'accolita di fantasmi che sedeva a Sofia, e che di Gorica ignorava anche l'esistenza. Quanto alla presunta "capitale", ora somigliava a un ammasso di rovine e baraccamenti di fortuna, contrassegnati dalle bandiere bucherellate degli eserciti che si contendevano quell'immondezzaio coperto di ghiaccio luccicante.
Il cortile era gremito di militari affaccendati attorno ai camion. Una troupe televisiva riprendeva anche i dettagli più irrilevanti della scena, ma soprattutto soffermava le telecamere su un gruppetto di civili rannicchiati vicino al pozzo. Erano una quarantina, tra uomini, donne e bambini, legati tra loro con corde e catenelle. Si distinguevano un paio di preti e una ragazza cinese che stringeva una bambina bionda. Nei loro occhi, più che il terrore, si leggeva uno smarrimento totale, come se non capissero nulla di ciò che accadeva attorno.
Notò di sfuggita un Poliploide isolato, poco distante. Teneva la bocca spalancata protesa verso l'alto, come se cercasse di inghiottire il nevischio inquinato che cadeva dalle nubi. Sapeva della sete continua che squassava quelle creature, frutto del bisogno di nutrimento di una massa di cellule in costante moltiplicazione. C'era però nella posa del Poliploide qualcosa di infantile, come se ripetesse il gesto fatto da bambino quando cercava di afferrare tra le labbra qualche fiocco di neve. Magari, in un altro contesto, qualcuno si sarebbe intenerito. Ma Grol non sapeva cosa fosse la tenerezza, specie nei confronti di un mostro.
Il tenente Kolov usciva in quel momento dall'ala dell'edificio che ospitava il comando. Grol gli corse incontro, scostando in malo modo due camerati che scaricavano dai camion alcuni orrendi dipinti rastrellati chissà dove. Vedendolo, Kolov aggrottò lo sguardo. -- Adesso non ho tempo, sergente. Devo occuparmi della televisione.
Grol, affannato, cercò di calmare il respiro. -- E' una faccenda seria. I Poliploidi sono sfuggiti al controllo. Sparano da tutte le parti.
Sul viso sottile di Kolov apparve un'espressione altera e vagamente ironica. -- Non le hanno insegnato a salutare i superiori, sergente? -- scandì. -- Con chi crede di avere a che fare?
Preso in contropiede, Grol abbozzò un saluto impacciato. -- Ma...
-- Così va meglio. E ora mi dica. I Poliploidi camminano nella direzione giusta?
-- Intende verso la città? Sì, però...
-- E allora non mi interessa altro. E se non interessa a me, non deve interessare nemmeno a lei. Piuttosto, mi dia una mano. -- Indicò il gruppo infreddolito dei prigionieri. -- Vede quelli lì?
-- Sì. -- Grol si chiese se il tenente fosse ubriaco, ma non osò fare osservazioni. -- Sì, li vedo.
-- Li porti davanti alle telecamere, uno a uno. Torca loro le braccia dietro la schiena, li tiri per i capelli, li percuota. Voglio primi piani di visi sofferenti, non di visi inebetiti. Mi ha capito?
-- Sì, tenente. -- Grol capiva bene il senso di quell'ordine. L'opinione pubblica poteva anche credere che la RACHE uccidesse i prigionieri. Quello che invece doveva ignorare, o fingere di ignorare, era che faceva dei più robusti altrettanti Poliploidi, dopo averli immersi nelle grandi vasche di Karlovac in cui ribolliva un enzima dal nome impossibile. Guerrieri stupidissimi ma quasi invulnerabili, con organi si moltiplicavano di continuo per effetto del mutagene. I Poliploidi morivano da soli quando il numero dei loro cuori, polmoni e reni diventava eccessivo in rapporto alla stazza corporea. Oppure quando venivano letteralmente squarciati o carbonizzati dalle esplosioni. Ma un unico proiettile non poteva danneggiarli seriamente, e a volte nemmeno una raffica.
Camminò verso i prigionieri con aria indifferente. Delle loro vite e dei loro sentimenti non gli importava nulla di nulla. Se stava con la RACHE era perché credeva in un mondo di uomini forti, in cui l'aristocrazia era costituita da gente superiore alla pietà. Quella visione grandiosa, di una ferocia piena di fascino, lo aiutava a sopportare le angherie degli ufficiali, e a dimenticare quelle - davvero atroci - subite quando era un ragazzetto, a Maribor. Ora stava con chi aveva il coltello dalla parte del manico, e per nessuna ragione al mondo avrebbe messo a rischio la sua nuova posizione.
Diede un calcio nelle costole di un ometto dagli abiti coperti di neve. -- Su, alzati! -- ordinò seccamente. Quello cercò di ubbidire, ma inciampò nella catenella che gli stringeva la caviglia e ricadde con la schiena contro il pozzo. Irritato, Grol lo sollevò per le braccia, poi, quando fu ritto, gli diede uno schiaffo sonoro. Il volto molliccio dell'ometto scattò dall'altra parte, poi tornò al suo posto contratto nell'espressione di chi sta per mettersi a piangere. Gli altri prigionieri si fecero indietro, tendendo i legami. La ragazza orientale coprì gli occhi della bambina bionda e la strinse al petto.
-- Non così -- disse il cameraman, avvicinandosi. -- Queste immagini finiranno sulle televisioni estere.
-- Fai il tuo lavoro e risparmia i commenti -- abbaiò Grol. Tra sé sogghignava. Quell'idiota non sapeva che la RACHE ci teneva a esibire brutalità. Non solo l'effetto era dissuasivo, ma risultava attraente per chi condivideva i suoi ideali di forza barbarica. Il colonnello Selerum, l'uomo forte della RACHE nella Balcania occidentale, aveva persino incaricato un'agenzia di diffondere per il mondo storie di stupri a decine di migliaia e di episodi di ferocia inaudita, amplificando la realtà effettiva di una guerra che si trascinava a rilento. Se si voleva che l'umanità tornasse ai valori originari del ferro, del sangue e del fuoco occorreva liberare le coscienze, in forma selettiva, da ogni remora all'accettazione di un'etica guerriera.
Afferrò l'ometto per i capelli e fece cenno alla telecamera di avvicinarsi. Ai suoi piedi, un paio di donne piangevano sommessamente. Meglio. La scena sarebbe riuscita più drammatica.
-- E' un ebreo? -- chiese il cameraman, mentre azionava lo zoom.
-- No, di ebrei non ce ne sono più -- rispose Grol, distrattamente. -- Però è un mondialista. -- Il termine, che non significava nulla, era entrato nell'uso a indicare chi non aveva un'etnia precisa, e legami di sangue o di campanile da difendere. In pratica, era una generica espressione di disprezzo, senza coloriture ideologiche. -- Con i suoi amici cercava di attraversare le linee per passare dall'altra parte.
-- Che stupidi -- borbottò il cameraman. -- Come se di là li accogliessero a braccia aperte.
-- Già. -- Grol torse i capelli dell'ometto finché quello non si mise finalmente a singhiozzare. Allora lo spinse a terra e si avvicinò alla ragazza cinese, per costringerla ad alzarsi. In quel momento, però, l'eco degli spari dei Poliploidi che giungeva dall'esterno cessò di colpo, sostituito da un silenzio improvviso. Guardò interrogativamente Kolov, che chiacchierava poco lontano col capo della troupe televisiva.
L'ufficiale sembrava turbato. Lo chiamò vicino a sé. Grol lasciò la spalla della donna e ubbidì.
-- Corri fuori -- ordinò Kolov, accigliato. -- Vai a vedere cosa sta succedendo. --

Da Costa guardò senza capire l'orda nemica che sospendeva improvvisamente il fuoco e si arrestava vicino alla prima fila di baracche, subito dietro la linea dei T-69. Per un quarto d'ora i Poliploidi avevano proceduto a ventaglio, sparando in tutte le direzioni. Un volume di fuoco impressionante, ma del tutto inefficace. Più di una volta aveva avuto l'impressione che si colpissero l'un l'altro, quasi per gioco. L'esito era ogni volta strano e impressionante. Il Poliploide ferito roteava su se stesso, poi continuava ad avanzare indifferente al sangue che gli scorreva sulla divisa nera.
L'artiglieria leggera dell'Euroforce abbatteva regolarmente i primi ranghi, ma nuovi Poliploidi si facevano avanti, calpestando i caduti. Un attimo dopo anche questi si rialzavano in piedi, e riprendevano la loro marcia disordinata come se nulla fosse stato. Almeno, fino a un istante prima. Ora, invece, sostavano tutti con le armi in pugno, lo sguardo perso nella contemplazione del vuoto. Anche i carri si erano arrestati senza motivo apparente, forse consci che quella fanteria demenziale aveva smesso di seguire i sentieri tracciati dai loro cingoli.
Da Costa scosse il capo, come per riscuotersi, e si guardò alle spalle. L'Euroforce stava indietreggiando verso il fiume, abbandonando le baracche al passo irregolare degli avversari. Il ruolo dell'artiglieria era platonico: scariche furiose, ma senza aggiustare la mira. Quanto all'aviazione, neanche a parlarne. Eppure un paio di bombe, tra il castello e le baracche, sarebbero state sufficienti a spazzare la collina. Sembrava l'annuncio di una sconfitta voluta.
Raggiunse con calma il maggiore Gauss, che seguiva i propri uomini badando a tenerli ordinati. Per costringerlo a voltarsi dovette scuoterlo per la manica. -- Hanno smesso di sparare -- annunciò secco. -- Come per invitarci a una controffensiva.
Gauss, infastidito, fece cenno di no. -- Nessuna controffensiva. Gli ordini sono questi.
-- Gli ordini dell'Euroforce -- replicò Da Costa, indignato. -- Va bene. Io e i miei uomini, però, non siamo abituati a ritirarci senza combattere.
Gli occhi dell'ufficiale si rimpicciolirono, ostili. -- Mi ascolti. Questa non è la sua guerra, lo ha detto lei stesso. Lei è una specie di missionario che corre qua e là per il mondo alla ricerca di comunisti. Ma qui non c'è nessuna ideologia da combattere o da difendere. Se vuole darci una mano, bene. Però deve rispettare la volontà del comando. In caso contrario, può anche andarsene.
-- E' proprio quello che farò. -- Segretamente Da Costa si sentiva umiliato. Nelle parole di Gauss c'era una verità che non riusciva ad ammettere né a concepire in modo conscio.
-- E allora cosa aspetta?
Da Costa guardò Bidmead, che attendeva a qualche passo di distanza con espressione interrogativa. -- Vai a radunare Roheim, Riccardi, Felsen e gli altri. L'Eurobank ha deciso di rinunciare ai nostri servigi.
Bidmead sogghignò. -- Forse non ha più fondi per pagarci il soldo. -- Corse verso i commilitoni in marcia alla volta del fiume, grigia striscia di liquame priva di vita come tutto il resto.
Gauss alzò le spalle. -- Stia attento a non intralciarci. Potrebbe avere delle sorprese. -- Si allontanò sotto il nevischio, che stava assumendo una tonalità nerastra.
Da Costa, un po' turbato, attese che i suoi uomini lo raggiungessero. Erano una quindicina, fasciati con tute grigioverdi poco adatte al colore sbiadito del contesto. Sui visi grossolani e inespressivi era percepibile una sfumatura di perplessità. La colse e si sforzò di parlare in tono convincente. -- Quei vigliacchi si stanno ritirando ancora una volta. Proprio mentre l'offensiva si è arrestata, e quelli della RACHE se ne restano impalati ad aspettare i nostri colpi. E' chiaro che c'è sotto qualche intrigo diplomatico. Ma noi siamo qua per vincere, anche senza il permesso di Schlegel.
Roheim guardò oltre le baracche, in direzione del castello. -- Se hanno smesso di avanzare ci sarà un motivo. Quelli non sono uomini, sono robot. Agiscono a comando.
-- Motivo in più per far saltare i loro schemi. -- Da Costa fece scivolare di spalla l'M76. Lo impugnò con la sinistra, mentre con la destra inseriva la mezzaluna del caricatore. -- Voi sapete chi abbiamo di fronte. Sono uomini sintetici, privi di intelligenza. Se li prendiamo di sorpresa possiamo farne una marmellata. Ve la sentite?
-- Sì, ma chi paga? -- chiese El Carnicero. -- Il governo americano? Il governo italiano?
Da Costa contemplò il viso segnato dagli anni dell'ex contra nicaraguense. Forse nemmeno lui si rendeva conto che i tempi erano cambiati. -- Nessuno dei due esiste più, dovresti saperlo. Adesso abbiamo Eurobank da una parte e RACHE dall'altra. Forse saremo costretti a pagarci da soli. Ma penso che se faremo fuori un bel po' di Poliploidi, l'Euroforce dovrà riprenderci. -- Girò le spalle agli altri e si avviò in direzione del castello. -- Va bene, chi vuole venga con me, chi non vuole vada all'inferno.
Il clangore degli zaini, delle cartuccere e delle armi caricate gli confermò che il grosso degli uomini era con lui. Sorrise tra sé e si infilò in mezzo alle baracche, coperte di ghiaccioli che odoravano di zolfo.
Il manipolo scivolò tra pareti di lamiera, scavalcando di tanto in tanto i corpi congelati dei civili che non avevano lasciato Gorica abbastanza in fretta, quando la RACHE si era impadronita della città. D'un tratto scorsero la mole pesante di un T-69 messo di sghimbescio. Si abbassarono in fretta, acquattandosi dietro un cumulo di rottami senza forma.
Il capocarro era montato sulla cupola del cingolato e gridava qualcosa agli uomini all'interno. Sembrava sorpreso, e ce n'era ben motivo. Sulla collina davanti a lui l'orda dei Poliploidi sostava immobile come una foresta di statue, contemplando il cielo denso di nevischio e di vapore torbido. Da Costa posò il fucile e portò agli occhi il binocolo che gli pendeva dal collo. -- Incredibile -- mormorò a Roheim, inginocchiato vicino a lui. -- Tutti i mostri sono a bocca aperta e muovono le mandibole. Sembra che mangino la neve.
-- Cosa vorrà dire?
-- Non lo so, ma qualcosa dev'essere andato storto, dalla loro parte. Cerchiamo di approfittarne. Abbiamo delle mine magnetiche?
-- Un paio.
-- Fammi saltare quel carro.
Roehim rotolò su se stesso fino a portarsi accanto a Lepic, che stringeva una cassetta metallica. Armeggiò un poco con la serratura, poi si alzò e scattò di corsa, reggendo qualcosa tra le mani. Quando fu vicino al T-69 il capocarro lo scorse, lanciò un grido e cercò di scendere nel cingolato. Un colpo solo, sparato da Da Costa, gli trapassò il cranio. Prima che la torretta potesse muoversi Roheim applicò la mina magnetica al retro dello scafo e corse via con quanto fiato aveva in corpo. Si videro i carristi che cercavano di uscire. Troppo tardi. Un rombo spaventoso, seguito da una fiammata altissima, li fece a pezzi e lacerò le paratie d'acciaio del carro. Una nube di fumo nero oscurò la scena.
Da Costa aiutò Roheim a tornare dietro il riparo. -- Pronti a far fuoco! -- urlò. -- Tra breve sbucheranno dal fumo. Stesi i primi, ci ritiriamo dietro l'ultima fila di baracche.
Trascorsero alcuni minuti carichi di tensione, in una quiete innaturale. Si udivano gli altri carri sferragliare, ma il suono sembrava molto distante. Poi il vento gelido sfrangiò la colonna di fumo e la disperse. Dietro al rottame del T-69 i Poliploidi erano immobili al loro posto, con le bocche spalancate verso il cielo. Centinaia e centinaia di bocche spalancate.
-- Non riesco a capire -- brontolò Bidmead. -- Perché sono rimasti fermi?
Da Costa regolò il binocolo con dita febbrili. Dopo qualche istante lo lasciò cadere sul petto, sbalordito. Fissò gli uomini che gli stavano attorno. -- Non sono fermi. I loro corpi si muvono. Sembra che... -- Cercò le parole. -- Sì, sembra che pulsino. Come tanti mantici animati dall'interno. --

Grol cercò di rientrare nel cortile del castello, ma soldati e ufficiali ne stavano uscendo in massa per contemplare la scena che si svolgeva ai piedi della collina. Già da un pezzo la troupe televisiva aveva spostato all'aperto la propria postazione, pronta a filmare la battaglia imminente. Ora, però, i tecnici avevano spento le telecamere e cercavano di capire cosa stava accadendo in basso.
Un uomo alto, dai lineamenti che sembravano intagliati nel legno, si fece largo tra la calca dei curiosi. Finì per trovarsi di fianco a Grol. -- E' vero che hanno fatto saltare un carro in barba agli accordi? -- chiese brusco.
-- Sì, colonnello. -- Grol aveva riconosciuto Mirko Selerum, il comandante di Gorica. Avrebbe voluto chiedergli a quali accordi si riferiva, ma non osava. Si limitò ad aggiungere: -- C'è di più. I Poliploidi se ne stanno fermi con il naso in aria. Sembrano impazziti.
-- Già, lo vedo -- mormorò Selerum, accigliato. Il tratto di discesa prossimo alle prime file di baracche era gremito di uomini semisintetici, con la testa piegata all'indietro. -- Cerca qualcuno della divisione scientifica e portamelo qui.
L'ordine fu facile da eseguire. Una buona metà degli ufficiali della RACHE era composta da scienziati. Non a caso RACHE stava per Rassenchemie, chimica della razza. Un'organizzazione fondata molti anni prima da militari e uomini di scienza, con ruoli spesso intrecciati e una comune concezione feudale del potere. Grol scovò un maggiore della Wissendiv intento a osservare col binocolo il carro che bruciava lontano. Un uomo con i gradi cuciti sul camice, dall'aria molto professionale. Lo trascinò da Selerum, poi attese poco distante.
Il colonnello guardò il nuovo venuto. -- Voglio un'analisi chimica del nevischio che sta cadendo in questo momento. Quanto tempo le occorre?
-- Oh, l'abbiamo già fatta. -- Il maggiore fece uno sforzo per ricordare. -- Tracce di fosfati e di acetili. Sicuramente lasciate dalle bombe al fosforo lanciate nei mesi scorsi.
-- I Poliploidi sembrano avidi di quelle sostanze. Sa dirmene la ragione?
Il maggiore aggrottò le sopracciglia. -- L'unica che mi viene in mente è che acetili e fosfati intervengono nella divisione delle cellule. Più precisamente al termine della fase detta G1. Agiscono come fattori di crescita, capaci di sopraffare gli inibitori.
Selerum sussultò. -- Tutti gli inibitori?
-- Sì, tutti. Incluso quello da contatto reciproco. In pratica, forti dosi possono risultare cancerogene. Consentono alle cellule di moltiplicarsi l'una a ridosso dell'altra.
-- Ma il codice genetico dei Poliploidi è studiato apposta per impedire il disordine cellulare.
-- Allora si avrà una crescita ordinata, ma libera dal condizionamento degli inibitori.
Il viso di Selerum si oscurò. -- Vuole dire che le cellule potranno moltiplicarsi senza freno?
-- Temo di sì, e molto rapidamente. I Poliploidi vengono trattati in modo da innescare processi spontanei di reazione a catena. Lei lo sa meglio di me.
-- Allora, tra breve, ne vedremo delle belle. -- Selerum si guardò attorno e vide le telecamere. -- Ehi, voi! Portate via quella roba! -- abbaiò. I suoi occhi si posarono su Grol. Gli fece un cenno. -- Mi cerchi un marconista. Gli dica di venire qua con tutto il baracchino. Senza perdere tempo.
Grol scattò verso il castello, facendosi largo a spintoni tra la truppa di ogni grado che continuava a osservare la schiera immobile dei Poliploidi. Attraversò il cortile scivolando più volte. I prigionieri erano ancora appoggiati al pozzo, pallidi per il freddo. La troupe televisiva stava rientrando trafelata, spingendo la gru e trascinando bobine di cavo. Dopo parecchie ricerche trovò l'uomo che cercava nel decrepito edificio che un tempo veniva chiamato Palazzina dei Conti, tra la prima e la seconda cinta di mura. Gli trasmise l'ordine e lo seguì mentre, carico di un telefono da campo vecchio modello, valicava il ponte coperto dallo scheletro ghiacciato di un rampicante.
Selerum afferrò la cornetta con aria impaziente. -- Sono io... Sì, ha capito. Si prepari a bombardare la terra di nessuno. -- Una pausa, poi: -- Capitano, non mi costringa a ripetere l'ordine. So benissimo che ci sono truppe nostre... Ecco, così va bene. Però aspetti il mio segnale. -- Riagganciò e guardò il giovane mingherlino che reggeva l'apparecchiatura. -- Adesso mi chiami il generale Schlegel dell'Euroforce. Conosce la frequenza.
Grol si chiese se non fosse il caso di allontanarsi. L'occasione era ghiotta ma pericolosa. Ascoltare il colloquio telefonico tra due ufficiali di rango, appartenenti a schieramenti contrapposti, poteva costargli il grado, e forse anche la vita. Ma nessuno sembrava fare caso a lui, e sia il maggiore della Wissendiv che il marconista erano nella sua stessa posizione. Decise di rimanere.
-- Schlegel? -- disse Selerum dopo un poco, aggiustando la cornetta all'orecchio. -- Sto per dare un ordine imprevisto. Bombardare i Poliploidi. Ho voluto avvertirla perché lei non pensasse a un'aggressione... Creda, le sto dicendo la verità, ma non posso parlargliene per telefono. Se vuole venire qui... Sì, tanto i miei ufficiali sono informati. Ho anche fatto spegnere le telecamere -- Ci fu un lungo silenzio, poi le labbra di Selerum si piegarono in un sogghigno. -- Allora siamo d'accordo. Le chiedo solo una cosa. Qualcuno dei suoi ha fatto saltare un nostro carro, poco fa. Sì, un imbecille... Va bene, me li porti, ci pensiamo noi. A tra poco: non farò iniziare il bombardamento finché lei non sarà qua.
Riagganciò e guardò i subalterni. -- Tra breve avremo visite. Tornate alle vostre occupazioni. -- Girò loro le spalle e si avviò a grandi passi verso il castello, indifferente al saluto della piccola folla di militari dalle divise inzuppate.

Da Costa guardò sbalordito le armi puntate su di lui. Poi allo sbalordimento subentrò la collera. -- No che non alzo le mani! Perché dovrei? Che autorità ha lei per ordinarmelo?
Gauss sogghignò. -- Le avevo detto che facendo di testa sua andava incontro a sorprese. Su, non faccia storie. -- Si rivolse ai soldati che lo attorniavano, indicando il gruppetto dei mercenari. -- Disarmateli, e se cercano di reagire fate fuoco.
Da Costa gli si avvicinò, furente. -- Pagherà per tutto questo!
-- Crede che l'iniziativa sia mia? Si illude. Fosse stato per me, l'avrei lasciata andare al diavolo. No, l'ordine viene da Schlegel in persona.
-- Schlegel?
-- Sì, e tra un attimo glielo confermerà lui stesso. Adesso posi a terra tutte le armi che ha addosso. Lentamente.
Tremante di rabbia Da Costa obbedì. I suoi uomini fecero lo stesso, pallidi e inquieti. -- Bene -- commentò Gauss. Indicò la mole lontana del castello. -- Adesso andiamo lassù.
-- Lassù? -- urlò Da Costa. -- Ma allora è un tradimento!
-- No, nessun tradimento. E' solo che... -- Si interruppe. Una jeep coperta era sbucata in fondo alla via e puntava diritto su di loro. Si arrestò con una sgommata.
Gauss corse allo sportello di sinistra e lo aprì con premura. Ne scese un uomo massiccio, dai lunghi capelli bianchi fluttuanti sul colletto irto di stellette che emergeva dal cappotto verdognolo. Aveva lineamenti molli, segnati dalla stanchezza. Rispose al saluto di Gauss portando due dita alla visiera. -- Ha preso quegli idioti? -- chiese senza preamboli.
Gauss indicò il gruppetto dei mercenari. -- Sì, generale. Eccoli lì.
Schlegel non voltò nemmeno la testa. -- Allora andiamo. Dobbiamo sbrigarci, perché sembra che stia per capitare qualcosa di strano ai Poliploidi. E noi dovremo passare in mezzo a loro.
Da Costa si trovò spinto in avanti dalla canna di un M16. Camminò meccanicamente, con la sensazione di calcare dell'ovatta. Aveva smarrito di colpo le coordinate della scena, della guerra, di tutto. L'alta figura di Schlegel, che camminava avanti, sembrava l'unico punto di riferimento. Che fosse tutto un parto di quel nevischio onirico, sporco e luminescente?
Dovette sfiorare, nella terra di nessuno, i corpi grotteschi dei Poliploidi, sempre immobili con la testa spinta all'indietro, protesa a inghiottire tutto ciò che cadeva dal cielo plumbeo. I loro ventri enormi pulsavano, si espandevano, come se subissero le doglie di un parto mostruoso. Stringevano ancora le armi, ma le tenevano puntate verso terra come un inutile ingombro. I loro impulsi vitali sembravano essersi trasferiti per intero alle bocche spalancate, intente a masticare ghiaccio sudicio e i frammenti di fuliggine sospesi nell'aria.
Verso la metà della salita gli venne l'idea di impadronirsi del fucile di uno dei mostri. La scartò subito. Dove avrebbe potuto fuggire? Incrociò lo sguardo smarrito del Carnicero, poi quello teso di Roheim. Si chiese come fossero potuti finire in una guerra di cui non si capiva nulla.
Non aveva mai visto Selerum, ma fu certo che fosse lui l'uomo massiccio in attesa sulla sommità della collina, davanti alle mura del castello. Sorrideva a Schlegel come se fossero vecchi amici, e certo non era uomo da sorridere spesso. Capì di non avere speranza. Tante guerre combattute in nome di niente trovavano in una guerra fatta di niente il loro coerente epilogo.

Grol, in compagnia del tenente Kolov e di sei commilitoni, osservava con curiosità il gruppo che saliva il pendio, attraversando in fretta le file dei Poliploidi impazziti. Selerum, poco distante, stava già stringendo la mano del generale Schlegel con imbarazzante cordialità, mentre un caporale li riparava con un ombrello.
-- Ecco i prigionieri da prendere in consegna. -- Kolov indicò una quindicina di individui dall'aria stravolta, stretti in mezzo ad altrettanti soldati dell'Euroforce. Si distinguevano da questi ultimi per le divise trasandate prive di gradi o mostrine, e irte di spille, di adesivi o di piccoli teschi di latta. Torse le labbra in una smorfia di disprezzo. -- Dilettanti della guerra, reclutati con annunci su Soldier of Fortune. I peggiori soldati del mondo. Trattateli come meritano.
-- Dove li mettiamo? -- chiese Grol.
-- Oh, nelle cantine. Ma tenga separato quello con i capelli grigi. Dev'essere il capo. -- Kolov strinse gli occhi per osservarlo meglio. -- Giurerei che quella faccia non mi è nuova.
Gli uomini spianarono gli AK47 e andarono incontro al plotone dell'Euroforce. Tra i due gruppi non vi furono né saluti né espressioni di ostilità. Semplicemente, i soldati della RACHE fecero cenno ai prigionieri di seguirli, mentre quelli dell'Euroforce allargavano i ranghi. I mercenari ubbidirono con scontrosa docilità, tenendo lo sguardo fisso al suolo incrostato di ghiaccio luminescente.
Grol si mise alle spalle dell'uomo dai capelli grigi e gli puntò il fucile alle reni. Lo spinse fuori del gruppo, costringendolo a camminare verso Kolov. -- Ecco la preda più grossa, tenente -- annunciò, quando furono in cima alla salita.
Il viso dell'ufficiale assunse un'espressione sardonica. -- Ma sì che lo conosco! Rick Da Costa, consigliere militare dell'esercito degli Stati Uniti, quando esistevano ancora! -- Fece un passo verso il prigioniero. -- Come va, Rick?
-- Che domanda idiota -- borbottò Da Costa, sollevando la testa e fissando Kolov negli occhi.
Il tenente non se la prese. Con un gesto ordinò ai soldati di condurre gli altri mercenari nel castello, poi tornò a guardare il prigioniero, tenuto a bada dal fucile di Grol. -- Tradire la RACHE non ti ha portato fortuna, mi pare.
Da Costa alzò le spalle. -- Io non ho tradito nessuno. Adesso che non ho più un governo, vado con chi mi paga meglio.
-- Sei tu che hai fatto saltare il nostro carro?
-- Sì. E allora?
Kolov fece una risatina. -- Non hai capito proprio niente. Non sai che tra RACHE ed Euroforce esiste un accordo?
-- Cominciavo a sospettarlo. -- Da Costa indicò Selerum e Schlegel, intenti a conversare a bassa voce vicino al ponte, sotto il grande ombrello. -- Adesso ne ho la prova.
-- Sono mesi che combattiamo battaglie fasulle, buone per la televisione. All'Eurobank della Balcania non importa nulla. Ai suoi occhi non ha nessun valore economico. Oh, sì, produce un po' di legname, un po' di carbone, qualche minerale. Ma sul mercato finanziario non conta niente di niente. L'Eurobank l'ha già data per persa. Lo immaginavi?
Da Costa sulle prime non rispose, poi sbottò: -- Voi riunite il peggio dei fascisti e dei comunisti. Sarà una guerra falsa, ma siete stati voi a iniziarla. -- Mentre diceva queste parole, capiva che si trattava di frasi insensate. Ma doveva pure dire qualcosa di accusatorio, o la mancanza di dignità della sua posizione gli sarebbe riuscita intollerabile.
Kolov sorrise. Guardò Grol, che seguiva la conversazione con disinteresse. -- Lei, sergente, da dove viene?
Preso di sorpresa, Grol deglutì prima di rispondere. -- Da Maribor.
-- Maribor? Ex Slovenia, se non sbaglio.
-- Sì.
-- Spieghi a quest'uomo come andarono le cose. Perché la Slovenia non c'è più?
Grol trovò la domanda terribilmente difficile. Riandò col pensiero alla secessione da Lubiana, ma non ne ricordava esattamente i motivi. -- Be', a Maribor c'erano le industrie migliori del paese, si lavorava di più. Però dovevamo mantenere tutti i fannulloni della capitale.
-- E ha presente quando cominciaste a discutere di tutto questo?
La memoria di Grol si schiarì di colpo. -- Oh, sì. Ci fu la faccenda del prestito. L'Eurobank chiese alla Slovenia di tirare la cinghia. Ma a Maribor stavamo bene. Perché avremmo dovuto sacrificarci per i burocrati di Lubiana? Fu allora che proclamammo l'indipendenza.
-- E la Germania, o per meglio dire l'Eurobank, si affrettò a riconoscere la vostra repubblica -- concluse Kolov. Guardò Da Costa con una sorta di compatimento. -- E' così che è cominciata, piccolo soldatino di ventura. Prima di Maribor c'erano state Karlovac, Graz e Pécs. Poi sono venute Timisoara, Debrecen, Nitra e Gorica. Le carte geografiche si sono riempite di repubbliche nate dal nulla. La RACHE non ha fatto che raccogliere i frammenti dei paesi che avevate fatto a pezzi.
Da Costa sapeva bene che quella era la verità. La RACHE aveva preso atto delle divisioni etniche, storiche, di comunità e di villaggio scaturite dalla disintegrazione economica degli staterelli balcanici e aveva proposto l'unico sistema politico capace di tenere assieme tutti quei brandelli: una nuova forma di impero federale, suddiviso in feudi e retto da spietate gerarchie fondate sul sangue e sulla forza. -- Voi siete dei maledetti nazisti -- disse cupo. -- Il vostro regno si fonda sull'odio. Non durerà a lungo.
Il viso di Kolov si raggrinzì in una maschera sorniona. -- Da te questa retorica non me l'aspettavo proprio. Può darsi che sia vero, ma non sei quello stesso Da Costa che addestrava i contras a La Lodoza, venti anni fa? Laggiù stanno ancora scavando per estrarre dalle fosse le salme dei prigionieri. O il Da Costa del Guatemala, che sfondava il cranio ai piccoli indios sbattendoli contro i muri? Quanto a uso del terrore, voi occidentali avete poco da insegnarci. Peccato che solo da poco abbiate capito quanto ci somigliamo. Tu, però, non l'hai capito ancora.
D'improvviso la voce di Kolov fu coperta da un gigantesco urlo, fatto di migliaia di voci, proveniente dalla terra di nessuno. Tutti i Poliploidi avevano cominciato a gridare nello stesso momento, pur continuando a rimanere immobili come simulacri contorti e obesi. Le bocche spalancate non inghiottivano più il nevischio, ma si allargavano fino a slogare le mascelle in quell'unico suono lacerante.
Un brivido scosse tutti coloro che si trovavano fuori del castello. Selerum e Schlegel interruppero la loro conversazione e arretrarono stupefatti. Grol, inorridito, abbassò l'arma che teneva puntata su Da Costa. Il mercenario non ne approfittò: seguiva anche lui la scena che si svolgeva in basso, travolto da una paura mai provata prima.
Ora i corpi grotteschi dei Poliploidi, gonfi all'inverosimile, avevano accentuato le loro pulsazioni. Poi accadde una cosa atroce e ripugnante. Il petto e il ventre di uno dei mostri si squarciarono, espellendo un groviglio sanguinolento di cuori, reni e polmoni cresciuti uno sull'altro. Il Poliploide si afflosciò come un sacco vuoto, fissando con occhi dolenti la massa semovente di organi plurimi che continuava a sfuggirgli dalla cassa toracica aperta e dai muscoli ventrali lacerati.
Un attimo dopo il corpo di un secondo Poliploide fu squassato da un'esplosione oscena, e vomitò dalla ferita rotoli di cellule abnormi, spandendo attorno liquidi sierosi. Fu poi la volta di un terzo e di un quarto, mentre l'urlo collettivo raggiungeva un'intensità insostenibile. Nel giro di pochi istanti tutti i Poliploidi scaricarono sul terreno gli organi deformi di cui erano gonfi, mentre un fiume di sangue colava schiumoso verso le baracche, riflettendo in rosso il cielo color bitume.
I soldati della RACHE e dell'Euroforce radunati davanti alla cinta si erano istintivamente riuniti in gruppo, come per sopportare meglio l'orrore di quella scena. Grol udì il maggiore della Wissendiv sussurrare a Selerum: -- La neve carica di fosfati ha fatto proliferare le cellule. Nel giro di mezz'ora gli organi interni si sono moltiplicati, finché i corpi non sono più riusciti a contenerli. Tra breve tutti i Poliploidi saranno morti.
Selerum annuì, rifletté un attimo, poi riferì sottovoce a Schlegel la spiegazione. Da Costa decise che quello era il momento giusto per fuggire. Si fece lentamente indietro, per uscire dall'orbita visiva di Grol e di Kolov, poi cominciò a indietreggiare più in fretta. Infine si girò e camminò a larghi passi lungo le mura del castello, contando di cominciare a correre appena fuori vista.
Grol colse il movimento con la coda dell'occhio. Sollevò il fucile, prese brevemente la mira e sparò un solo colpo. La testa di Da Costa, raggiunta in pieno, si macchiò di scarlatto. Il mercenario fece ancora qualche passo, poi crollò col viso nella neve. Grol guardò Kolov, che fece un cenno di approvazione. Gli altri girarono appena lo sguardo, infastiditi. Nella terra di nessuno stava accadendo qualcosa di incredibile.
I Poliploidi, squarciati dall'interno, si erano tutti accartocciati al suolo e non respiravano più. I loro organi, però, sparsi dovunque a grappoli, continuavano a pulsare. Sembrava anzi che seguitassero a moltiplicarsi. Piccoli cuori sanguinanti nascevano sui cuori, e cominciavano a ingrandirsi a vista d'occhio incollandosi ad altre parti a loro volta in crescita. Fegati e polmoni spuntavano da altri fegati e polmoni, si congiungevano tra loro, si contraevano allo stesso ritmo. La collina era teatro di una velocissima e spaventosa fioritura di tessuti fibrosi, gonfi, striati, mobili come pseudopodi. Un gigantesco tappeto rosso di nervi e muscoli, agitato da una selvaggia vita propria, si torceva in masse ed escrescenze, coprendo e assorbendo i corpi inerti dei Poliploidi.
Selerum si scosse dallo sbalordimento e dal panico. Cercò il marconista, ma era scomparso. -- Qualcuno dia il segnale all'aviazione! -- urlò. -- Bisogna bombardare quella roba!
Grol fece per scattare verso il castello, ma Kolov lo trattenne. -- No, vado io! -- Gliene fu quasi grato. Non riusciva a staccare gli occhi da quella mostruosità che stava crescendo di volume in fondo al pendio, e che adesso sembrava organizzarsi in cordoni e filamenti di organi senza forma, protesi a chiudersi su se stessi e a partorire nuove escrescenze. Era come se il tappeto di tessuto muscolare che copriva le pendici dell'altura si stesse arrotolando in un titanico serpente bulboso, intento a sguazzare con frenesia nel lago di sangue che esso stesso alimentava. L'aria odorava di zolfo e ammoniaca.
Grol non era l'unico a subire il fascino terribile di quella scena. Udì Selerum sussurrare a Sclegel, in tono quasi estatico: -- Guardi! Se esiste un dio della guerra è sotto i nostri occhi! -- L'altro non ebbe il tempo di rispondere. Il cielo vibrò di un rombo potente, prima lontano, poi sempre più prossimo. La piccola folla sulla collina corse a ripararsi dentro le mura, mentre una squadriglia di elicotteri HIND calava dal cielo con le tozze semiali cariche di missili.
Grol, spinto con violenza, quasi perse l'equilibrio, ma riuscì a tenersi in piedi e a riparare in tempo oltre il ponte. Pochi secondi dopo le esplosioni facevano rintronare le mura del vecchio maniero, e geyser fiammeggianti superavano l'altezza del possente torrione centrale. Il bombardamento durò una decina di minuti, sollevando nubi di fumo verdastro. Poi si udì la squadriglia allontanarsi veloce.
Quando il palpito delle pale si fu spento, Grol, emozionato ma ebbro di sollievo, seguì fuori del castello Schlegel, Selerum e gli ufficiali delle due parti. L'assurdo rotolo di carne e tessuti era ancora là, ma non cresceva più. Si torceva lentamente sulla terra bruciata e sui fiumiciattoli di sangue ribollente, roso da fiamme azzurrastre. I grappoli di polmoni, di cuori, di fegati, di reni erano ridotti a masse vizze di fibre carbonizzate. Su tutto aleggiava un fumo bianco e nauseabondo.
Selerum sembrava euforico. -- Schlegel -- stava dicendo -- ricordi questa scena. Prima parlavo di un dio della guerra, ma quella che sta morendo là sotto è pura carne, con contorno di sangue. Cosa c'è di più vero, di più rigorosamente biologico? E' una morte grandiosa!
Grol, che non capiva il senso di quelle parole, non ascoltò il resto. Scese per un breve tratto la collina, avvicinandsi un poco all'organismo moribondo, squassato dalle ultime contrazioni. Solo allora si accorse che sui torrenti di sangue,leggermente fumanti, che colavano lungo il pendio sciogliendo il nevischio, galleggiavano degli oggetti. Erano fotografie incenerite, carcasse di orologi deformate dalle esplosioni, catenine con la croce, penne biro spezzate, frammenti di occhiali, pagine illeggibili di taccuino. Solo allora gli venne in mente che i Poliploidi erano stati, prima della guerra, gente comune.
Piccola gente smarrita, che aveva saputo esprimere la propria forza collettiva solo su impulso di un'altra volontà, quando ormai era stata trasformata in mostro.


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