Questo Racconto scritto da Valerio Evangelisti per Internet News viene riproposto per diffondere conoscenza e come omaggio personale a Valerio Evangelisti. 
La riproposizione e' stata esplicitamente Autorizzata da Valerio Evangelisti  
 

racconto di Valerio Evangelisti
 
FUGA DA GOTHAM CITY 
 
La mole mastodontica del Vortex, la gigantesca stazione orbitale che gestiva per conto dell’ONU tutte le reti di comunicazione satellitari, ruotava pigra su se stessa, mentre compiva l’ennesimo periplo della terra. All’interno, la gravità artificiale rendeva inavvertibili i moti di quello sterminato castello d’acciaio galleggiante nello spazio. Eppure al signor Omori, capo della polizia di Tokyo, parve di provare una leggera vertigine, mentre seguiva una squadra di tecnici lungo il corridoio che univa il corpo della stazione a uno dei moduli più remoti. 
«Siamo sicuri che il suolo sia stabile?» chiese preoccupato, nel suo inglese grottesco in cui ogni vocale tendeva a somigliare a una “a”. 
Roubert, l’ingegnere capo, si girò con un lampo ironico negli occhi. «Certo. Se avverte un lieve giramento di testa, è solo perché in questo braccio la gravità è minore. Il motivo è ovvio: nei moduli esterni la rotazione è più lenta che nel corpo centrale.» 
«Già. Avrei dovuto pensarci» mormorò Omori, sorridendo contrito. Era abituato a considerare ogni errore o dimenticanza, per quanto veniale, come una colpa gravissima. In quei casi, la consueta impassibilità del suo viso veniva incrinata da un sorriso imbarazzato, tanto più largo quanto più forte era il disagio. Erano le sole circostanze in cui sorrideva. 
Si ricompose molto presto. Il corridoio era terminato, e stavano scendendo una scala a chiocciola che pareva senza fine, tra pareti luminescenti istoriate di circuiti stampati. Roubert e i suoi quattro tecnici balzavano con disinvoltura di gradino in gradino, dimostrando familiarità con quell’ambiente. Omori, invece, cercava di posare il piede con prudenza; ma presto fu costretto ad accelerare la discesa, per non perdere il contatto con i compagni. 
Finalmente Roubert e gli altri si fermarono su un pianerottolo spazioso, e attesero che il giapponese li raggiungesse. L’ingegnere fece un gesto circolare, indicando i circuiti e le spie luminose che li attorniavano. «Ecco, signor Omori, il suo paese è tutto qua.» 
Il poliziotto nascose con cura il proprio stupore. «Tutto il Giappone?» chiese in tono neutro. 
«In un certo senso sì. Qui sono immagazzinati i dati di tutti gli abitanti in possesso di carta di identità. Come si chiama il suo uomo?» 
«Hajime Murakami. Ma non so se abbia una carta di identità.» 
«Vediamo subito.» 
Roubert si accostò a un piccolo schermo incastonato nella parete, sovrastato dalla scritta “BIOMUSE”. Di fianco pendeva una cuffia. La staccò dal gancio e la calcò sulle orecchie. Lo schermo si accese automaticamente, con uno sfrigolio soffocato. 
Roubert si portò indice e pollice alla radice del naso, poi chiuse gli occhi, come se stesse pensando intensamente. Quando li riaprì, una lunga fila di nomi tutti identici, seguiti da una serie di dati, stava scorrendo sul monitor. Scosse il capo. «Di Hajime Murakami ne esistono centinaia. Può dirmi qualcosa di più? Mi basta un aggettivo, o anche un sostantivo che abbia attinenza con la vita della persona che cerca.» 
«Pensi alla parola sovversivo... No, aspetti. Pensi a Chukaku-Ha. E’ il nome del gruppo terroristico a cui appartiene Murakami.» 
«L’anno di riferimento?» 
«Quello attuale. Il 2068.» 
L’ingegnere si concentrò nuovamente, premendo la cuffia sulle orecchie. Trascorsero pochi secondi, poi sullo schermo apparve il filmato di una manifestazione. Una falange di giovani, probabilmente studenti, avanzava reggendo bandiere issate su lunghissime canne di bambù. Calcavano caschi da minatori, coperti di scritte. A un certo punto il corteo si arrestò. La prima fila dei dimostranti abbassò i bambù. L’inquadratura si allargò a comprendere una schiera di uomini in divisa visti di schiena. I lacci incrociati sulle loro scapole sostenevano corpetti d’acciaio. Avevano elmetti molto larghi, che coprivano loro la nuca. Se non fosse stato per la visiera in plexiglass, si sarebbe potuto scambiare quei poliziotti per combattenti prussiani della prima guerra mondiale. 
«Sembrano samurai» mormorò uno dei tecnici. 
«Il guaio è che anche gli altri sembrano samurai.» Omori toccò con l’indice lo schermo. «Vedete quei bambù? Tagliati di sbieco, sono affilati come lame. Per questo gli agenti indietreggiano, mentre il corteo viene avanti.» 
Forse si sarebbe dilungato in altre spiegazioni, ma intanto l’immagine era cambiata. Ora si vedeva una saletta con le pareti di mattoni rossastri, illuminate da fredde luci al neon. Un poliziotto in divisa ordinaria, seduto dietro un banco, stava prendendo le impronte di un giovane curvo di fronte a lui, in tenuta da prigioniero. Altri due poliziotti seguivano l’operazione a qualche passo di distanza. 
«Ecco, è qui che le nostre immagini si deformano!» esclamò Omori, improvvisamente eccitato. «Quando, tra poco, il detenuto si girerà, noi non riusciamo a vederne il volto!» 
Roubert alzò le spalle. «Un comune difetto di trasmissione. Qui è tutto regolare. La registrazione è integra.» 
Sullo schermo, il poliziotto lasciò le mani del giovane, che si raddrizzò. Poi si voltò lentamente. Dalle labbra di Roubert e dei suoi uomini uscì un’esclamazione stupita. Il prigioniero aveva lo stesso viso di Batman. Orecchie a punta, maschera nera, fori per gli occhi triangolari, mascella quadrata. Batman in persona, disegnato con pochi tratti e colorato a pennellate vivaci. Ma quella testa si adattava perfettamente al corpo. 
«Non è un difetto di trasmissione» commentò mestamente Omori. «Ogni volta che cerchiamo di visualizzare Murakami, riceviamo quell’immagine ridicola. Qualcuno ha manomesso il Vortex.» 
«Ma non è possibile!» esclamò Roubert. Premette con forza la cuffia attorno al cranio. «Ci saranno altri fotogrammi, no? L’ingresso in cella, l’incontro con i compagni di braccio... Ora mi concentro meglio.  Hajime Murakami. Hajime Murakami. Hajime Murakami...» 
Sullo schermo non apparvero altre immagini. Comparve invece una scritta, tutta in stampatello: “HAJIME MURAKAMI, APPARTENENTE AL CHUKAKU-HA. EVASO DAL CARCERE IL 18 MARZO 2068. FALSO ATTESTATO DI BUONA CONDOTTA TRASMESSO DALLA RETE. FALSO PERMESSO DI USCITA. ATTUALMENTE IRREPERIBILE.” 
Roubert si strappò la cuffia dal capo e allargò le braccia. «Non riesco proprio a capire. “Falso attestato”, “falso permesso”. La rete deve essere stata manipolata, ma non capisco come. Gli accessi sono rigorosamente controllati, su tutta la terra. E’ una cosa gravissima.» 
Uno dei tecnici, un ragazzo allampanato dai capelli biondi e radi, sbuffò e alzò le spalle. «Non è poi così grave. L’evaso è uno solo, in tutto il Giappone. Anzi, a quanto ne so, in tutto il mondo. Prima o poi lo riacciufferanno.» 
Omori lo guardò di traverso. «Lei non ha capito la questione, giovanotto. L’essenza di uno stato sono le sue prigioni. E’ lì che vengono sanzionate le condotte irregolari, e che chi governa si fa padrone delle vite altrui. Mi capisce?» 
«Mica tanto.» 
«Governare vuole sempre dire farsi padrone delle vite degli altri, col loro consenso o meno. Quando non è possibile, non resta che il carcere. Cioè il dominio completo sull’esistenza di chi ha trasgredito alle regole. Buoni governi hanno buone prigioni, perché hanno regole ferree, cioè ottime leggi. Adesso credo che lei mi capisca.» 
Roubert, senza perdere di vista lo schermo, agitò la mano. «Sono io che non la capisco. D’accordo, qui qualcuno si è impadronito di un pezzetto della rete. Ma cosa conta? Sono riusciti a fare evadere solo uno dei loro.» 
Omori sospirò. «Forse non mi sono spiegato bene. C’è in giro un individuo che ha disobbedito già due volte: la prima quando ha violato le leggi dandosi ad attività sovversive, la seconda quando si è sottratto alle costrizioni carcerarie. La libertà di costui è di per sé un’anomalia. Come se non bastasse, lui e i suoi amici sanno manipolare i nostri sistemi di controllo. Se non corriamo ai ripari, l’area sottratta al nostro comando crescerà a macchia d’olio.» 
Roubert guardò il pavimento. «Che cosa dobbiamo fare?» mormorò umiliato. 
«Me lo dica lei.» Il tono pacato di Omori ora lasciava trapelare una certa irritazione. «Ci sarà un qualche sistema di sicurezza, che permetta di isolare i dati alterati.» 
Ci volle qualche secondo prima che l’ingegnere borbottasse mesto: «No, non c’è. La rete è troppo complicata. E’ impossibile controllarne tutte le articolazioni. I soli filtri sicuri sono quelli che governano gli accessi.» 
«Ma ci sarà pure un antivirus, un apparato di individuazione dei programmi parassitari!» 
«Purtroppo no. Ripeto, solo gli accessi sono controllabili.» 
Questa volta Omori non poté impedirsi una smorfia di franca indignazione. «Non vorrà dirmi che non c’è un responsabile della sicurezza del sistema! Intendo un sorvegliante umano!» 
Il viso di Roubert si illuminò improvvisamente. «Oh, sì che c’è! Il Webmaster! Lo avevo dimenticato! Sa, è tutto così automatico che...» 
«Lo contatti, allora!» gridò il giapponese, indicando la cuffia. «Capisce che ogni minuto che passa può significare un’espansione dell’area fuori controllo? Ed è da marzo che quelli sono al lavoro! Adesso siamo in maggio!» 
Per la fretta, Roubert calcò la cuffia al contrario. La raddrizzò con un gesto impacciato, poi strinse gli occhi. Quasi subito sullo schermo lampeggiò la scritta “WEBMASTER”, sovrapposta a un viso umano. Il viso che Omori, di indole pessimista, in fondo si attendeva: mascella prominente, maschera con fori triangolari per gli occhi, orecchie e punta simili a quelle di un gatto. «Buongiorno, signori» disse Batman, arricciando le labbra in un sorriso malizioso. «Eccovi un aggiornamento sui cittadini che oggi si sono liberati dal dominio di Gotham City.» L’immagine cedette il luogo a una sequenza velocissima di schede segnaletiche. Solo che ogni scheda era in bianco, e la foto che la corredava era quella dell’uomo pipistrello. Poi riapparve il Batman originale. «Non li ho contati, ma sono varie decine di migliaia. E volete sapere il bello? Non è che l’inizio... Come si dice in francese?» 
«Ce n’est qu’un début» rispose macchinalmente Roubert. 
Il viso grottesco nello schermo ampliò il suo sorriso. «Proprio così. Maggio 2068. Non vi ricorda nulla?» 
Omori si piegò verso Roubert. «Il Webmaster presidia gli accessi, non è vero?» gli bisbigliò all’orecchio. 
«Sì» rispose l’ingegnere, stupito. 
«Allora l’apparato antivirus con lui può funzionare. Sbaglio?» Vedendo che l’altro non rispondeva, Omori continuò: «Lo attivi, la prego.» 
Roubert lo guardò allarmato. «Ma non so nemmeno come funzioni.» 
Gli occhi del giapponese divennero gelidi. L’ingegnere tolse in fretta di tasca il proprio nano-computer, lo aprì e pigiò alcuni tasti. «Fatto» disse poi. «E’ attivato.» 
Quasi subito si udì una sirena dal suono acutissimo. Batman sparì dallo schermo, sostituito da una scritta lampeggiante: “INDIVIDUATI VIRUS NEL SETTORE 3BF. ELIMINARE O DECONTAMINARE? DIRLO AD ALTA VOCE!” 
«Eliminare, eliminare!» gridò Omori. Guardò Roubert e lo vide sudato. «Ma che c’è? Si rallegri. Presto il sistema tornerà alla normalità. Quell’idiota non aveva valutato il pericolo di operare dagli accessi.» 
Si udì un crepitio e la scritta sparì dallo schermo. Riapparve Batman, ghignante. «Capisco i dubbi dell’ingegnere. Il settore 3BF è quello in cui vi trovate. Uno degli accessi al sistema, no? Grazie, amici, per essere caduti nella mia trappola. Tutta Gotham City vi deve riconoscenza.» 
Omori vide con la coda dell’occhio il turbine di fuoco che scendeva lungo la scala a chiocciola. Sospirò. Aveva sbagliato, era giusto che pagasse. L’agonia fu rapida, anche se non indolore. 
 


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