Questo Saggio scritto da Valerio Evangelisti per la rivista Pulp, viene riproposto per diffondere conoscenza e come omaggio personale a Valerio Evangelisti.

Valerio Evangelisti e' sicuramente l'autore italiano piu' acclamato del momento, forse di tutti i momenti che la fantascienza italiana abbia mai vissuto, autore della mirabile saga di Eymerich, e della saga della vita di Michel de Nostredame, e' anche autorevole autore di innumerevoli saggi sulla fantascienza mondiale di tutti i tempi.


Valerio Evangelisti saggio di
Valerio Evangelisti
La Maschera di Lovecraft

Nel 1955, introducendo l’antologia francese Démons et merveilles, Jacques Bergier scriveva che, ancora in età adulta, Howard Phillips Lovecraft avrebbe ignorato totalmente cosa fossero un uomo, una donna, il denaro, la metropolitana, un cavallo. Bisogna diffidare di simile aneddotica, almeno quanto delle imprese di mare autoattribuitesi da Emilio Salgari. Il temperamento schizoide di Lovecraft e i contenuti delle sue opere hanno offerto il destro a una quantità di leggende, prime tra tutte quelle che hanno voluto vedere in lui un cultore dell’esoterismo e delle scienze occulte o, come nelle parole di Bergier, una sorta di alieno piovuto da chissà dove. Ne è risultata una cortina fumogena che, mentre ha fatto proliferare legioni di entusiasti e nuclei di detrattori, ha a lungo impedito una valutazione critica dei meriti e demeriti del “solitario di Providence” (espressione repellente che uso qui per la prima e ultima volta).
La biografia del nostro non presenta, in realtà, elementi particolarmente pittoreschi. Come scrive egli stesso nel 1933, “la principale difficoltà nello scrivere un’autobiografia consiste per me nel trovare qualcosa di importante da metterci. La mia è stata un’esistenza quieta, modesta, priva di avvenimenti degni di nota: messa per iscritto, darà sicuramente l’impressione di una vita miseramente piatta e scialba”.
E infatti è così. Nato a Providence, Rhode Island, nel 1890, vi trascorre un’infanzia malaticcia ma non del tutto infelice, sebbene il padre finisca in manicomio e la madre lo tormenti come può. Circondato da zie che lo accudiscono fino alla morte, campa alla meglio come giornalista dilettante, scrittore per riviste popolari e soprattutto ghost writer abbastanza quotato. Cerca di partecipare alla prima guerra mondiale nei ranghi della Guardia Nazionale, ma la madre glielo impedisce. Si sposa, ma il matrimonio si esaurisce dopo pochi mesi e le zie lo riconducono a casa. Viaggia un poco per gli Stati Uniti, con rare puntate nel Québec. Muore nel 1937 di un tumore all’intestino.
Le vicende del suo tempo non lo appassionano più di tanto. Ammiratore dell’aristocrazia inglese, professa a lungo idee politiche reazionarie, fino a plaudire a Hitler di cui condivide il razzismo. Ma nello stesso tempo dichiara di far propria la critica marxista dell’economia, e di essere favorevole al collettivismo. Si innamora di Roosvelt e, nell’ultimo anno di vita, della socialdemocrazia svedese. Nessuna di queste scelte lascia su di lui un’impronta duratura. In pratica, di politica non capisce nulla.
Più nette le idee filosofiche. Lettore fin dall’infanzia di testi scientifici, ateo convinto, professa un materialismo estremista e rigoroso. Ogni forma di superstizione suscita i suoi strali più violenti. Ancora giovanissimo, polemizza sulla stampa con un noto astrologo; più tardi, collabora con l’illusionista Houdini alla stesura di un volume (mai completato) contro l’astrologia. Detesta l’occultismo e rimprovera i colleghi che, nella loro narrativa horror, ne riprendono il linguaggio. Si vanta di scansare con cura le librerie che espongono testi esoterici.
Curiosa sorte, la sua. Il tuttologo Lacassin cercherà nei suoi racconti allusioni a percorsi iniziatici (riuscendovi, è ovvio: se ne trovano persino nei manuali di cucina). Lo stesso faranno i suoi primi esegeti italiani, tra un Campo Hobbit e l’altro. Sedicenti filosofi occulti si rifaranno al pantheon immaginario dei suoi racconti infiorando di citazioni abusive i loro grimoires. Verrà scomodata persino la massoneria di rito egizio, pur di accostare Lovecraft a ciò che più detestava. Miserie. Howard Phillips Lovecraft è rimasto miracolosamente grande malgrado ogni tentativo di avvilirlo a scribacchino new age. Anzi, grandissimo. Capire il perché resta il più grande mistero da decifrare sul suo conto.
Va detto subito che, come scrittore, Lovecraft è barocco, ripetitivo, talora stucchevole. Quando non si tiene a freno sfiora l’illeggibilità: come nel suo noto saggio L’orrore soprannaturale in letteratura, in cui gli aggettivi sovrastano i concetti e i riassunti delle trame prendono il posto della strumentazione critica. Anche molti dei suoi racconti, soprattutto quelli scritti fino al 1920 e, in epoca successiva, il ciclo dunsanyano di Randolph Carter (La chiave d’argento, Alla ricerca del misterioso Kadath, Attraverso i cancelli della chiave d’argento, quest’ultimo frutto di una collaborazione con E. Hoffmann Price), risultano di una ridondanza fastidiosa, oltre a essere noiosissimi. La pubblicazione, in Italia, di ben quattro edizioni di opere più o meno complete (SugarCo, Fanucci, Mondadori, Newton Compton, tutte atroci eccetto la terza), in questo senso ha reso a Lovecraft un pessimo servizio. Bisogna arrivare fino a Orrore a Red Hook (1925) per scoprire da dove inizi il meglio. E, saltando a piè pari chiavi d’argento, sconosciute Kadath e montagne della follia (un centone indigeribile), nonché i due terzi della roba scritta con e per altri, concentrarsi su un pugno di titoli memorabili: Il richiamo di Cthulhu (1926), Il modello di Pickman (1926), Il caso di Charles Dexter Ward (1927), Il colore venuto dallo spazio (1927), L’orrore di Dunwich (1928), Colui che sussurrava nelle tenebre (1930), La maschera di Innsmouth (1931), La casa delle streghe (1932), La cosa sulla soglia (1933), L’ombra calata dal tempo (1935), L’abitatore del buio (1935).
E quando dico memorabili, parlo sul serio.
Prendiamo quello che è, a mio giudizio, un capolavoro assoluto: La maschera di Innsmouth. La suspense ha inizio dalle prime righe. La stampa ha dato notizia di numerosi arresti nella cittadina portuale di Innsmouth, ma nessuno degli arrestati è stato processato o condotto in carcere. In compenso, si sa che si è proceduto alla distruzione, col fuoco e la dinamite, di un quartiere fatiscente in prossimità del porto, fatto di bicocche “credute” vuote. Credute!
Fulminante. Anche perché, subito dopo l’esordio, si impara che chi narra è all’origine di quegli arresti, e che ha deciso finalmente di “abbattere il muro di silenzio”. Silenzio su cosa? Sul perché fu “costretto a fuggire freneticamente” da Innsmouth, il 16 luglio 1927. Nessuno, a questo punto, può più abbandonare la lettura. Signori, tanto di cappello a Lovecraft, così apparentemente inetto e così sostanzialmente efficace.
Si prosegue con un viaggio in corriera. Alla biglietteria, il narratore viene informato che i viaggiatori sono rari. Tanto rari che non si capisce perché il gestore dell’autolinea si ostini a mantenerla attiva. Ma anche Innsmouth è un controsenso: “Ci sono più case disabitate che abitanti, e di attività commerciali neanche parlarne, tranne la pesca e qualche allevamento di aragoste; fanno magri affari soltanto con Arkham e Ipswich. Una volta c’era qualche stabilimento, ma oggi non è rimasto quasi più niente, salvo un impianto per la raffinazione dell’oro che lavora poco o nulla.”
Siamo avvertiti che, se Innsmouth resta in piedi, ci dev’essere sotto una motivazione anomala. Ma rimaniamo un attimo al dialogo alla biglietteria. Notiamo subito una peculiarità di Lovecraft. Non si tratta affatto di un dialogo, bensì di un monologo del bigliettaio. In Lovecraft non ci sono mai dialoghi, salvo che in alcuni racconti revisionati per conto terzi (il che ci autorizza a presumere che siano stati voluti o abbozzati dal committente); e anche quelli sono dialoghi per modo di dire. Impotenza dello scrittore a padroneggiare l’elemento più delicato del tessuto narrativo? Può darsi. L’esito è comunque un prevalere incontrastato della visione soggettiva, tale da sottrarre spessore umano a ogni altro personaggio con cui l’io narrante, quale è di solito il protagonista, entra in rapporto. L’esito è duplice: da un lato un’accentuazione della suspense, visto che nessun occhio esterno permette di scorgere cosa ci sia “dietro l’angolo”; d’altro lato, la netta sensazione che il confronto su cui si incentra la storia avvenga non con altri uomini, ma con un contesto assai più ampio e inquietante.
Ed è proprio così. Lovecraft, in una lettera del 1927 al direttore di Weird Tales, spiegava senza ambiguità la concezione che presiedeva alla sua narrativa: “Per ottenere l’essenza dello straniamento temporale, spaziale e dimensionale bisogna rinunciare all’idea che concetti come quelli di vita organica, di bene o di male o altri attributi locali di una razza trascurabile e transitoria come quella umana abbiano un peso oggettivo. (…) Tengo a sottolineare, inoltre, che anche quando parlerò di avvenimenti terreni non insisterò mai sui valori e i sentimenti artificiali della narrativa popolare”. Dichiarazione un po’ troppo impegnativa, visto che marca una presa di distanze dalla letteratura popolare che Lovecraft non ha mai realmente attuato (tutta la lettera, del resto, è all’insegna dell’ipocrisia, tra false minimizzazioni del proprio lavoro e sottintese lamentele per la presunta incomprensione di cui è vittima). Ma fa capire perché i personaggi lovecraftiani non abbiano mai interlocutori in carne e ossa, e si trovino regolarmente soli di fronte a un cosmo vuoto (o forse fin troppo pieno) e incomprensibile.
Sta di fatto che i dialoghi non hanno alcun peso, per mancanza di interlocutori con cui dialogare. Pare incredibile che Lovecraft scriva i suoi racconti più noti nello stesso periodo in cui, che so, un Dashiell Hammett scriveva Red Harvest e The glass key. In Hammett descrizioni ridotte al minimo, dialoghi scoppiettanti condotti con rara maestria. Sembra che lui e Lovecraft vivano in due Americhe diverse. E l’impressione è confermata dall’identità dei protagonisti della loro produzione letteraria. Le righe che ci presentano l’io narrante de La maschera di Innsmouth creano il ritratto a pastello di un giovane ammodino, di buona famiglia e di buona educazione, che ci figuriamo vestito con cravatta a farfalla e giacca sportiva a quadrettini. “Avevo deciso di festeggiare la maggiore età con un viaggio turistico, antiquario e genealogico nel New England” “Il bibliotecario mi diede un biglietto di presentazione per la conservatrice della locale società di studi storici, una certa signorina Anna Tilton, che abitava lì vicino, e dopo una breve spiegazione l’anziana signorina ebbe la gentilezza di farmi entrare nella sede chiusa dell’istituto, anche perché l’ora non era del tutto sconveniente” “Accompagnandomi alla porta, la cortese signorina…”
Detto così, ci si aspetterebbe un esito dei più esilaranti. Invece non si ride affatto. Perché Lovecraft, nel mettere i suoi gagà – probabili repliche di se stesso - a confronto con l’ignoto, abbandona alla sua morsa gelida creature assolutamente fragili e indifese. Immaginate Continental Op o Sam Spade alle prese con un’antica divinità risorta dalla notte dei tempi. In quel caso sì che il risultato sarebbe stato comico. Invece un damerino involontariamente buffo costituisce la preda ideale per le tenebre. E per ciò che vi si acquatta.
Ma torniamo a Innsmouth. Il narratore ha nell’autista della corriera un’anticipazione di ciò che troverà in città. Anzi, molto più di un’anticipazione: un abbozzo. “Doveva avere trenta, trentacinque anni, ma le bizzarre e profonde grinze ai lati del collo lo facevano sembrare più vecchio finché non si guardava il volto ottuso e inespressivo. Aveva la testa stretta, occhi d’un azzurro slavato che sembravano non chiudersi mai, naso piatto, fronte e mento sfuggenti, orecchi singolarmente atrofizzati.” Se aggiungiamo che l’individuo ha palmi e piedi enormi ed emana lezzo di pesce, è facile intuire che cosa ci attende.
Ma solo intuire. Perché se l’incontro con l’autista avviene in piena luce, e la descrizione (molto più estesa del brano che ho riportato) è fin troppo dettagliata, l’impatto con le creature che popolano Innsmouth avverrà di notte, in penombra. Non scorgeremo quindi la figura intera dei mostri, ma solo, almeno sulle prime, qualche dettaglio. Che completeremo noi stessi sulla base dell’abbozzo che abbiamo potuto osservare, consapevoli che ciò che si nasconde nella penombra è molto peggio.
Ecco quindi che il narratore, penetrato in città – un agglomerato di edifici fatiscenti, con interi isolati chiusi al visitatore e popolato da individui ambigui che portano i segni di chissà quale ignobile malattia – scorge attraverso i battenti socchiusi di un ex tempio massonico consacrato all’Ordine Esoterico di Dagon una figura che lo sconvolge. E’ una creatura ingobbita, avvolta in curiosi paramenti e con una tiara sul capo, che passa per il riquadro della porta con passo strascicato. Si tratta chiaramente di un secondo abbozzo, ma di un abbozzo del peggio.
Ma è un flash, una visione che immediatamente scompare. Saremmo portati a pensare che Lovecraft, sfidando la cronologia, adotti un linguaggio cinematografico, misurando i fotogrammi. Ma ci sbaglieremmo di parecchio. A quell’apparizione fugace Lovecraft dedica una pagina intera, ricamandovi sopra, col solito spreco di aggettivi, ogni sfumatura dell’orrore. Ma nel contesto della pagina, alla visione vera e propria sono dedicate un paio di righe. Tutto il resto sembrerebbe superfluo. Invece, accidenti, funziona. Funziona eccome.
Scopriamo quindi una nuova peculiarità di Lovecraft. Quando rivela uno dei suoi orrori – prima per esteso, poi con crescente avarizia di particolari, almeno fino al finale – rallenta volutamente il ritmo narrativo. Perché, sulla pagina scritta, questo è il modo più efficace per accrescere la tensione. Allora la pletora di attributi insistentemente scanditi – “sconvolgente e fuggevole immagine di un’intensità tremenda e di grande orrore” “un’immagine da incubo tanto più sconvolgente in quanto, a un’analisi attenta, non rivelava proprio nulla di pauroso” - trova piena giustificazione. Lovecraft è barocco quando si tratta di rallentare il ritmo. Non lo è quando non è più necessario. Un artigianato sublime, che amplifica all’eccesso gli indizi e restringe lo spazio per le prove. Per chi sappia porsi in sintonia, la conclusione è obbligata: cavolo, questo Lovecraft scrive come un dio!
Torniamo a Innsmouth (ma ormai potrebbe essere Dunwich, potrebbe essere Arkham: ogni scenario lovecraftiano è buono per queste considerazioni). Cosa sia accaduto alla città viene narrato al protagonista da un vecchio ubriacone col solito monologo. Apprendiamo così che un armatore locale, che ricorda tanto lo zio Cassave del Malpertuis di Jean Ray, anni addietro ha pensato di fare quattrini imitando certi indigeni incontrati nei suoi viaggi, che aumentavano la pescosità dei mari sacrificando vergini e gioielli a certe mostruosità marine metà rospo e metà pesce (e qui c’è un po’ di King Kong). Ha così chiamato a Innsmouth quelle creature, e convinto la gente del luogo a pregarle come divinità. Ma i divini mostri non si accontentavano dei sacrifici e delle preghiere. Volevano anche accoppiarsi con gli umani, per dare vita a una nuova razza. Nel giro di qualche generazione la città si è popolata di esseri ibridi, umani in gioventù, sempre più pesce-rospo col passare degli anni. Quando diventano inguardabili vengono chiusi in bicocche dalle finestre sprangate, finché la trasformazione non è tanto completa da permettere loro di raggiungere in mare la propria gente, iniziando una vita immortale in una favolosa città degli abissi.
Una parentesi. A chi ha letto tutto Lovecraft o quasi, incluso il peggio, questa storia ne richiama alla mente un’altra, intitolata La strada, del 1920. C’è una graziosa cittadina americana, ordinata e serena. Ma ecco che, anche in questo caso, nuove razze appaiono a turbare il quadro. “Facce nuove apparivano in Strada, facce scure e sinistre dallo sguardo furtivo e i lineamenti stranieri, facce i cui possessori usavano parole sconosciute e piazzavano insegne dai caratteri noti o ignoti sulla facciata di dimore decrepite. Carretti a spinta affollavano il bordo dei marciapiedi e su tutto regnava un puzzo sordido, indefinibile. L’antico spirito si era assopito.”
Qui non si tratta dei pesci-rospo di Innsmouth, ma degli immigrati (per di più anarchici), e lo spirito che si è assopito è quello dell’Americanismo. Però l’esito è lo stesso: la decadenza e poi la distruzione dell’abitato. Viene il sospetto che gli orrori paventati da Lovecraft fossero assai meno “cosmici” di quanto pretendeva, e legati a timori molto più concreti (e un tantino ignobili). Anche perché, nel già citato Orrore a Red Hook, vi è una vera e propria simbiosi tra culti innominabili e genie bastarde venute a sporcare l’America (in quel caso, italiani “dalla pelle scura” e altra gentaglia).
Ma Lovecraft non si presta a simili semplificazioni (anche se una traccia del sospetto rimane). Lo dimostra l’ulteriore svolgimento dell’avventura a Innsmouth. Il vecchio ubriacone ci ha spiegato praticamente tutto. Ogni tanto, però, infiorava il suo racconto di nomi impronunciabili e di esclamazioni demenziali, tipo “Iä! Iä! Cthulhu fhtagn!”. Il lovecraftiano accanito sa benissimo che già questo è un elemento “cosmico”. Si tratta infatti di un riferimento a quella pletora di divinità pazzoidi – Azathoth, che pare comandarle tutte, e poi Nyarlathotep, Shub-Niggurath, Dagon, Cthulhu, Tsathoggua, Yog-Sothoth e via delirando – che Lovecraft colloca negli angoli più riposti dell’universo, sotto i mari, nelle fessure delle cantine, sulla cima di campanili maledetti, a ricordarci che sotto la fragile crosta della nostra esistenza quotidiana si spalancano gli abissi gelidi del caos. E qui, oggettivamente, il suo racconto si stacca con decisione da una vicenda alla King Kong più colorita.
Ma il meglio sta per venire. Siamo solo a due terzi del racconto e il mistero è stato svelato. Sembrerebbe che l’epilogo non debba tardare. Niente affatto. A sorpresa Lovecraft ci inchioda con pagine e pagine di pura azione e pura suspense. Il protagonista cerca di lasciare Innsmouth in corriera, ma l’autista finge un guasto. Il gagà è costretto a riparare in albergo, mentre sulla piazza si stanno silenziosamente radunando torme di giovanastri dallo sguardo obliquo, alla Infernale Quinlan. Gli viene assegnata una stanza senza chiavistello. Ne improvvisa uno di fortuna. Dal corridoio gli giungono sussurri rauchi e passi strascicati. La luce gli si spegne. Una mano tenta di aprire la serratura. La stanza confina con le altre adiacenti attraverso due porte. Vengono saggiate anche quelle. E’ il terrore. Il giovane corre alla finestra ma le altre case sono troppo distanti. Per raggiungere un tetto deve spostarsi alcune stanze più in là. La velocità è tutto. Attraverso gli usci comunicanti passa da una camera all’altra, cercando di sbarrare le porte alle sue spalle e quelle che danno sul corridoio. Ma non c’è tempo. Gli usci crollano sotto colpi possenti, nel corridoio una torma eccitata strascica i piedi e saltella
Mi fermo qui. Il labirinto delle stanze è reso con una sapienza degna di un Marivaux volto in tragedia, la disumanità radicale degli inseguitori è di quelle che restano scolpite nella mente. Quando, dopo ulteriori insidie, il fuggiasco raggiunge il mare, archetipico traguardo di libertà, lo aspetta la più orribile delle sorprese: “…il tratto di mare fra lo scoglio e la riva era ben lungi dall’essere deserto. Brulicava di un’orda di sagome indistinte che nuotavano verso la città; e persino a quella distanza e in base a quell’unico sguardo, mi resi conto che le teste affioranti sulle onde e le braccia che si tuffavano ritmicamente nell’acqua erano abnormi e indescrivibili.”
Lovecraft si conferma il poeta degli squarci terrificanti, delle visioni fugaci capaci di pietrificare. Quando rinuncia a questa sua abilità sprofonda nel banale. Le montagne della follia (1931) è un’opera non riuscita perché pagine intere sono dedicate alla descrizione degli shoggoth. Il caso di Charles Dexter Ward (1927) sfiora il capolavoro per i suoi pozzi scuri in cui qualcosa salta con frenesia, per le sue celle in cui creature incomplete vivono una loro abominevole vita. Però il tutto resterebbe un vuoto involucro, sia pure confezionato con maestria, se non ci fosse dell’altro. Che cosa? Rieccoci al racconto preso a paradigma. Il giovane prigioniero di Innsmouth è riuscito a lasciare la città, dopo infinite peripezie. Ha potuto avvisare la polizia, mettere termine al culto di Dagon, far distruggere i pesci-rospo e deportare gli uomini-pesce. Bene, sembra incredibile, ma il vero orrore comincia adesso.
C’è una tranquilla conclusione, che però si prolunga. Si prolunga troppo. Il giovane descrive il suo rientro in famiglia, alcune escursioni prive d’interesse, sciocchezze varie. Prende tempo, divaga. Poi ecco che, gradualmente, una ricerca genealogica gli svela la verità. E’ anche lui imparentato con la gente di Innsmouth. Le conseguenze non tardano a manifestarsi. “Uno spaventoso potere, me ne rendevo conto, stava cercando di trascinarmi dal sano mondo della vita quotidiana in un abisso indicibile di tenebra e straniamento; la mia salute cominciò a risentirne, finché, da ultimo, fui costretto a rinunciare al mio lavoro e a condurre la vita ritirata e solitaria di un malato. Soffrivo di bizzarri disturbi del sistema nervoso e mi accorsi che spesso non riuscivo nemmeno a chiudere le palpebre.” Il suo destino è compiuto. Ben presto, lo specchio gli restituisce l’orrenda maschera di Innsmouth. Pensa al suicidio, ma poi si abbandona al fato ineluttabile che lo attende nelle profondità marine. E’ diventato un altro, e tanto vale che viva fino in fondo la nuova condizione.
Bene, ciò che i personaggi di Lovecraft paventano di più è proprio lo straniamento. Non la morte. La morte come paura principale, e soprattutto la morte lenta, preceduta da una lunga agonia, è propria di Poe come di Stephen King, di Le Fanu come di Ramsey Campbell. I protagonisti dei racconti di Lovecraft muoiono raramente. Di solito subiscono una trasformazione, che li fa entrare a far parte dell’incubo che li ossessionava – il mondo scuro e demenziale di Shub-Niggurath, di Azathoth, dei Pallidi Notturni, del Capro Nero dai Mille Cuccioli. Un mondo che, più che malvagio, è gelido e meccanico, privo di sentimenti che non siano brame e scosso da una furia famelica non sorretta dalla collera, ma solo dalla cecità eretta a regola universale.
Ciò che Lovecraft vede scivolare fuori da ogni anfratto, affiorare dall’oceano, scavarsi una strada tra i ghiacci polari, calare dal cielo con ali membranose è dunque la perdita di identità, dovuta alla perdita di punti di riferimento sicuri. E’ questa la minaccia che legge nei volti degli immigrati che sciamano per le strade un tempo familiari; è questo il pericolo che scorge nell’ascesa della borghesia, detestata con tanta veemenza da indurlo a oscillare tra socialismo e ideale aristocratico, senza nemmeno rendersi conto della contraddizione.
Lovecraft odia e teme il mondo moderno, in cui non si riconosce, e non cessa di incensare il XVIII secolo. Ma questo è ciò che dichiara. Molto probabilmente la verità è tutt’altra. E’ quella di un ragazzo di quattordici anni che, costretto da un’improvvisa povertà a lasciare una casa zeppa di quadri e arredi settecenteschi, si domanda (in terza persona!) che cos’è mai “HPL” senza il contesto che gli era familiare. E se lo domanda con tale intensità da pensare addirittura al suicidio.
La perdita di identità. Schizoide se mai ve ne furono, certo Lovecraft teme, sulla scorta di quanto capitato al padre, la schizofrenia pura, il definitivo smarrimento dell’Io. Tanto da tenerlo assieme con i puntelli di un passato immaginario e favoleggiato, mentre il presente gli si presenta come una nebbia popolata da sagome indistinte e ostili: “…ho sempre avuto la vaga sensazione che dopo il XVIII secolo tutto sia irreale e illusorio: una specie di incubo grottesco, di irreale caricatura. La gente è per me una folla d’ombre ironiche, fantasmi e nient’altro, come se avessi il potere di farla svanire nel nulla…”
Accessi di superomismo, crisi depressive, rifugio nell’attività onirica (regolarmente terrificante), insistenza sui temi della maschera e del doppio. Mai sintomi psicotici furono tanto chiari. Il XVIII secolo non esiste proprio: il XVIII secolo è lo stesso Lovecraft che lo usa come cassetto per mantenervi i brandelli della sua coscienza. Del resto, le testimonianze sullo scrittore divergono ampiamente. Chi, come Bergier, vede in lui un marziano; chi, come Bloch, lo trova affabile e portato alla vita sociale; chi, come la maggioranza degli altri, nota in lui “l’estraneo” amico solo dei gatti. Chi, come la moglie, constata quanto sia difficile vivergli accanto.
Quanto allo spessore “cosmico” della sua opera, che gli era tanto caro, sussiste solo nella misura in cui, come sostenevano gli antichi, microcosmo e macrocosmo si riflettono reciprocamente. “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare il miracolo della cosa una” diceva il vecchio Trismegisto. Dove la “cosa una” è, nel nostro caso, proprio l’identità fragilissima di Lovecraft, tenuta assieme dalla proiezione nel cosmo del terrore che lo attanaglia nell’intimo, alla vista di una quotidianità di cui non riesce a sentirsi partecipe. Se ne potrebbe concludere, cinicamente, che alla radice del grande e del sublime è sempre rintracciabile una mamma troppo invadente, e magari un paio di zie. Ma sarebbe equivocare completamente i termini del discorso. Lovecraft non è grande perché è schizoide. Se così fosse, sarebbe Kafka e velerebbe molto meno le sue paure. No, la grandezza di Lovecraft sta tutta nella sua abilità narrativa, che non permette al lettore, che ne ignori la biografia, di cogliere alcunché di quanto detto finora. Lovecraft è grande non per le motivazioni della sua narrativa, bensì per la sua eccezionale perizia tecnica.
Per scrivere un racconto come La maschera di Innsmouth occorre un’abilità fuori del comune. Ciò non esclude affatto l’arte, se non nel crocianesimo degli stenterelli. I film di Hitchcock sono opere d’arte (non sempre, è chiaro) sebbene si basino essenzialmente su una fantastica padronanza del mezzo tecnico. Lo stesso vale per molti pittori, antichi e moderni. Bene, Lovecraft ha una padronanza assoluta dei tempi dello svolgimento drammatico, dei ritmi, della risonanza emotiva da provocare nel lettore. Che poi ottenga questo risultato usando un linguaggio obsoleto, situazioni improbabili, qualche luogo comune e aggettivi a manciate è del tutto secondario. Anzi, depone a favore del suo genio. Molti autori meglio dotati di lui non riescono a interessare il lettore, e nemmeno a farlo riflettere nella stessa misura.
Lovecraft, invece, è talmente bravo da fare dimenticare le sue incongruenze. Lo si ammetta o no, la sua prosa cattura, coinvolge, spaventa, turba, tanto da far pensare che dietro vi sia qualcosa di più. Invece c’è solo la penna agilissima del ghost writer di professione, che quando scrive per se stesso lo fa con gioia evidente. Anche perché, forse, si tratta degli unici momenti di gioia della sua vita opaca e sofferente.
Sorprendente, no? Eravamo partiti alla ricerca dell’ “estraneo”, del “solitario” (ahi, ci sono ricaduto!), del profeta incompreso, dell’esploratore dei recessi dell’universo. Troviamo invece un grande artigiano, maestro della suspense e del ritmo, calibratore attento delle emozioni altrui. Uno che sa descrivere un inseguimento tra le stanze di un vecchio albergo come Friedkin descriverà, un’eternità più tardi, l’inseguimento tra auto de Il braccio violento della legge. E non è davvero poco.
Che poi Lovecraft mascherasse qualcos’altro dietro la sua narrativa è affar suo. Tutta la letteratura è maschera.

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