DOSSIER CONTRO L'ELETTROSHOCK
Che cos'è?
Parla Ugo Cerletti, inventore dell'elettroshock
Elettroshock: se lo conosci lo eviti

Che cos'è?

L'elettroshock è una tecnica che consiste nel provocare artificialmente nel paziente una crisi epilettica generalizzata per mezzo
del passaggio di una corrente elettrica attraverso il cervello.

E' utilizzato soprattutto come terapia per le depressioni gravi, ma è stato somministrato anche a schizofrenici, catatonici, e in
generali a pazienti con problemi psichiatrici che non possono assumere farmaci, come le donne incinte e gli anziani.

Viene effettuato applicando alle tempie del paziente due elettrodi collegati ad un generatore di corrente. Le mandibole del
paziente vengono bloccate, e viene applicata una corrente per un periodo di tempo di pochi secondi.

Il passaggio della corrente attraverso il cervello provoca immediatamente un intenso attacco convulsivo, identico ad un grave
attacco di epilessia, che dura più o meno 30 secondi.

La seduta viene ripetuta 2 o 3 volte alla settimana, per circa un mese, ma il ritmo e la durata del trattamento variano in funzione
della gravità e del tipo di disturbo.

Ugo Cerletti, inventore dell'elettroshock, descrisse nel modo seguente il metodo che portò allo sviluppo del suo lavoro:

"Vanni mi informo' del fatto che al macello di Roma i maiali venivano ammazzati con la corrente elettrica. Questa informazione
sembrava confermare i miei dubbi sulla pericolosita' dell'applicazione di elettricita' all'uomo. Mi recai al macello per osservare
questa cosiddetta macellazione elettrica, e notai che ai maiali venivano applicate alle tempie delle tenaglie metalliche collegate
alla corrente elettrica (125 volt). Non appena queste tenaglie venivano applicate, i maiali perdevano conoscenza, si irrigidivano,
e poi, dopo qualche secondo, erano presi da convulsioni, proprio come i cani che noi usavamo per i nostri esperimenti. Durante
il periodo di perdita della conoscenza (coma epilettico), il macellaio accoltellava e dissanguava gli animali senza difficolta'. Non
era vero, pertanto che gli animali venissero ammazzati dalla corrente elettrica, che veniva invece usata, secondo il suggerimento
della Societa' per la prevenzione del trattamento crudele agli animali, per poter uccidere i maiali senza farli soffrire.

Mi sembro' che i maiali del macello potessero fornire del materiale di grandissimo valore per i miei esperimenti. E mi venne
inoltre l'idea di invertire la precedente procedura sperimentale: mentre negli esperimenti sui cani avevo tentato di utilizzare
sempre la minima quantita' di corrente, sufficiente a procurare un attacco senza causar danno all'animale, decisi ora di stabilire
la sua durata temporale, il voltaggio ed il metodo di applicazione necessari a provocare la morte dell'animale. L'applicazione di
corrente elettrica sarebbe stata dunque fatta attraverso il cranio, in diverse direzioni, e attraverso il tronco, per parecchi minuti.
La prima osservazione che feci fu che gli animali raramente morivano, e questo solo quando la durata del flusso di corrente
elettrica passava per il corpo e non per la testa. Gli animali ai quali veniva applicato il trattamento piu' severo rimanevano rigidi
mentre durava il flusso di corrente elettrica, poi, dopo un violento attacco di convulsioni, restavano fermi su un fianco per un
poco, alcune volte parecchi minuti, e finalmente tentavano di rialzarsi. Dopo molti tentativi di recuperare le forze, riuscivano
finalmente a reggersi in piedi e fare qualche passo esitante, finche' erano in grado di scappar via. Queste osservazioni mi
fornirono prove convincenti del fatto che una applicazione di corrente a 125 volt della durata di alcuni decimi di secondo sulla
testa, sufficiente a causare un attacco convulsivo completo, non arrecava alcun danno.

A questo punto ero convinto che avremmo potuto tentare di fare degli esperimenti sugli uomini, e diedi istruzioni ai miei
assistenti affinche' tenessero gli occhi aperti per selezionare un soggetto adatto.

Il 15 aprile 1938 il commissario di polizia di Roma mando' nel nostro Istituto un individuo con la seguente nota di
accompagnamento: "S.E., trentanove anni, tecnico, residente in Milano, arrestato alla stazione ferroviaria mentre si aggirava
senza biglietto sui treni in procinto di partire. Non sembra essere nel pieno possesso delle sue facolta' mentali, e lo invio nel
vostro ospedale perche' venga posto sotto osservazione..." Le condizioni del paziente al 18 aprile erano le seguenti: lucido, ben
orientato. Descrive, usando neologismi, idee deliranti, riferendo di essere influenzato telepaticamente da interferenze sensoriali,
la mimica corrisponde al senso delle parole; stato d'animo indifferente all'ambiente, riserve affettive basse; esami fisici e
neurologici negativi; presenta cospicua ipoacusia e cataratta all'occhio sinistro. Si arrivo' ad una diagnosi di schizofrenia sulla
base del suo comportamento passivo, l'incoerenza, le basse riserve affettive, allucinazioni, idee deliranti riguardo alle influenze
che diceva di subire, i neologismi che impiegava.

Questo soggetto fu scelto per il primo esperimento di convulsioni elettricamente indotte sull'uomo. Si applicarono due grandi
elettrodi alla regione frontoparietale dell'individuo, e decisi di cominciare con cautela, applicando una corrente di bassa
intensita', 80 volts, per 0,2 secondi. Non appena la corrente fu introdotta, il paziente reagi' con un sobbalzo e i suoi muscoli si
irrigidirono; poi ricadde sul letto senza perdere conoscenza. Comincio' improvvisamente a cantare a voce spiegata, poi si
calmo'.

Naturalmente noi, che stavamo conducendo l'esperimento, eravamo sottoposti ad una fortissima tensione emotiva, e ci pareva
di aver corso gia' un rischio notevole. Nonostante cio', era evidente per tutti che avevamo usato un voltaggio troppo basso. Si
propose di lasciare che il paziente si riposasse un poco e di ripetere l'esperimento il giorno dopo. Improvvisamente il paziente,
che evidentemente aveva seguito la nostra conversazione, disse, chiaramente e solennemente, senza alcuna parvenza della
mancanza di articolazione del discorso che aveva dimostrato fino ad allora: "Non un'altra volta! E' terribile!"

Confesso che un simile esplicito ammonimento, in quelle circostanze, tanto enfatico ed autorevole, fatto da una persona il cui
gergo enigmatico era stato fino a quel momento molto difficile da comprendere, scosse la mia determinazione di continuare
l'esperimento. Ma fu solo il timore di cedere ad un'idea superstiziosa che mi fece decidere. Gli elettrodi furono applicati
nuovamente, e somministrammo una scarica di 110 volts per 0,2 secondi." (Cerletti 1956)

Elettroshock: se lo conosci lo eviti

Roberto Fornara
Neuropsichiatra infantile
Docente presso la Scuola di Formazione per Educatori di Comunita',
Universita' degli Studi Roma 3

Non vorrei dilungarmi sulle origini e sulle caratteristiche dell'elettroshock: basti sapere che il suo inventore si chiama Cerletti e
che la sua prima applicazione sull'uomo risale al 1938.

Cio' che ritengo di fondamentale importanza e' che da allora sono state elaborate una cinquantina di teorie per spiegare il
meccanismo d'azione di questa tecnica, ma nessuna di esse si e' rivelata esatta.

Come medico e psichiatra, mi chiedo se questo "particolare" possa essere trascurato, e onestamente me lo chiederei anche se
fossi un malato mentale o un suo congiunto.

Purtroppo sembra trattarsi solo di "scrupoli" eccessivi, dal momento che oggi, come e forse piu' di ieri, al riparo delle strutture
private e pubbliche l'elettroshock continua ad avere un ruolo terapeutico.

Sembra piuttosto singolare la forsennata puntualizzazione con la quale molti colleghi precisano la ristrettezza degli ambiti in cui
utilizzare queta tecnica (refrattarieta' agli psicofarmaci, depressione in gravidanza, stati catatonici, atteggiamenti autolesivi,
insonnie intrattabili). Singolare perche' in realta', al di fuori di queste categorie diagnostiche, il ricorso all'elettroshock appare
piuttosto diffuso, molto piu' diffuso di quanto farebbe immaginare la frequenza statistica delle suddette categorie diagnostiche.

Non sempre, poi, il paziente e' in grado di scegliere serenamente il da farsi. In tal caso e' il parere dei congiunti (o quello dei
medici che informano?) a determinare se e quante volte il malato sara' sottoposto al trattamento. Gia', perche' una volta sola
difficilmente puo' bastare e occorre una serie di sedute per arrivare ad un'apparente e troppo spesso fugace remissione dei
sintomi.

Strano fenomeno: se una persona malata prende per anni psicofarmaci, di cui si conosce il meccanismo d'azione, senza risultati
apprezzabili, entra "di diritto" nell'orbita della terapia elettroconvulsivante; se lo stesso paziente si sottopone (o viene
sottoposto) a una decina di sedute di elettroshock (di cui non e' noto il meccanismo d'azione), viene quasi sempre invitato a
continuare l'esperimento...

Credo che in realta' l'elettroshock non meriti sempre e comunque una difesa "scientifica" senza una reale base scientificamente
provata.

Semmai andrebbe orientata la maggior parte dei nostri sforzi per comprendere le ragioni profonde del disagio psichico di una
persona che troppo frettolosamente definiamo paziente.

Spesso la depressione rappresenta una tappa necessaria nel processo di crescita di una persona; l'elettroshock dovrebbe
risvegliarla, riportarla al mondo, ma al mondo spesso vengono restituiti soltanto dei relitti umani, dei frammenti di anima piu'
smarriti e piu' disperati di prima.

Talvolta l'elettroshock potra' anche rappresentare un'ultima spiaggia, ma in realta' e' il segno della nostra impotenza terapeutica,
che si trasforma in cieco accanimento verso la malattia mentale, passando obbligatoriamente attraverso la testa del paziente
senza considerare la sua anima.

Non possiamo essere complici di questa miopia psicologica: guardiamo oltre, guardiamo dentro, guardiamoci dentro!

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