MINIERE, CAVE, VETRERIE E FORNACI.
Scenari ottocenteschi se ci si affaccia ai bordi di una miniera d'oro
peruviana, dove il 20 % dei lavoratori ha fra gli 11 e i 18
anni e le condizioni sono durissime. O se si accompagna un piccolo
carbonaio brasiliano in mezzo alla fuliggine. O uno
spaccapietre, sovente schiavo per debiti, di dieci anni, nella cava
di Faridabad, India, che rischia di diventare cieco per la
polvere e il riverbero. O se si osservano le mani da vecchio di un
piccolo fabbricante di mattoni a Bogotà. O se si cerca di
respirare nei 50 gradi di una vetreria indonesiana dove i bambini lavorano
ai forni senza protezione.
PROSTITUZIONE
Bambini e bambine avviati alla prostituzione per soddisfare gli appetiti
sessuali di ricchi turisti e uomini d'affari. 500.000 bambini
e bambine prostituti in Brasile (secondo il Ministero degli Affari
sociali), 300.000 in Thailandia, 100 000 nelle Filippine,
300.000 in India, 50.000 in Vietnam, 40.000 in Pakistan.
TE` BANANE PER CONSUMATORI MOLTO LONTANI.
Quanti ragazzi muoiono ogni anno manipolando pesticidi nelle piantagioni?
E` raro che la notizia di ragazzini morti intossicati tra
le banane - ad esempio - del Centro America, arrivi fino a noi.
In Bangladesh, Nepal e India invece sono le piantagioni di tè
a incorporare lavoro infantile in quantità (in Assam il 70 % della
manodopera). Orari enormi, paghe minime. Ciò consente i profitti
altissimi delle multinazionali del tè e delle loro associate locali.
Se solo fossero disposte a rinunciare a una piccola parte dei loro
profitti, esse potrebbero aumentare le paghe dei lavoratori
senza perdere di competitività e in un colpo solo si eliminerebbe
il lavoro minorile, la denutrizione e l'analfabetismo.
CONCIATI PER LE FESTE
Cairo e dintorni. Nelle concerie lavora una parte dell'1,4 milioni di
piccoli egiziani fra i 6 e i 14 anni. Le condizioni di lavoro
sono le stesse da sempre: ma si sono aggiunti molti prodotti chimici
e i bambini continuano a lavorare a mani e piedi nudi. In
India, Brasile o nel Sud-Est asiatico lo spettacolo e più o
meno lo stesso.
ABITI, SETA E SCARPE PER CONSUMATORI LONTANI
Sono i prodotti di bassa tecnologia e largo consumo quelli con la cui
produzione per l'esportazione paesi come Thailandia,
Cina, Indonesia e India stanno tentando la scalata dello sviluppo industriale.
Di mezzo ci sono le multinazionali che in genere
appaltano il lavoro a ditte locali, le quali a loro volta lo subappaltano
a ditte locali, le quali a loro volta lo subappaltano a ditte
più piccole. In questo "giro" si annida il lavoro dei bambini,
difficilissimo da scovare. In Indonesia il lavoro minorile è legalizzato
(ma solo per 4 ore al giorno) e le piccole tute blu dell'industria
manifatturiera sono almeno 300.000. Per salari bassissimi
bambini e bambine lavoratori di 10-l2anni, assunti al posto dei genitori,
vivono lontano dalle famiglie. Nel 1991 è stata
denunciata la presenza di piccoli al lavoro anche nelle fabbriche che
producono costose scarpe per la famosa multinazionale
Nike, che fa i propri bilanci lesinando la lira ai lavoratori e spendendo
miliardi in pubblicità. Un'altra marca famosa, la Adidas,
ha trasferito la produzione in Asia, chiudendo tutti gli stabilimenti
europei.
L'INCUBO DEI GIOCATTOLI
Sull'etichetta ci sarà pure scritto Mattel o Chicco; ma ormai
l'80% dei giocattoli di tutto il mondo è fatto in Cina (dove lo
stesso
Ministero del lavoro si è detto preoccupato per la situazione
dei bambini), Thailandia e Indonesia. Bambini che per 12 ore si
trovano a contatto con plastica infiammabile, in ambienti surriscaldati,
con poco cibo e dormendo in capannoni-ghetto.
Nel 1993 due fabbriche di giocattoli, in Thailandia e Cina, hanno preso
fuoco.
Centinaia le vittime, tra cui molte ragazzine. Una delle due fabbriche
produceva per la Chicco.
Contro i giocattoli indiani e in corso la Toycott Campaign (toy=giocattolo).
TAPPETI PER L'ELEGANZA DI CASE MOLTO LONTANE
Un milione di bambini tessono tappeti su decine di migliaia di telai
sparsi fra il Pakistan, l'India e il Nepal. Antiche ditte di
esportazione si rivolgono a intermediari locali che a loro volta girano
l'ordine ai proprietari di telai. Questi poi affidano il compito
a tessitori che producono con l'aiuto di alcuni salariati. Molti gli
intermediari, e tutti vogliono guadagnarci.
Rifacendosi sui dipendenti finali, che spesso sono bambini: preferiti
non solo per via delle piccole dita molto adatte al lavoro, ma
anche perché gli adulti non sono disposti a farsi sfruttare
proprio fino all'osso.
I bambini non hanno scelta. Prelevati da lontani villaggi con l'inganno
di buone prospettive e con la corresponsione di un
anticipo agli ignari e poverissimi genitori, vengono imprigionati in
stanzette anguste, con poca luce, a rovinarsi ossa e vista dietro
un telaio fabbricando nodi su fili ben tesi, dormendo poi nello stesso
locale in mezzo alla polvere, nutriti male. Quando si
tagliano la ferita viene bruciata con un fiammifero per non sporcare
i tappeti di sangue.
DOMESTICI DELLE FAMIGLIE RICCHE.
Non li vede nessuno ma sono a milioni i piccoli domestici, dai 6 anni
in poi, molto spesso pagati solo con il cibo - poco e
diverso da quello dei padroni - e maltrattati.
Ad esempio sono 100.000 i bambini resteaveck (resta con) haitiani,
che le famiglie rurali povere affidano ai cittadini. A volte
questi piccoli servitori vengono portati all'estero dai padroni. Questo
fenomeno e stato rilevato nel 1994 dall'associazione
Anti-Slavery International che ha denunciato famiglie di diplomatici
di stanza in Svizzera e Francia.
SCHIAVI PER DEBITI.
In India, Pakistan, Brasile, Perù, Haiti una famiglia povera
che si indebita rischia forte: prende un prestito da un usuraio e si
ritrova a lavorare finche non ha ripagato il debito. Ma gli interessi
sono troppo alti e la condizione di schiavitù si tramanda di
padre in figlio, in agricoltura, nelle cave, nelle fornaci o nelle
miniere, sui tappeti, nelle vetrerie o nelle fabbriche di fiammiferi. II
tutto a dispetto dei divieti previsti dalla legge. In Pakistan si stima
che siano 8 milioni i bambini in schiavitù, su 20 milioni di
adulti.
FRA RIFIUTI E TRAFFICO.
80 milioni di bambini lavorano per strada, anche se i più hanno
una "casa". Alla periferia Manila sono in l2. 000 a scalare la
montagna "fumanete" (di rifiuti) per selezionare il minimo residuo
utile. Lo stesso avviene nelle vie e nelle discariche di tutte /e
città del Terzo mondo. Un lavoro ad estremo rischio sanitario
che attira il disprezzo su chi lo svolge. Altri fanno i giornalai, i
lavavetri o i lustrascarpe. Altri ancora, in Asia, fanno gli asini:
trasportano esseri umani e merci sul risciò, sfruttati dal
proprietario del medesimo.
1.1 Anche la fatica infantile attraversa le frontiere e i secoli.
Oggi in Colombia Pedro Faustina Rincon, otto anni, la metà di
quanti ne dovrebbe avere se le leggi fossero rispettate, lavora
duramente in una miniera di Bogotà. Ebbene, 110 anni fa tanti
Pedro Faustina Rincon vivevano, forse ancora più sfruttati, nelle
miniere francesi.
Era l'anno in cui Emile Zola, dopo una approfondita indagine sul terreno
- anzi nel sottosuolo - pubblicò "Germinal", libro
denuncia che descrive il lavoro spaventoso di uomini e bambini minatori
costretti ad arrampicarsi in cunicoli senz'aria. Lydie,
dieci anni, lo stupiva per la sua forza di magra formichina in lotta
contro un peso troppo grosso. "Un lavoro da galere, ci si
lasciava la pelle talvolta, e per che cosa? Si mangiava, ma poco, quanto
bastava per soffrire senza crepare, schiacciati dai
debiti, perseguitati come se il pane lo si fosse rubato".
II 28 marzo 1882 in Francia l'istruzione primaria diventa obbligatoria
e gratuita e questo, insieme alle conquiste dei lavoratori
adulti, si rivela il miglior rimedio contro il lavoro dei bambini.
Ma in giro per il mondo, dopo 110 anni, lo sfruttamento dei bambini
persiste.
Concentrati in Asia, Africa e America Latina più di cento milioni
di bambini fra i 5 e i 15 anni (a seconda dei parametri di
calcolo anche 150 milioni) si alzano presto, mangiano un po' di zuppa
della sera prima e partono ad affrontare una giornata di
lavoro che può durare anche 18 ore e che nel 50% dei casi è
malsana e pericolosa.
All'inizio degli anni '80 l'Organizzazione Internazionale del Lavoro
(organo tripartito formato da rappresentanti dei governi, dei
sindacati e degli imprenditori) e l'Unicef si tenevano sugli "oltre
50 milioni". Ma nel frattempo la situazione della maggior parte
dei paesi si è deteriorata e l'aumento della disoccupazione
e sottoccupazione adulta ha contribuito, paradossalmente ma non
troppo, a gonfiare il numero di bambini lavoratori per necessità
di famiglia.
Lo spartiacque legale è fissato ai 15 anni, età minima
di ammissione al lavoro stabilita dalla convenzione dell'OIL n.138 del
1973. firmata da decine di stati.
1.2 Ma il lavoro infantile non è tutto uguale.
La stessa Unicef (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'infanzia)
fa una distinzione netta fra due categorie di bambini
lavoratori:
- quelli che aiutano all'interno della famiglia contadina o artigiana
che lavora in proprio, e per povertà e mancanza di
infrastrutture e garanzie sociali ha bisogno di braccia infantili.
Il bambino può lavorare qualche ora e andare a scuola o in altri
casi lavora tutto il tempo, ma non si può parlare di sfruttamento,
solo di miseria;
- quelli che vengono sfruttati da un padrone, magari una multinazionale.
Ugualmente occorre distinguere fra i casi meno gravi - il lavoro per
alcune ore, in settori che non pregiudicano la salute e la
crescita - e quelli più gravi, cioè il lavoro a tempo
pieno e in condizioni di nocività.
È l'Asia il continente dove il lavoro infantile è non
solo numericamente maggiore, ma rappresenta un vero modello produttivo.
Senza considerare il lavoro agricolo svolto dai bambini nell'ambito
di un'economia familiare di sussistenza, i bambini asiatici si
dedicano a ogni tipo di produzione, in genere nel settore cosiddetto
informale, cioè del lavoro nero e di subappalto: piantagioni,
concerie, cave, miniere, laboratori tessili e di giocattoli, fornaci,
edilizia, commercio, lavoro domestico e selezione dei rifiuti.
Contribuisce non poco a questo fenomeno la delocalizzazione operata
dalle multinazionali occidentali in vari settori produttivi. In
Asia si concentra il maggior numero di stati in cui il lavoro infantile,
almeno oltre i 12 anni, è permesso.
In Africa lavora un bambino su tre, ma prevalentemente nell'agricoltura
familiare e nel piccolissimo commercio. Il degrado
dell'economia - con l'aumento del debito estero, la caduta dei prezzi
dei prodotti di base e la riduzione delle spese sociali - ha
favorito il lavoro infantile nel settore informale.
In America Latina lavora il 15 - 20 % dei bambini al di sotto dei 15
anni e non pochi di loro sono anche ragazzi di strada. In
agricoltura - per l'autoconsumo o nelle piantagioni - ma anche nelle
miniere e nelle fabbriche d'abbigliamento delle zone franche
le cosiddette aquilladoras, del Centramerica.
Sorpresa Stati Uniti. Un rapporto del Dipartimento del lavoro statunitense
sul lavoro infantile nel mondo tace per carità di patria
sul solo caso statunitense...ma l'OIL ha calcolato che lavorano il
28% dei ragazzi di meno di 15 anni.
Sorpresa Europa. Gli ultimi anni di crisi, con la riduzione dell'occupazione
e quindi del reddito degli adulti, hanno portato a una
ripresa del fenomeno anche nella stessa Gran Bretagna, che fu il primo
paese a regolare il lavoro infantile nel 1833. In
Portogallo lavora il 5 % dei ragazzini fra i 12 e i 14 anni, e nel
1993 una legge ("vergogna nazionale" per i sindacati) ha preso
atto della realtà permettendo il lavoro infantile purché
"leggero". In seguito l'Unione Europea ha emanato una direttiva che
permette il lavoro infantile stagionale e nell'ambito dell'attività
familiare. In Francia non sono pochi, inoltre, i piccoli turchi o
indiani tamil che dormono sui tessuti che taglieranno il giorno dopo.
L'Italia è sempre più un caso patologico.
Novità Europa dell'Est. "Lo spaventoso degrado economico ha
portato molti ragazzi a lavorare nelle strade: lavando i vetri si
guadagna quanto un tecnico informatico, allora perché andare
a scuola?" osserva il mensile francese Alternatives Economiques.
Ricerche dell'UNICEF e dell'Università di Baghdad rilevano che
circa il 30 % dei bambini ha abbandonato la scuola e lavora.
Una realtà completamente nuova che è conseguenza dell'embargo
internazionale che dura del 1990.
1.5 India, gigante del lavoro infantile.
Insieme, non a caso, a uno dei più elevati tassi di analfabetismo
al mondo, l'India ha il maggior numero assoluto di lavoratori fra
i 4 e i l4 anni. Il governo dice l7 milioni, l'0IL 45 ma per Swami
Agnivesh del Fronte per la liberazione dal lavoro schiavistico,
alla fine del 1994 erano circa 60. Una legge del 1986 proibisce ai
minori di 14 anni le attività più pericolose o nocive e
regolamenta le altre. Ma la scarsità di mezzi, la polverizzazione
delle unità produttive informali e la corruzione ostacolano i
controlli.
L'Asian Labour Monitor ha calcolato che i bambini, appartenenti in
genere a famiglie di rurali senzaterra, producono circa un
quinto del prodotto interno lordo indiano in agricoltura, miniere,
cave, fornaci, concerie, fabbriche tessili, seterie, telai per
tappeti, laboratori di fiammiferi, sigarette e fuochi d'artificio,
vetrerie, e nel gigantesco settore informale urbano, con la raccolta
dei rifiuti, il trasporto di pesi e il piccolissimo commercio. Almeno
5 milioni sarebbero anche schiavi - forzati cioè a non lasciare
il posto di lavoro, e non pagati - per debiti contratti dalle famiglie
oppure perché ai genitori è stato pagato un anticipo sul
loro
lavoro. La Corte Suprema indiana considera ormai schiavistico tutto
il lavoro dei bambini, non solo perché sono impossibilitati
a scegliere, ma perché non percepiscono il salario minimo stabilito
per legge. L'India è anche accusata, come altri paesi, di
praticare nelle sue produzioni per l'esportazione una concorrenza sleale
basata sullo sfruttamento. Ma dal 1994 il governo
indiano, anche su pressioni internazionali, sta mostrando buona volontà.
1.6 Il Brasile: terra di sfruttamento e di sfruttati
Come essere l'ottava potenza del mondo, avere un reddito medio pro capite
di 4.951 dollari, un serbatoio immenso di risorse
e... 34 milioni di poveri. Non ci si può stupire: è il
paese forse più ingiusto di questo mondo, con il 2 % degli abitanti
a
controllare il 60 % delle terre e i braccianti a lavorare per dieci
ore al giorno per sette giorni la settimana.
Così non solo ha 10 milioni di bambini di strada, ma, secondo
l'Istituto brasiliano di geostatistica, nelle dieci principali città
vede
lavorare il 35 % (si tratta di circa due milioni) dei bambini fra 5
e 9 anni membri di famiglie con reddito inferiore al minimo.
Nelle zone rurali lavorano invece 7 milioni di bambini e ragazzi al
di sotto dei 17 anni, occupati fra l'altro nelle piantagioni di
canna da zucchero. La Confederazione dei lavoratori agricoli (CONTAG)
ha denunciato inoltre nel 1994 l'esistenza di 40.000
bambini schiavi per debiti familiari. Una parte di questi lavora con
la famiglia nelle terribili fabbriche di carbonella del Carajas.
Chi scappa prima di aver pagato un debito - che peraltro non si estingue
mai - viene ucciso.
Una ricerca del sindacato CUT ha verificato una presenza pari al 30
% di under 14 nel settore tessile e calzaturiero da
esportazione.
2. Povertà e lavoro infantile.
Non s'è mai visto un bambino benestante lavorare. L'intreccio
fra povertà della famiglia e lavoro dei
bambini è evidente. Ma la Coalizione sud-asiatica contro la
schiavitù infantile sostiene che il lavoro
dipendente dei bambini - manodopera a buon mercato, remissiva e vulnerabile
- è anche causa, e non solo
conseguenza, di povertà sociale e individuale. Un bambino, un
futuro adulto, la sua famiglia e il suo paese
vengono svenduti per 10.000 lire al mese.
Analfabetismo a vita. Se gli rimane tempo e non è troppo stanco,
mentre lavora il bambino
potrà frequentare qualche scuola informale, ma non avrà
nemmeno un diploma elementare. Analfabeta,
non potrà difendere i propri diritti, anche di lavoratore adulto.
Salute minata. Prima di tutto dalla stanchezza. Riassume Narain Singh
Rao, attivista indiano per i diritti
dei minori: "Se io che ho trent'anni avessi iniziato a lavorare a 8,
adesso sarei ridotto come i miei amici
d'infanzia che l'hanno fatto. Sarei curvo e stanco, magari con la TBC;
circa l'80 % dei pazienti
tubercolotici degli ospedali indiani sono stati bambini lavoratori.
L'esposizione continua a polveri, prodotti
chimici, alte temperature e magari scarsa luce (o troppa) danneggia
gli organi respiratori, gli occhi, il
fegato, i reni".
Portare pesi o assumere posture forzate molto a lungo può pregiudicare
lo sviluppo osseo e la crescita. I
rumori eccessivi causano sordità parziali. L'esposizione alle
sostanze tossiche può avere gravi
conseguenze.
Danni psicologici. L'assenza di gioco o riposo, l'eventuale lontananza
dalla famiglia non possono che avere
ripercussioni negative sulla psiche infantile. Devastanti e senza ritorno
sono poi gli effetti fisico-psicologici
della prostituzione infantile.
L'OIL ricorda che il ricorso a bambini lavoratori sottopagati va di
pari passo con la disoccupazione degli
adulti e con una distribuzione ineguale della ricchezza.
Senza bambini a disposizione per le piantagioni e le fabbriche, il
lavoro dovrebbe essere dato agli adulti i
quali, eliminata quella concorrenza imbattibile, avrebbero anche un
maggior potere di rivendicazione
salariale e sociale. Non a caso il lavoro infantile è diffuso
soprattutto presso quella comunità dove gli adulti
riescono a lavorare solo saltuariamente o comunque con salari inferiori
al minimo sindacale.
2.3 Società impoverite per sempre.
L'equazione "bambini=braccia da lavoro", abbinata all'alto tasso di
mortalità infantile, incentiva le nascite
numerose rinnovando la spirale di povertà.
Le nazioni erediteranno un'altra generazione di lavoratori a basso
reddito, senza professionalità specifiche,
analfabeti, magari debilitati o addirittura invalidi. Altro che alleviare
la povertà.
Un bambino produce ricchezza quasi quanto un adulto ma viene remunerato
molto meno, in genere un
terzo. Far lavorare adulti sindacalizzati significherebbe invece aumentare
l'infimo potere d'acquisto delle
famiglie e dare chance a uno sviluppo endogeno, trainato dal mercato
interno.
2.4 Quali vantaggi per la famiglia?
Ben pochi, se una ricerca dell'Unicef in America Latina evidenzia come
grazie al lavoro dei figli piccoli, il
potere d'acquisto della famiglia aumenta al massimo del 10-20%: si
rimane nella povertà.
Anche senza parlare dei casi in cui alla famiglia viene corrisposto
solo un anticipo e poi il bambino lavora
gratis, è difficile che un baby lavoratore sotto padrone guadagni
più dell'equivalente di qualche chilo di riso
alla settimana
2.5 La povertà senza stato sociale
E vero che solo i bambini di famiglie povere lavorano, in situazioni
sociopolitiche prive di meccanismi di
salvaguardia sociale. Non c'entra troppo invece il livello di povertà
globale di una nazione, come
dimostrano il brutto esempio del ricco Brasile e il bell'esempio del
modesto stato indiano del Kerala, felice
eccezione del subcontinente.
A partire dalle prime elezioni del 1957 fino a poco tempo fa, il Kerala
ha avuto un governo "speciale",
sensibile verso i temi sociali e impegnato a garantire a tutti il soddisfacimento
dei bisogni fondamentali.
Realizzando la riforma agraria, aumentando il salario minimo e investendo
nell'istruzione obbligatoria e
nella sanità, ha portato a una situazione incoraggiante, capovolta
rispetto al resto dell'India.
Anche l'esempio dell'isola di Cuba è indicativo: nonostante
le difficilissime condizioni economiche, sono
state mantenute le conquiste sociali e là i bambini non lavorano.
Lo sfruttamento infantile è in stretta correlazione con le ingiustizie
distributive e aumenta quando la gente
è lasciata sola ad affrontare la sua povertà. Senza scuola
e sanità gratuite, senza sicurezza sociale, per
soddisfare i bisogni di base le famiglie devono chiedere a tutti i
componenti di darsi da fare per
sopravvivere. Non per nulla quando una situazione economica si degrada
e aumenta la disoccupazione
adulta, viene in soccorso il reddito sia pure limitato derivante dal
lavoro dei bambini.
Succede anche nei paesi europei e succede in Iraq, dove con l'embargo
il lavoro infantile è raddoppiato.
Le imprese preferiscono i bambini perché si possono sfruttare
meglio. La quasi totalità dei conciai del
Cairo ammette candidamente che cercherebbe di far lavorare bambini
anziché adulti
anche in presenza di leggi più restrittive.
I governi sono spesso complici diretti o indiretti: è loro responsabilità
se i lavoratori adulti percepiscono
salari insufficienti a mantenere la famiglia (lo stesso salario minimo
legale, nella maggior parte dei paesi
garantisce un potere d'acquisto infimo); se esistono 180 milioni di
contadini capifamiglia senzaterra che al
mattino si alzano senza sapere bene come rimediare la minestra del
giorno; e se i poveri sono tre miliardi.
Alcuni governi del Terzo mondo sostengono che il lavoro dei bambini
è appunto una malattia infantile
delle società povere e credono che i paesi occidentali siano
diventati ricchi grazie a questo sfruttamento.
E` invece vero il contrario.
2.7 Meccanismi internazionali.
II debito estero grande colpevole. A tutti i popoli sudditi di governi
indebitati del Sud i cosiddetti
programmi di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale
e della Banca mondiale
chiedono di lavorare molto, vendere molto e consumare poco, per accumulare
un grande avanzo
necessario a ripagare il debito.
Ciò significa un aumento dei livelli di sfruttamento dei lavoratori
e del territorio, per produrre a costi
minori rincorrendo i mercati internazionali. E significa anche dare
un taglio a quelle spese sociali - per la
scuola, la sanità - che permetterebbero alle famiglie di sopravvivere
pur con un reddito limitato.
2.8 Multinazionali sulla pelle (anche) dei bambini.
"La corsa alla competitività chiederà un giorno alla stessa
Europa di far tornare a lavorare i bambini in
massa: bella vittoria!" ironizza il mensile Le Monde diplomatique.
La bibbia della competitività internazionale si basa sulla delocalizzazione,
nuovo fenomeno nella lotta del
capitale contro il lavoro. Se per risparmiare sui costi le imprese
di alcuni settori sostituiscono i lavoratori
con le macchine, in altre produzioni è più conveniente
spostare la produzione laddove i lavoratori sono
meno esigenti e i governi più accondiscendenti.
Le società multinazionali (qui di seguito abbreviate in TNC)
preferiscono chi accetta di lavorare per 80 ore
la settimana e un pugno di centesimi di dollaro all'ora. E poi spendono
cifre enormi in pubblicità per
contendersi un mercato limitato di consumatori - non più di
un miliardo e mezzo - dato che per certi
prodotti l'immagine fa vendere più del prezzo basso.
Oltre alle tradizionali produzioni tropicali, i comparti industriali
più semplici - tessili, cuoio, giocattoli ed
elettronica soprattutto - prendono il volo lasciando vuote le fabbriche
europee per
trasferirsi verso paesi asiatici, latinoamericani e nordafricani. Gli
strumenti sono vari: le zone franche che
offrono alle TNC condizioni molto vantaggiose e piena libertà
di manovra, gli appalti ad aziende locali, i
subappalti e i subappalti dei subappalti, per i quali aziende sempre
più piccole e alla fine lavoratori a
domicilio producono per la grande committente. È in questa catena
che si annida il lavoro infantile.
Fino a dieci anni fa per i governi era un "no problem". Ora il dibattito
è acceso.
Lottare contro il lavoro infantile, a cominciare dalle sue forme più
aberranti (lavori pericolosi, a tempo pieno e sotto
padrone), significa costruire uno zoccolo minimo di difesa dei diritti
sociali per bambini e adulti di oggi e di domani.
Non e facile convogliare in una stessa direzione l'impegno necessario
di soggetti disparati: stati, organizzazioni
internazionali, sindacati, consumatori o perfino imprenditori o multinazionali.
Le opinioni sono diverse, a partire dalla alternativa: divieto totale
subito o regolamentazione? I sostenitori della
prima ipotesi accusano gli altri di eccessivo pragmatismo (perché
"lo sfruttamento dei bambini va abolito e basta,
cosi riducendo lo stesso sfruttamento degli adulti"); i secondi accusano
i primi di utopismo (perché' "la questione
vera è porre fine allo sfruttamento da parte di nazioni e classi
sociali; nel frattempo meglio un bambino che lavora e
mangia che uno affamato").
C'è logica in entrambe le posizioni; l'ipotesi "divieto totale",
accompagnata però da interventi che migliorino il
reddito dei genitori, ben si attaglia ai casi di lavoro sotto padrone
in condizioni di rischio e nocività. La seconda
(abolizione come risultato di un cammino di sviluppo) si adatta alla
grande percentuale di bambini che lavorano
aiutando i genitori in un'economia povera agricola o artigianale. Dove
in effetti non servono leggi e ingiuste
punizioni, ma interventi di riforma agraria, piccola meccanizzazione
collettiva, garanzia dei prezzi al produttore,
pensioni e sanità di base, infrastrutture, acqua potabile ed
energia vicino ai villaggi, e naturalmente istruzione di
base gratuita e disponibile.
Ciò premesso, gli interventi sul fronte del lavoro infantile
si possono raggruppare in tre tipologie.
Modificando la struttura economica del paese.
Gli investimenti sociali sembrano passati di moda... Ma spendendo in
dieci anni 25 miliardi di dollari (meno di
quanto gli americani spendono in birra e gli europei in vino in 2 anni),
secondo i calcoli del rapporto Unicef 1993 si
potrebbero dotare tutte le comunità di acqua potabile, sanità
e istruzione di base: un "pacchetto" che ridurrebbe la
fatica dei bambini che si occupano dell'acqua e della legna, o procurano
quel piccolo reddito indispensabile a
coprire ad esempio le spese sanitarie.
Sì a interventi di giustizia, chiedono le campagne contro il
lavoro infantile: garantire adeguate condizioni di vita e
potere d'acquisto alle famiglie fornendo sicurezza sociale, attuando
la riforma agraria, aumentando le possibilità di
occupazione per gli adulti, garantendo il diritto alla casa.
Anche nel caso dei paesi del Nord afflitti dalla piaga del baby-lavoro
è indispensabile ripartire più equamente le
risorse e il lavoro disponibile, e non smantellare lo stato sociale.
Applicando la "clausola sociale interna" proposta da sindacati e movimenti.
"Per evitare al tempo stesso la fame e il lavoro dei bambini bisogna
aumentare le paghe dei genitori" sostiene fra
gli altri Rosaline Costa della Commissione giustizia e pace del Bangladesh.
Questa posizione accomuna sindacati e
movimenti del Sud e del Nord del mondo, divisi invece sull'opportunità
di promuovere azioni di pressione, "ricatti"
commerciali o iniziative di boicottaggio nei confronti dei paesi colpevoli.
C'è la necessita di garantire diritti
elementari nell'ambito del lavoro dipendente, che nel Sud del mondo
è "nero" al 70-80 % e basato sullo
sfruttamento degli stessi adulti, costretti quindi a far integrare
ai bambini il reddito familiare. II divieto di lavorare
al di sotto di una certa età non può diventare operativo
se agli adulti viene corrisposto un salario al di sotto di
quello minimo legale, se quest'ultimo non viene rivisto verso l'alto
- per esempio il sindacato indiano CITU ne
chiede un aumento del 50 % - e se l'assistenza malattia e vecchiaia
non vengono generalizzate. E dunque
indispensabile applicare standard minimi di rispetto dei lavoratori.
La maggior parte dei paesi ne sono ben lontani e in molti casi i sindacalisti
che la sostengono vengono incarcerati,
ostacolati in ogni modo, uccisi.
Rivedendo i rapporti internazionali.
Ma i governi del Sud, spesso restii a modificare lo status quo, avranno
buon gioco nel sostenere di non poter fare
nulla sul piano sociale perché stretti fra l'incudine del debito
e il martello della competitività internazionale.
Potranno dire che con l'aggiustamento strutturale li hanno obbligati
a tagliare le spese sociali e a permettere la
corrosione dei già magri salari di operai e braccianti.
L'opinione pubblica e le organizzazioni sociali e politiche del Nord
del mondo hanno quindi il compito di influenzare
le politiche internazionali - commerciali e di cooperazione - dei rispettivi
governi:
- per una cooperazione Nord-Sud fondata sugli investimenti sociali
anziché sugli affari delle imprese occidentali e
sulle connivenze con le èlites del Terzo Mondo. Al Vertice Sociale
di Copenaghen (marzo 1995) è stata adottata la
proposta cosiddetta 20:20, per la quale il 20 % dei fondi spesi dal
Nord per la cooperazione dovrebbe essere
destinato a progetti sociali. Da parte loro, i governi del Sud dovrebbero
investire il 20% del proprio bilancio nello
stesso tipo di investimenti umani.
- per cambiare la politica commerciale. Richiederà tempi lunghi
la stipula di accordi internazionali che prodotto per
prodotto regolamentino le quantità e il livello dei prezzi,
cosi da garantire
un reddito adeguato anche ai produttori del Terzo Mondo.
- per costringere le multinazionali a rispettare i lavoratori e non
utilizzare bambini nella produzione.
Con la scuola, purché...
La scolarità obbligatoria fino ai 14-16 anni è condizione
necessaria e tappa obbligata per l'abolizione o la riduzione
del lavoro infantile.
Ma non si può pretendere che genitori poveri paghino libri,
matite e vestiti per mandare i figli in una scuola lontana
chilometri. Le scuole dovrebbero essere del tutto gratuite, facilmente
raggiungibili (mentre soprattutto in Africa,
con la crescita demografica e la carenza di investimenti sociali, il
tragitto scuola-casa si allunga ogni anno), utili
(preparare a una professione) e - elemento importantissimo - garantire
un pasto a tutti gli alunni.
In Sri Lanka, dove la scuola è del tutto gratuita e comprende
un pasto, il livello di alfabetizzazione è molto più alto
rispetto alla media sud-asiatica.
Una soluzione intermedia potrebbe essere quella di permettere, con
orari differenziati, che bambini al lavoro per
quattro ore al giorno possano frequentare la scuola normale. Se non
sono troppo stanchi.
Progetti congiunti governi-OIL
Nel 1992 l'Organizzazione Internazionale del Lavoro ha lanciato il programma
IPEC, con l'obiettivo di eliminare il
lavoro dei bambini al di sotto dei dodici anni e quello in condizioni
di schiavitù e di pericolosità, migliorando le
condizioni degli altri ragazzi lavoratori al di sotto dei 15 anni,
ma cercando di costruire l'uscita dalla produzione
anche per questi ultimi.
II progetto IPEC chiede la collaborazione di governi, sindacati, associazioni
non governative, famiglie e
imprenditori ed è già partito nei principali stati a
"rischio": India, Brasile, Filippine, Thailandia, Egitto,
Bangladesh, Filippine, Indonesia, Kenya, Turchia. In sintesi IPEC prevede:
pressione sugli stati affinché adottino
strumenti legislativi efficaci nel campo del divieto del lavoro infantile
e parallelamente dell'applicazione dell'obbligo
scolastico;
sensibilizzazione delle famiglie sui danni del lavoro infantile;
interventi di riabilitazione sanitaria ed educativa di ex bambini lavoratori,
miglioramento delle condizioni di coloro
che tuttora producono.
Ma, ammette l'OIL, IPEC non ha le risorse per fornire istruzione a
lungo termine misure di assistenza sociale,
creazione di reddito per le famiglie, eccetera. Le risorse scarseggiano
per lo stesso progetto IPEC: i governi
occidentali non si sono dimostrati molto generosi. Fanno eccezione
il governo tedesco e quello spagnolo.
Unione Europea e incentivi commerciali
Sollecitata anche dal Parlamento europeo - in particolare dalla risoluzione
del 9 febbraio 1994 che chiede la messa
a punto di meccanismi di controllo nella fabbricazione dei prodotti
e nella loro commercializzazione internazionale,
di accordi fra imprese produttrici per creare marchi di garanzia sociale
e di un aiuto allo sviluppo economico e
sociale che freni i fenomeni di sfruttamento anche dei bambini nei
paesi terzi - l'Unione europea ha introdotto nel
1994 uno sprone ai suoi partner commerciali in via di sviluppo, associati
all'Unione nel cosiddetto "Sistema delle
prefernze generalizzate". A partire dal 1988 speciali incentivi,cioè
ulteriori riduzioni tariffarie rispetto a quelle già
in vigore, saranno applicati a quei paesi che ne faranno richiesta
documentando - attraverso un sistema di
certificazioni seguite da controlli - il rispetto nel paese di una
clausola sociale implicante il non ricorso al lavoro
infantile, la libertà sindacale e alcune altre garanzie previste
da convenzioni dell'OIL. Accanto alla clausola sociale
e stato introdotto un abbozzo di clausola ambientale.
Non è chiaro dal testo se il paese postulante debba dimostrare
il rispetto della clausola sociale anche nelle
produzioni per il solo mercato interno. Probabilmente la scelta si
farà cammin facendo, con l'apporto delle parti
sociali.
La carota, il bastone. Campagna dei sindacati.
II sindacato internazionale ICFTU (Confederazione dei sindacati liberi),
che ormai riunisce la maggior parte dei
rappresentanti dei lavoratori dipendenti di tutto il mondo, fra cui
le italiane CGIL-CISL-UIL, ha lanciato nel 1994
una campagna contro il lavoro infantile che propone tre assi di intervento:
prevenire, scoraggiare, recuperare.
Chiedendo quindi ai paesi sviluppati di assistere anche economicamente
le azioni di miglioramento delle condizioni
di vita e lavoro dei cittadini dei paesi in via di sviluppo. Proponendo
programmi di aiuto alle famiglie per rimuovere
subito gli under 12 dai luoghi di lavoro ed evitare altri "reclutamenti".
Ma anche chiedendo alla comunità internazionale di far pressione
sugli imprenditori e sui governi con denunce,
minacce di sanzioni e di perdita dei privilegi commerciali, boicottaggi
- a cominciare dai prodotti realizzati dai
bambini in condizioni di schiavitù.
La campagna dell'ICFTU "Stop al lavoro infantile" rientra in quella
per l'applicazione generalizzata della "clausola
sociale", al fine di garantire il rispetto mondiale di alcune convenzioni
dell'OIL (fra cui la 138, la 87 e la 98 sulla
libertà sindacale) legandolo agli stessi rapporti commerciali
internazionali. Questi ultimi sono ora così intessuti di
competitività spinta (abbattimento dei costi sociali e ambientali,
il cosiddetto dumping sociale ed ecologico) da
seguire un indegno cammino a ritroso nel rispetto dei lavoratori e
dell'ambiente.
Secondo l'APRO, sindacato degli affiliati asiatici dell'ICFTU, "non
è necessaria una clausola protezionista, ma un
vincolo per evitare che imprenditori locali e multinazionali persistano
con una forma di commercio mondiale basato
sulla violazione dei diritti dei lavoratori e sul loro impoverimento,
con una conseguente contrazione del potere
d'acquisto interno, causa di povertà e di altra disoccupazione
e sottoccupazione".
Il meccanismo della clausola sociale collegata agli scambi internazionali
prevederebbe che l'OIL e la nuova
Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) controllino le violazioni
da parte dei governi e delle imprese,
comminando inizialmente la sospensione di benefici non tariffari attribuiti
ai paesi in oggetto, e imponendo poi, in
caso di violazione reiterata, una tariffa doganale maggiorata come
disincentivo. Con questo meccanismo non si
giustificherebbero più sanzioni unilaterali (quali gli embarghi
selettivi praticati abitualmente dagli Stati Uniti per
ragioni essenzialmente politiche).
La campagna sindacale Stop ai baby lavoratori allinea alle posizioni
di molti movimenti del Nord e del Sud la quasi
totalità dei sindacati di tutto il mondo, esclusi i sindacati
indiani, nelle seguenti proposte:
- a livello nazionale: istruzione obbligatoria (gratuita, utile e integrata
da pasti); sostituzione dei bambini con i
genitori laddove possibile; rafforzamento delle leggi che proibiscono
il lavoro infantile e dei controlli relativi,
nonché introduzione di leggi che vietino l'importazione di prodotti
fabbricati con il lavoro dei minori;
sensibilizzazione dell'opinione pubblica; campagne pubbliche che citino
le imprese che sfruttano i bambini;
- a livello internazionale: ratifica della convenzione 138 dell'OIL;
inserimento di una clausola sociale positiva nel
commercio internazionale; marchi sociali di garanzia per i prodotti,
a cominciare dai tappeti, pressioni sulle
multinazionali.
Cosi come quella tedesca sui tappeti fatti da bambini schiavi, la campagna
mondiale sindacale ha già avuto effetti:
il governo indiano ha lanciato un programma che prevede fra l'altro
di pagare i genitori più poveri purché ritirino i
bambini dal lavoro dipendente; il governo del Bangladesh ha dichiarato
di voler vietare il ricorso al lavoro infantile
per evitare boicottaggi occidentali; il governo filippino ha aperto
delle inchieste.
Usa. La proposta Harkin di blocco delle importazioni.
Ma i timori dei governi sono legati anche (forse soprattutto) alla
proposta di legge avanzata nel 1993 dal deputato
statunitense Harkin. Sensibilizzato da una campagna di denuncia popolare
sull'allucinante settore dei tappeti, il
congressman ha proposto di vietare l'ingresso negli Stati Uniti di
qualunque merce che incorpori lavoro di bambini.
La legge non è ancora passata, ma il meccanismo prevede che:
il Ministero Usa del lavoro si impegni a effettuare controlli periodici
per identificare qualunque industria straniera
(comprese le TNC statunitensi) sospetta, e il paese ospitante;
chiunque possa chiedere che si proceda a indagine su un'impresa o su
un paese; durante il periodo di controllo
venga vietata l'importazione; inoltre, in relazione all'entrata di
un prodotto manifatturiero, che gli importatori
debbano produrre un certificato che attesti la natura child-free dell'articolo.
Fra i produttori di tappeti il panico e stato tale da muoverli ad accettare
l'adozione di un marchio "tappeti senza
bambini", il Rug-Mark.
L'Harkin Bill ha tuttavia un limite intrinseco: può attaccare
solo lo sfruttamento effettuato nelle fabbriche che
esportano, non in quelle che producono per il mercato interno, salvo
fare un blocco-paese generalizzato che però
metterebbe tutti nel mucchio, penalizzando anche gli esportatori onesti.
Inoltre esso è visto come un provvedimento
che passa sulla testa dei governi del Sud, i quali quindi non sarebbero
molto disposti a collaborare anche in
considerazione del fatto che negli Usa stessi i bambini lavoratori
sono molto numerosi.
Quale clausola sociale commerciale contro il lavoro infantile?
Sono contro il collegamento del divieto del lavoro infantile agli scambi
commerciali sia la maggior parte dei PVS
che alcuni sindacati e organizzazioni non governative, con motivazioni
diverse. Nella Delhi Declaration (1994) i
ministri del lavoro del Sud hanno definito l'iniziativa un modo subdolo
di chiudere le frontiere per proteggere le
imprese e i lavoratori del Nord dalla concorrenza internazionale.
Anche i sindacati dell'India e alcuni movimenti sociali del Sud e del
Nord sono contrari al collegamento
commercio-diritti dei bambini, per varie ragioni:
- esso si iscrive nel protezionismo generalizzato dei paesi industrializzati;
- non si incide sull'utilizzo dei bambini nelle produzioni locali;
- le sanzioni tariffarie colpiscono indiscriminatamente tutti i produttori
anche quelli che non utilizzano lavoro
infantile;
- l'Organizzazione Mondiale del Commercio, chiamata ad applicare la
sanzione, è una struttura poco democratica
che si può prestare a condizionamenti di tipo politico;
- i controlli sarebbero difficilissimi, soprattutto perché i
governi locali non collaborerebbero;
- anche i paesi del Nord conoscono il fenomeno dello sfruttamento dei
bambini;
- il lavoro infantile e un prodotto della povertà, del debito
estero e di meccanismi ingiusti creati in buona misura
dallo stesso Nord.
Sono rilievi giusti. In realtà tutto dipende dalle caratteristiche
di questa clausola socio-commerciale, ancora non del
tutto chiare. Il dialogo fra sindacati, associazioni e tutti coloro
che sono davvero interessati a un innalzamento del
livello di protezione dei lavoratori dovrebbe tuttavia poter condurre
all'identificazione di una formula che superi i
dubbi e si possa applicare parimenti nei confronti di tutti gli stati
(anche quelli del Nord, case-madri di quasi tutte le
multinazionali), di tutti i settori e di tutte le imprese, con misure
di accompagnamento capaci di evitare sconquassi.
Pressioni popolari sulle multinazionali e codici di autoregolamentazione
La denuncia è un'arma formidabile nei confronti delle imprese,
soprattutto di quelle ben conosciute e facilmente
identificabili attraverso il loro marchio, le quali devono abbattere
i costi di produzione ma anche tener alta la loro
immagine - e per questo spendono tanto in pubblicità. Le denunce
attraverso i mezzi di informazione e lettere di
protesta contro l'impiego del lavoro infantile, collegate ad annunci
o minacce di boicottaggio, sono piuttosto efficaci
se fatte bene. Ad esempio l'impressione suscitata sui consumatori americani
da rivelazioni del sindacato e dello
stesso Ministero del lavoro Usa sulle violazioni compiute da una ditta
cinese a cui appaltava la famosa Levi's,
hanno indotto quest'ultima a dotarsi di un "codice di autoregolamentazione'
che prevede fra l'altro il non ricorso a
lavoratori di meno di 14 anni o ancora in età di obbligo scolastico,
e il rispetto del salario minimo vigente nel paese
da parte delle aziende a cui appalta il lavoro.
Non e un grande sforzo, dati i prezzi di vendita dei jeans, ma e meglio
di nulla. Talvolta però le TNC si danno un
codice che poi, per quanto blando, non rispettano, come ha fatto la
Nike.
Fra le aziende italiane, solo una finora ha concordato con i sindacati
un codice di autodisciplina.
I codici, per quanto imperfetti, dimostrano che si può premere
sulle TNC e che occorre che i consumatori e i
sindacati le controllino da vicino per ottenere sempre di più.
Campagne di boicottaggio di prodotti, marchi di garanzia, commercio
equo.
In Italia le campagne di boicottaggio non hanno mai avuto un grande
sviluppo: la stessa campagna contro l'acquisto
di giocattoli thailandesi e quella di pressione sulla Chicco dopo i
tremendi incendi del 1993 non hanno sortito grandi
effetti. Ma si può sempre ritentare! All'estero un'esperienza
che mostra quanto siano determinanti i consumatori
riguarda i tappeti indiani. A partire dal 1991 alcune associazioni
della Germania e degli Stati Uniti (i due principali
importatori di tappeti da quell'area) recepirono l'appello della Coalizione
sud-asiatica contro la schiavitù infantile e
chiesero ai consumatori di comunicare agli importatori che non avrebbero
più comprato tappeti indiani finche non
avessero ottenuto la garanzia che erano stati tessuti senza lavoro
di bambini. Le esportazioni di tappeti dall'India
calarono, i produttori si allarmarono e un buon numero di loro accettò
di unirsi nell'associazione Produttori di
tappeti senza lavoro infantile e a dotarsi di un marchio - il Rug-Mark
- con i relativi rigorosi controlli, attuali da una
società di certificazione con la collaborazione di organizzazioni
locali e l'aiuto dell'Unicef e dell'OIL.
I consumatori italiani potrebbero fare un'analoga opera di pressione
sugli importatori, e intanto acquistare i tappeti
dhori del commercio equo e solidale, fabbricati da cooperative di adulti
che ricevono una remunerazione più
adeguata al costo della vita. Anche per altri prodotti "importanti"
già esiste l'alternativa del commercio equo:
caffè, te, artigianato, giocattoli...
Ma occorre battersi perché anche i produttori privati e le grandi
multinazionali cambino un po' rotta.
Punibilità del turismo sessuale
Se tutti gli stati devono dotarsi di un sistema di leggi e sanzioni
sul lavoro infantile, sono soprattutto gli stati
"esportatori di turisti" a doversi dotare di leggi dure contro il fenomeno
della prostituzione infantile. Oltre a
un'azione di sensibilizzazione e al controllo dell'operato delle agenzie
di viaggio nostrane, occorre introdurre una
legge che permetta di punire per crimine di pedofilia il "turista"
anche una volta rientrato in patria.
Liberatori di bambini
Primo, liberare i bambini schiavi. Lo fa Kailash Satyarti indiano, con
i bambini tenuti come schiavi a tessere
tappeti. Kailash ha lavorato per anni con il Fronte di liberazione
dal lavoro forzato per debiti e ora si è specializzato
nel recupero dei bambini con la Coalizione sud-asiatica contro la servitù
infantile. Nella cosiddetta "cintura del
tappeto", a Mirzapur, i bambini costretti al lavoro forzato per l'anticipo
versato dal datore di lavoro alla famiglia,
vengono identificati e poi liberati con l'aiuto della polizia in avventurosi
blitz (ormai molto temuti perché
accompagnati da una notevole eco sulla stampa). Successivamente vengono
ospitati in un centro di riabilitazione o
restituiti alla famiglia.
Anche nelle Filippine esiste un'organizzazione (KDC) che libera bambini
schiavi. Il lavoro iniziò nel 1992 con
bambini tenuti in condizioni spaventose all'interno di una fabbrica
di sardine. II KDC aiuta anche i bambini liberati
a ottenere un risarcimento e a ritornare in famiglia e a scuola.
Liberatori di famiglie
Progetti generatori di reddito, acquisizione di terre per i senzaterra,
infrastrutture igienico-sanitarie, scuole,
sviluppo dell'economia rurale. Sono tante le organizzazioni sociali
che nei tre continenti attaccano le cause del
lavoro infantile per prevenirlo, liberando le loro famiglie dalla povertà.
Un progetto del governo indiano
Nel 1994 il governo indiano ha messo a punto una strategia di interruzione
del lavoro in settori pericolosi per due
milioni di bambini.
Il recupero di ogni bambino costerà circa 100 dollari all'anno
(da moltiplicare per il numero di anni necessari a
raggiungere l'età minima lavorativa) che serviranno per assicurare
un reddito sostitutivo alla famiglia, un aiuto
alimentare, sussidi per l'istruzione professionale, oltre alla sensibilizzazione
delle famiglie sui danni prodotti dal
lavoro infantile. In cambio le famiglie dovranno impegnarsi a mandare
i figli a scuola. Squadre apposite
controlleranno le imprese e la frequenza scolastica. Progetti analoghi
hanno un piccolo costo unitario ma devono
occuparsi di grandi numeri. Un sostegno da parte della cooperazione
internazionale sarà quindi necessario.
II Club dei bambini lavoratori
Ci sono anche iniziative di associazioni che non pretendono di eliminare
da subito il lavoro infantile. II Club opera a
Bangkok e cerca di aiutare le famiglie a riprendere a casa i figli
lavoratori under 12. Per i più grandicelli e i senza
famiglia l'orientamento è mantenerli al lavoro, offrendo loro
una serie di servizi: formazione professionale,
cooperativa di risparmio, biblioteca e cure sanitarie.
Progetti educativi in America Latina
Da anni il progetto peruviano Manthoc organizza e tutela bambini lavoratori,
con leader giovanissimi che svolgono
un'opera di sensibilizzazione anche in altri paesi dell'area, istituendo
numerosi centri per l'ospitalità e la formazione
di bambini lavoratori e di strada.