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Enrico Barsanti

DAL CONTRATTO SOCIALE
AL POTERE ASSOLUTO


INTRODUZIONE A QUESTO SITO


Il motivo primordiale e più profondo, per cui gli uomini vivono in società anziché isolatamente, risiede nel fatto che insieme essi riescono a soddisfare meglio i propri bisogni, come, ad esempio, procurarsi il cibo. Il vivere insieme comporta però per ogni uomo la rinuncia a buona parte delle proprie libertà naturali, a cominciare da quella riguardante l'accaparramento indiscriminato delle risorse disponibili; in caso contrario si genererebbe uno stato di guerra di tutti contro tutti. Per mantenere i vantaggi del vivere insieme, che sono abbinati ai doveri di spartire le risorse con gli altri, gli uomini si sono dovuti dare delle regole che sono sociali, civili e morali al tempo stesso. Queste regole, però, non sono comprensibili da tutti, in particolare da coloro che non capiscono che i vantaggi personali a lungo termine, derivanti dai vantaggi collettivi, sono superiori, nell'arco di una vita, ai vantaggi personali immediati che derivano dall'appropriazione indiscriminata delle risorse. L'osservanza di queste regole ha richiesto il controllo di un'autorità superiore che, rappresentata in un primo tempo esclusivamente dalla religione, è stata poi gradualmente sostituita dallo stato politico.

La natura dello stato sociale, dunque, non risiede in un istinto specifico, per il quale gli uomini ricercherebbero la compagnia dei propri simili, ma nella necessità che essi hanno di sopravvivere nel migliore dei modi possibili; e la natura dello stato politico non risiede in un gratuito atto di sottomissione all'autorità, ma in uno scambio interessato tra la soddisfazione dei bisogni e la propria libertà incondizionata.

Se tutti gli uomini fossero consapevoli dei vantaggi superiori che derivano dal vivere in società, se fossero consapevoli del proprio ruolo sociale e se fossero sempre responsabili, lo stato politico non avrebbe motivo di esistere; ma poiché, al contrario, non tutti gli uomini sono sempre civili e morali, lo stato politico, col suo potere e la sua autorità, diventa una necessità per il mantenimento della società e, quindi, dei vantaggi collettivi.

A lungo si è discusso se i poteri dello stato politico debbano essere assoluti o se invece debbano essere limitati. Negli stati liberali si riconosce quest'ultima possibilità, perché si ritiene che i cittadini, per godere della sicurezza che lo stato politico garantisce, debbano concedere molto, ma non possano concedere tutto. Come aveva detto Locke, gli uomini posseggono dei diritti che sono di per sé inalienabili, come quello di possedere una piccola proprietà, di avere un domicilio inviolabile, di potersi esprimere liberamente, di poter rimandare a casa i propri governanti, ecc., altrimenti si ricreerebbe quella situazione di assoluta precarietà, tipica dello stato di natura, dove il sopruso e la prepotenza sarebbero questa volta rappresentati proprio dallo stato politico.

Purtroppo, storicamente, lo stato politico è sempre rimasto appannaggio di una élite e ha sempre fatto gli interessi di determinati gruppi di cittadini ai danni di tutti gli altri. Nelle democrazie liberali moderne questa situazione non si è mutata e ancora oggi ci sono categorie di cittadini, di notevole importanza economica e finanziaria, che condizionano le scelte dei governi. In alcuni Paesi, come l'Italia, riveste un ruolo rilevante anche la burocrazia statale.

Di fronte a questo ritorno alla legge del più forte, altri cittadini si sono organizzati in gruppi, partiti politici e sindacati per poter far valere il proprio peso politico.

Quindi, la guerra di tutti contro tutti dei singoli uomini si è trasformata in una guerra di gruppi, di classi sociali, di categorie produttive, di settori sociali con interessi diversi. Lo stato di natura si ripresenta e mina le ragioni stesse dello stato di diritto.

Ma il riaffacciarsi dello stato di natura è insito nella stessa rappresentanza dello stato di diritto. Lo stato politico, infatti, è rappresentato da uomini in carne e ossa, da cittadini che, oltre a svolgere il ruolo proprio dei cittadini, svolgono anche il ruolo di garanti dello stato sociale, attraverso ampi poteri che nessun altro cittadino ha il diritto di avere. Per questa sua caratteristica, il governo dello stato piace in modo particolare a tutti coloro che amano il potere, per i vantaggi che il potere comporta, cioè i privilegi e le maggiori libertà nell'accaparramento delle risorse che lo stato di diritto ha di fatto introdotto (e che non erano presenti nello stato di natura). Piace in modo particolare a coloro che più di tutti sentono il peso delle rinunce che lo stato sociale comporta; quindi piace, paradossalmente, proprio a coloro contro la cui prepotenza e incontinenza lo stato politico era sorto.

Stando così le cose, gli stati, se non lo sono già permanentemente, possono diventare temporaneamente, come aveva a suo tempo rilevato Sant'Agostino, delle vere e proprie associazioni a delinquere.

Per evitare queste possibili degenerazioni esiste un rimedio: che i cittadini possano controllare l'operato dei loro governanti, avendo l'opportunità, con elezioni o altro, di rispedire a casa quei governanti ritenuti non idonei alla loro funzione. Ma perché i cittadini possano controllare i loro governanti, lo stato dovrebbe dare la massima trasparenza di se stesso e gli organi d'informazione dovrebbero rappresentare dei veri e propri occhi di controllo, pronti a rilevare ogni debolezza e irregolarità nella gestione dello stato. Queste due condizioni, purtroppo, sono alquanto carenti, soprattutto in Italia, sia perché lo stato si arroga il diritto di nascondere all'opinione pubblica quello che alcuni funzionari decidono che debba essere nascosto, si pensi ad esempio al "segreto di stato", sia perché la burocrazia statale è ancorata ai propri privilegi e sente le cose dello stato come proprie e non dei cittadini, sia perché gli organi di informazione non hanno di fatto indipendenza. Di tutti questi aspetti, l'informazione è senz'altro quello più importante e delicato, per l'alto peso che essa ha nella formazione dell'opinione pubblica. Si badi bene, riguardo alla dipendenza degli organi d'informazione, non è che i giornalisti non possano, per legge, criticare il potere politico. Certo che lo possono criticare, certo che possono esprimersi sull'operato dei governanti. Ma se gli organi d'informazione vivono, come in Italia, anche con il contributo dello stato, se lo stato controlla il servizio pubblico radiotelevisivo, se pochi gruppi finanziari controllano le innumerevoli testate, ecc., ogni possibilità di critica si riduce drasticamente. Inoltre i giornalisti subiscono una selezione accurata spontanea, per cui solo quelli graditi ai loro capi (cioè quelli accondiscendenti e che la pensano come i loro direttori) possono avanzare nella carriera; il che equivale a dire che avanzano quelli graditi alle forze politiche ed economiche, cioè i giornalisti graditi a chi comanda.

In definitiva, si può vivere nel più civile degli ordinamenti giuridici possibili, ma a poco serve se non c'è la volontà di rispettarlo. Lo stato di natura non solo non è sostituito dallo stato di diritto, ma quest'ultimo crea dei privilegi e dei poteri non esistenti nello stato di natura e che possono essere messi al servizio della classe dirigente piuttosto che dell'intera comunità.

Meglio allora lo stato di natura, meglio la guerra di tutti contro tutti (come la chiamava Hobbes), se lo stato di diritto si trasforma in uno strumento di potere assoluto in cui un'esigua e bieca minoranza controlla la vita di tutti e ne limita le possibilità imprenditoriali e civili. Meglio lo stato di natura, se lo stato di diritto non assicura comunque la giustizia ai cittadini e non garantisce la loro sicurezza. Meglio lo stato di natura, se lo stato di diritto, per mantenere la sua esosa burocrazia, per mantenere cioè se stesso, riduce alla povertà i suoi cittadini. In generale: meglio lo stato di natura, se lo stato di diritto offre alla collettività più svantaggi che vantaggi.
Oggi sono sempre più numerosi i cittadini italiani che non credono nella giustizia, che non si sentono sicuri passeggiando per le strade o dormendo nelle proprie abitazioni, che non si sentono sicuri dei propri beni indispensabili per vivere. Sono sempre più numerosi i cittadini che non hanno un lavoro o che sono impediti dagli inceppi burocratici e dall'esosità fiscale a iniziare attività in proprio. Non credo di esagerare affermando che in Italia c'è una giustizia troppo lenta, c'è poca sicurezza, c'è poco lavoro e che chi ha voglia di lavorare viene scoraggiato nel proprio intento.

Ma come mai, allora, ci si potrebbe chiedere, se le cose vanno davvero così male, gli elettori non mandano a casa i loro governanti? La risposta è complessa, ma, oltre all'informazione controllata dal governo e dai gruppi di potere, che gioca sicuramente un ruolo fondamentale anche nel periodo elettorale, si può dire che è la stessa azione del governo che salvaguarda la classe dirigente. Il governo, infatti, distribuisce benefici e privilegi in maniera più o meno diretta a una fetta talmente ampia della popolazione che questa diventa determinante nei risultati elettorali. Per cui chi lavora, chi paga le tasse e non riceve, in cambio, servizi efficienti, ma anzi subisce ogni sorta di angherie da parte dello stato, non avrà mai la possibilità di rovesciare i governi. L'obiettivo di chi comanda è questo: far sì che la maggioranza della popolazione, o comunque una parte enorme di essa, abbia poco, sia poco istruita, pensi poco e conti poco, ma che sia consapevole che quel poco che ha le viene elargito dallo stato e dalla sua politica assistenzialistica e clientelare. Questo è un sistema che ha in Italia tradizioni antichissime: nell'antica Roma, un gruppo esiguo di famiglie romane comandava un impero immenso perché a Roma, dove si prendevano le decisioni, queste famiglie godevano dell'appoggio determinante della plebe, che in cambio riceveva vitto, alloggio e divertimenti gratis (panem et circenses).

In via di conclusione, voglio citare uno storico cristiano, Salviano di Marsiglia, vissuto nel V Secolo, che, a proposito della concezione dei latini, che ritenevano barbaro il sistema giuridico germanico e portavano, come esempio di civiltà, quello romano, volle con queste parole esprimere il suo disappunto: «È preferibile vivere liberi sotto una parvenza di prigionia che vivere prigionieri sotto una parvenza di libertà».

Proprio la denuncia della parvenza di libertà, contrapposta alla realtà effettuale delle cose, vuole essere l'anima di questo sito politico, che idealmente è di tutti coloro che non si lasciano più ammansire dalla retorica, che non si lasciano più incantare dai concetti bellissimi e che vogliono smascherare pubblicamente l'inganno. O c'è la possibilità di instaurare di fatto uno stato di diritto, oppure bisogna ammettere la nostra sconfitta come uomini civili e riconoscere davvero che gli stati sono soltanto delle associazioni a delinquere.

Fine
© Copyright 1997 by Enrico Barsanti
Prima edizione su Internet: 18 agosto 1997
Seconda edizione: 12 settembre 1997



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