*Esprite*
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A Ritroso
Mi succede a volte di fissare degli oggetti con una incredulità
quasi idiota, una scopa, un palo leggermente sfaldato, un frutto
su un muretto di cemento per cercare di assimilare di essi la
gelosa realtà. A volte questi dubbi mi lasciano interdetto, mi
pare che mi sfugga una cosa banale e scontrosa come la realtà
delle cose. Anche adesso che saluto con un breve cenno il prete
che mi scorre davanti e che mi ricorda forse più per certi
trascorsi poco chiari a catechismo che per certe occhiate stupite
che rivolgo all'estremità un po' corta e sfilacciata dei
pantaloni sotto la tonaca. La strada procede in leggera discesa,
parte cemento e parte asfalto e il giorno pure corre verso il suo
lungo tramonto. Sono poche ore che sono uscito ma già pare che
queste erbe senza nome, ramificate e contorte sotto la polvere di
bordo carreggiata siano al corrente e vuoi per correggermi vuoi
per compatirmi mi indirizzino sfasate vibrazioni. Un poco di
vento è riapparso dopo qualche indugio, non molto sotto la linea
di ondeggiamento del prato sembra proseguire il viottolo, in
costante contrappunto con la linea del lago giù in fondo.
"Non esco di qui se prima non mi spieghi con parole..."
mi sembra ancora di sentire la sua interruzione, un aah sonoro e
quasi sibilato, le mani sulla tavola, bianche e non molto
affusolate per la verità, forse a cagione della progenie,
contadini quando tutti erano contadini da queste parti, sangue
fatto di silenzi e di pasti insipidi, nonni che per
imperscutabili motivi hanno procreato, quando il senso del
peccato scompariva tra il grigioverde degli ulivi. Motivi che
pure hanno spiegazioni più lontane, e più mature della mia
testa ciondolante. Ebbene "tu mi avevi detto certe cose,
quando mi sembravi diverso, quando ti crogiolavi in questa
diversità da mentecatto", notate il mentecatto, sembriamo
parliare di una donna con una certa ricercatezza di linguaggio,
pure rara, seppure a mio danno nel caso specifico; "ti ho
dato retta, per tanto tempo, ora mi sembrano sprecati uno a uno
quei minuti, li sento quasi gemere nella loro inutilità"
osservavo di sfuggita quella bocca arrotondarsi e distendersi,
bocca in cui mi era piaciuto spingere la mia lingua ma che ora mi
pareva compitare un conto al ristorante; ciò non toglie che un
barlume di me avrebbe voluto distenderla sul tavolo che aveva di
fronte, smanacciando prima quella fruttiera bicolore che
campeggaiva all'altezza del suo ventre. Sto contanto i passi,
così, senza pensarci, molto lunghi per la pendenza ma sicuri; il
piede cade sicuro al suo posto esatto e sembra avvitarsi al
terreno prima di rialzarsi a seguire. Un certo grigiore e una
caduta di tono generale dei colori si fanno sentire come
avvisaglie notturne e una singola luce, certo prematura, sembra
brillare giù alla riva. "Questa sera l'ho rivisto, ci ho
parlato e mi ha fatto una certa impressione, anche se lascia
trasparire una certa volontà di piacere, di ammaliare. Non dico
che ci sia riuscito ma certo mi ha fatto ripensare a lui, poi, il
giorno dopo, mentre passavo sul breve ponte sul Tasaro. Mi sono
fermata a guardare certi sassi nella corrente e altri che invece
ne erano fuori." il suo diario, se così vogliamo chiamare
questo buffo modo di annotare, ahimè, avvenimenti ed emozioni,
con quel suo gusto ottocentesco per la precisione, l'ho trovato,
guarda caso, in un cassetto; lei stava addormentata e mescolata
alle coperte. La guardavo e poi leggevo e poi tornavo a
guardarla. Il cielo si scurisce, piombo e cobalto, attraverso la
strada provinciale per Sottesso, sono costretto a scavalcare il
gard-rail, in curva, gli steli alti, qualche profumo vagante di
cibo. Certo eri franca parecchio a volte, forse più che con la
bellezza potevi colpire in profondità con le parole. "Non
capisco sei sei così convincente solo a parole oppure
se..." sbuffavi sulla salita per la sella del Sangetto
"... poi ti ritrovi in quello che dici, intendo dire, se è
solo una patina oppure qualcosa di più, come posso... qualcosa
di più permeante diciamo" e alzavi il mento in direzione
della cima Persiche, alta e non molto vicina, scura e scabra
contro il cielo. Trovavi il tempo di guardarmi di sottecchi e
ammiccare al vicino rifugio, pendendo a peso morto sulle cinghie
del mio zaino, mi costringevi ad abbassare lo sguardo
dall'abbacinante verde del prato grasso e a sfumarmi gli occhi
nella penombra della tua fronte. Poi solo la sete di costringeva
a non parlare, e assaggiavo una gioia inconsueta a osservare le
gocce d'acqua scivolare sulla leggera peluria sopra il tuo
labbro. Eri salita in macchina a gambe strette la mattina,
canticchiando e oscillando sulle curve dei tornanti, lanciando
gli occhi sopra il bosco e la mano sull'autoradio, cercando di
catturare le onde radio della musica e le oscillazioni delle
foglie. Eppure "bastardo, non ce la faccio quasi più,
adesso ti butto giù... e non ridere, non c'è nulla da ridere,
non ho più niente da dare per oggi; e non fare quella
faccia..." e ondate di frasi, e la meta vicina, a mezz'ora
di cammino. L'odore della notte e le ore di prima sera ormai, la
stradina punta dritto in giù, le luminarie in fondo e quelle
sulla sponda opposta, il sapore di erbe matte e l'eco di un
rimbombo in testa. "Mai ! non so se me la sento di seguirti,
di affiancarti, le frasi... cosa sono... neve fresca,
risciacqui... guardami negli occhi". Il profilo scuro delle
case, il borgo di Melano a sinistra, il latrato di un cane, la
striscia del sentiero ancora bianca per contrasto. Un'ombra di
figura umana, un sacchetto che pende dalla mano, il cancelletto
di casa, il bidone dei rifiuti, indovino uno sguardo pigramente
incuriosito e una traccia impercettibile di allarme ora
dileguato. Proseguo nel buio e forse nella mente ho il sospetto
di sentire il rumore dell'acqua del lago. Mi occupo di dare una
spolverata analitica al corso dei miei pensieri; "Vediamo un
po'... è semplice... tu in realtà non provi nulla, nel senso
che ho il sospetto che tu non abbia emozioni, sei freddo di
natura; smanacci una cortina di finte emozioni, laccate,
patinate; sei vuoto forse, sì vuoto, certo..." ed era una
edizione economica con il dorso celeste dietro la sua testa,
Cechov, dei racconti; lo scaffale tenuto in maniera passabile,
una bomboniera polverosa (un uccellino di peluche dentro una
boccetta di vetro), un quadretto dignitoso, uno scorcio di alture
e boschi, una buona composizione di volumi e forme, spenta però
dalla scelta dei colori. Un colpo di tosse, sembra cominciare la
scalinata per la darsena, il colpo d'occhio si apre piuttosto
improvvisamente e lo sciabordio dell'acqua e del legno vecchio
arriva atteso e previsto. Il lago è piatto da qui sotto, quasi
schiacciato sull'orizzonte. A destra comincia un lungolago
civilizzato, lastricato; a sinistra la faccenda è ancora
abbastanza confusa, un misto di primordiale e calcinacci di
poesie. Mi guardo attorno e mi accoccolo sui piedi.
"Cosa..." gli occhi vacillanti e sorpresi, un'ombra
veloce, e il colpo a mano aperta. Uno schiaffo.
"Cosa.". La porta aperta. Guardo avanti ora,
dondolandomi sui calcagni, mi lascio scorrere nella brezza del
lago. Sono buono, sarei tentato di dire.
Settembre
2004