*Esprite*
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Soglia
Ti eri fermata sulla soglia, incerta e leggermente timorosa; un
po' di rossore, impercettibile. Credo fosse agosto, un agosto
declinante indubbiamente. Si sentiva nell'aria il respiro
irresistibile e l'ombra lunga dell'autunno, il caldo profumo di
una incipiente dissoluzione. Alle tue spalle premeva il sole,
frustato dai rami della vicina siepe ma l'interno era
sorprendentemente fresco. Una linea, come uno spartiacque,
partiva dai tuoi piedi e si inoltrava all'interno mettendo a nudo
come un preciso schiaffo una scacchiera di regolari mattonelle.
Poi svoltava, repentinamente, come dubbiosa. Incerta se aggredire
anche un accenno di libreria lì appresso. Una ciocca tendeva a
cadere, simile a un frutto maturo, sulla tua faccia; ma un gesto
della mano, morbidamente fermo, riusciva a ripristinare
l'equilibrio. Gli occhi vagavano e si dilatavano per ritrovare le
forme delle cose nella penombra. Non ricordo chi parlò per
primo, questa volta, furono poche parole. Come se il flusso
opprimente che faticavamo ad arginare in altre occasioni si fosse
momentaneamente bloccato. L'inverno e la primavera ci avevano
visto certo più loquaci. In tanti bar e locali, tutti
indubbiamente identici, tanto da far sorgere il sospetto che
fosse sempre lo stesso. Un cerchio ci circondava, non
propriamente di luce ma come una sfasatura di messa a fuoco. La
curvatura sembrava partire sopra la tua testa, scendere e
raccordarsi con il mio braccio. Le parole percorrevano in
entrambi i sensi questo itinerario giungendo a destinazione
sorprendentemente forti e nitide, come acquisendo forza nel
cammino. Il nostro gruppo ogni sera si muoveva, si ricomponeva,
come un organismo vivo; ci si trovava ogni volta sufficientemente
vicini. Non sempre era un luogo chiuso, e comunque c'erano dei
trasferimenti; e allora ci sfilacciavamo, camminavamo affiancati.
Ogni tanto senza interrompere la conversazione ci scambiavamo, tu
passavi da destra a sinistra, o viceversa. Altre volte ero io a
muovermi. Ti parlavo di libri e di autori, mi ascoltavi, mi
sarebbe piaciuto scoprire cosa ti mulinava per il cervello. Dallo
sguardo mi sono compiaciuto di credere che fossi affascinata, ma
ancora, chissà. Il fiume scorreva in direzione opposta alla
nostra, asciugato dalla luna. Non sempre era agevole camminare,
al buio; sentivo un ronzio di chiacchiere davanti e dietro, e il
tuo viso mi sembrava scomparire, non molto distante. Non ci
toccavamo mai allora, una ragionevole distanza ci separava
sempre; come se un opposto magnetismo respingesse i nostri corpi,
negli ultimi centimetri. Solo una volta, in uno strano
capovolgimento o sospensione di questa legge fisica, il tuo
braccio e la tua mano si sono apoggiati per poco vicino a me;
dopo aver compiuto un basso arco, a sinistra. Eravamo in auto, la
curva della strada si stringeva verso destra. Ricordo un mio
curioso interesse, non senza una certa dolcezza, per le
dimensioni ridotte della tua mano, e salendo, via via di tutto il
braccio. Ora lo tenevi negligentemente abbandonato lungo il
corpo; l'altro si appoggiava, con apparente leggerezza e
indecisione, sulla porta. Sembrava tutto immobile, come sembra
essere immota la vita in un primo pomeriggio estivo, quando il
sole taglia il verde attorno, e ci si stupisce di sentirsi
respirare. Lo spicchio di luce tendeva a restringersi. L'angolo
disegnato sul pavimento si faceva impercettibilmente più acuto.
Anche mesi prima tutto sembrava convergere, tutte le cose e gli
accadimenti si incastravano e si accomodavano. Un dileguarsi
della volontà, quasi che tutto si evolvesse da sé, in un
sussegguirsi di impalpabili e rarefatte, timide felicità. Allora
i giorni si affastellavano, uno sopra l'altro, formando un
cumulo, un ammasso ineffabile che era piacevole sentire crescere.
Ero tutto proiettato in avanti, intento a calcolare, valutare.
Esposto a goffaggini e a sorrisi di condiscendenza. La greve e
odorosa primavera lasciava il posto alla piena e tagliente
estate; i vestiti leggeri e la pelle appiccicosa accompagnavano
certe mie riflessioni, veloci e leggere, e alcune tue ruvidezze,
spruzzate come veleno. Ma il raro vento estivo ci avvolgeva,
afoso e concentrico, con i semi di future strette sensuali. Ora
mi guardavi, la striscia di luce fattasi sottile alle tue spalle,
nella cui stretta si poteva ancora scorgere, in un confuso gioco
geometrico, il paesaggio esterno. Gli occhi neri, scuri e
mutevoli, capaci di scintille di fuoco ma anche di spiegarsi in
rassicuranti dolcezze. Barriere nelle quali mi scontravo; felice
e sorpreso talvolta di scorgervi qualche piccolo segno di
inquietudine e di cedimento. Con l'impercettibile avanzare del
freddo dell'inverno si facevano vaste le crepe nelle nostre
difese; ci aggiravamo, ancora incerti, tra le rovine, nella terra
di nessuno. Ci occhieggiavamo, balenanti. Mescolavamo parole,
idee; le nostre lingue mutavano, accogliendo e quasi modificando
nuovi vocaboli. Assaggiavamo, in piccole porzioni, antipasti di
future ebbrezze. La porta era quasi chiusa del tutto, la linea
dietro fusa in un'unica luminescenza. La tua figura bruna di
buio, quasi inconoscibile, mescolata all'immagine mentale che mi
ero costruito, pezzo a pezzo, mischiando, ricomponendo. Dicembre
era sceso, retrospettivamente, come una scure, una cesura. Una
cortina fumogena di giorni. Una spirale irregolare, con ampie
volute si stringe. Le ore si fanno inclinate, scivolose. La notte
ci avvolge, vociante. E tutto precipita; in un turbinio di volti,
di luci, di percussive sonorità. Ci cerchiamo, ci conosciamo, ci
scomponiamo. Ci libriamo, incoscienti, in una nostra lattiginosa
ed inebriante nebbia. Non chiediamo più nulla, non chiediamo di
essere più nulla. Eri dentro, ora, la porta chiusa, il buio
assoluto. Nel fresco e mormorante silenzio non ti scorgevo ma ti
sentivo. Non c'era alcun motivo per farti uscire di nuovo.
2000