Giovanni Armillotta
(Università
degli Studi di Pisa; saggista e giornalista)
I BEATLES: ESTETICA COMPARATA DELLA MUSICA AI PROCESSI DI PRODUZIONE CAPITALISTICA
(seconda edizione)
Ringrazio gli amici di Controradio
di Firenze particolarmente il Dr. Riccardo Michelucci per aver
pubblicato la prima edizione del mio articolo su Rosso
Fiorentino, Novembre 2005, pag. 22
Se il maggior condizionamento culturale che attualmente l’Occidente
sta subendo dagli Stati Uniti si chiama politically correct o colonialismo
politico-culturale, è ben pericoloso dissentire dal coro filisteo dei peana
e del sollucchero fra trenodie e patetici ricordi di un passato anni Sessanta/Settanta
che alla demonizzazione di un Tolkien innalzava di contro altari alla pochezza
sia letteraria o canora quale estetica comparata ai processi di produzione capitalistica
britannico-statunitensi.
Per cui nel sollevare la dissertazione sul complesso britannico denominato The
Beatles voglio innanzitutto significare una valenza superiore da parte di
cantanti italiani (Giorgio Consolini, Natalino Otto, Fred Buscaglione, Orietta
Berti, ecc.), i quali ebbero solamente il torto di anticipare in meglio quei
temi, ma nella “povera” lingua italiana. Inoltre è il caso di soffermarci sul
termine “complesso”. Odiosa parola in voga negli Sessanta, sull’effimero successo
dei Rockes, atta a definire un insieme vocalizio-strumentale, mirato
ad emettere suoni indistinti e vocaboli incomprensibili (ma graditi) alle masse,
nonché distraenti la classe operaia e disturbanti l’orecchio cólto. Col tramonto
della lingua italiana, si sostituì ad essa il vocabolo anglosassone band.
Esso – richiamante l’ensemble di strumenti musicali storici – era inteso
a plasmare il concetto “classico” con quello “commerciale”. Da qui il rifiuto
di seri musicisti italiani (Napoli Centrale, PFM, Banco del
Mutuo Soccorso, Liftiba, Stormy Six, o Claudio Lolli, per
citare l’unico grande autore e poeta boicottato dai mass-media) di adottare
etichette simili, e quindi respingere l’omologazione imposta dal Foreign
Office e dalla Casa Bianca, e al contempo marcare l’originalità dell’elemento
italiano nella storia del rock. Tentativo respinto dalla sinistra revisionista,
il quale preferì il vuoto dei Beatles al suddetto elemento rivoluzionario-innovativo
nella musica italiana, cercando di oscurare i Pink Floyd per far spazio a innocui
elementi caserecci e/o d’importazione.
Ma torniamo ai Beatles. La tonalità orecchiabile di Yellow submarine
(famosa per un melenso e ridicolo cartone animato, infantile nella peggior accezione
del termine, che la Rai, giustamente, trasmetteva nella Tv dei Ragazzi: cosa
di certo infattibile per The Wall), Obladi Oblada (con relativa
sciocca risatina di sottofondo), Hey Jude, Let it be – queste
ultime comunemente pronunciate in alcuni circoli musicali italiani “Ehi ciuccio!”
e “Lady B” (cioè non da serie A). Neotitoli proferiti sotto voce, se non si
voleva essere emarginati (o perdere il posto di lavoro) in ambienti quali case
discografiche, Rai, ma anche in aziende, uffici della pubblica amministrazione,
partiti politici, industrie private, ecc. ecc. A queste ultime si intrecciavano
il ritornellismo becero; il rimismo romanticistico alla Stecchetti; l’intimismo
micro-borghese di ridanciane parrucchette ebeti; l’eleganza baronettale ye
ye su caricaturali abiti tipo rivoluzione culturale cinese; rimicismo
all’amore/cuore, soli simboli che la memoria tramanda ai posteri.
E non mi riferisco a coloro che
compiuta la quarantina – e che avevano avuto vent’anni intorno al ’68 – si trovano oggi in una situazione incresciosa; facendo parte di una generazione che – la prima a un livello simile – aveva proclamato la superiorità della gioventù sull’età matura, ora non può stupirsi di essere a propria volta disprezzata dalla generazione chiamata a sostituirla, in quanto nella quasi totalità di quei casi, gli anni della maturità sono quelli della disfatta, della masturbazione e della vergogna (Michel Houellebecq) (1),
bensì mi appello a quelli che a distanza di quasi otto lustri
sono restati sempre immuni dal ricatto sociologico del “bei-quei-tempi-smo”
o dello storicismo alla rovescia. Possiamo comprendere che, per esorcizzare
la morte, basti infilare un 45 giri nel mangiadischi... ma che dico! un dvd
nel riproduttore, anche se il laser dovrebbe far capire ch’è già trascorso tanto
di quel tempo. Va bene: nulla da eccepire.
Ciò ch’è invece riprovevole sono le lobotomizzazioni nei confronti dei giovani,
con la sostituzione del vuoto musicale di oggi, col vacuo di ieri. Quando ad
un/un’adolescente s’impone il mýthos dei Beatles, gli/le si somministra
ipnopedicamente (ma in un inganno palese) un prodotto ch’era già il frutto di
un capitalismo alla ricerca di cure alla sua dismorfofobia strutturale e sovrastrutturale.
L’operazione chirurgica è dettata dai brevissimi cicli di interpreti/cantanti
costruiti al computer (Take that, ecc.), che non dànno garanzie di continuità
ai profitti delle case discografiche, se non per il periodo stabilito dal règime
del software. Di conseguenza la “tranquillità” offerta dal passato, consente
ai discografici le relative entrate, poi rinvestite nell’acquisto o nella progettazione/elaborazione
del software sufficiente a sfornare posticci sembianti, in fasi ad intervalli
consecutivi ed incessanti. La costante è la necessaria figura umana, e la variabile
diventa il modo in cui la figura stessa si trucca o si veste a seconda dei casi
– look: arrivi all’aeroporto, concerti, interviste, apparizione/spettacolo
televisivo, scatto combinato con il paparazzo di turno; annuncio del ritiro:
novella mors civilis.
L’interprete/cantante può essere riesumato quando l’industria cinematografica
(o dei gadget) o – spesso – televisiva, intravede in lui/lei una reminiscenza
di massa (tipo l’espressione del/-la bravo/a ragazzo/a, o del buon
padre di famiglia). Così lo resuscita anche dal punto di vista musicale,
riciclato dall’etere e dirottato in spettacoli per l’utente medio (in specie
nel target pensionati o casalinghe). In Italia annoveriamo casi emblematici,
fra il volgare ed il sentimentalistico, su cui è meglio stendere terra pietosa;
e peggio ancora, fa orrore ascoltare adolescenti che fischiettano e canticchiano
canzoni che gli stessi genitori ritenevano già sorpassate una generazione prima.
In conclusione la “fama” dei Beatles riposa nell’unicità di un caso: i quattro
sono stati riesumati da vivi non per meriti musicali, ma in guisa di carbone
richiesto dalla locomotiva del profitto e dello sfruttamento discografici, basati
sui i loro trascorsi gorgeggi castrocareggianti-sanremeschi e non in un successivo
stadio “partenogenetico”, tanto per dirla eufemisticamente. Tra l’altro lo stesso
John Lennon, mente lucida e calcolatrice del gruppo – checché ne dicano gli
incensieri ufficiali e i preposti alla sua “canonizzazione” pure olimpico-torinese
–, scrisse a Paul McCartney & Signora, Ltd.:
Davvero voi pensate che la stampa sia sotto di me e di voi? Lo credete sul serio? Ma chi pensate che siamo, noi e voi? [...] Fottuto inferno, Linda, tu non stai scrivendo per Beatle Book!!! Io non mi vergogno dei Beatles, ma di parte della merda che abbiamo preso per farli tanto grandi. Pensavo che tutti sentissimo in questa maniera, con gradazioni variabili, ma non è così. Voi davvero ritenete che la maggior parte dell’arte di oggi sia nata a causa dei Beatles? Non posso credere che siate così pazzi – Paul – Ne sei convinto pure tu? Quando smetterete di crederlo, potreste svegliarvi!(2).
Ossia la conferma di quanto osservato da David S. Landes:
Per quanto riguarda le nuove tecnologie e manifatture, nuove opportunità di lavoro andavano schiudendosi in branche minori. Lo storico economico di Cambridge J.H. Clapham ha sostenuto che tale passaggio fosse normale: via via che determinati settori chiudono la gente passa a qualche occupazione in via di espansione, diciamo la produzione di cioccolata o l’ingresso in un coro. Queste parole furono pronunciate nel 1942; se avesse potuto vedere il futuro, avrebbe parlato dei Beatles(3).
“If you go carrying pictures of Chairman Mao, you ain’t going
to make it with anyone anyhow” (se ostentate l’immagine di Mao nessuno verrà
con voi) non la cantavano loro? Sì, era Revolution, il retro di Hey
Jude.
I Beatles, nientaltro che guitti dellavanspettacolo postmoderno.
Note
(1) Michel Houellebecq,
Le particelle elementari, Bompiani, Milano, 1999, citato da Ulisse Jacomuzzi,
Rivoluzione à rebours, ne “Il Sole-24 Ore”, Domenicale del 22
agosto 1999.
(2) “La Stampa”, 26 ottobre 2002.
(3) David S. Landes, La ricchezza e la
povertà delle nazioni, Garzanti, Milano, 3ª ed. ampliata: settembre 2002,
p. 481.
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