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Con l'espressione lingue artificiali intendo indicare le lingue create consapevolmente
dall'uomo, per i più diversi scopi, con l'opera del proprio ingegno, ossia
per così dire "a tavolino".
Le lingue artificiali si contrappongono quindi alle lingue naturali,
le quali si sviluppano e si affermano nelle culture umane
in larga parte spontaneamente, e non per un atto di creazione consapevole. (Anche nelle
lingue naturali, peraltro, esistono alcuni elementi di pianificazione: certi
loro aspetti sono infatti frutto di esplicite convenzioni. Per esempio, certe regole
dell'ortografia del tedesco sono attualmente oggetto di discussione, e in una regione della
Germania sono state addirittura sottoposte a referendum! Tuttavia, in generale lo sviluppo
delle lingue naturali è essenzialmente mosso da forze diverse dal pensiero cosciente.)
Le lingue artificiali, insomma, non sono il mezzo di comunicazione originario di alcuna
popolazione (più o meno grande), bensì sono introdotte deliberatamente
nell'uso di una comunità di parlanti (più o meno grande) dopo essere
state progettate.
D'altra parte, le lingue artificiali sono lingue vere e proprie, attraverso le
quali, almeno potenzialmente, può essere espresso qualsiasi concetto, e nelle quali
qualsiasi discorso può essere tradotto. In questo esse si distinguono
dai linguaggi tecnici e specialistici, come per esempio i simboli della matematica, o i
linguaggi di programmazione, che pur essendo progettati deliberatamente sono
utilizzabili solo in àmbiti limitati.
Ciò che qui chiamiamo lingue artificiali è indicato altrove anche con altri termini: si parla per esempio di lingue costruite (inglese constructed languages, da cui l'abbreviazione gergale conlang, diffusa nell'omonimo gruppo di discussione email), o pianificate (inglese planned, HARRISON, 1992); in quanto frutto di attività creativa da parte dell'uomo, sono state definite anche lingue inventate (BAUSANI 1970 [1974]) o immaginarie (ALBANI & BUONARROTI, 1994); HENNING, assimilando l'hobby delle lingue artificiali al modellismo di aeroplani, treni ecc., le chiama anche model languages.
Anche dopo averle definite, non è facile avere un'idea precisa
di che cosa in effetti siano le lingue artificiali. Ciò si deve anche al fatto che ne esistono
molti tipi, assai diversi fra loro, sia nella struttura che negli scopi e nel numero
di persone che effettivamente le parlano o le hanno parlate. La lingua artificiale
più famosa è certamente l'esperanto, creato per favorire la
comunicazione internazionale; ma relativamente nota, e parlata da parecchie
persone, è anche una lingua completamente diversa come il klingon,
sviluppata a partire da una serie di telefilm di fantascienza.
In questo saggio cercherò quindi di dare un'idea dei diversi
generi di lingue artificiali creati negli ultimi secoli, e del diverso significato culturale
e sociale che hanno avuto, a seconda delle loro caratteristiche. Sarà
necessariamente una panoramica generale e schematica, che non potrà
entrare nei dettagli del funzionamento di ciascuna lingua, nè tantomeno
citarle tutte: in effetti, probabilmente non avete idea di quante ne esistano! Vorrei più
che altro fornire degli elementi generali e degli esempi, che aiutino ad orientarsi in questo complicato e interessante mondo, in modo che chi lo desidera sia poi in grado di approfondire
per proprio conto la conoscenza dei tipi di lingue a cui è maggiormente interessato.
Per illustrare i principali tipi di lingue artificiali, seguiremo uno schema di tipo storico: alcuni generi di lingue, infatti, sono stati particolarmente in voga in certi periodi. Si tratta naturalmente di una semplificazione, che aiuterà ad un primo orientamento: in realtà le lingue di ciascun genere non sono mai esclusive di un singolo periodo.
Originariamente, l'idea di una lingua costruita fu collegata soprattutto alla conoscenza
filosofica, o addirittura religiosa e mistica. I metodi obiettivi di analisi della linguistica
moderna si sono sviluppati solo in tempi molto recenti, e nei secoli passati
le lingue erano considerate in modo "ingenuo" come riflessi della verità.
Una lingua speciale, creata e studiata in contesti insoliti, era quindi automaticamente
vista come qualcosa di magico e di straordinario, che doveva riflettere qualcosa di altrettanto straordinario, qualche verità superiore.
Diverse tradizioni religiose, come ad esempio la cabala ebraica, fin da tempi
antichi attribuivano valori profondi alle parole o alle singole lettere, elaborando complesse "grammatiche" di significati a partire dalle parole delle lingue naturali. Secondo BAUSANI (1970 [1974]), la prima lingua artificiale vera e propria
potrebbe essere considerata il balaibalan, un idioma sacro sviluppato nell'ambito
della setta hurufi attorno al XVI secolo: se ne sa
molto poco, ma è stato tramandato un testo religioso in balaibalan dal quale
emerge un vocabolario originale, innestato su una sintassi analoga all'arabo (DE
SACY, 1813).
Anche diversi filosofi europei pensarono a delle lingue artificiali. Thomas Moore
(Tommaso Moro) riporta nella sua Utopia del 1516 qualche frase
in una "lingua utopica", probabilmente opera di P. Gilles.
Un vero pioniere dell'idea moderna di lingua artificiale, anche se solo sul
piano teorico, è il grande filosofo francese René Descartes (Cartesio). Egli,
in una lettera indirizzata al padre Mersenne del 1629, ipotizza una lingua universale fondata
su principi di semplicità, con coniugazioni e declinazioni regolari e priva di eccezioni:
qualcosa di simile a ciò che sarebbe stato realizzato dall'esperanto; ma più avanti
egli precisa che una vera lingua universale non potrebbe essere che una lingua
filosofica, una lingua cioè nella quale le forme delle parole e dei simboli
rispecchiassero l'ordine universale dei pensieri umani: una volta che si individuassero
le "idee semplici", sarebbe facile derivare da esse tutta la lingua, e attraverso questa
ottenere una conoscenza più vera e completa di quella per il momento disponibile.
Del resto, trovo che a questo si potrebbe aggiungere un'invenzione, sia per formare le parole primitive di questa lingua, che per i caratteri, in modo tale che la si possa insegnare in brevissimo tempo, e questo per mezzo dell'ordine, ossia stabilendo un ordine fra tutti i pensieri che possono entrare nello Spirito umano, allo stesso modo in cui vi è un ordine naturale stabilito fra i numeri; e come si può imparare in un solo giorno a nominare tutti i numeri fino all'infinito, ed a scriverli, in una lingua sconosciuta, che pure sono un'infinità di parole differenti; che si possa fare lo stesso di tutte le altre parole necessarie per esprimere tutte le altre cose che cadono nello spirito degli uomini; se ciò venisse trovato, non dubito affatto che ben presto questa lingua avrebbe corso nel mondo, poiché ci sono molte persone che volentieri sarebbero disposte ad impiegare cinque o sei giorni per potersi far intendere da tutti gli uomini. L'invenzione di questa lingua dipende dalla vera Filosofia; poiché altrimenti è impossibile enumerare tutti i pensieri dell'uomo e disporli in ordine, ed anche solo distinguerli in modo tale che risultino chiari e semplici; il che è a mio avviso il segreto più grande che si possa avere per acquisire la buona scienza; e se qualcuno avesse spiegato bene quali sono le idee semplici che stanno nell'immaginazione degli uomini, delle quali si compone tutto ciò che essi pensano, e ciò fosse recepito da tutti, oserei sperare in seguito una lingua universale assai facile da imparare, da pronunciare e da scrivere e, cosa principale, che sarebbe d'aiuto al giudizio, rappresentandogli ogni cosa così chiaramente che sbagliarsi risulterebbe quasi impossibile; mentre invece, al contrario, le parole che possediamo non hanno che significati confusi, ed essendosi lo spirito umano abituato ad esse da lungo tempo, ciò fa sì che non si intenda quasi nulla in modo perfetto. Ora, io ritengo che tale lingua sia possibile, e che si possa trovare la Scienza dalla quale essa dipende, per mezzo della quale i villici potranno giudicare della verità delle cose in modo migliore di quanto non facciano attualmente i filosofi stessi.
Il concetto di lingua filosofica venne poi realizzato in modo compiuto da
diversi autori nel corso del Seicento. Il primo di loro fu lo scozzese George
Dalgarno, che nella Ars signorum pubblicata nel 1661 espose un sistema
"logico" per la formazione delle parole a partire dai significati primitivi che le
costituiscono.
Ogni lettera, nella lingua filosofica di Dalgarno, corrisponde ad
una classe di concetti: al livello più alto, A indica gli esseri, H (eta) le sostanze,
E gli accidenti, I gli esseri concreti, O i corpi, K gli accidenti politici eccetera; ciascuna classe si divide poi in sottoclassi indicate da una seconda lettera, queste
a loro volta in sottoclassi indicate da una terza lettera, e così via, procedendo con
sempre maggiori specificazioni. Ad esempio, Nubgrhm significa 'mostarda',
in quanto composto da N = concreto fisico, u = condimento, b
= vesca, g = qualità sensibile, h = sapore, r-m = amaro.
Le lettere non hanno di per sé significati fissi, ma funzionano come simboli,
analoghi a cifre, che indicano determinate sottoclassi a seconda della
posizione in cui si trovano (lo stesso principio è usato nei moderni sistemi di
classificazione bibliografica); ciò che è
"filosofico" è l'intero sistema di classificazione delle idee, che fa sì che la parola
indicante un determinato concetto non sia casuale, bensì simile ad altre parole
indicanti concetti simili: ad esempio Nhka significa 'elefante', Nhkh
'cavallo', Nhke 'asino', Nhko 'mulo'. Questo sistema, per quanto
elegante, implica in realtà grandi difficoltà di memorizzazione e di comprensione,
proprio perché i concetti simili sono indicati da parole simili che è difficile
distinguere tra loro. Le parole possono essere connesse a formare frasi per mezzo di
un set di parole speciali indicanti pronomi, desinenze grammaticali e così via.
In questo modo, come recita il sottotitolo dell'Ars signorum, "gli uomini
di idiomi diversissimi potranno nello spazio di due settimane mutuamente comunicare
tutti i sensi dell'animo loro (nelle cose familiari) non meno intelligibilmente, sia
per iscritto che oralmente, che nelle proprie lingue vernacole. Inoltre con questo
mezzo i giovani potranno assimilare i principi della filosofia e la vera pratica della
logica più presto e più facilmente che usando gli scritti dei filosofi in volgare."
Un meccanismo simile fu descritto nello stesso anno dal tedesco Johannes
J. Becher: il suo sistema consta però non di parole originali, ma di numeri che
corrispondono alle voci di un dizionario. Questi numeri possono essere tradotti
in qualsiasi lingua, e quindi fungere da mezzo di comunicazione scritto comune tra
parlanti di lingue diverse. La "lingua" di Becher costituisce perciò un esempio
di ciò che viene chiamato pasigrafia: una lingua universale che consiste
di simboli grafici (in questo caso numeri), i quali corrispondono a diverse
parole nelle diverse lingue.
Simile a quella di Dalgarno, ma maggiormente perfezionata, è la lingua filosofica
di John Wilkins, uno dei fondatori della Royal Society, vescovo di Chester
e autore anche di un trattato di crittografia.
Nella lingua di Wilkins, i concetti del vocabolario sono classificati
in 40 generi, indicati dalle prime due lettere di ogni parola; questi si dividono in
differenze, indicate da una consonante in terza posizione, e le differenze si dividono
a loro volta in specie, indicate da una vocale in quarta posizione. Ad esempio:
De = 'elemento', Deb = 'fuoco', Deba = 'fiamma'.
Le parole, oltre che in lettere, possono essere scritte anche in forma di simboli
grafici, per mezzo di un sistema elaborato appositamente: la lingua filosofica
di Wilkins è quindi anche una pasigrafia. Come Dalgarno, anche Wilkins
sottolinea i vantaggi dell'utilizzo di un tale sistema per correggere la confusione
dei concetti derivante dall'uso incoerente delle parole nelle lingue naturali:
similmente a quanto ipotizzava Descartes, la chiarezza e la logica delle
espressioni così formate dovrebbero eliminare molti errori di natura
filosofica - ma anche religiosa - nei pensieri dei parlanti.
La lingua di Wilkins, così come le osservazioni di Descartes,
furono considerate con grande interesse dal filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz.
Partendo dal sistema di Wilkins, Leibniz immaginò una "lingua adamica"
nella quale ogni parola fosse definita dai concetti semplici che la costituiscono.
Ogni concetto semplice sarebbe stato indicato da un numero, e i concetti
complessi si sarebbero potuti formare combinando quelli semplici attraverso
un vero e proprio calcolo matematico; i numeri così ottenuti si sarebbero poi
potuti tradurre in sillabe pronunciabili. Questo progetto è accennato da Leibniz
nel De arte combinatoria del 1666, e trattato anche in alcuni frammenti inediti.
Un ulteriore studio di Leibniz riguarda una grammatica universale e regolare
che governi la combinazione delle parole: semplificando ed eliminando le ridondanze
logiche del latino, essa abolirebbe il genere e le declinazioni, e farebbe invece ampio
uso di preposizioni, pronomi e altre particelle; è una concezione che, come già
quella di Descartes, si avvicina molto ai successivi progetti di lingue internazionali
ausiliarie.
Il fascino filosofico esercitato dalle lingue di Dalgarno, Wilkins, Leibniz e da altri progetti simili, con la loro promessa di favorire la conoscenza attraverso la corretta combinazione delle idee, si accompagna in realtà a dei limiti intrinseci. È evidente infatti che le "classificazioni delle idee" elaborate da Dalgarno e da Wilkins riflettono le conoscenze e le concezioni del mondo caratteristiche della loro epoca: in questo senso la loro "logica" non è così assoluta ed universale, poiché se fosse stato elaborato in un contesto culturale differente il sistema avrebbe potuto risultare diverso. Questo problema è evidenziato efficacemente dalla sagacia critica di Jorge Luis Borges, in passo del suo breve saggio intitolato appunto L'idioma analitico di John Wilkins:
Definito così il procedimento di Wilkins, bisogna esaminare un problema che è impossibile o difficile postergare: il valore della tavola quadragesimale, base dell'idioma. Consideriamo l'ottava categoria, quella delle pietre. Wilkins le divide in comuni (selce, ghiaia, lavagna), modiche (marmo, ambra, corallo), preziose (perla, opale), trasparenti (ametista, zaffiro) e insolubili (carbone e arsenico). Quasi altrettanto allarmante è la nona categoria. Questa ci rivela che i metalli possono essere imperfetti (cinabro, mercurio), artificiali (bronzo, ottone), di rifiuto (limatura, ruggine) e naturali (oro, stagno, rame). La bellezza figura nella categoria decimosesta; è un pesce viviparo, oblungo. Codeste ambiguità, ridondanze e deficienze ricordano quelle che il dottor Franz Kuhn attribuisce a un'enciclopedia cinese che s'intitola Emporio celeste di conoscimenti benevoli. Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all'Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s'agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche.
La storia delle lingue artificiali non registra sostanziali novità per la maggior
parte del Settecento e dell'Ottocento. Durante quest'ultimo secolo cominciò
ad affermarsi l'idea, stimolata anche dalla crescita delle conoscenze sulle lingue
non europee e dallo sviluppo dei traffici commerciali, di una lingua comune,
relativamente semplice, attraverso la quale gli uomini di tutto il mondo potessero
* intendersi. Nell'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert si trova un
articolo di M. Faiguet intorno a una possibile langue nouvelle, per la quale
viene proposta una grammatica semplificata mediante la regolarizzazione delle
desinenze, l'abolizione del genere e dell'articolo, e così via. Questa sarebbe
stata per quasi un secolo la principale fonte accessibile sull'idea di lingua
artificiale, e probabilmente influenzò gli autori dei progetti successivi.
Un'idea molto originale fu sviluppata nella prima metà del secolo
dal francese Jean-François Sudre: quella di utilizzare come linguaggio comune
le sette note, le quali potevano essere facilmente riprodotte in tutto il mondo
e trasmesse in numerose forme visive, orali, scritte o, naturalmente, musicali;
nacque così il solresol, curiosa lingua artificiale nella quale le parole
erano costituite, secondo definizioni arbitrarie, da sequenze delle sette note
in varie combinazioni e con vari accenti; nonostante l'originalità e la fama
riscossa, il solresol presentava molti limiti strutturali, e fu presto dimenticato.
A partire dalla fine dell'Ottocento cominciarono invece ad essere sviluppati numerosi progetti di quelle che vengono definite lingue internazionali ausiliarie (international auxiliary languages o IALs): lingue costruite con l'esplicito scopo, almeno teorico, di diffondersi in tutto il mondo ed essere imparate e parlate da persone di tutte le nazionalità. Tali lingue si dicono anche a posteriori, nel senso che il loro vocabolario è ottenuto a partire da radici già esistenti nelle lingue naturali, di solito scelte in modo da essere riconoscibili dal maggior numero possibile di persone; le lingue filosofiche di cui abbiamo parlato sopra sono invece a priori, in quanto il loro vocabolario e la loro grammatica sono creati completamente ex novo, senza preoccuparsi della loro maggiore o minore somiglianza con le lingue naturali.
La prima grande IAL fu il volapük del sacerdote cattolico tedesco Johann Martin Schleyer. Le parole volapük sono formate da radici derivanti dall'inglese e da altre lingue europee, ma molto deformate in modo da adeguarle a stretti criteri fonologici: la maggioranza di esse, infatti, ha la forma consonante-vocale-consonante. Per esempio, volapük significa 'lingua del mondo', da pük = 'lingua' (cfr. l'inglese speak), vol = 'mondo' (cfr. world) e a = desinenza del genitivo. Particolarmente sofisticata, sebbene sempre regolare, è la coniugazione dei verbi; ad esempio:
löfob = 'io amo'Ecco come risulta il Padre nostro in volapük:
löfol = 'tu ami'
löfom = 'egli ama'
löfof = 'ella ama'
löfos = 'esso ama'
löfobs = 'noi amiamo'
älöfob = 'io amavo'
elöfob = 'io amai/ho amato'
olöfob = 'io amerò'
elöfobla = 'che io abbia amato'
O Fat obas, kel binol in süls, paisaludomöz nem ola! Kömomöd monargän ola! Jenomöz vil olik, äs in sül, i su tal! Bodi obsik vädeliki givolös obes adelo! E pardolös obes debis obsik, äs id obs aipardobs debeles obas. E no obis nindukolös in tentadi; sod aidalivolös obis de bad. Jenosöd!
L'esperanto è il frutto del lavoro di un oculista polacco, Lejzer
Ludovik Zamenhof. Nato in una città (Bialystok) linguisticamente divisa fra
polacco, russo, tedesco e yiddish, ed egli stesso ebreo, Zamenhof percepì
sulla propria pelle che le differenze linguistiche erano una fonte di divisione ed
anche di odio fra gli uomini: fin dagli anni del liceo, perciò, egli pensò a una
"lingua universale" che facilitasse la comunicazione e appianasse le incomprensioni
(anche se, come dichiarò esplicitamente, non ebbe mai l'ambizione di
sostituire questa lingua a quelle naturali, bensì solo di affiancarla ad esse).
I principi basilari della lingua furono pubblicati nel 1887 a spese dell'autore,
il quale si celava sotto lo pseudonimo di "Doktoro Esperanto", ossia Dottore
Speranzoso: di qui la lingua venne poi sempre chiamata esperanto.
Il successo e la diffusione dell'esperanto furono notevoli, e a differenza
del volapük anche duraturi, anche per merito della tenacia con la quale
Zamenhof si applicò alla sua diffusione e al suo sviluppo.
La lingua mostra in effetti un pregevole equilibrio fra regolarità
della grammatica, fondata su principi simili a quelli del volapük, e riconoscibilità
delle radici, che derivano con poche modifiche dalle lingue neolatine e
da altre lingue europee relativamente diffuse negli scambi internazionali.
Anche le parti del discorso sono facilmente riconoscibili: i sostantivi terminano
sempre in -o, gli aggettivi in -a, l'infinito dei verbi in -i;
le desinenze per l'accusativo, il plurale e i numerosi affissi sono semplici e
completamente regolari, e gli affissi stessi si possono staccare ed utilizzare
come parole autonome: ad esempio Romo significa 'Roma',
Romano 'Romano', e ano preso isolatamente significa 'abitante'.
Ecco una versione del Padre nostro in esperanto [trascriviamo rispettivamente
con -ch- e -sh- la c e la s con il segno di accento circonflesso,
ed omettiamo il segno di breve sulla u nel dittongo au]:
Patro nia, kiu estas en la chielo, sankta estu via nomo; venu regeco via; estu volo via, kiel en la chielo, tiel ankau sur la tero. Panon nian chiutagan donu al ni hodiau; kaj pardonu al ni shuldojn niajn, kiel ni ankau pardonas al niaj shuldantoj; kaj ne konduku nin en tenton, sed liberigu nin de la malbono.
Anche l'esperanto, naturalmente, non è privo di difetti, ed alcuni suoi
elementi, come l'uso dell'accusativo e la presenza di segni diacritici nella grafia di
alcune lettere, potrebbero essere ulteriormente semplificati. In effetti, parallelamente
a nuovi progetti sempre più numerosi di lingue internazionali ausiliarie, nacquero
presto proposte di riforma e di miglioramento dell'esperanto. Quello di maggiore
successo fu l'ido (parola che non a caso significa 'figlio', 'discendente'),
sviluppato da vari studiosi esperantisti in seguito ad approfonditi studi linguistici.
Sebbene lingue come l'ido siano più evolute dell'esperanto, quest'ultimo è
rimasta la lingua ausiliaria più diffusa, essendosi ormai affermato ed avendo
prodotto una vera e propria cultura internazionale in esperanto. È chiaro
infatti che, oltre alla qualità intrinseca, anche fattori socio-culturali determinano
il maggiore o minore successo di una lingua artificiale.
All'inizio del ventesimo secolo l'adozione di una lingua internazionale
era diventato un tema di grande attualità, tanto che venne creato un comitato
internazionale con l'esplicito scopo di studiare i numerosissimi progetti proposti
ed eleggere il più adatto (vedi COUTURAT & LEAU, 1903),
che fu infine indicato nell'esperanto ma con la raccomandazione di una serie
di riforme nel senso dell'ido.
Ai dibattiti e agli studi contribuirono anche grandi linguisti come Jespersen,
Couturat e Meillet. I sostenitori dei diversi progetti dibattevano con
accanimento che talora raggiungeva il fanatismo, carattere che tuttora può
essere spesso rimproverato a molti fautori di lingue internazionali ausiliarie,
dando l'impressione che esse siano tutt'altro che portatrici di pace.
Fra i progetti più noti e validi nominiamo l'occidental di De Wahl,
il latino sine flexione o interlingua del matematico italiano Giuseppe Peano,
l'interlingua della International Auxiliary Language Association,
il novial (cioè nov IAL) di Jespersen,
e l'interglossa di Hogben, successivamente evoluto nel glosa,
che utilizza radici latine e greche e una sintassi estremamente semplice.
Superata l'epoca delle utopistiche lingue filosofiche "perfette" e passati di moda
(anche se non scomparsi) i progetti di lingue internazionali ausiliarie, quali sono
le lingue artificiali caratteristiche della nostra epoca? Proporrei di considerare
come tali un terzo tipo di lingue artificiali, del quale finora non abbiamo ancora
parlato, che possiamo in generale chiamare lingue fantastiche.
Le lingue fantastiche sono quelle che si immaginano essere utilizzate da popoli
di fantasia, ad esempio frutto di creazioni letterarie o in genere artistiche. Quale che
sia il loro contesto preciso, esse non sono realizzate con un scopo principalmente
conoscitivo (come le lingue filosofiche) e nemmeno pratico (come le lingue ausiliarie),
ma sono piuttosto un'espressione della fantasia e della creatività di un singolo
autore: vengono perciò chiamate anche lingue artistiche (artlangs);
il loro scopo consiste nello svago o addirittura nell'evasione, e in questo
potrebbero essere considerate come un'espressione tipica della nostra epoca,
povera di grandi valori e di ideali, e dedita piuttosto al divertimento e alla soddisfazione
individuale.
Ciò non toglie che anche nel passato si possano trovare illustri precursori
delle lingue fantastiche: anche in questo caso, infatti, la nostra ripartizione storica
è solo uno schema indicativo e non deve essere intesa in modo rigido. Abbiamo già citato la lingua utopica presente nell'opera di Thomas Moore.
Rudimenti di lingue fantastiche, associate a immaginarie popolazioni
minuscole o gigantesche, si trovano anche nei Viaggi di Gulliver narrati da
* Jonathan Swift, pubblicati nel 1726: ad esempio la parola yahoo, nel suo significato
di 'sciocco', 'ottuso', deriva da una di queste lingue, nella quale avrebbe significato
'bruti in forma umana che infestano il paese dei cavalli sapienti'!
Anche se non è riconoscibile una lingua
completa con vocabolario e grammatica, si tratta di un esempio di immaginazione
"linguistica" che verrà ripreso da numerosi autori, soprattutto di fantascienza
e soprattutto del 20esimo secolo.
Anche in 1984 di George Orwell, opera scritta con intenti diversi
dalla pura evasione ma comunque fantastica ed ambientata nel futuro,
si trova una neolingua (newspeak), che viene imposta del regime nell'àmbito dell'organizzazione massificata e totalitaria che caratterizza l'ipotetica cultura del futuro.
La lingua fantastica si presenta dunque come un modo per esprimere, attraverso uno degli
aspetti centrali della vita umana come la parola, il carattere di una civiltà immaginaria.
Ottimo rappresentante di questa categoria è una lingua che si può considerare
fra quelle di maggior successo in tutta la storia delle lingue artificiali, potendo
attualmente vantare un grande numero di entusiasti sostenitori, studiosi e
perfino parlanti: il klingon. Si tratta dell'idioma, elaborato in forma
abbastanza completa dal linguista statunitense Mark Okrand negli anni Ottanta,
parlato dalla immaginaria popolazione extraterrestre abitatrice del pianeta Kling,
parte dell'universo della serie televisiva di fantascienza Star Trek.
Ad esprimere il carattere alieno e guerrafondaio dei Klingon, il klingon
si distingue per una fonologia decisamente insolita, ricca di suoni aspri
e gutturali, che si riflette anche in una grafia esotica: ad esempio,
cha yIbaH qara'DI' significa 'spara i siluri al mio ordine'. Il klingon
è dotato di un proprio alfabeto originale, dall'aspetto cuneiforme,
di una grammatica con nomi semplici e composti, sistemi di prefissi e
suffissi, due distinte forme interrogative e così via.
Il successo del telefilm originario ha favorito anche la diffusione della
lingua, tanto che in klingon esiste addirittura una traduzione dell'Amleto
di Shakespeare; la coltivazione della lingua è coordinata da un Klingon Language
Institute, e favorita da appositi siti Internet ad essa dedicati.
Uno sfondo narrativo alquanto diverso è quello del quenya,
altra lingua fantastica ben sviluppata, che molti appassionati considerano
un vero capolavoro di filologia immaginaria. Autore del quenya, e di
un intero sistema di altre lingue parlate da esseri fantastici, è in effetti un filologo:
l'inglese nato in Sudafrica J.R.R. Tolkien, noto soprattutto per la saga
Il Signore degli Anelli, capostipite di un ricco filone letterario
del genere fantasy, sebbene ineguagliato nella sua raffinatezza.
Il mondo della Terra di Mezzo descritto nelle opere di Tolkien è popolato,
oltre che di uomini, di creature umanoidi quali elfi, nani ed orchetti,
tutti comunicanti in proprie lingue; di esse Tolkien fornisce esempi soprattutto
illustrando l'origine di nomi di luoghi e di persone, i cui significati fanno riferimento
a un vocabolario coerente.
La lingua meglio sviluppata di questo sistema è appunto il quenya,
parlato dai nobili ed eterei esseri chiamati Eldar (elfi). La sua fonologia
ne fa una lingua armoniosa e adatta alla composizione poetica e al canto,
che sono infatti mezzi di espressione impiegati comunemente dagli
elfi; secondo gli esperti, molti elementi del quenya sono
ispirati a due lingue particolarmente amate da Tolkien, ossia il finlandese
e il gallese. Le iscrizioni originali in quenya, racconta Tolkien,
sono realizzate con lettere di un antico alfabeto dal sapore nordico,
le tengwar (rune). Ecco un esempio di canto elfico in quenya.
Ai! laurië lantar lassi súrinen,('Ah, simili ad oro cadono le foglie al vento, lunghi innumerevoli anni come le ali degli alberi! I lunghi anni sono fuggiti, come rapidi sorsi del dolce idromele, in aerei saloni oltre l'Occidente, sotto le azzurre volte di Varda ove le stelle tremolano al canto della sua voce, una voce sacra di regina. Chi riempirà ormai per me la coppa? Ahimé, la Vampa, Varda, regina delle Stelle, ha innalzato le sue mani dal Monte Semprebianco come nuvole che ascendono al cielo, ed ogni sentiero è immerso nella più cupa oscurità; fuori dalla grigia campagna, il buio sovrasta le onde spumeggianti che ci separano, e la nebbia ricopre per sempre i gioielli di Calyciria. Perso! Perso è ormai Valimar per coloro che vivono ad oriente. Addio! Forse un dì tu troverai Valimar. E forse anche tu lo troverai un dì. Addio!')
Yéni únótimë ve rámar aldaron!
Yéni ve lintë yuldar avánier
mi oromandi lisse-miruvóreva!
Andúne pella, Vardo tellumar
nu luini yassen tintilar i eleni
ómaryo airetári-lírinen.
Sí man i yulma nin enquantuva?
An sí Tintallë Varda Oiolossëo
ve fanyar máryat Elentári ortanë
ar ilyëtier undulávë lumbulë;
ar sindanóriello caito mornië
i falmalinnar imbë, ar hísië
untúpa Calacyrio míri oialë.
Sí vanwa ná, Rómello vanwa, Valimar!
Namárië! Nai hiruvalyë Valimar.
Nai elyë hiruva. Namárië!
Alcuni interessanti sviluppi contemporanei sono connessi con
la problematica posta dalla cosidetta ipotesi di Sapir-Whorf (dai nomi di due illustri
linguisti che hanno trattato la questione in modo penetrante). Tale ipotesi afferma,
in sostanza, che le forme del linguaggio influenzano le forme del pensiero: in altre
parole, la struttura di una lingua - i modi in cui il suo vocabolario individua e
delimita i concetti, e i modi in cui le strutture grammaticali li combinano a
formare delle unità significative maggiori - implicherebbe delle restrizioni a ciò che
può essere detto, o almeno al modo in cui può essere detto, e queste restrizioni
finiscono per influenzare profondamente il modo di pensare di coloro che,
per esprimersi, usano quella lingua. Un esempio relativamente semplice può
essere fornito dalla presenza del genere in molte lingue europee: il genere
"classifica" gli oggetti in maschili, femminili o neutri, aggiungendo ai concetti
delle connotazioni che (tranne nel caso degli animali e degli uomini)
non corrispondono ad una realtà oggettiva: perché, ad esempio,
la vanga deve essere considerata femminile? O, per toccare problemi
di assai maggiore portata, perché Dio deve essere pensato al maschile,
piuttosto che al femminile o al neutro?...
Si è molto discusso su quale sia la reale estensione dell'influenza del linguaggio
sul pensiero che l'ipotesi di Sapir-Whorf suggerisce: l'influenza si limita ad un livello superficiale,
lasciando inalterata la sostanza dei significati, oppure davvero è il principale responsabile dell'esistenza di un "modo di pensare eschimese" profondamente diverso da uno cinese
e uno francese? Fino a che punto è il pensiero ad essere
influenzato dal linguaggio, e non semplicemente il linguaggio ad essere espressione
e prodotto di un certo tipo di pensiero? È assai difficile stabilirlo con precisione.
In ogni caso, se esiste un'influenza del linguaggio sul pensiero, diventa importante
prestare attenzione a certi elementi del linguaggio, e magari provare ad usarli in modo
tale che ci aiutino a pensare correttamente e senza pregiudizi: del resto, è un po' quello che
sostenevano già Cartesio, Wilkins e Leibniz, auspicando l'uso di una lingua "saggia".
Ed è quanto ritengono i creatori di alcune proposte linguistiche assai originali del
nostro tempo, quali lojban e láadan.
Nel 1960 lo statunitense James Cooke Brown pubblicò sulla rivista Scientific
American la descrizione di una lingua da lui progettata e chiamata loglan,
ossia logical language. Tale lingua, una volta imparata, avrebbe potuto aiutare
il parlante a formulare i propri concetti in modo chiaro e non ambiguo, grazie alla
sua struttura essenzialmente logica, fondata in particolare sulla logica predicativa.
In base a quest'ultima essa, le frasi, invece che da soggetti, verbi e complementi, vanno
considerate costituite da da predicati ed argomenti; un predicato è un termine, equivalente a un verbo, una preposizione o una congiunzione, il cui significato consiste nell'indicare
una relazione fra altri termini, che si dicono i suoi argomenti. La lingua loglan contiene
inoltre un grande numero di particelle, atte a distinguere precisamente le relazioni
logiche fra i termini, e capaci di esprimere anche relazioni matematiche.
Un'altra particolarità del loglan è che il suo vocabolario, costituito in gran parte
da parole di cinque lettere, è stato realizzato confrontando, per ciascun significato,
le radici delle parole corrispondenti nelle otto lingue più diffuse nel mondo, ossia
inglese, cinese, hindi, russo, spagnolo, giapponese, francese e tedesco; tali radici
sono quindi state analizzate da un algoritmo informatico, per produrre una parola
che si avvicini il più possibile a tutte queste lingue contemporaneamente: la parola risultante, pur non
assomigliando in genere a nessuna delle parole originarie, conterrà però diverse
lettere che aiuteranno i parlanti di una gran parte del mondo a memorizzarla. Ad esempio,
blanu = 'azzurro' contiene fonemi comuni alle parole blue (inglese),
lan (cinese), nila (hindi), galuboj (russo), azul (spagnolo),
bleu (francese) e blau (tedesco). In questo il loglan si avvicina alle lingue internazionali ausiliarie, anche se il suo scopo è permettere non tanto la
comunicazione internazionale quanto una comunicazione precisa e non ambigua.
Il progetto del loglan venne sviluppato nei decenni successivi da Cooke Brown e
da vari collaboratori. Con il passare del tempo, tuttavia, sorsero divergenze di opinioni
in merito a vari aspetti della lingua, e soprattutto al modo autoritario con il quale
Cooke Brown manteneva su di essa un controllo personale, poco aperto al cambiamento.
Questa situazione portò infine ad una scissione dal gruppo da parte di numerosi
praticanti, desiderosi di evolvere la lingua in modo differente e più aperto al contributo
collettivo; essi furono diffidati da Cooke Brown dall'utilizzare la sua creazione, ma
in seguito ad un processo giudiziario ebbero riconosciuto il diritto di sviluppare
indipendentemente una loro lingua, basata sugli stessi principi, a condizione che
il vocabolario fosse completamente differente da quello dell'originario loglan.
Per questo l'algoritmo per la determinazione delle parole venne ritoccato, variando anche il peso dato
alle diverse lingue (in base alle stime attuali, la lingua più parlata nel mondo risulta
il cinese e non l'inglese), e applicato nuovamente, ricreando tutte le parole in una forma
differente. Nacque così il lojban, una lingua sostanzialmente identica al loglan
nei principi di base, ma sviluppata da un'istituzione collettiva denominata Logical
Language Group, con sede a Fairfax negli Stati Uniti. Il termine lojban
esemplifica la sua relazione con l'originario loglan: anch'esso infatti significa
'lingua logica', in quanto composto di lojbo = 'logico' e di banru
= 'lingua' (cfr. il cinese ba, l'indonesiano bahasa ecc.).
Il Logical Language Group si è adoperato per sviluppare la lingua attraverso il
contributo di numerosi aderenti di ogni parte del mondo, in contatto fra di loro
soprattutto attraverso la posta elettronica: numerosi aspetti della lingua sono
così stati discussi e perfezionati, soprattutto ad opera del presidente del gruppo
Bob LeChevalier (detto Lojbab, ovvero Bob il Logico) e sua moglie Nora, e, dal punto
di vista linguistico, di John Cowan, Jorge Llambias, Nick Nicholas ed altri. Recentemente
il gruppo ha stabilito di "congelare" la lingua per dieci anni, in modo da
stabilizzarla e permettere al maggior numero possibile di persone di studiarla
e praticarla. Per questo suo sviluppo cooperativo e per la completezza delle
sue analisi di tutti gli aspetti del linguaggio, il lojban si presenta come un esempio
insolito di lingua artificiale coerente e completa, degna di seria considerazione
per quanto bizzarra e non facile da imparare.
Come esempio di lojban, riportiamo l'inizio del famoso discorso I have
a dream... di Martin Luther King:
.i mi fi do ca cusku doi pendo fe ledu'u mi mu'inai loi cazi li'i nandu joi se steba cu ca'o pacna da .i da mutce se jicmu le'e merko se pacna .i mi pacna lenu levi natmi baco'a virnu gi'e tarti tu'a le fatci smuni be leri kriselsku po'u lu mi xusra ledu'u ledi'e jetnu si'unai se jimpe .i tu'e ro remna cu jikydunli co'a lenu ri se zbasu li'u
Un caso assai diverso di lingua che propone un modo di pensare alternativo
è quello del láadan, ideato dall'americana Suzette Haden Elgin. L'interpretazione
dell'ipotesi di Sapir-Whorf da parte di questa autrice è che le lingue usate correntemente,
in quanto storicamente sviluppate in epoche nelle quali vi è stata una dominanza
culturale maschile, rifletta scarsamente il modo femminile di pensare e di sentire.
Addirittura, elaborando un'idea di Douglas Hofstadter, ella ipotizza che esistano alcuni concetti impossibili da esprimere nella lingua degli uomini in quanto, a causa della sua struttura,
essi comporterebbero l'autodistruzione della lingua stessa.
Per esprimere le caratteristiche più sfumate ed emotivamente ricche del sentire
femminile, ed in generale il punto di vista delle donne nella percezione del mondo,
Elgin ha voluto creare una "lingua per le donne", chiamata appunto láadan: si riferisce
che la sua progettazione sia cominciata il 28 giugno 1982. La lingua è illustrata
in particolare in tre romanzi fantastici intitolati Native tongue (madrelingua),
pubblicati nel 1984, 1987 e 1994.
La struttura del láadan riprende svariate caratteristiche di molte lingue naturali
appartenenti alle famiglie linguistiche più diverse, scelte in quanto all'autrice sembrano
esprimere le cose nel modo più adatto allo spirito femminile. La fonologia
della lingua dovrebbe essere particolarmente armoniosa, evitando l'uso di
alcune consonanti considerate troppo "dure" e producendo invece uno scorrimento
fluente delle parole. Ecco l'inizio di un racconto in láadan, che narra di una donna molto
anziana dagli arti tremanti.
Báade eríli wobalinehul wowith wo. Mebol oyi betha, thadehel ma be, i merawam óoda i oma betha. Bre wod be daleyodewaneha ébre thadehel duth be badath. Héda be thulanath hath menedebe, i héda thulana nedebe ona bethade.
Amo chiamare l'attività di creazione e sviluppo di lingue artificiali, con un termine di sapore dotto che suona suggestivo, glossopoiesi, dal greco glóssa = 'lingua' e póiesis = 'creazione'. Dalla stessa radice del verbo poiêin = 'fare', 'creare' è derivata anche la parola poeta: sicché possiamo anche chiamare gli autori di lingue artificiali glossopoeti, sottolineando così l'aspetto estroso e artistico della loro specialità.
Chi sono i glossopoeti? Perlopiù persone comuni, anche se di una certa intelligenza
e versate nello studio delle lingue. Molti di loro manifestano la loro inclinazione
glossopoietica fin dall'infanzia o dall'adolescenza, come un talento in buona parte innato:
BAUSANI (1970 [1974]) ad esempio descrive l'evoluzione della
propria lingua personale, chiamata markuska, a partire dagli anni dell'infanzia.
È in effetti relativamente comune il caso di ragazzini che si ingegnano di creare
un alfabeto originale, conosciuto soltanto da loro, con il quale codificare le
lettere del linguaggio comune e poter comunicare segretamente con qualche amico
eletto, oppure tenere un diario che resti nascosto ai genitori e ai fratelli.
Generalmente la codifica è molto semplice e lineare, limitandosi a far
corrispondere a una lettera dell'alfabeto della propria lingua un simbolo diverso;
l'eventualità di varianti nell'ortografia (per esempio trascrivere allo stesso modo
c di casa e ch di chiesa, riconoscendo
che si tratta dello stesso suono) è già indizio di una sensibilità linguistica promettente.
Un secondo stadio, già assai meno comune, può essere la creazione di un
vocabolario originale, con parole derivate per deformazione da lingue esistenti,
o anche inventate ex novo. Di solito anche in questo caso di tratta di una
semplice codifica, più che di una vera e propria lingua: avviene infatti una
rilessificazione dei termini della lingua madre dell'autore, nella quale
le parole mantengono esattamente lo stesso campo semantico e lo stesso uso.
Per arrivare a una lingua più matura, occorre invece prendere in considerazione
i problemi della definizione delle parole, delle sinonimie, delle omonimie,
delle frasi idiomatiche e così via: in una buona lingua artificiale, la suddivisione
dei significati nel lessico, la formazione dei termini composti e dei modi di dire
non saranno un semplice calco di una lingua esistente, ma avranno proprie
caratteristiche originali.
Infine, ad un terzo e più impegnativo stadio, si può arrivare alla creazione di
una lingua con caratteristiche fonologiche, morfologiche e grammaticali
originali, che formino un sistema coerente. Perché si giunga a questo occorre
che il glossopoeta abbia una notevole consapevolezza delle caratteristiche
delle lingue in genere, o in quanto ha studiato linguistica, o in quanto ha
sviluppato con costanza e serietà negli anni il suo interesse, rendendosi
conto man mano dei diversi livelli di problemi che la costruzione di una vera lingua gli pone.
Per questo, la realizzazione di una lingua coerente, completa e ricca
a tutti i livelli è in realtà un evento assai raro, e una tale creazione è un oggetto
prezioso. In ogni caso, che si arrivi o meno ad un risultato finale soddisfacente,
coltivare la propria passione glossopoetica con serietà si potrà rivelare un
modo per imparare una gran quantità di cose sulla natura delle lingue: infatti,
seguendo questa strada si incontrano man mano i diversi problemi "scoprendoli"
con un'esperienza molto diretta, sicuramente più istruttiva ed efficace di uno
studio teorico. Non a caso alcuni insegnanti di linguistica hanno pensato di
utilizzare la progettazione di una semplice lingua artificiale come esercizio
per i loro allievi.
Un altro elemento importante nella maturazione del glossopoeta è l'affiorare,
ad un certo punto, della domanda: quale tipo di lingua voglio in effetti costruire?
Osservando gli esempi già esistenti, ci si rende conto che esistono molte alternative:
dalla lingua puramente giocosa alla quale si richiede solo di suonare esotica,
alla lingua capace di esprimere lo spirito di un popolo fantastico, alla lingua artistica
con caratteristiche di plausibilità linguistica che sebbene non abbia un'esistenza
storica "sarebbe potuta esistere", alla lingua ausiliaria con ambizioni di utilità pratica...
Interrogarsi su queste scelte e divenire consapevoli dei propri obiettivi
significa anche arrivare a sviluppare una lingua come espressione dei
propri interessi e della propria stessa personalità: la lingua diventa allora una
creazione dell'ingegno al pari, o forse a un livello ancora più radicale e profondo,
della creazione letteraria. Riporto a questo proposito un interessante scambio
di idee ed esperienze intercorso nel gruppo di discussione LangDev il 19
giugno 1997 (si tenga presente che il livagiano è la lingua di And Rosta, e il tokana,
parlato dall'omonima popolazione immaginaria, è la lingua di Matt Pearson).
CLAUDIO GNOLI - Talvolta penso alla glossopoiesi come al processo di scoprire LA lingua che riflette il mio personale modo di vedere e di classificare il mondo, del quale altrimenti sarei meno consapevole. L'inerzia culturale ci porta a parlare (e in qualche misura anche a pensare) nella nostra lingua nazionale, ma ciascuno di noi possiede anche una potenziale lingua personale, che è determinata sia dalla nostra cultura che dalle nostre inclinazioni personali: mi piace pensare che noi glossopoeti lavoriamo per arrivare a capire e usare effettivamente quella lingua. La mia sembra risultare una lingua logica, quella di Tommaso più una lingua artistica, quella di Jeffrey... beh, un sacco di lingue, e così via.
In questo senso, la glossopoiesi in generale può essere vista proprio come un processo di Sapir-Whorf rovesciato: dalla cultura e dalla Weltanschauung personale alla lingua.AND ROSTA - Un bel pensiero. E senz'altro per me un'importante motivazione nel creare il livagiano. (E talvolta ho come l'impressione che Matt passi molto del suo tempo vivendo non fra i Californiani, bensì fra i Tokana!)
MATT PEARSON - Beh, la maggior parte del tempo che passo "fra i Tokana" è quando sto viaggiando in autobus verso e dall'università. Almeno, è allora che faccio la maggior parte del mio lavoro mentale sul tokana, arricchendo il vocabolario e raffinando la grammatica. Non penso che vorrei veramente vivere fra i Tokana; mi mancherebbero il guardare video e il farmi una doccia calda tutte le mattine. Mi piacerebbe molto visitarli, però, ed ascoltarli mentre parlano fra loro.
Come si accenna in questo dialogo, esistono casi di glossopoeti "eclettici" (come Herman Miller, Jeffrey Henning, Mark Rosenfelder) che amano sviluppare più lingue, con caratteristiche diverse fra loro; alcune di queste possono essere fra di loro imparentate, per esempio perché parlate da popoli immaginari che vivono in terre adiacenti, oppure perché si immaginano sviluppate in epoche storiche successive, così che diventa possibile ricostruire, vero virtuosismo da glossopoeti esperti, una plausibile filologia immaginaria. Altri glossopoeti, al contrario, preferiscono concentrarsi sullo sviluppo di una sola lingua, che esprima nel modo più soddisfacente possibile le loro preferenze, impiegando magari l'intera vita a lavorarci: costoro non sono mai pronti a fornire ai loro amici impazienti una descrizione definitiva e comprensibile della loro opera, perché sono perennemente in attesa di definire una gran quantità di modifiche e nuovi sviluppi.
A titolo di esempio riportiamo una interessante documentazione di Rick Harrison, sottoforma di appunti, riguardante lo sviluppo del vorlin, una sua lingua caratterizzata da un vocabolario che richiama quello di diverse lingue naturali, pur senza ambire ad essere utilizzata come lingua internazionale. Come scrive l'autore, "l'idea centrale del progetto è vor, parola che significa 'un compromesso fra criteri tecnici ed estetici', in altre parole l'evitare estremismi nella progettazione delle cose; un tentativo di miscelare l'arte con la tecnologia appropriata".
7.015
Ho deciso di apportare alcuni cambiamenti ai numerali vorlin.
Per prima cosa mi sono accorto che men (più di uno) e pen (cinque) sono troppo simili. Ho deciso di rifiutare pen piuttosto che men, in quanto quest'ultimo è legato strettamente alla grammatica e piuttosto ben impresso nella mia memoria.
Considerando criticamente le altre parole per i numerali, ne ho trovato diverse alle quali non sono affezionato. sor (sei) derivava dal so del loglan, un progetto con il quale non mi identifico. sep (sette) era troppo europeizzante. [...]
Il risultato di tutto ciò è stato: nol (in precedenza nul), yun, dus, san (tri), kad (fir), lim (pen), tor (sor), zib (sep), hog (hac), nev (nin), dek.
Dopo aver apportato questi cambiamenti, mi sono portato dietro i miei appunti per qualche giorno ed ho riflettuto su queste nuove parole, per assicurarmi che avrei potuto conviverci. Solo quando ho percepito che il nuovo sistema era discretamente pratico, allora mi son preso la briga di digitarli nel computer.7.003
Sto cominciando a chiedermi se l'intera grammatica sarà pronta ad essere resa definitiva entro il termine che mi sono autoimposto del 21 marzo 2000. Una dozzina di dilemmi nella progettazione stanno andando per le lunghe.
La cosa più difficile nel risolvere le questioni che vanno per le lunghe è la solitudine del compito. Mi è venuta in mente una volta in cui mi trovai di fronte alla necessità di rimuovere un albero di dimensioni medio-grandi perché rischiava di danneggiare la casa in cui vivevo. Avevo solo un paio di cesoie da potatura e una sega ad arco lunga un cubito, senza denaro sufficiente per chiamare una squadra di rimozione di alberi, né abbastanza per comprarmi una sega elettrica. Così mi arrampicai sull'albero fino a dove ne avevo il coraggio, e segai fino a quando i muscoli del braccio cominciarono a scottare e tremare. Feci lo stesso ogni giorno per circa tre settimane, e alla fine l'albero era ridotto a un mucchio di rami e frasche, e il mio braccio destro era visibilmente più muscoloso del resto del corpo.
In molti casi, i progettisti di lingue si trovano di fronte a un compito altrettanto scoraggiante, simile alla costruzione di una strada di mattoni al ritmo di un mattone al giorno. Spesso non c'è nessun altro in tutto il pianeta che comprenda o condivida l'esatto grado di certe qualità che uno vorrebbe conferire alla lingua, per cui non c'è nessun aiuto disponibile. Ma quando questo comincia a scoraggiarmi, ripenso che le grandi sinfonie e i grandi quadri non sono stati creati da un comitato. Tutte le cose belle sono fatte da persone singole; solo una persona singola può sentire una cosa.
Come ho già avuto occasione di accennare, molti glossopoeti contemporanei
comunicano fra loro per mezzo di Internet. Lo sviluppo della rete ha permesso
agli appassionati di lingue artificiali, fino ad allora abituati a coltivare questo
interesse in solitudine, guardati con distaccata perplessità dai loro conoscenti,
di contattare finalmente altre persone che condividono la loro passione, e di
scoprire così che tutto sommato essi non sono gli unici pazzi desiderosi
di imparare lingue inesistenti.
I glossopoeti possono mettere a disposizione degli altri interessati
delle informazioni sulle loro lingue, ed eventualmente anche parti della
grammatica o esempi di testi, semplicemente caricandole su un sito e
diffondendone l'indirizzo. Può così accadere loro di ricevere commenti e
suggerimenti da qualche rappresentante del loro pur esiguo e specializzato
pubblico, cosa che per il glossopoeta, come per ogni altro creatore, risulta
particolarmente lusingante e stimolante.
Ma lo strumento più importante che ha permesso agli appassionati
di conoscersi, confrontarsi e discutere dei loro argomenti preferiti è stata
la posta elettronica. Fin dai primi anni Novanta, quando le tecnologie telematiche
erano ancora conosciute solo da pochi appassionati ed esisteva uno spirito
pionieristico paragonabile a quello dei radioamatori, sono sorti gruppi di discussione
(mailing list e newsgroup) riguardanti le lingue artificiali.
In alcuni di essi si discute di lingue artificiali già esistenti, come
l'esperanto e le altre lingue internazionali ausiliarie, e come è tipico
dei fautori di tali lingue non mancano dibattiti interminabili a proposito dei meriti e dei difetti
di questa o quella lingua, talvolta con anche assai accesi per l'intolleranza dei fanatici.
Sebbene l'esperanto dimostri anche qui la sua supremazia culturale, il nuovo mezzo di
comunicazione ha permesso anche lo sviluppo di dibattiti su progetti meno conosciuti e
popolari ma nondimeno interessanti, come il glosa e il novial.
Nello sviluppo del lojban, che abbiamo descritto sopra, la discussione
via email ha avuto un ruolo fondamentale per il raffinamento di molte parti
della lingua, anche attraverso un apposito gruppo di discussione al quale
ci si può iscrivere liberamente e nel quale, oltre all'ordinaria discussione in inglese,
si possono leggere scambi in lojban; l'intera grammatica e l'intero vocabolario
del lojban, nei loro elementi essenziali, sono poi disponibili gratuitamente
via Web o FTP.
Un ruolo di grande importanza ha poi avuto il gruppo di discussione chiamato
ConLang (Constructed Languages), nel quale hanno trovato spazio anche gli
ideatori di lingue artificiali nuove, non soltanto ausiliarie ma anche fantastiche
ed artistiche, dediti alla glossopoiesi perlopiù come hobby.
Per concludere daremo qualche cenno su alcuni progetti di lingue
artificiali attualmente in corso di sviluppo ad opera di singole persone, sui quali
è o sarà in futuro disponibile una documentazione in rete.
Tra le creazioni italiane, oltre al citato streich di Tommaso Donnarumma,
spicca il kinya del fiorentino Maurizio M. Gavioli. È una lingua
che si immagina parlata da un popolo fantastico, e la cui storia è attestata
soprattutto dalla successione di una serie di sistemi di scrittura, da uno ancora
rudimentale e impreciso, ad uno "consonantico", ad uno "sillabico": l'autore
riferisce di immaginarie iscrizioni che sarebbero state man mano scoperte, e
in base alle quali sarebbe stato possibile ricostruire lo sviluppo della lingua.
I diversi alfabeti rappresentano una straordinaria realizzazione grafica,
soprattutto in quanto sono perfettamente plausibili sia storicamente che
linguisticamente: la loro accuratezza riflette infatti la formazione di Gavioli come
paleografo. La grammatica presenta un articolato insieme di caratteristiche
piuttosto esotiche, come sei casi (molto diversi da quelli del latino), prefissi
e suffissi, composti, una sintassi molto ridotta un po' come nel caso del
cinese, e una originale dialettica semantica fra i due concetti filosofici contrapposti,
difficilmente definibili, di valam e lah, che influenza l'intera lingua. Per
esempio, i versi vülmet avlam silewma / lühta het alhe si:lema significherebbero
qualcosa come 'nel valmismo, le foglie sono spinte a crescere; nel lahismo,
possono infine dedicarsi al raccolto'.
Una lingua naturalistica (ossia fantastica ma linguisticamente e culturalmente
plausibile) ben sviluppata e riuscita è il già citato tokana del californiano
Matt Pearson. Così lo descrive l'autore, in un messaggio al gruppo ConLang
del 4 marzo 1996:
Per quanto riguarda le lingue ausiliarie, i dibattiti del ventesimo secolo
hanno portato a una maggiore consapevolezza dei problemi impliciti in
queste realizzazioni, e il grandissimo numero di progetti esistenti ha portato
i glossopoeti più avveduti a rendersi conto che difficilmente un ulteriore progetto
sarà quello che risolverà tutti i problemi dell'umanità... Nascono così realizzazioni
più concrete e meno pretenziose, che si presentano solo come uno studio
personale non necessariamente destinato ad essere utilizzato concretamente,
o si limitano a proporsi come lingue ausiliarie di singoli continenti: è il caso ad esempio
dell'eurial (cioè European IAL) dello svedese Philip Jonsson.
Dopo l'avvento del loglan, diversi glossopoeti hanno tentato di realizzare
lingue logiche, perlopiù fondate anch'esse sulla logica predicativa. Alcuni
hanno proposto delle riforme o degli sviluppi alternativi dell'idea originale
del loglan e del lojban: è il caso del -gua!spi del matematico Jim Carter,
dotato di una originale espressione delle relazioni grammaticali mediante differenti
toni della voce. Rari e piuttosto ardui, anche se interessanti, sono i
tentativi di lingue logiche del tutto originali, nessuno dei quali ha per il
momento raggiunto uno stadio di una certa compiutezza; fra questi si
possono annoverare il già citato livagiano dell'inglese And Rosta,
(già ben sviluppato ma ancora mai descritto pubblicamente) lo xapqt
dell'australiano Nick Summers, e anche il mio progetto personale, chiamato liva.
Nota. Questo saggio costituisce il testo di una conferenza tenuta dall'autore nella Saletta Albertina di Novara (Italia) il 22 settembre 1998, organizzata dal Circolo Filologico Novarese su impulso di Alessandro Emilio; in questa occasione, Federico Leonardi ha brillantemente letto i brani citati.
|| Creazione e utopia : le lingue artificiali dal Seicento a oggi # 1 / Claudio Gnoli <gnoli@aib.it> -- Yahoo!-Geocities <http://www.oocities.org/Athens/Agora/7070/ling-art.htm> (1998.11-)
Fondato da John Ross e inizialmente formato da un piccolo drappello
di pionieri, tra i quali Rick Harrison, And Rosta e Steve Rice, nel corso
degli anni Novanta si è progressivamente ingrandito, soprattutto grazie
alla diffusione dei modem dapprima negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Scandinavia, e successivamente anche nel resto dei paesi sviluppati.
Raffinate discussioni e idee personali venivano scambiate
in un clima informale e in certa misura cameratesco.
Attorno al 1995 ConLang ebbe una rapida impennata nel numero
di aderenti, che raggiunse le due centinaia. Questa situazione portò con sé
alcune conseguenze indesiderate: l'abbondanza dei messaggi (decine ogni
giorno) cominciò a rendere difficile anche ai più appassionati restare
aggiornati e seguire tutte le discussioni di loro interesse, e d'altra parte
il contenuto dei messaggi sempre più spesso divenne banale, non
pertinente o inutilmente polemico. L'innalzamento del rapporto rumore/segnale
indusse alcuni dei conlanger più validi ed esperti ad allontanarsi dal
gruppo; nacquero così alcuni tentativi di creare nuovi ambienti con caratteristiche
più simili a quelle dei tempi d'oro, come il newsgroup
In Italia, caso insolito, è nato lo scorso anno un piccolo gruppo di
discussione nazionale, prevalentemente in italiano; il suo creatore
Piermaria Maraziti gli ha conferito il simpatico nome di Aleppe, tratto dalla
frase in lingua "demoniaca" che viene pronunciata da un dannato
nell'Inferno di Dante Alighieri: Papé satan, papé satan aleppe.
Il gruppo promuove anche incontri che permettono agli appassionati italiani di conoscersi personalmente.
Interessante esempio di storia fittizia è anche il tepa, lingua parlata
da un'ipotetica tribù nordamericana che il suo autore, il linguista Dirk Elzinga,
riferisce di andare decifrando a frammenti in base agli appunti lasciati da un
missionario mormone. Il livagiano, di And Rosta, presenta invece
delle raffinate caratteristiche logiche pur presentandosi come lingua del popolo,
fantastico ma umano, di Livagia: la spiegazione "intrafictional" di questa insolita situazione
è che la lingua sarebbe utilizzata solo da una ristretta cerchia di eruditi, un po' come
avveniva per il sanscrito, e costoro devono essere particolarmente abili nelle distinzioni logiche.
Altro filone interessante delle lingue fantastiche è quello delle lingue
possibili: ad esempio, il brithenig del neozelandese Andrew Smith
rappresenta un tentativo di immaginare la lingua che avrebbe potuto svilupparsi
in Inghilterra se anziché la matrice anglosassone avesse prevalso quella celtica.
Il tokana appartiene alla piccionaia delle lingue artificiali personali/artistiche/
letterarie. È stata/è progettata avendo in mente due principali obiettivi:
(a) divertimento personale, (b) il desiderio di progettare una lingua il
più possibile "naturalistica". In altre parole, volevo che il tokana fosse
tipologicamente realistico e coerente, e contenesse tuttavia alcune irregolarità
interne, proprio come avviene nelle lingue naturali. Essendo io un dottorando
in linguistica, con specializzazione sulla teoria della sintassi, ho prestato
particolare attenzione nel rendere il tokana conforme a ciò che noi
pensiamo di sapere riguardo alla Grammatica Universale e alla variabilità
morfosintattica. Auspicabilmente, però, anche la fonologia dovrebbe essere
piuttosto realistica. Come nel caso dell'amman-iar e di altri progetti che
girano in questo gruppo, il tokana è "incastonato" all'interno di una cultura
immaginaria (specificamente, una società piccola, letterata e non industriale
del lontano futuro - o forse del remoto passato? - della storia della Terra,
o forse di qualche Terra di un universo alternativo.
Nell'ambito della grammatica tokana spiccano per complessità i verbi,
che possono inflettersi a seconda di numerosi tratti, assumendo vari affissi
fino a diventare estremamente lunghi: un caso limite è ad esempio la parola
kahtulhkotunmokimi, che significa più o meno 'che noi non avremmo dovuto toccare'.
Un progetto di ampio respiro, che consiste dichiaratamente solo di uno
studio preliminare per una possibile lingua internazionale, è il bahasan
dello statunitense Leo J. Moser. Questo autore ha dedicato molti anni di studio
allo sviluppo di un vocabolario a-posteriori basato su un numero molto grande
di lingue naturali. Nella scelta delle radici a cui attingere, egli tiene in considerazione
non solo la diffusione delle lingue da cui le radici sono tratte, ma anche la
diffusione di ciascuna singola radice in lingue diverse: alcune radici
di origine neolatina, infatti, sono in realtà diffuse ben oltre i confini
delle lingue europee, e sono perciò riconoscibili per un grandissimo numero
di persone, mentre altre sono molto diffuse solamente in Europa e nelle
Americhe; in questi ultimi casi, per equilibrare il vocabolario, la scelta della radice
da usare per quel determinato concetto può cadere anche su lingue arabe,
ebraiche, o asiatiche; ad esempio, 'e' in bahasan si dice va,
da radice vietnamita, turca e di altre regioni; 'sedia' si dice cursio,
da radice araba, indonesiana, nepalese, somala, hindi, turca ecc.
È evidente che per poter operare una scelta così ben ponderata è stato necessario comparare i termini usati per ogni significato in un grandissimo numero di lingue,
invece che assumere genericamente che le radici di certe lingue siano più diffuse
delle altre. Il risultato è una lingua dall'apparenza meno familiare
per il profano rispetto ad altri progetti, ma linguisticamente più neutra e realmente
internazionale. La grammatica bahasan è assai semplice, perlopiù isolante
(le parole mantengono cioè una forma fissa senza venire modificate a seconda
della loro funzione nella frase), sebbene con uso di prefissi e suffissi.
Ecco come risulta il Padre nostro in bahasan:
Nosie Patrae qan si en Caelesdo, sacrisea si tie nama.
Tie rejajo veni, tie vola si fie epim Duniam - chem cin si en
Caelesdo. Dona nosi ise dieno nosie dienale panua, va perdona nosi
nosie debito nan com nos perdona nosie debitorae nan. Va ducta
nosi naem imin tentateo, lacen surpasi nos da maulise. Amen.
Il lavoro nella ricerca di una lingua ausiliaria efficace continua tuttora.
Il bahasan di Leo J. Moser, ad esempio, si svilupperà prossimamente nel
progetto acadon, consistente in una lingua internazionale specificamente
pensata per gli utilizzatori di Internet. La sua presentazione è prevista entro
il prossimo anno, e ho il piacere di comunicarvi che in questa occasione, in accordo con
l'autore stesso, lo stiamo annunciando pubblicamente per la prima volta in tutto il mondo!
Grazie a Leo J. Moser per la preziosa collaborazione nella stesura del testo, a B. Philip Jonsson, ad Alessandro Emilio e agli altri amici di LangDev e del CFN per gli utili consigli e gli interessanti commenti. Grazie infine a tutti gli amici, parecchi dei quali non a caso bibliotecari, che hanno manifestato curiosità per questa bizzarra disciplina, inducendomi a pensare che valesse la pena di redigere un saggio come questo.