Il progetto di una mostra sulla vita e sull’opera di Giulio Carlo Argan era stato approntato all’inizio del 2001 in previsione delle iniziative che avrebbero ricordato lo studioso a dieci anni dalla morte (novembre 2002); ma la ricorrenza era poco più che un appiglio e il fatto che mostra e convegno si inaugurino alcuni mesi dopo non costituisce problema: sin dall’inizio avevamo ben in mente una frase di Argan pronunciata in Senato: «debbo dichiarare la mia recisa avversione alle iniziative volte a celebrare i centenari delle nascite o delle morti, che sono le sole cose che i grandi del passato non hanno pensate e volute». In effetti il progetto è nato da esigenze di studio e di ricerca ben lontane dalla vana celebrazione, basate piuttosto sulla convinzione che per preservare la memoria storica bisogna prima di tutto far emergere documenti e immagini che restituiscano la complessità di una vita lunga e laboriosa come è stata quella di Argan. In concreto l’idea della mostra è venuta delineandosi attraverso tre percorsi: dalle ricerche condotte nell’archivio privato di famiglia; dal precedente della mostra su Ranuccio Bianchi Bandinelli e il suo mondo (2000); dal diffondersi di sempre più approfondite ricerche sulla storia della critica d’arte del secolo scorso.
L’archivio privato, sebbene formato da materiali che non coprono tutte le attività e gli interessi di Argan (molte le lacune fino agli anni Sessanta e talvolta anche dopo), rappresenta un patrimonio insostituibile per una completa ricostruzione biografico-critica, specie per ciò che precede e segue la stesura e la pubblicazione dei suoi scritti (appunti, lettere di critici e artisti, carteggi con gli editori, dattiloscritti, estratti); su questi materiali e sulle fotografie si è iniziato un primo lavoro di riordino, tentando di migliorare le condizioni, talvolta caotiche, in cui Argan aveva lasciato le sue carte, condizioni dovute in sostanza all’avversione per gli archivi privati e all’indifferenza per la sorte del suo (che anzi avrebbe preferito venisse distrutto); si è iniziato anche un primo schematico elenco della corrispondenza conservata, in gran parte quella ricevuta dacché solo in rari casi Argan teneva veline delle risposte (con un calcolo approssimativo, si tratta di oltre mille corrispondenti per un totale di quattro o cinquemila lettere); alla completa perlustrazione di cosa è rimasto a casa Argan, dovrà però seguire una più seria catalogazione con criteri archivistici e un progetto di recupero in fotocopia delle lettere di Argan sparse negli archivi dei corrispondenti e dell’altra documentazione conservata in archivi pubblici e privati.
La mostra su Bianchi Bandinelli curata da M. Barbanera, ha costituito per il nostro progetto, come abbiamo detto, un precedente significativo. L’uso delle strutture con cui quella era stata allestita, non rappresenta un fatto puramente accidentale, ma è motivato dalla continuità ideale delle due mostre e dalla contiguità reale che lega l’opera dei due studiosi: l’iniziale crocismo superato nell’interesse per i problemi della produzione, l’attività nell’amministrazione delle Antichità e Belle Arti, le due grandi enciclopedie avviate alla metà degli anni Cinquanta, l’insegnamento nell’Università di Roma, le battaglie per la difesa del patrimonio artistico e culturale, e non ultimo il percorso politico. Il luogo stesso della mostra, il Museo dell’Arte Classica, ci sembra tutt’altro che casuale: una gipsoteca certo, ma soprattutto un museo didattico finalizzato anche alla ricerca e posto all’interno dell’università (in affinità con l’idea propugnata da Argan, a partire dal dopoguerra, del filo unico che dovrebbe legare insieme il museo, la scuola, la città).
Il terzo percorso che ha sollecitato il progetto della mostra è il diffondersi di un più approfondito e rigoroso modo di studiare la storia della critica d’arte, anche di quella recentissima; ma prima ancora la centralità assunta da tali ricerche nel momento in cui la storia dell’arte vive la crisi tipica delle discipline che, sedimentata la loro autonomia, cristallizzano percorsi e strumenti; per questo si sente come necessario l’approfondimento di ciò che è stata la critica d’arte nel corso del Novecento, ricostruire le matrici della propria identità, i profili dei grandi maestri che ne hanno segnato il corso. È una storia in gran parte ancora da scrivere, ma per farlo bisogna prima di tutto salvarne i documenti; insieme con il rischio di dispersione, privatizzazione, deperimento delle “cose” che costituiscono l’oggetto di studio della storia dell’arte esiste un disperdersi di memoria e di oggetti che riguarda il modo e gli strumenti con cui quella storia si è fatta: carte private, epistolari, archivi, biblioteche, documentazione editoriale. In fondo questa ulteriore estensione del concetto di tutela nasce dalla crisi generale delle discipline umanistiche o storiche, dall’affermarsi di nuovi modi di fare ricerca con la strumentazione tecnologica e informatica, dal non volersi adeguare alla riduzione della cultura a puro dato economicistico. Si cerca nel passato la continuità di tradizioni critiche e la ragione di un ancora sperato futuro. Non si dedicano con insistenza alla propria storia interna, cioè alla storia della critica, le discipline che vedono come concluso il proprio ciclo vitale e non possono far altro che ricordare i bei tempi andati, ma quelle che, appunto, si ostinano a non voler morire.
Riassumendo le ragioni, tra loro strettamente intrecciate, che hanno spinto alla realizzazione della mostra, possiamo indicare tre necessità: 1) un’esigenza di studio: far conoscere la ricchezza di documenti presenti a casa Argan perché si possa avviare una ricostruzione filologica della vita e dell’opera dello studioso; 2) un’esigenza di tutela: per evitare la dispersione degli archivi privati e quindi per sollecitare la conoscenza e la catalogazione dei materiali che vi si conservano; 3) un’esigenza di memoria: per non perdere coscienza delle cose, per fare in modo che, in tempi di revisionismi e facili amnesie, le vite significative non si dissolvano nell’oblio, non si trasfigurino nel falso. La mostra vuole allora dare testimonianza concreta di ciò che è stato Argan attraverso un percorso tra foto, documenti, scritti; vuole riproporne l’alto esempio di intellettuale militante, senza fare mitologia o agiografia ma facendo storia, che, quanto è tale, è insieme memoria e progetto. La mostra è strutturata in ordine cronologico, seguendo otto spartizioni temporali. Nel suo saggio d’apertura Calvesi indica tre grandi periodi, più o meno equivalenti, nella vita di Argan: 1933-55 nell’amministrazione delle Belle Arti, 1955-75 nell’università, 1976-92 come sindaco e senatore. Questi periodi sono stati a loro volta, ciascuno, divisi in due all’altezza di date significative: la fine della guerra, l’inizio di una più diretta militanza nel 1963, le dimissioni da sindaco nel 1979. A questi sei periodi se ne aggiungono altri due: la formazione 1909-27; l’Università e il Perfezionamento 1927-33. All’interno dei singoli periodi si sono raggruppati percorsi tematici in modo che risulti il più possibile evidente la vastità di interessi e di campi in cui si è mosso Argan. Inevitabilmente ci sono delle lacune, incontri e problemi non trattati, e per riparare abbiamo realizzato una densa cronologia, che potrà apparire, a seconda dei punti di vista, eccessiva nella raccolta di dati e informazioni o ancora incompleta per la mancata menzione di molte cose, non note o sulle quali non si è fatto in tempo a reperire notizie precise. Ci sembra che comunque questa cronologia ponga le basi per una ricerca che non si fermi all’astratto e all’indistinto di tanta improvvisata memorialistica. A compensare la massa di dati, che così esposta non pone problemi di analisi critica e non dà risposte interpretative, abbiamo aggiunto un’antologia di giudizi ricavata da recensioni, articoli, testimonianze su Argan, facendo una piccola e parziale storia della critica applicata alla critica stessa. Il desiderio e la speranza è che tutto questo serva non per chiudere il discorso su Argan, ma per contribuire a inserirlo in un nuovo ciclo di studi sulla storia della critica d’arte nel Novecento, perché segua cioè alla ricerca monografica una parallela ricerca per archi cronologici, per itinerari e problemi, per contrasti e contesti.
Rimane, infine, il rammarico che in questi ultimi anni siano scomparsi prematuramente tre allievi di Argan (Maurizio Fagiolo, Stefano Susinno, Bruno Contardi) che rappresentavano, sia pure poi diversamente indirizzati, tre momenti dell’insegnamento romano: la fase iniziale sul barocco, quella a cavallo del ’68 sul neoclassico, e quella sulla storia della città che di fatto si conclude nel 1976 confluendo nell’opera di sindaco. Fagiolo e Contardi sono stati inoltre tra i più stretti collaboratori di Argan, condividendo col maestro molti titoli importanti (dalla Guida alla storia dell’arte al Michelangelo architetto) e curando, rispettivamente, le dispense universitarie negli anni Sessanta, le raccolte di scritti negli anni Ottanta. Avevo avuto modo di esporre a Contardi, poche settimane prima della sua morte, l’idea iniziale del progetto di questa mostra, che aveva raccolto, come sempre, i suoi generosi entusiasmi. Ci sembra giusto che alla memoria dell’ultimo e prediletto allievo di Argan vengano dedicate le pagine di questo libro.
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