::Story::

“Era un giorno caldo e luminoso quello in cui Thaneshar venne distrutta. Si avete capito ben Thaneshar la più importante e potente città delle Terre del Nord. E’ lì che io e la mia gemella Smicrine siamo nate, nel periodo di massimo splendore e prestigio del nostro casato, l’Everhate che aveva in pugno la città. E’ di quel giorno l’unico ricordo della nostra città natale, dato che ancora molto piccole… Io e mia sorella ci trovavamo insieme a altre piccole drow avviate alla carriera di sacerdotesse, stavamo finendo i preparativi per la cerimonia che avrebbe avuto luogo quella notte, la prima alla quale avremmo partecipato, quando un rumore sordo e profondo fece vibrare le pareti delle grotte, ci guardammo, ci fu un istante di silenzio. Sentivamo il rumore di passi sincronizzati in lontananza, non capivamo, non potevamo immaginare cosa stesse per accadere. Non ci spaventammo pensammo che facesse parte della cerimonia che si sarebbe svolta di li a poco. Continuammo i nostri preparativi, fu in quel momento che vidi nostra madre Nymrodel, una delle prescelte. L’avevamo vista poche volte dalla nostra nascita. Ci veniva incontro. Era strano, non sarebbe dovuta essere in quel luogo data la sua carica, avanzava aggraziata nella sua spietata bellezza, ci fece segno di avvicinarci. Eseguimmo l’ordine. La osservavamo quasi incantate  mentre cingeva, totalmente inespressiva, i nostri capi con due diademi. Ricordo ancora le sue parole “Vi salverete, è scritto nella trama del destino” Poi indicò i diademi “Con questi riconoscerete il vostro sangue” in quel momento non capii il significato delle sue parole, ma aveva ragione: il diadema mi sarebbe poi servito a riconoscere mia sorella e a ritrovare il mio casato. Furono solo queste le sue parole non un bacio, non una carezza di addio per le sue due piccole… Quella fu l’ultima volta che la vidi.  Le giovani sacerdotesse ci ordinarono di seguirle e ci portarono lungo stretti passaggi a noi sconosciuti. Camminavamo velocemente in fila mentre sentivamo rimbombare nell’antro le grida della battaglia che si stava consumando e lo sferragliare delle spade in lontananza; ogni tanto qualcuna delle più piccole inciampava o scoppiava a piangere rimanendo indietro ma nessuno tornava a prenderle o l’aspettava: non c’era tempo e solo le più forti spietate e coraggiose, con l’aiuto della Dea, si sarebbero salvate. Camminammo per un giorno intero, le nostre poche soste servivano a far scattare alcuni meccanismi che bloccavano il passaggio alle nostre spalle. Io e mia sorella camminavamo vicine e silenziose, probabilmente anche lei stava pensando a nostra madre alle sue parole, anche lei capiva che probabilmente erano state le ultime, ma era solo una constatazione la cosa ci sfiorava appena senza preoccuparci minimamente: così doveva essere.  Ora le caverne erano silenziose e apparentemente quiete, mi tormentava l’idea di non sapere cosa stesse accadendo in città, l’idea di dover fuggire. Camminavo, assorta nei miei pensieri, quando improvvisamente le pareti di roccia cominciarono a tremare, così come il pavimento e il soffitto dal quale cadevano frammenti rocciosi. Il gruppo accelerò il passo, poi cominciò a correre, il cunicolo era sempre più in salita; in poco tempo raggiungemmo la superficie, appena in tempo: un boato, un’immensa nube di polvere si alzava alle nostre spalle, ci voltammo. La volta del complesso di caverne era crollata, la città di Thaneshar sepolta per sempre. Guardavo con occhi di bambina tutto il mio mondo distrutto per sempre davanti a me, volevo essere forte, mi ripetevo che non era successo niente, che niente mi doveva sfiorare come sempre, mi sarei vendicata quando sarebbe giunta l’ora, ma allora per la prima volta due lacrime mi solcarono il viso, le asciugai in fretta non volevo che gli altri mi vedessero piangere… All’ordine delle sacerdotesse ci voltammo, davanti a noi si estendeva una fitta e buia foresta, come era diversa dalle nostre caverne! Ci addentrammo camminammo ancora per qualche ora finché non trovammo un grotta poco profonda dove rifugiarci.  Era piccola e ci stavamo appena tutte, qui, Anon, la più adulta ci parlò; ci disse che eravamo stati attaccati, che i nemici erano entrati in città come un fiume in piena da più parti, qualcuno aveva tradito, ci spiegò che il crollo della volta stava a significare che avevamo avuto la peggio e che la matrona aveva deciso di farla crollare piuttosto che cadere nelle mani dei nemici, aggiunse che noi eravamo le sopravvissute destinate a non far estinguere il sangue delle Everhate e che presto si sarebbero unite a noi Lualyrr e Shi’nanye le primogenite gemelle della nostra Matrona, anch’esse fuggite con una serva. Passammo lì la notte e solo allora ebbi il tempo di osservare attentamente il diadema, ultimo dono di mia madre. Consisteva in una catenella d’oro, con un ciondolo che ricadeva poi sulla fronte dorato con dei pendenti nella parte inferiore con incise le parole Gwenna e Everhate, lo confrontai con quello di Smicrine era identico cambiava solo il nome che accompagnava quello del nostro casato. Il giorno seguente rimanemmo nelle ora di sole ben rintanate nel buio della nostra grotta solo dopo il tramonto ci rimettemmo di nuovo in marcia, dovevamo allontanarci era troppo rischioso rimanere così vicine alle rovine della città. Le sacerdotesse liberarono alcuni ragni consacrati alla Dea, li avremmo seguiti, ci avrebbero indicato il volere di Lloth. Cominciammo a camminare in fila io e mia sorella chiudevamo la coda. Fu così che due elfi di superficie  ci videro passare, senza dubbio sapevano della caduta di Thaneshar, poiché scambiarono me e mia sorella per le figlie gemella della nostra Matrona. Attaccarono il nostro gruppo, inutile dire che per loro fu facile rapirci, non che le sacerdotesse non si opposero ma la loro missione era quella di salvare più Everhate possibili: non potevano certo rischiare di comprometterla. Io e mia sorella ci ribellammo con tutte le nostre forze invano, ci legarono polsi e piedi e ci portarono via a spalle. Mentre camminavano li sentivamo parlare: non ci avrebbero ucciso ma ci avrebbero venduto al miglior offerente. Io non la smisi di agitarmi in un disperato tentativo di liberarmi: scalciavo, mordevo e graffiavo l’elfo che mi stata trasportando. Gli resi le cose talmente difficili che, giunti al loro carro, furono costretti a slegarci e a rinchiuderci in una vecchia gabbia arrugginita per animali. Come osavano! Noi figlie di una sacerdotessa prescelta, nelle nostre vene scorreva il sangue EverHate! Mentre io continuavo ad agitarmi, mia sorella, che sedeva silente, certo sdegnata, ma che non aveva perso la sua calma apparente, mi disse: “Gwenna Lloth ci protegge!”. Lo disse convinta, con l’innocenza di una bimba, e io non potei fare a meno di crederle. Viaggiammo per parecchie ore. Da quanto avevo capito ci stavano trasportando nella più vicina comunità drow, per sapere quanto sarebbero stati disposti a pagarci. Stavamo percorrendo una stradina di montagna che si inoltrava in un bosco, quando, all’improvviso, il cavallo si impennò. Dal ramo di un albero si era calato un ragno. Aveva le dimensioni di un pungo di una mano, era soffice e argentato e i suoi occhi brillavano rossi nella notte. Si calò velocemente prima su un elfo, poi sull’altro; li morse avvelenandoli e si allontanò. Il cavallo, impazzito, aveva intanto fatto capovolgere il carro, venimmo catapultate a terra. La gabbia che ci teneva prigioniere si ruppe liberandoci. Ci alzammo e ci avvicinammo lentamente ai corpi dei due elfi. Osservammo bene il morso del ragno e notammo, con nostra grande sorpresa due lettere livide vicino a questo: “EH” o meglio”EverHate”. Guardai mia sorella e le dissi che aveva ragione: Lloth ci proteggeva.  Scappammo via veloci nella foresta, il più lontano possibile. Per giorni vagammo nelle foreste sole. Il giorno ci rintanavamo nelle grotte, la sera cacciavamo piccoli conigli o altri animali.  Ci spostavamo continuamente nella speranza di ritrovare qualche sopravvissuto del nostro casato. Un giorno non eravamo riuscite a trovare una grotta per ripararci; dormivamo all’ombra di un grande albero proteggendoci come potevamo dalla luce del sole.  Improvvisamente udimmo dei passi: qualcuno si avvicinava. Subito saltammo in piedi, ci guardammo un istante e salimmo sull’albero. Osservavamo dall’alto in attesa di scorgere lo sconosciuto. Erano due elfi, poco più grandi di noi: si rincorrevano. Si fermarono sotto il nostro albero poiché avevano visto la chioma muoversi per il nostro peso.  Pensarono ci fosse un animale, così scuoterono il tronco. 

::Gwenna::

 Cadì al suolo battendo la testa. Mi risvegliai, non so quanto tempo dopo, avevo perso la memoria, Smicrine non era con me. Solo giunta a Lot seppi cosa era successo: era stata portata via e abbandonata, poiché aveva tentato di uccidere uno dei due elfi. Mi trovavo in una stanza, circondata da perfetti sconosciuti (strani elfi dalla pelle chiara), non avevo in dosso i miei piwafwi (NOTA abiti drow) neri, il mio diadema era sparito. Avevo una forte emicrania e non ricordavo nulla. Si presentarono: Alveron era il capofamiglia, Medii la moglie, Nelderil e Caridon i due figli: i due elfi che mi avevano trovata. Decisero di adottarmi. Crebbi con loro, come un elfo silvano. I primi tempi furono difficili a causa dei miei occhi delicati che non sopportavano la luce del sole, ci misi parecchio tempo per abituarmici. Crescendo con i miei fratelli in breve tempo imparai da loro l’arte della guerra per la quale avevo una particolare predisposizione. Adoravo combattere non c’era giorno che non passassi ad esercitarmi. Fu così che mi venne regalata Requiem un’antica spada di famiglia in occasione di uno degli anniversari del mio ritrovamento. Gli anni passavano e il mio istinto drow cominciò gradualmente a rifare la sua comparsa: la mia insofferenza alla luce si rimanifestò e cominciai ad avere degli impulsi di violenza. Fu proprio in occasione di uno di questi che aggredii, senza motivo, Caridon gli sfregiai in modo permanente il volto con le mie lunghe unghie. Così i miei genitori adottivi mi chiusero in cantina, mentre decidevano sulla possibilità di allontanarmi. Fu allora che trovai in un angolo un vecchio baule impolverato, lo aprii curiosa. Estrassi lentamente gli oggetti che conteneva: due abiti neri fatti di uno strano materiale, molto piccoli, sembravano di un bambino, poi un diadema, con inciso il mio nome e la parola “Everhate”. Improvvisamente ricordai tutto: la mia città distrutta, la fuga, mia sorella.  I miei occhi si illuminarono rossi colmi di rabbia. Mi avevano nascosto la mia natura, allevata come una silvana, io, una drow, cpme avevano osato! Ll’avrebbero pagata! Cercai di calmarmi, misi in tasca il mio diadema. Chiamai il mio padre adottivo e gli dissi che avevo deciso di andarmene l’indomani mattina presto. Mi liberarono. Tornai nella mia stanza e vi rimasi fino a notte fonda.  La casa era silenziosa, tutto taceva quando impugnata Requiem sfogai tutta la mia rabbia e le mie frustrazioni sull’intera famiglia, proprio così: li uccisi tutti nel sonno. Partii subito nella notte, decisa a ritrovare mia sorella. Vagai a lungo, uccisi molte creature, il più delle volte senza un motivo apparente: bastava un semplice gesto per farmi tornare in mente le rovine della mia città o  mia sorella o mia madre facendo scattare la mia follia omicida.

Finché un giorno giunsi a Lot”

::Smicrine::

“E’ strano pensare al passato e non riuscire a ricordare altro che sensazioni. Non so che volto avesse mia madre, né di che colore fossero i suoi abiti il giorno in cui regalò a me e a Gwenna i diademi che tuttora possediamo con gelosa cura. So solo che una forte eccitazione per la cerimonia imminente dovette lasciare spazio ad una grande paura. Paura che nessuno direbbe mai io possa aver provato. Scappare. Scappare. Scappare. Unico ricordo il dolore alle gambe e la spossatezza che accompagnavano la fuga, un piede dopo l’altro, da chissà quale pericolo sconosciuto. Ho sempre pensato che non fosse per nulla grave essere la sorella debole, quella che si ammala per ogni inezia e che fa fatica anche a passeggiare. Ma quando mi trovai costretta a fuggire verso l’ignoto scoprii sulla mia pelle che in quanto a forza ero totalmente dipendente da Gwenna…che rabbia, che odio, che depressione! Ovviamente nessuno poteva sapere come mi sentissi per questa mia inferiorità…così tutti non facevano altro che lodare la forte Gwenna per la sua capacità di faticare per due. Credevo che il mio legame con lei non fosse affatto forte.Se non avessi temuto di fallire ed essere uccisa, l’avrei sgozzata nel sonno e avrei bevuto il suo sangue per festeggiare la vittoria. Forse fu per questa mia errata convinzione che rimasi stupita quando, catturate e messe in gabbia come fiere, non potevo pensare ad altro che a come rassicurarla. E per la stessa ragione il fatto di esserci riuscita mi lasciò sulle labbra una dolce soddisfazione…come fosse miele la assaporai e la gustai fino a che potei goderne. Quando quei due silvani ci catturarono trovai in me una forza impensabile e, gracile e debole come sembravo, li colsi alla sprovvista quando quasi riuscii ad ucciderne uno a mani nude. Stringevo quel collo con una gioia immensa, provavo un forte piacere nel sentire i suoi muscoli tesi contrarsi spasmodicamente tra le mie dita esili…peccato che erano in due. Nelderil, così si chiamava l’elfo da me aggredito, fu immediatamente soccorso dal compagno che lo liberò dalla mia presa e mi scaraventò con violenza contro un tronco di quercia. Osservai il gruppo allontanarsi, poi i miei occhi si chiusero e svenni accompagnata dalle grida di Gwenna terrorizzata e affranta. Quando rinvenni era ormai l’alba e mi affrettai a trovare un riparo per il giorno. Tutto ciò che trovai fu la bottega di un orefice che mi offerse di lavorare come sua apprendista finché avessi voluto. In cambio mi avrebbe dato vitto e alloggio. Quando tre notti dopo si svegliò di soprassalto e mi vide dileguarmi nell’oscurità con tutto il suo denaro e i metalli preziosi deve esserci rimasto molto male…peccato, non saprò mai quale fu la sua espressione: non mi voltai mai indietro per chiedermi se forse non ero stata disonesta o quanto meno un po’ sgarbata a non aver neanche salutato e a non essermi scusata per avergli “accidentalmente” avvelenato la moglie, cuoca incapace…d’altronde non mi si poteva costringere a mangiare quei disgustosi intrugli che gli umani hanno il coraggio di chiamare prelibatezze! In ogni modo sia da quel giorno non sostai per più di qualche ora in alcun luogo abitato e imparai la solitudine fino a quando, mentre riposavo in una grotta, fui aggredita da tre soldati in uniforme blu che mi picchiarono fino a farmi sputare sangue. Quando le cose si avviavano a concludersi con un inevitabile stupro e un omicidio intervenne una grande lupa dal pelo argentato e gli occhi famelici. Dopo la perdita dei suoi cuccioli Agave, così la chiamai, si scoprì molto sensibile alla sofferenza delle giovani creature. Non sopportava i soprusi e per questo tolse la vita a tutti e tre i soldati che non ebbero neanche il tempo di pentirsi dei crimini commessi. Da quel giorno Agave ed io ci rendemmo inseparabili: non muovevo un passo senza di lei e lei non mi perdeva mai di vista neanche quando dormivo. Anche questa mia amicizia fu però costretta a finire presto in quanto durante il nostro vagabondare la lupa cadde in una trappola e morì sul colpo. Nessuno si aspetti che la cosa mi abbia scosso perché oramai ero abituata alle brutte sorprese e nulla mi poteva ferire o impressionare più di tanto…l’unica conseguenza che gli eventi spiacevoli avevano su di me era offuscare i ricordi lasciandoli nella mia mente come immagini sfocate e silenziose. Uno dei ricordi più recenti che ho, circondato dal vuoto più assoluto, riguarda un imprevisto rivelatosi piuttosto divertente. In un piccolo paese del Sud fui imprigionata per aver scatenato una rissa in una taverna. La cosa non vi sorprenda, non avevo paura di nulla e l’istinto di sopravvivenza si era affinato a tal punto da avermi reso in grado di combattere in modo sopraffino anche se la mia forza non era un granché. Tornando al mio ricordo, mi rinchiusero nella stessa cella di un mezz’elfo maschio. Questi ebbe la malsana idea di molestarmi…nel giro di venti minuti me ne liberai. Gli cavai gli occhi e mi nutrii di lue per tutte e due le settimane di permanenza nelle carceri. Quando le guardie capirono ciò che avevo fatto mi liberarono a patto che non tornassi mai più in quei luoghi per paura di fare la fine del mio malcapitato coinquilino. Ripresi a viaggiare e passai in luoghi piuttosto pacifici e noiosi in cui passai in fretta per non dover assistere a smielate feste di benvenuto e cene d’addio. Ripresi a fermarmi nelle località in cui passavo solo a Lot perché la cittadinanza comprendeva un gran numero d’individui di ogni razza e riuscii ad individuarvi una numerosa presenza drow. Non avevo idea di cosa fosse il diadema che indossavo e neanche mi interessava. Vivevo bene anche senza ricordare molto del mio passato e il fatto di non appartenere a un casato mi rendeva libera di fare ciò che volevo senza obblighi gerarchici di alcun tipo. Purtroppo il destino e la Dea mi giocarono un brutto scherzo e mi fecero incontrare di nuovo mia sorella che con il suo iniziale entusiasmo mi costrinse a tornare sui miei passi e cercare le nostre origini mandandomi all'inseguimento di qualunque nostro stretto parente potesse essere ancora vivo…da quando anche lei è a Lot ogni scusa è buona per assentarmi dalla città in cerca di posti meno affollati…purtroppo non ho ancora trovato nessun luogo che mi interessi…ma chissà cosa mi riserverà il futuro.”

 

 

 

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