Maggio 2000 Bollettino delle Lotte

Bollettino delle Lotte

A cura del Centro di Documentazione e Lotta

LA BORGHESIA NON HA MAI .... AMATO I PROLETARI!

Quando è iniziata l'impresa di governare la crisi negli anni '90, tramite il nuovo entourage della borghesia, si è delineato subito uno scenario da incubo per la classe operaia e per i settori deboli della società. La guida delle ristrutturazioni complessive è passata nelle mani delle componenti ideologiche borghesi, rappresentative non più di rapporti di forza sociali (classico lo scontro tra le masse cattoliche e quelle socialiste e comuniste) ma di quelli che fino ad allora erano considerati i "tecnici". I "politici" puri alla Andreotti sono stati sostituiti dai "tecnici" puri alla Amato, Ciampi ecc. Nel 1992 si inaugura la stagione dei "governi tecnici" (Amato e Ciampi, appunto) su cui hanno puntato sia le stesse forze politiche travolte dal ciclone di "tangentopoli" (DC e PSI in particolare: non dimentichiamoci che le aree politiche dei "tecnici" in questione erano appunto queste due forze politiche) sia il l'ex PCI, deideologizzato e assurto a cultore del "post" nonché a fulgido esempio di "purezza" tecnica.

Mentre lo scontro tra le forze politiche della borghesia come erano rappresentate prima si avvaleva della matrice ideologica contrapposta di cattolici e comunisti, laici e cattolici, tra entrambi questi e i comunisti ecc., all'interno delle masse popolari (proletari e piccola borghesia) cooptate per scelta o comodo all'interno di schieramenti non sempre corrispondenti alla loro posizione di classe; ora lo scontro di classe si "radicalizza", nel senso che le "masse popolari" in generale non hanno più una rappresentanza politica, sia pure distorta.

Questo fatto non deve però spingere a semplicistiche conclusioni positive. E' vero che oggi gli operai non sono più tra loro divisi tra "cattolici" e "comunisti" (per semplificare), ma il fatto è che non sono neppure uniti da qualche nuovo elemento politico. Quindi, a fronte della semplificazione prodotta dalla crisi permane la difficoltà di far fruttare questo dato a vantaggio del proletariato, ricostruendo una identità politica indipendente da quella borghese.

Maggio 2000

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In ogni caso dobbiamo ritenere che sia più chiaro il lavoro di ri/costruzione di una rappresentanza di classe del proletariato: infatti esso può dirsi quasi ridotto alla sua essenza di classe sfruttata da un'altra classe, senza gli infingimenti ideologici generati dalla sovrastruttura. D'altra parte, però, poiché non è stata certo una scelta casuale quella di gestire la crisi tramite questo nuovo apparato, il succedersi dei governi "tecnici", e comunque dei novelli campioni della borghesia travestiti da destra, da centro o da sinistra a secondo degli obiettivi immediati da raggiungere, ha creato una drammatica frammentazione della condizione di classe, esattamente voluta non tanto (o non solo) per obiettivi di "governo delle contraddizioni di classe" (controllo) quanto, soprattutto, per ridurre la caduta del saggio di profitto, approfittando, sia della congiuntura internazionale dei (nuovi) mercati, sia proprio dell'assenza di rappresentanza politica della classe operaia e delle masse popolari. In sostanza, oggi abbiamo davanti un fronte di classe senza fronzoli politico/ideologici (Berlusconi non ha rappresentato altro che una breve parentesi), quindi ridotto al suo ruolo reale di prestatore di manodopera necessaria alla valorizzazione del capitale (nelle sue varie forme), e pertanto più "pronto" a recepire il proprio ruolo; ma, nello stesso tempo, da un punto di vista strutturale, organizzativo, economico e sociale sono aumentate le divisioni al suo interno, fomentate dalle politiche governative riassumibili in "ristrutturazione e privatizzazione", cosicché questo stesso fronte si ritrova o a difendere coi denti talune condizioni conquistate negli anni passati (vedi la classe operaia delle grandi fabbriche o il settore pubblico) o a doversi ritagliare "nuovi" spazi negli ambiti in cui vogliono relegarli i vari governi, Confindustria e sindacati.

La divisione di classe viene perpetrata non più con l'inganno ideologico, con l'idea di dover difendere "S. Pietro dalle orde bolsceviche" (DC) o "l'industria nazionale dalla corruzione della borghesia italiana" (PCI), ma con la riorganizzazione tecnica e normativa del lavoro salariato nel suo complesso. Oggi l'esercito di riserva è a sua volta un elemento complesso, che al suo ruolo, storico, di elemento di pressione verso la forza lavoro occupata assomma ulteriore divisioni al suo interno. Nel tentativo di far credere che non esistono quasi più disoccupati - avvalorando la tesi che l'occupazione non è più quella stabile e garantita - si stravolge la figura del lavoratore o del giovane in cerca di occupazione, riducendolo a quella di "prestatore d'opera temporaneo" nel tempo e nello spazio/posto di lavoro. Si tratta di un obiettivo tattico - unico "vezzo ideologico"! - teso a mimare il sistema USA (del quale ci si guarda sempre bene dal vederne i risvolti, tutt'altro che appiattiti sulle concezioni veltroniane! - vedere Composizione di classe e Sindacato in lavorazione) nel modo di ridurre il tasso di disoccupazione cambiando il modo di considerare l'occupazione. Basta lavorare una settimana al mese, ciò impedisce di finire nelle statistiche sulla disoccupazione!

Quindi "ristrutturazioni e privatizzazioni" come strumento per ottenere il risultato voluto di "flessibilizzare" a dovere la forza lavoro salariata. E' fuor di dubbio che dal '92 ad oggi questo obiettivo è stato in gran parte raggiunto: la misura del raggiungimento non sta tanto nei dati statistici, che pure abbiamo rilevato, ma nelle modalità di approccio al problema che hanno mostrato ampi settori di quei movimenti di massa che tendenzialmente si esprimono contro le politiche della borghesia e contro il capitalismo. Questi settori hanno "ceduto" il fronte di lotta, accettando di fatto la frammentazione perpetrata ai danni del proletariato come un male inevitabile e cercando di dare risposta non alle cause bensì agli effetti. Inoltre anche in questo caso si è puntato non tanto a difendere il difendibile, pur nelle mutate condizione normative e sociali della forza lavoro, quanto piuttosto a "teorizzare" lo stato attuale delle cose come possibile "strumento" per uscire dal capitalismo, dal lavoro salariato ecc. Così, mentre il padronato si sbracciava ad elogiare i governi "di sinistra" come il miglior strumento per realizzare proprio flessibilità e ristrutturazioni, alcuni settori che ambiscono a stare nei movimenti di massa, o a crearli a seconda dei propri gusti, forti di una accozzaglia di intellettuali protervi e inconcludenti, hanno di fatto accettato la flessibilità piuttosto che accettare il lavoro organizzato in modo classico (come dice qualcuno garantito), perché, dicono, quest'ultimo rappresenta l'abbrutimento e l'asservimento al modo di produzione capitalistico. Hanno accettato che si può essere precari o interinali, al nero o atipici, non certo per dei privilegi, ma perché ideologicamente hanno riconosciuto come veritiera quella definizione data da taluni sulla società "postfordista", e pertanto hanno preteso di cogliere questa "novità" nelle possibilità di non lavorare più a busta paga o sotto un padrone e tempo indefinito. Buone intenzioni! Peccato che per far ciò hanno iniziato ad accettare concetti quali "fine della classe operaia", "terzo settore" ecc. Hanno accettato proprio ciò che i revisionisti attuali hanno sbandierato per poter far passare le loro politiche. Attualmente, coloro che più onestamente tendevano e tendono alla difesa reale di condizioni di vita e di lavoro anche in ambiti "destrutturati" del lavoro salariato, vanno esprimendo una visione più chiara, correggendo, seppure senza ammettere "l'errore di fondo", la rotta. Crescono le strutture che uniscono precari, LSU ecc., ma crescono anche nella direzione di considerarli alla stregua di lavoratori salariati in tutto e per tutto, diversi dagli operai classici, per esempio, solo per una mancanza di diritti o per salari minori, che non sono motivo di vanto, ovviamente, ma terreno di battaglia per mirare a conquistarsi situazioni stabili. Ossia, il lavoro salariato - per la cui abolizione dobbiamo lottare, non dimentichiamo - torna ad essere preso a modello, non perché bello o piacevole, ma perché nel corso di decenni ha accumulato forza e sapere di classe quanto più esso si stabilizzava e organizzava, "garantendo" se stesso e chi mirava a quel posto di lavoro anche in futuro, costituendo il necessario trampolino di lancio per ogni movimento di trasformazione della società.

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Il lavoro salariato non è un mito positivo: è un mito che serve alla borghesia per tirar fuori profitti. E' anche un "mito" buono nel senso che indica masse di lavoratori uniti e organizzati, certamente. Ma non dobbiamo certo indurre a credere che sia una aspirazione. D'altra parte il fatto che l'attacco condotto in pochi anni contro le normative del lavoro sia stato teso proprio a destrutturare la classe operaia "classica" e tutti i lavoratori che in varie forme avevano assunto posizione "garantite" nell'ambito della produzione capitalistica - pubblica o privata - deve far comprendere come - se questa è stata una necessità - è proprio qui che occorre rinforzare le barricate, riunendo tutti quei soggetti proletari che la crisi genera (in particolare questa forma di "gestione" della crisi) non certo intorno ad una aspirazione di "lavoro salariato" ma attorno ad una condizione di lavoro che, grazie alla propria stabilità e sicurezza, punti ad impedire il recupero di profitti a danno del proletariato e mini proprio grazie agli obiettivi che ci si prefigge di garanzia e stabilità, di salario monetario e sociale, la struttura stessa del capitalismo in questa fase di crisi strutturale.

Altrimenti, se questo obiettivo non fosse positivo, come mai la borghesia al governo avrebbe dedicato tante energie a distruggere salari e servizi?

E' ovvio che tale obiettivo di contenimento dei danni (poiché si tratta di difendere conquiste e solo in seguito estenderle) ha un senso contingente, una validità naturale, perché oppone la naturale tendenza di un individuo colpito nel proprio "benessere" a reagire cercando di mantenerlo. Però è anche vero che, come tutte le lotte economiche in una fase di crisi generale del capitalismo, di crisi irreparabile (ma il cui esito è comunque rinviabile, grazie a tutta una serie di elementi politici ed economici), gli esiti di questa "resistenza" oggi più che mai sono da affidare ad una forte organizzazione operaia e proletaria - sul piano sindacale - e comunista e di classe - sul piano politico.

Conclusasi la "fase del capitalismo dal volto umano", del capitalismo "riformabile", che permise conquiste notevoli anche in assenza di un progetto rivoluzionario, oggi ogni "conquista" (o difesa di una conquista) ha senso se si inserisce in una prospettiva di trasformazione sociale, che produca la fine del sistema stesso che ingenera questo deterioramento delle condizioni di vita di enormi masse proletarie.

In altre parole, non ci sono spazi interni al sistema che permettano di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro: infatti è il "sistema", nella sua pratica politica e di governo, che si sta dando da fare per peggiorare queste condizioni. Perché mai dovrebbe recedere da tale proposito, ora che ha ben spezzettato il fronte di classe?

Compito irrinunciabile, sia pure nella prospettiva di costruire organizzazione stabile - un partito in altre parole -, è quello di riunificare la classe a partire dalle sue dinamiche interne - sindacati, comitati ecc. - per permettere che i vari rivoli in cui lo sfruttamento capitalistico sta suddividendo la forza lavoro per trarne il massimo profitto rientrino nell'alveo della classe "per se".

Per svolgere questo compito è indispensabile convincersi e convincere della giustezza di queste considerazioni. Che la classe operaia è centrale, ma che nello stesso tempo classe operaia sono anche coloro che in fabbrica vengono messi a lavorare con contratti atipici, con meno diritti, facenti parte di cooperative ecc. Che il lavoro salariato è lo strumento attraverso cui si valorizza il capitale, e che esso è tale non in quanto ha una certa struttura giuridica (contratto determinato o indeterminato, interinale o altro) ma in quanto produce beni che producono plusprofitti. Che sono salariati, quindi, tanto i lavoratori organizzati in una fabbrica, con le loro garanzie salariali e sociali (pensione) quanto i lavoratori assunti con contratti atipici, precari ecc.

Queste cose non sono tanto ovvie, se in questi anni, come compagni che si sono occupati dell'inchiesta operaia, delle condizioni di classe ecc., abbiamo dovuto combattere una serie di deviazioni - e stravaganze ideologiche ed economiche! - molto forti, tese a ridefinire i soggetti proletari secondo caratteri che nulla avevano a che fare con la realtà della società capitalistica. In cui, in ultima analisi, ci troviamo indipendentemente dal fatto che oggi "il mondo non è più come prima"!

Se oggi certe raffazzonate ideologie non fanno più tanta breccia non lo so deve certo esclusivamente al nostro lavoro ma più che altro alla tendenza "naturale" delle cose, che impone di riconoscere la realtà sbattendoci contro la testa. Ma è pur vero che il nostro lavoro ha dato e darà "razionalità" a certe scelte, cosa indispensabile per passare da una situazione spontanea ad una cosciente.

 

 

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Salari, costo del lavoro: terreno reale del profitto

L'ultimo rapporto Istat dice che in Italia l'operaio (considerato come "il salariato" per antonomasia, produttore di beni) costa molto di meno al padrone rispetto alla media europea. Nel '97 il costo del lavoro orario risulta di 17,9 ECU nell'industria in senso stretto, contro una media europea di 20,2 ECU: le imprese italiane godono quindi di uno sconto dell'11%. Lo stesso divario nel settore delle costruzioni (16,7 ECU contro i 17,4 ECU della media europea). Nei servizi il costo del lavoro italiano è superiore: 21,1 ECU contro 18,8. Nella voce servizi non sono comprese alcune categorie che avrebbero fatto abbassare il dato italiano: i trasporti, le comunicazioni e la pubblica amministrazione. Negli ultimi due le retribuzioni sono basse: i dipendenti pubblici italiani guadagnano meno dei loro colleghi europei e le "professioni del futuro" nel settore delle comunicazioni sono soggette ad ampia flessibilità salariale.

Quando i padroni, dunque, parlano di "ridurre il costo del lavoro", parlano in sostanza di ridurre letteralmente alla fame i lavoratori salariati, visto che il costo del lavoro non limita la loro competitività in Europa, anzi semmai è vero il contrario. Il loro metro di paragone, pertanto, non può essere quello della tanto decantata Europa, bensì quello dei paesi in Via di Sviluppo e delle periferie capitalistiche varie. E' lì che guardano: e non serve che la loro vista giunga tanto lontana, avendo la periferia pochi a chilometri, nei Balcani, per esempio (la guerra recentemente inflitta a quelle popolazioni aveva come scopo quello di ridurre ancor più il valore del lavoro). Possono già riferirsi ad esempi "in loco": interi gruppi di lavoratori provenienti dall'Est Europa vengono importati e pagati ai costi dei paesi di provenienza, pur lavorando in Italia. Per tacere poi degli immigrati.

Le piccole imprese compensano i loro svantaggi in termini di economia di scala con una spesa per il personale sensibilmente più bassa rispetto a quella delle grandi imprese: il costo del lavoro nelle aziende con un numero di addetti tra 10 e 19 è pari a circa il 58% di quello delle aziende con oltre 500 addetti.
Considerando il costo del lavoro in senso stretto (retribuzione lorda più contributi sociali), le piccole imprese spendono 26 mila lire all'ora in media per ogni loro addetto, mentre le grandi imprese ne spendono 47 mila. La retribuzione lorda (cioè il salario comprese le imposte) è pari a circa 18 mila lire l'ora nelle piccole imprese e a 32 mila lire l'ora nelle grandi.

Le statistiche "suggeriscono" che i padroni pagano troppi contributi rispetto alla media europea. Nel '97 l'incidenza dei contributi sociali sul costo del lavoro nell'industria era dei 32,8% contro il 23,6% della media Ue (a partire dal '98 le cose si sono un po' riequilibrate con l'abolizione dei contributi sanitari e la loro sostituzione con Irap e Irpef). Ma se in Italia il costo del lavoro è inferiore malgrado una maggiore incidenza dei contributi vuol dire che sono le retribuzioni a tenerlo basso: i lavoratori italiani contribuiscono alla competitività delle imprese mettendosi meno soldi in tasca. Inoltre i contributi dei lavoratori dipendenti versati dai padroni finanziano, per esempio, le pensioni d'oro.

Amato, Ciampi... fino a D'Alema. Questi governi rappresentativi dei medesimi interessi, senza più gli orpelli e nascondimenti di cui dicevamo prima, hanno condotto il proletariato a condizioni estremamente gravi di sussistenza.

E' credibile che l'attuale governo Amato cercherà di chiudere questa fase politica definendo le regole per il futuro, sia esso nelle mani di Berlusconi e Fini, sia nelle mani di un qualche "centro sinistra". I suoi obiettivi primari sono quelli di portare a compimento una serie di "riforme" (si ricordino i "sinistri" individui che raccattano ancora i voti (pochi) della classe operaia di quando riforma significava miglioramento!): 1) limitazione fino alla scomparsa del diritto di sciopero; 2) distruzione dello Statuto dei lavoratori, a partire dal famoso art. 18; 3) limitazione delle libertà sindacali. Tutto questo serve per meglio portare avanti il più generale recupero dei profitti, con riduzione e scomparsa di pensioni pubbliche e sistema sanitario nazionale, scuola pubblica ecc.

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LO SCIOPERO NON E' UN DELITTO... E' UN DIRITTO!

D'ALEMA HA FATTO QUEL CHE UN BERLUSCONI NON SAREBBE RIUSCITO A FARE!

E' stata approvata la legge che riduce l'esercizio del diritto di sciopero, in particolare nei settori dei trasporti e dei servizi.

Dietro la "difesa degli utenti" si celava ormai da anni (la L.146 è del '90) la voglia matta di mettere un freno agli scioperi, soprattutto in quei settori in cui il monopolio di CGIL CISL UIL non garantiva più alcuna pace sociale, a fronte dei gravissimi attacchi che il servizio pubblico ha subito in quanto a privatizzazioni, riduzioni del personale e della qualità del servizio. Padronato, amministratori di ogni colore e tendenza, accomunati da voglia di rivalsa antioperaia hanno sfruttato le deficienze create proprio dai loro interessi "privati" nei settori pubblici, per mettere gli uni contro gli altri lavoratori e utenti, nascondendo volutamente che gli uni e gli altri per lo più coincidono.

Questa comunanza di interessi fra governo e opposizione, "sinistre e destre", padroni e sindacalisti ... di regime ci fa capire meglio questo concetto: vi è sempre una "lotta di classe dall'alto", condotta con strumenti che ne occultano la brutalità (la salvaguardia dell'utente, per esempio): tanto più ha successo una classe dirigente quanto più riesce ad occultare questa lotta di classe, ad evitare che venga provocata una "lotta di classe dal basso". Quando in Francia autobus, treni e metro furono bloccati per quasi due mesi dallo sciopero del '95, la sofferenza dei francesi fu ben maggiore di quella degli italiani fermati dalle agitazioni di controllori di volo, macchinisti, autisti, piloti. Ma la maggioranza della popolazione era solidale con gli scioperanti. Ai picchetti i cosiddetti utenti, solidarizzavano con i picchettanti, portando cibo e bevande calde.

Essi si riconoscevano negli obiettivi degli scioperanti. E quegli obiettivi erano e restano gli stessi che in Italia e in tanti altri paesi sviluppati!

Ecco un altro insegnamento: chi appartiene alla classe dominante può e deve identificarsi con questa società, che gli garantisce "autodeterminazione" e gli permette di dire "di essere libero quanto vuole"; al contrario, chi appartiene alla classe dominata resta - con gradi e modalità diverse - escluso dalla possibilità di "plasmare" questa società, con ben poche possibilità di "autodeterminazione", se non quelle che gli "concede" chi domina, insomma egli è libero "quanto può".

Ecco, quindi, l'importanza dell'insegnamento francese - in positivo -: capire da che parte stare, come classe. E d'altra parte, è importante - in negativo - l'insegnamento che deriva dalla situazione italiana: si perde sempre, come classe ma anche come singoli, a stare dalla parte della classe dominante, sempre in una posizione subordinata!

Il capitalismo, per sua essenza, ha bisogno di due classi, a parte le sfumature intermedie. Scioperare contro la privatizzazione delle ferrovie, dei trasporti pubblici, dell'elettricità ecc., e contro aspetti particolari di questi processi, è una lotta per l'interesse della maggioranza, che è costituita da lavoratori, disoccupati, donne e giovani ben lontani dalla gestione del potere dominante. Superare questo "gap" informativo e di solidarietà è una sfida importante per il movimento dei lavoratori nella sua generalità, e in particolare, le organizzazioni sindacali di base, che sono le maggiormente penalizzate da questa legge - sia per le proprie scelte antagoniste a questi processi politico-economici, sia per ragioni oggettive e organizzative - devono ora trovare unità e forza proprio in una concezione della lotta che superi ogni corporativismo e sappia "fare come in Francia".

Va quindi riportata in piena luce la lotta di classe, "dal basso", che oggi è occultata dal governo e dai suoi simili all'opposizione.

Uno sciopero generale politico è sicuramente la prima risposta. Ma non sarà una manifestazione a rompere gli schemi del governo e del padronato. Occorre un lavoro quotidiano, di rapporti saldi con i settori dominati per sconfiggere le politiche antipopolari.

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IL TEMPO DELLE DECISIONI

Da un capo all'altro del mondo i fatti ricordano che nessuna conquista, per quanto "moderata", è duratura e che la sottomissione per salvare il posto di lavoro, legando i propri interessi a quelli del padrone, non garantisce i lavoratori dall'essere trattati come merce. Fatto questo che i revisionisti cercano di far dimenticare. Tutto ciò che oggi viene indicato, con disprezzo, come "garanzia", ciò che noi chiamiamo "diritti dei lavoratori", "diritti sociali" sono frutto delle lotte proletarie che in determinate fasi hanno potuto e saputo ottenere ciò. La sottomissione al profitto (nel caso di quei gruppi di lavoratori che hanno guardato con occhio benevolo al benessere del proprio padrone, sperando nel proprio) non paga. Chi non ha lottato, chi ha concesso ai padroni quel che volevano in fatto di produttività e disciplina è tra i primi a pagare. E in più sconta anche l'isolamento in cui cade, nell'illusione che il non coinvolgersi con i movimenti di lotta lo salvasse dalla "crisi"... del padrone. Dalla Renault di Vilvoorde, alla Goodyear, alla Rover ricorre l'espressione: "Abbiamo dato tutto al padrone, siamo stati buoni e obbedienti, non abbiamo preteso nulla e ora ci cacciano, chiudono la fabbrica...!" In queste tre fabbriche prese ad esempio la conflittualità è stata sempre bassissima, anche la sindacalizzazione. Nonostante ciò...

Questo dovrà pure farci imparare qualcosa! Anzi, dovremo più che imparare ripassare l'assunto marxiano sulle due classi in conflitto insanabile: il proletariato e la borghesia. Certamente le definizioni si arricchiscono e diversificano nel corso dei decenni. Ma i fatti riportano migliaia di salariati, traditi e addormentati dal revisionismo e dalla cogestione, alla realtà. Che è questa: la lotta di classe non esiste solo in virtù di un atto unilaterale e soggettivo (la dichiarazione di lotta da parte operaia, per esempio); non smette di esistere se una delle parti non lotta (cosa che cercano di accreditare gli ideologi della pace sociale). Essa ha un carattere materiale, ha radici economiche, è opposizione oggettiva fra interessi contrastanti. Se non lottiamo contro il padrone, egli lotta comunque contro di noi. In un determinato periodo strappiamo con la lotta delle conquiste, che ci fanno partecipi di una "punta" di benessere: sono le riforme. Intrapresa questa strada, il padrone cercherà di accreditare l'idea che la collaborazione di classe produce effetti positivi in permanenza, accresce il benessere dei salariati: basterà concedere, essere flessibili... Poi, dato che le leggi dell'economia capitalista sono molto più "generali" di quanto il padrone voglia far credere ai "suoi" operai, nel momento di crisi non c'è "collaborazione" che tenga: si procede a suon di licenziamenti e chiusure. Nessun servilismo, nessuna retorica di compatibilità può impedire questo processo. Naturalmente non tutto il proletariato intero, non tutti gli operai sono stati presi in questa trappola. Ma il fatto è che le cronache ci portano a rinverdire questi concetti, partendo appunto dalle sconfitte. Perchè anche dalle sconfitte occorre trarre un insegnamento. E, possibilmente, tramutarle in vittorie. Come? Alla Renault, alla Goodyear, alla Rover e in moltissime grandi multinazionali, nonchè in migliaia di piccole unità produttive gli operai ci dimostrano che non dobbiamo mai fare nostre le tesi del padrone. Chi l'ha fatto pensando al proprio benessere, è stato preso a calci nel sedere molto più velocemente e dolorosamente di quanti oppongono sempre al padrone una lotta, seppure di resistenza. Non solo: nel momento del bisogno hanno pagato il distacco creatosi verso il resto del movimento operaio e/o sindacale, verso le lotte che avvenivano a poca distanza da loro, verso gli altri lavoratori cui evitavano di dare solidarietà per paura di essere "coinvolti". C'è una frase degli operai svizzeri della Haefely Trench che può essere indirizzata a questi gruppi di lavoratori che vengono messi sul lastrico dalla famelica ricerca del profitto capitalistico: "Chi lotta può vincere, chi non lotta ha già perso".

D'altra parte il movimento operaio e proletario non deve cadere nell'errore - frutto dell'opera di divisione condotta dai padroni e dai revisionisti - di isolare o marchiare di infamia o di tradimento ("ve lo siete meritati", "dove eravate quando noi lottavamo"... ecc.) questi lavoratori, negando loro la solidarietà e il sostegno materiale. Il proletariato nel suo complesso deve cogliere l'importanza "ideologica" di questi "chiarimenti" tra gli operai. Questa è la dimostrazione della ragione di chi lotta, di contro alla sconfitta certa di chi si sottomette. Ma perchè questo "rientro nei ranghi" sia fruttuoso occorre essere in grado di coglierlo anche sul piano pratico, organizzativo. Questi lavoratori sono disaffezionati ai sindacati confederali che li hanno spinti nelle braccia dei padroni (perchè privo di una politica di classe: "se devo cedere al padrone" - hanno pensato in molti - "allora non ho bisogno del sindacato"!). L'insegnamento pratico da cui ripartire è, dunque, che solo con la lotta si difendono le proprie condizioni di esistenza; e che questa lotta è permanente, seppure con livelli diversi. I padroni e i governi non regalano niente.

E se è vero che il capitalismo è giunto ad un punto in cui può solo "negare" diritti e condizioni, ossia è finita e da un pezzo la fase del capitalismo dal volto umano, allora la parola d'ordine che dice "chi lotta

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può vincere " deve essere integrata dalla consapevolezza che ciò che vinciamo può essere garantito solo da una forte organizzazione di classe (sindacato e partito) e da un potere stabile esercitato da noi.

Agli operai della Goodyear che lamentavano la "debolezza del governo" nei confronti della multinazionale, dobbiamo dire che solo un governo di operai, di proletari sarà forte abbastanza da imporre, come minimo, rispetto dalle multinazionali. Ma anche che l'obiettivo non può essere più mendicare rispetto e diritti, perchè questi li avevamo già ottenuti nei decenni passati, quanto affermare l'inalienabilità di questi, nella prospettiva della soppressione dei diritti stessi dei capitalisti. Oggi gli operai, e non solo quelli più deboli come alla Goodyear, chiedono alle fabbriche che chiudono di poter continuare la produzione, magari sotto un altro padrone. Occupano le fabbriche per affermare il diritto al lavoro, ovvero a vivere, nei limiti che impone questo sistema sociale. A questo punto non è forse il momento di mettere nel campo delle esperienze possibili che la produzione sia presa completamente e direttamente nelle mani dei lavoratori? Si può partire da queste esperienze quantitativamente più piccole,. Ma esse devono necessariamente godere del sostegno e della simpatia del resto del movimento proletario e delle classi popolari. In sostanza: occorre essere organizzati, occorre lottare per difendere i propri diritti, occorre trasformare la difesa in attacco, la "richiesta" in "pretesa", occorre togliere al capitale il comando della produzione. Tutto ciò non avviene se si resta su scala "locale", a livello della piccola fabbrica: ma le condizioni immediate materiali possono accelerare certi processi, possono spingere a "sperimentare".

E se è vero che "abbiamo tutto un mondo da guadagnare" allora, per "perdere le catene" occorre pure cominciare da quelle che abbiamo, fabbrica, ambiente, salute ecc. Se il capitale ci impone le sue regole, finito il tempo delle "mediazioni" arriva il tempo di prendere decisioni.

Centro di Documentazione e Lotta

RISTRUTTURAZIONI, ALCUNI CASI

TORINO L'Alenia licenzia un delegato della Fiom: era troppo scomodo

All'Alenia di Caselle viene licenziato Francesco Buonavita, 40 anni, da 20 in fabbrica, delegato Rsu. Buonavita stava partecipando a un blocco degli straordinari di fronte allo stabilimento di Caselle, contro la decisione della direzione di trasferire per un anno a Venezia venti lavoratori. Quando si è presentato ai cancelli un dirigente dell'Alenia di Torino, sono volate parole grosse. Qualche giorno dopo l'Alenia ha consegnato una lettera a Buonavita accusandolo di aver "ripetutamente colpito" quel dirigente e il 28 marzo è arrivata la lettera di licenziamento. La Fiom ha annunciato il ricorso alla magistratura, mentre i suoi compagni di lavoro hanno già scioperato per un'ora contro il provvedimento dell'azienda e in solidarietà con Buonavita. La vicenda dimostra quanto sia importante la legge sul divieto di licenziamento senza giusta causa: se passasse l'abrogazione o la riforma per Buonavita non ci sarebbe possibilità di ricorrere alla magistratura ed essere reintegrato; l'impresa sarebbe libera di disfarsi di tutti coloro che considera fastidiosi e indisciplinati.

GOODYEAR: CONCLUSA LA TRATTATIVA I LAVORATORI ACCUSANO: "ABBANDONATI DA TUTTI".

L'accordo non lascia nessuno scoperto, unica nota positiva, per i lavoratori del "Comitato di lotta" che definiscono il risultato raggiunto "uno schifo". La Goodyear ha assicurato dai 60 ai 68 milioni per 120 dipendenti in via di pensionamento (che comunque sconteranno un periodo di mobilità) e per tutti quei lavoratori che troveranno autonomamente un'altra occupazione. La C.I. annuale verrà richiesta per 574 persone, e la multinazionale - per chi accetterà di rimanere in Cigs - verserà due milioni al mese così da riempire lo scarto con lo stipendio attuale. Circa cento persone verranno iscritte all'agenzia interinale "Obiettivo lavoro" e i periodi di inattività saranno "indennizzati" dalla Goodyear. Per gli interinali l'azienda ha accettato un incentivo di 11 milioni. Un centinaio saranno inseriti nel progetto di rindustrializzazione del sito. Una trentina potrà ricollocarsi in altri stabilimenti di proprietà dell'azienda. "Abbiamo tutti l'amaro in bocca", dice Agostino, che da 29 anni lavorava alla Goodyear e che andrà in mobilità in attesa della pensione. "Siamo stati lasciati soli a lottare contro due multinazionali: la Goodyear e i sindacati, che si sono buttati a pesce solo alla fine. La vera lotta l'abbiamo fatta noi lavoratori. Questo accordo ci concede il minimo per vivere, anche se, visto l'andazzo, non ci si poteva aspettare di più. Abbiamo aspettato l'esito della trattativa in fabbrica. Quando è arrivata la notizia mi sembrava di stare al muro del pianto. Le lacrime servivano anche per sfogare la rabbia, dopo tanti mesi di lotta". "Speravamo di essere rimpiegati tutti - spiega Patrizio saldatore della Goodyear - io non ho problemi a trovare un altro lavoro. Ma gli altri? Mi brucia troppo, non la si può dare sempre vinta a questi americani".

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COMUNICATO

19 APRILE A MILANO PRESIDIO ALL'AGENZIA INTERINALE MANPOWER

Dal dopoguerra ad oggi, a noi lavoratori, sono arrivate a malapena le briciole della ricchezza prodotta dal nostro sudore e, anche queste piccole conquiste le abbiamo avute al prezzo di dure lotte. [...]Dall'inizio degli anni 90, nella frammentazione della classe lavoratrice e nella quasi totale assenza di lotte, i padroni si sono fatti più arroganti e ingordi. I sindacati confederali in nome della gestione comune dell'"azienda Italia" e della pacificazione sociale hanno permesso e appoggiato lo smantellamento dello "stato sociale" , la privatizzazione e la monetizzazione di qualsiasi servizio destinato alla comunità , permettendo che il significato di salute, cultura e socialità , venisse sostituito da quello più congeniale al Capitale di "estrazione del profitto". [...]Migliaia di lavoratori espulsi dalla produzione, perché in esubero; lavori a tempo determinato, ripetuti e a rotazione come percentuale fissa nelle aziende; orari spezzati (3 ore al mattino e 5 di notte) a seconda delle esigenze dei padroni; lavori in cooperativa, dove l'operaio, imprenditore di sé stesso, fornisce mano d'opera a buon mercato e senza diritti per lavorare, il più delle volte, in condizioni di appalto illecito. Migliaia di persone che per sopravvivere devono rivolgersi ai nuovi caporali, le "Agenzie di lavoro interinale", che guadagnano affittando i lavoratori alle imprese che richiedono braccia o teste per brevi periodi. [...]Purtroppo la storia recente di molte grandi imprese dimostra che anche dove il conflitto sindacale e politico è assente e la produttività alta , i lavoratori vengono ugualmente cacciati, divisi e riciclati nelle nuove e variegate forme di lavoro precario e flessibile. E' proprio la storia che ci insegna che più siamo capaci di organizzarci e lottare e più otteniamo, che dobbiamo ricostruirci in gruppi di lavoratori e in comitati di lotta per affermare la nostra "ragione" e le nostre volontà, perché siamo chi produce, siamo noi che costruiamo da sempre il mondo. Per iniziare questo percorso intendiamo sviluppare una campagna di controinformazione e visibilità davanti alle "Agenzie di lavoro interinale" e alle aziende che maggiormente utilizzano le tipologie di lavoro precario.

Lottare è un diritto- lottare è una scelta

COMITATO CONTRO IL LAVORO PRECARIO DELLA PANETTERIA OCCUPATA - Via Conte Rosso,20 - LAMBRATE

Per le notizie più dettagliate si rimanda ai notiziari presenti sul sito: in particolare FEBBRAIO, MARZO e APRILE

DOCUMENTARE LE LOTTE, LAVORARE PER L'UNIFICAZIONE DELLA CLASSE
IL CENTRO DI DOCUMENTAZIONE E LOTTA

Raccogliere documentazione sulle lotte in corso, dare voce ai protagonisti, far incontrare e confrontare le esperienze delle diverse realtà di lavoratori, sono i punti sui quali è nato a Roma il Centro di documentazione e lotta Rosso 16, uno strumento che non intende limitarsi ad osservare la realtà, ma vuole anche contribuire a modificarla, traducendo il lavoro di inchiesta e documentazione in migliori percorsi organizzativi. La conoscenza, da parte dei lavoratori, delle altre lotte in corso, dei loro limiti e dei risultati raggiunti è oggi a nostro avviso particolarmente importante, sia perché ogni partecipante ad una mobilitazione, avendo la coscienza di non essere isolato e sentendosi parte di un "corpo collettivo", potrà acquistare maggiore fiducia e determinazione, sia per favorire, sulla base del bilancio delle esperienze condotte nelle situazioni simili, i percorsi organizzativi e di unità di classe. In una fase di crisi quale quella attuale, contrassegnata dal carattere difensivo delle lotte - difesa del posto di lavoro, del salario, delle conquiste ottenute nei decenni precedenti - la classe operaia, pur avendo dimostrato ancora una volta il suo ruolo-guida, sconta però l'assenza di un punto di riferimento, sindacale e politico, in grado di indirizzare positivamente le sue energie e di permetterle di raccogliere appieno i risultati degli scioperi e delle mobilitazioni. Da un punto di vista politico, consapevoli che la lotta della classe operaia e del proletariato non potrà mutare realmente la situazione a proprio vantaggio se non saranno radicalmente modificate le basi del modo di produzione - il capitalismo contiene inesorabilmente in sé i meccanismi dello sfruttamento - e coscienti che la lotta rivoluzionaria non potrà essere vincente se non sarà guidata da un Partito Comunista, ci impegniamo per favorire il processo volto alla sua costituzione. Invitiamo i compagni e le avanguardie di classe a mettersi in contatto con noi, ad inviare contributi sulle lotte in corso e sulle differenti esperienze, a fotocopiare e diffondere il Bollettino delle lotte, ma anche a creare esperienze simili alla nostra in altre città italiane.

Centro di documentazione e lotta
Piazza dell'Immacolata, 28 - 00185 Roma
Sito Web: www.oocities.org/Athens/2753/home.htm
E-mail: cdlr16@usa.net