Un occhio sulle lotte  e le ristrutturazioni.

Nella settimana appena passata tre diversi momenti di scontro tra lavoratori e aziende pubbliche o semipubbliche sembrano essersi composte:  

1) i dipendenti delle imprese appaltatrici per le pulizie nelle ferrovie, dopo 4 mesi di lotte, con occupazioni dei binari, hanno ottenuto un rinvio della decisione in merito alla loro sorte, decisione che lascia in dubbio che il posto di lavoro resti per tutti e soprattutto a quale prezzo.
2) i chimici hanno un'intesa per il rinnovo contrattuale che non porta a casa tutte le richieste: in particolare, per il modo usato nel comparto nel quantificare le cifre, si fanno riferimenti percentuali che lasciano ampi spazi alla trattativa. In particolare, secondo dirigenti della Filcea "sia la piattaforma che la richiesta di mandato, lasciando ampi spazi interpretativi, non sono riusciti a far vivere il contratto ai lavoratori, i quali, per capire quanto si richiedeva, erano invitati a fare calcoli complicati con la conseguente difficoltà di socializzare le richieste". In altre parole, un mandato in bianco. Nel merito, a fronte di richieste
impegnative sul controllo degli appalti, la riduzione di orario in base alle condizioni di lavoro, fondo sanitario integrativo ecc., il risultato fin qui ottenuto è stato di flessibilizzare ulteriormente gli orari, le normative ("ipotizzando la possibilità di deroghe al CCNL", dicono sempre dirigenti della Filcea), modificare le normative sul mercato del lavoro ("applicando la nuova legge sui contratti a termine frutto dell'accordo separato"), ridurre a 8 ore (ancora) l'orario per tutti indistintamente e infine "fa perdere ulteriore salario ai lavoratori".
3) i dipendenti pubblici si sono beccati un accordo in extremis, per scongiurare lo sciopero generale, che coincideva con quello nazionale e  generale del sindacalismo di base, che non risolve i problemi reali del settore, in particolare si basa su fondi non ancora stanziati e per questo indisponibili.

Non siamo in presenza quindi di buone performance da parte dei sindacati trattanti, sindacati concertativi che mostrano di avere più a cuore la fine del conflitto che i contenuti reali che da questo scaturiscono. Quando un conflitto si avvia ha per origine spesso cause molto particolari, ma esso si arricchisce più la lotta va avanti e si fa anche dura. Il caso dei lavoratore e delle lavoratrici delle pulizie in ferrovie non può essere staccata da quello più generale del settore degli appalti e subappalti,
attraverso cui le amministrazioni pubbliche, ma non solo, tengono bassi i livelli normativi e salariali. La loro lotta si è inasprita, assumendosi l'onere di una denuncia di una politica del lavoro complessivamente "deregolarizzante" fatta propria dalle Ferrovie di Cimoli e condivisa da ditte e cooperative dell'appalto. E' per questo che la lotta doveva comunque in qualche modo essere smorzata pur non raggiungendo gli obiettivi voluti: si rischiava la fusione con altri settori simili, con i lavoratori delle ferrovie e con la generale protesta contro le politiche del governo.

Affacciamoci ora sui conflitti in corso:

a) Il settore auto è in profonda ristrutturazione. Si coglie la scusa del calo degli ordini dopo l'11 settembre (in che modo il crollo delle torri dovrebbe incidere sulla vendita di auto non è certo!) per procedere in realtà a tagli definiti da tempo. Ma aldilà delle cause, che risiedono in generale nel modo di produzione e consumo di questo "bene", vediamo cosa succede tra la "forza-lavoro": terziarizzazioni ed esternalizzazioni vanno alla grande soprattutto attorno alla Fiat (che tra l'altro è l'unico produttore rimasto in Italia); nel 2001 si sono persi 3172 posti di lavoro a Torino, e quest'anno si prevedono 12 mila esuberi. Nell'indotto, la Fiat assorbe circa il 60% delle commesse: con una previsione di una riduzione del 47% entro il 2003 della produzione in Italia (ma non in Turchia e Polonia, per esempio), si può immaginare quale influenza abbia sull'occupazione. Ora, questa situazione presenta un potenziale di vertenzialità che non può essere affrontato caso per caso, perchè c'è il rischio che la soluzione sia "pragmatica", ovvero finalizzata a raggiungere ammortizzatori sociali, che ricadono sulle tasche dei lavoratori stessi, e soprattutto ad una riduzione dei lavoratori a tempo indeterminato per far posto a lavoratori a tempo,
interinali, comunque precari.

b) A Bologna Menarini dimezza l'occupazione, chiudendo parte degli impianti produttivi. Visto che si tratta di circa 230 lavoratori su 475, si tratta di un chiaro indice di smantellamento della produzione e non certo di piccoli ritocchi. I lavoratori si stanno mobilitando, cercando riferimenti anche nel "sociale", ossia facendo valere il concetto di necessità pubblica, visto che
producono autobus anche ecologici. E' stato indetto un presidio permanente davanti ai cancelli. Per i compagni che operano nella zona è opportuno seguire questa lotta.

c) Continua la mobilitazione generale a Fiumicino, attraversato da continue lotte, cortei, scioperi che vanno dal personale Alitalia a quello della ex Libague, Laos ecc. Per i lavoratori dell'ex Ligabue, privatizzati nel '97, sono state avviate le procedure di mobilità. Per la Varig-Italia sono in programma 40 licenziamenti. Insomma anche qui c'è lo scontro tra i
lavoratori di un settore ex pubblico e i risultati delle privatizzazioni, che non sono solo in termini di psoti di lavoro assoluti, ma anche di condizioni di lavoro, normative, di sicurezza, di qualità di un servizio che comunque si rivolge al pubblico ecc. In questo senso va segnalata la denuncia di un percorso di mobilitazione che tende a mantenere divisi i lavoratori per ditte e settori: "chiedevamo di fare una assemblea generale di tutte le realtà dell'aeroporto, invece si faranno assemblee divise", dice
un delegato sindacale della Ligabue. Si teme, come sempre, l'unità più ampia dei lavoratori.

Infine va segnalata una considerazione fatta in casa padronale circa il lavoro flessibile. Come già avevamo fatto notare negli anni passati, la flessibilità serve ai padroni, ma fino ad un certo punto: è un arma di ricatto per gli altri occupati; una necessità produttiva per abbassare i costi. Ma non è una condizione buona per la generalità del settore produttivo, manifatturiero in particolare. Certo, in un call center si possono avere tutti o quasi precari: ma nelle fabbriche dove la produzione è organizzata, dove c'è ancora bisogno di tecnici, un turn over troppo elevato di lavoratori - di tutti i lavoratori, secondo certe stime pro-flessibilità - creerebbe non poche difficoltà produttive. Secondo ricerca di settore, di parte industriale, il modello che tira e tirerà ancora a lungo è quello di un lavoro dipendente con una fetta precisa e delimitata di lavoro flessibile e precario (a scopo di ricatto, ovviamente). In un campione di 467 imprese piccole medie e grandi il lavoro a tempo pieno e indeterminato è ancora il più praticato nel 96% dei casi. Seguono i contratti a tempo indeterminato part-time (35%) le collaborazioni coord. e cont. (12,4%), il tempo determinato (8,6%). E' chiaro che questi dati non significano che questi lavoratori seppure assunti con contratti più o meno stabili non rischino in funzione delle libertà che i padroni vogliono. L'abolizione dell'art. 18 servirebbe comunque a tenere sotto pressione gli occupati.

Ecco, questo quadro, che vorremmo fosse aggiornato dagli interventi di altri gruppi di compagni che agiscono nell'ambito delle contraddizioni tra capitale e lavoro, può essere utile a capire dove intervenire e avendo a mente quali obietti: unità tra settori e tra lavoratori che agiscono in settori contigui o per medesime aziende pubbliche, unità sul piano rivendicativo e non accettazione di transazioni che riducono diritti non solo presenti ma anche e soprattutto futuri. riorganizzazione della classe
dal basso e pratiche di lotta incisive.

Roma, 19/02/02

Centro Documentazione e Lotta