Nato, Euro: guerre del capitale

La Jugoslavia, federazione di popoli nata dalla lotta di liberazione dal fascismo e strutturata su base socialista, è stata smembrata, non per "l'indipendenza dei popoli" ma per l'interesse del capitale che, in questa fase di crisi generale, cerca di ricavare nuovi mercati, anche con l'uso delle armi. La "questione balcanica" è quindi un problema creato dal capitalismo internazionale, dai suoi interessi comuni e contrastanti. La rivendicazione dell'indipendenza da parte della Slovenia seguita di lì a poco dalla Croazia sono stati i primi passi in questa area: in entrambi i casi, seppure con intensità diverse, il capitale ha foraggiato le spinte nazionaliste fino a provocare la guerra. Quando toccò alla Bosnia scesero in campo gli eserciti serbi e croati. Subito il Vaticano e la Germania (dando voce ai propri interessi) riconobbero le nuove repubbliche, gli USA si schierarono per "l'autodeterminazione", cosa che fanno solo per affermare i propri interessi economico-nazionali (vedi Kurdistan, dove l’importanza della Turchia nel fronte NATO, non dà adito certo ad interventi presuntemente "umanitari") e si giunse al trattato di Dayton con l'imposizione di nuovi confini artificiali. I contrastanti interessi capitalistici occidentali rafforzarono il proprio ruolo nei Balcani favorendo la creazione di aree con sviluppo economico fortemente differenziato. Tutto questo rafforzò quindi l'instabilità dell'area. La predominanza del capitale europeo nell’area balcanica è stata vista con timore dagli USA, soprattutto nell’ambito della costruzione di un "mercato unico capitalistico" europeo, di cui le basi sono già state gettate, con Maastricht e l’Euro. L’unica possibilità per gli USA di riaffermare la propria egemonia è il richiamo alla fedeltà atlantica con utilizzo in forma offensiva della NATO, che oggi ha senso solo come strumento di allargamento dei mercati, "stabilizzando" aree precedentemente destabilizzate ad arte.

In questo senso devono essere viste le adesioni alla Nato, pochi giorni prima dell’attacco alla Serbia, di Ungheria e Polonia. Questo significa innanzi tutto organizzare le proprie forze armate agli standard Nato, condizione vincolante per l’ingresso, con conseguente acquisto di armi e tecnologie prodotte soprattutto dagli USA. Quando non è possibile l’annessione alla Nato si usa un’altra forma meno soft, l’aggressione armata, dopo aver creato le condizioni perché questa possa passare per difesa di minoranze etniche. In Kosovo ad esempio vi erano forme di autonomia (scuole università etc.) che neppure nel Trentino o in altre regioni autonome europee sono tollerate. Eppure lì si è deciso di armare e sostenere l’UCK al fine di accelerare le tensioni tra popoli di etnie diverse: in questo senso la guerriglia filoalbanese dell’UCK è un prodotto della spartizione dell’area balcanica: non siamo davanti a fronti di liberazione nazionale, la cui aspirazione è la liberazione da un’oppressione economica o militare, ma davanti ad organismi che tale oppressione intendono riproporre in chiave nazionalistica e etnica sia all’interno delle aree in cui sorgono, sia in contrapposizione ai popoli vicini.

In questo contesto, come comunisti dobbiamo riaffermare alcuni punti, che ci permettono di non confondere la nostra posizione con quella di un generico pacifismo, che non vuole individuare la natura dei problemi, ma nel migliore dei casi si preoccupa soltanto degli effetti, sicuramente non trascurabili che la guerra produce. In molti casi però il "pacifismo" è già passato armi e bagagli da una parte della barricata, quella NATO, grazie al lavoro dei media e di forze politiche ambigue (pseudo comunisti).

 Roma 16 aprile1999