SULLA QUESTIONE DEL LAVORO
Numerose iniziative e gruppi negli ultimi tempi hanno posto al centro dello scontro
di classe una "nuova" forza, una diversa "forma" di produrre, di lavorare: il
"terzo settore", il "no-profit", l'associazionismo che rappresenterebbero, secondo
una serie di pensatori e sociologi, il futuro del mondo del lavoro nei paesi capitalistici.
A loro avviso staremmo assistendo non solo alla diminuzione numerica di operai e
lavoratori dipendenti ma anche alla riduzione della loro "centralità" nello scontro
di classe: il nodo principale della società capitalistica non sarebbe più dunque
il conflitto tra lavoro salariato e capitale ma quello tra "lavoro autonomo", precario,
"sociale" e capitale perché, si sostiene, la maggioranza della forza lavoro è oggi fuori
dal rapporto di lavoro salariato e dalla produzione di merci. La realtà ci sembra però
ben diversa.
Innanzitutto l'uscita della forza-lavoro dal modello capitalistico basato sul
salario-profitto è un dato sovradimensionato ad arte. La base dei lavoratori salariati
resta infatti sempre la più vasta - anche se si verifica una diminuzione nei settori
industriali e un aumento nel terziario - ed è l'unica ad essere "unitaria", classe in sé,
al di là della coscienza dei suoi membri perché prende parte al processo di accumulazione
capitalistica vendendo la propria forza lavoro.
Tra l'altro la privatizzazione di vasti settori ha aumentato il livello di sfruttamento
del lavoro salariato riportandolo ancor più sotto la rigida disciplina capitalistica.
I capitalisti continuano ad usare il lavoro salariato per estrarre plusvalore: la riprova
della basilare importanza di questi lavoratori per il capitale è visibile nell'accanimento
con cui quest'ultimo cerca di deregolamentare la forza-lavoro e distruggere la rigidità
operaia. Altrettanto accanimento "di classe" non può dirsi evidente verso altri settori
pur sfruttati, che vengono forzosamente riuniti, dai pensatori in questione, in un blocco
sociale non si sa bene perché antagonista, di per sé, al capitale.
Questi settori invece non esprimono (né possono farlo) una coscienza né una posizione
di classe soggettiva, viste le diversità oggettive presenti in un settore in cui rientra,
secondo alcuni, tanto la Confindustria quanto la cooperativa di assistenza.
Lungi da noi frenare il percorso che porta la parte realmente proletaria dei lavoratori
di questo settore - volontariato, cooperative di assistenza, precari "a vita", autonomi ecc.
- ad allearsi con la classe operaia contro un nemico comune, la borghesia. Il problema è
un altro: finché esisterà il capitalismo, che si nutre del lavoro salariato, questi
lavoratori non potranno assumere il compito di guida del movimento di classe.
L'errore commesso da alcuni sta nell'errata identificazione del rapporto di sfruttamento
con una forma giuridica stabile, cioè un salario garantito. In realtà la tendenza del
capitale è quella di non garantire proprio nulla! Sono i lavoratori che, con le loro lotte,
hanno conquistato una serie di "garanzie", soggette ai mutamenti dei rapporti di forza e
alla crisi. Il fatto che il capitale tenda a deregolamentare il rapporto di lavoro, a
rendere tutti precari e flessibili significa proprio che vuole aggravare lo sfruttamento
per estrarre il massimo di plusvalore assoluto. In altri termini: il lavoratore salariato
è tale per la posizione che occupa nella produzione, non per la forma di retribuzione o
per le condizioni di lavoro. Pertanto la precarizzazione e la flessibilizzazione della
manodopera aumentano lo sfruttamento nell'ambito dei rapporti di produzione capitalistici:
un operaio precario, part-time, a tempo determinato, al nero è pur sempre un operaio.
Non comprendere questo porta ad avallare le divisioni che lo sviluppo capitalistico produce
tra gli sfruttati.
Entriamo nel merito di tre questioni poste spesso alla ribalta:
1) Riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario.
E' giusto sostenere le proposte in tal senso inserite dagli stessi lavoratori all'interno
delle loro battaglie. Più volte si raggiunge il risultato, più sarà possibile generalizzarlo.
Bisogna però ricordare che la borghesia, se pure può permettersi di cedere in casi specifici,
non è disposta a farlo
sul fronte generale. Per rendere credibile la proposta i suoi promotori affermano,
giustamente, che le forze produttive sono giunte ad un livello tale per cui è possibile
ridurre la quantità di lavoro impiegato per unità di prodotto ed utilizzare più forza
lavoro. Questo assunto è correlato alla concezione marxista della contraddizione tra
sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione tipico del modo di
produzione capitalistico, che crea le basi per una nuova società.
Il cambiamento però non si produce spontaneamente.Se il capitale è in crisi, perché mai
dovrebbe concedere ai lavoratori salariati questi miglioramenti?
Perché essi siano generalizzati a tutto il lavoro salariato e diventino quindi obiettivo
politico prima ancora che economico è però necessaria la presenza di forze politiche in
grado di fare propria la proposta.
Oggi le cose vanno invece in tutt'altra direzione: l'orario di lavoro reale tende ad
allungarsi (straordinari, sabati e domeniche lavorativi) ed il salario reale diminuisce
con inflazione, tagli ai servizi ecc.
Non è un controsenso proporre al capitale di invertire la tendenza e non valorizzarsi?
Analizzando i contratti che hanno prodotto riduzioni di orario si vedrà che esse sono
avvenute grazie a meccanismi contorti: recuperi di riposi, un venerdì ogni 3 di riposo,
ecc. In realtà lo sfruttamento quotidiano del lavoratore rimane inalterato.
D'altra parte in questi decenni l'orario è diminuito, almeno formalmente, ma la
disoccupazione è andata crescendo.La lotta operaia per la riduzione dell'orario a
parità di salario diventa una bandiera da generalizzare solo se è portata avanti da
un forte movimento di massa e da una forza politica che difende gli interessi proletari
e mira alla trasformazione della società. Oggi questa battaglia non è matura, e non può
trovare ascolto - se non parzialmente - in alcuna forza politica.
Si affiderebbe quindi alla benevolenza della classe borghese, che in questa fase è ben
lungi dal concedere alcunché.
2) Lavori socialmente "utili" o "necessari".
Così vengono definiti alcuni lavori, che si auspicano slegati dal sistema di produzione capitalistico, in cui si dovrebbero impiegare
giovani e non occupati. Il primo dubbio è: gli altri lavori sono "inutili"?
E' chiaro che con tale accezione si vuole dire che alcuni impieghi che rientrano nella sfera
del "benessere sociale", del miglioramento delle condizioni di vita - che vorremmo un giorno
vedere altamente sviluppati in una società socialista - non trovano applicazione perché non
remunerativi per il capitale. Già oggi esistono però attività che rientrano in questa gamma:
sanità, "nettezza urbana", servizi per anziani, handicappati, scuole, asili nido,
manutenzione del verde che in parte sfuggono, in parte si fanno rientrare in una logica
d'impresa, come nel caso del sistema sanitario. Nelle fasi di crisi sono i primi a pagare,
perché poco remunerativi ed utili soprattutto a fini di contenimento della lotta di classe.
Perché questa proposta dovrebbe essere realizzata? Premesso che anche in questo caso vale
secondo noi il concetto che la lotta deve essere condotta dai settori direttamente
interessati, oggi essa viene invece agitata come proposta politica capace di rompere
gli attuali assetti imponendo cambiamenti in grado di prefigurare già la società futura.
I promotori della proposta ricordano che, dato l'elevato livello tecnologico raggiunto dalla
produzione, la disoccupazione aumenta perché il capitale non può più creare occupazione
tradizionale, mentre l'evoluzione di una coscienza sociale e ambientale genera nuovi bisogni
a cui il sistema economico imperante non può dare risposte. Entrambe le considerazioni sono
esatte, ma riteniamo errate le conclusioni che ne vengono tratte.
Alla domanda: "Come dare lavoro a chi non lo avrà mai se si continua a concepire l'occupazione
come esclusivamente finalizzata al profitto e slegata dal benessere sociale?" essi candidamente
rispondono: "Creiamo posti di lavoro laddove il capitale non vuole impegnarsi e miglioriamo
le condizioni di vita della gente". Ma se il capitale non trova profittevole impegnarsi
in taluni campi, con quali "capitali" si finanzia questa operazione per una vita migliore,
un ambiente non inquinato, una salute assistita?
La crisi capitalistica esclude dalla produzione tantissima gente che per vivere è dunque
costretta ad accettare di vendere la propria forza-lavoro a prezzo più basso. L'inventiva di
chi ha necessità di sopravvivere è sempre grande, e porta ad occupare settori lasciati vuoti
dallo sviluppo della tecnologia e dalla crisi: artigianato, assistenza in cooperative,
piccole manutenzioni edili, ecc.
In questi settori c'è indubbiamente una buona parte di proletariato espulso dalla produzione
ma anche molti "autoesclusi", anime belle della società. La lotta, sacrosanta, per far valere
diritti all'interno di questi settori va collegata ad una mobilitazione più ampia affinché
questi lavori, utili o "più umani", diventino una necessità diffusa, altrimenti si cade in
una sopravvalutazione del proprio essere sociale.
3) Reddito minimo garantito.
Questa terza opzione viene da taluni compagni posta in
contraddizione con le precedenti, ma sempre legata alla necessità di sopperire alla mancanza
di lavoro creata dalla crisi capitalistica con una forma di salario ottenuto attraverso una
redistribuzione del profitto.
In alcune versioni esso si traduce in un salario minimo da corrispondersi che si lavori
oppure no, in altre è una retribuzione che andrebbe elargita in cambio di lavoro, ma a
prescindere dalla sua quantità: dovrebbe comunque essere uguale ad un minimo salariale,
aumentato per l'occasione, analogo per occupati e disoccupati.
Nel corso degli anni questa proposta è stata spesso legata alle rivendicazioni dei disoccupati:
oggi viene associata alle precedenti, oppure vista come momento unificante della lotta tra
occupati e disoccupati. Va detto che un sussidio di disoccupazione si è avuto
(e in parte esiste tuttora) in altri paesi imperialisti europei. In Germania questo
ha fatto si che una generazione di giovani non abbia praticamente mai lavorato o si
sia potuta permettere un lavoro "ideale" oppure un impegno sociale e politico "pagato
dallo stato"! Una condizione per certi versi invidiabile! Ma quale è stato il prezzo per
il proletariato? La Germania e ancor più l'Inghilterra sono stati paesi con un basso
livello di conflittualità di classe, soprattutto per quanto riguarda il proletariato
giovanile. L'elevata produttività del lavoro, un alto grado di tassazione nonché un
maggiore controllo sulla riscossione delle imposte, e nel caso dell'Inghilterra anche un
prelievo di ricchezze da colonie ed ex-colonie, hanno permesso questa redistribuzione
di valore monetario a tutta la società, consentendo una diminuzione del conflitto sociale.
In conclusione, la critica più forte non sta nell'essenza delle proposte su cui ci siamo
soffermati, auspicabili punti di arrivo in una società liberata dal lavoro salariato, ma
nel metodo con cui tentare di raggiungere lo scopo, nell'errata valutazione della realtà
dello scontro di classe e della crisi. Questi "meravigliosi" obiettivi non possono essere
perseguiti senza la forza organizzata della classe e senza un Partito Comunista.
Centro di Documentazione e Lotta Rosso 16
Roma, maggio 1996.
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