VERITÀ E LIBERTÀ MA, SOPRATTUTTO, SOLIDARIETÀ DI CLASSE!

Negli ultimi tempi alcuni settori di quell'eterogeno movimento che per semplicità uniremo nella definizione di "antagonista", hanno riproposto la necessità di mobilitarsi con l'obiettivo di pervenire a una soluzione al problema della detenzione politica nel nostro paese. Si sono quindi dati da fare per cercare di costruire un movimento in grado di fungere da pungolo per forze e soggetti istituzionali che, ovviamente, sono gli unici oggettivamente abilitati a risolvere concretamente il problema.

La questione sollevata da questi compagni non è certo di poco conto. La permanenza nel nostro paese di un nucleo consistente di detenuti politici è un fatto di notevole rilevanza politica e simbolica per tutte le classi in campo, borghesia compresa, così come per quei giovani che, avvicinandosi oggi per la prima volta all'impegno politico, esprimono attraverso la solidarietà ai prigionieri una continuità ideale con le lotte delle generazioni precedenti. Ancora una volta però la discussione sulla soluzione politica, come già accaduto in passato, è stata foriera di divisioni. I suoi sostenitori hanno infatti posto la questione in termini che, per una serie di ragioni, non riteniamo corretti.

Schierarsi pro o contro l'amnistia, pro o contro l'indulto? È altamente fuorviante, a nostro avviso, chiedere oggi ai comunisti e al movimento antagonista di prendere posizione in merito alle differenti forme legislative o amministrative tramite le quali la soluzione politica potrebbe concretizzarsi. In questo modo coloro che non intendono fare propria la campagna, o pongono legittimi dubbi sulla sua realizzabilità – sono cioè "contro" l'amnistia, "contro" l'indulto - vengono accusati di non darsi da fare per risolvere la questione, ultimi "giapponesi" incapaci di comprendere le evoluzioni e i mutamenti economici, sociali e politici.

Porre il problema in questi termini non aiuta a fare chiarezza. Innanzi tutto è falso affermare che noi, che non ci mobilitiamo a favore della soluzione politica, siamo contro l'amnistia o l'indulto, quando sono in grado di portare alla liberazione dei detenuti comunisti. Se ai compagni prigionieri viene data la possibilità di uscire senza dover fare concessioni, ben vengano le leggi in proposito (ma spesso si tratta di provvedimenti amministrativi, ad personam, adottati dalla borghesia per evitare i clamori di misure erga omnes).

Sia chiaro, accoglieremo con gioia fra noi ogni prigioniero che tornerà libero senza aver rinnegato la propria identità. Su questo, non vale neanche la pena di discutere. Nessuna persona di buon senso potrebbe infatti pensare che ci troviamo in una situazione in cui qualcuno possa permettersi legittimamente di decidere che sia più "utile" per la causa la permanenza in carcere di alcuni militanti. Non è così, il problema va allora posto in altri termini.

Sfidiamo chiunque ad affermare ragionevolmente che la mancata assunzione da parte di molti comunisti della proposta di soluzione politica abbia in qualche modo rallentato il suo percorso e la sua approvazione. Non esistono oggi rapporti di forza tali da permettere ai comunisti e al movimento antagonista di incidere sulle decisioni del governo o del parlamento, ovvero di chi fa e approva le leggi (che in questo caso necessitano anche di particolari maggioranze). Ha senso allora rinunciare progressivamente alla propria identità e autonomia di giudizio, subordinarsi ideologicamente e culturalmente alla borghesia per tentare di rincorrere e "conquistare i favori" di singoli parlamentari o politici "illuminati", che appartengono a quegli stessi partiti e forze politiche che lavoratori, pensionati, disoccupati impegnati nella difesa delle loro condizioni di vita si ritrovano contro quotidianamente? A nostro avviso no. Non solo non si fa un buon servizio alla "causa della liberazione", ma ci 2 si trova coinvolti in una perenne "corsa a destra" che, mentre non modifica la realtà, disperde però energie che risulterebbero preziose se utilizzate diversamente, ovvero nella ricostruzione delle forze per poter nuovamente incidere nella realtà.

Per evitare umilianti lotte contro i mulini a vento è allora fondamentale individuare obiettivi, realistici e raggiungibili, sui quali ogni forza, ogni realtà può e deve mobilitarsi. A ciascuno i propri compiti. Lo ribadiamo, non siamo contrari al fatto che chi di dovere voti queste leggi, pur se sappiamo che lo fa per una propria convenienza politica. Siamo contrari all'uso e alla strumentalizzazione operata da alcuni settori del movimento antagonista, siamo contrari alle riletture distorte e interessate del passato.

L'amnistia nella storia. Storicamente l'amnistia è stata posta all'ordine del giorno in due diverse situazioni: quando la classe al potere non può fare a meno di concederla, oppure quando se ne serve perché le "fa comodo". Nel primo caso ci si trova in presenza di forti movimenti di massa, i quali includono fra i propri obiettivi anche la liberazione dei prigionieri; nel secondo lo Stato concede unilateralmente un provvedimento di clemenza per ribadire la propria forza, l'avvenuta "pacificazione" dopo la sconfitta delle opposizioni. Oggi non ci troviamo certo nella prima situazione. I comunisti vengono da una pesante sconfitta dalla quale stentano a riprendersi. Siamo dunque nella seconda ipotesi, pur se in questo periodo la realtà è resa più complessa e intricata dal fatto che gli scontri interborghesi esplosi negli ultimi anni, avendo assunto pure la forma di inchieste giudiziarie, arresti, detenzione, hanno prodotto la necessità di una "ulteriore" soluzione politica, che faccia uscire dalle galere (o eviti di farceli tornare) personaggi finiti in carcere in seguito a una sorta di regolamento interno di conti.

Pensare di poter costruire un movimento sulla parola d'ordine della liberazione dei prigionieri è comunque sempre un'illusione, lo ricordiamo anche a beneficio di quei settori di movimento che, in tutta buonafede, contrappongono alla proposta dell'indulto quella di un'amnistia generalizzata. Nessuno sforzo, sia pur lodevole, di volontà, potrà mai arrivare allo scopo. Nel primo caso infatti il movimento c'è già, e quell'obiettivo è solo uno fra i tanti punti di un programma più generale. Nel secondo invece manca, ma non sarà la determinazione di qualcuno che permetterà di "costruire" movimenti: ci si ritroverà in pochi - qualche intellettuale affiancato da un ceto politico residuale - a far propria una parola d'ordine estranea alle masse popolari, agli operai e al proletariato, che verranno quindi additati da questi "lungimiranti politici" come "arretrati" per la loro assenza di sensibilità e di capacità di comprendere la realtà.

Certo, in una situazione in cui non esistono organizzazioni esterne in grado di rappresentare politicamente i prigionieri, di costituire una continuità con la loro lotta può apparire "scomoda" una opposizione ad oltranza alle proposte di soluzione politica, amnistia o indulto che sia. Ciò è accaduto negli ultimi anni soprattutto perché tali posizioni, essendo state spesso scarsamente articolate, a un primo esame sono apparse molto deboli, se paragonate a quelle di chi vende illusioni.

Analizzando meglio la questione ci accorgiamo che non è così, perché i desideri non possono modificare la realtà. Se i provvedimenti non sono stati attuati, dicevamo, non dipende dalla mancata "approvazione" da parte dei comunisti. Da oltre dieci anni esponenti più o meno autorevoli della borghesia si sono schierati a favore della soluzione politica o hanno presentato proposte di legge sull'argomento. Il risultato, sinora, non è stato dei migliori: questi progetti, pur non avendo prodotto liberazione, hanno infatti dispiegato i loro effetti negativi, contribuendo a indebolire la coesione e la resistenza dei prigionieri, indicando loro una strada di soluzioni individuali, discriminazioni e premialità. E' ovvio che più vi è contiguità temporale rispetto ai fatti causa della detenzione, più la borghesia ha bisogno di usare gli ex-oppositori come "simboli". Per ottenere i benefici fino a poco tempo fa bisognava quindi effettuare pubbliche "professioni di fede" alle istituzioni e al capitalismo, denunciare il fallimento del progetto in cui si era creduto, la chiusura e la irripetibilità di una esperienza. Oggi la necessità di pubblici e solenni autodafé si è affievolita, non perché la borghesia sia più illuminata e meno "inquisitrice", ma solo perché si è operata una soluzione di continuità organizzativa fra compagni in carcere e organizzazioni esterne.

Una peculiarità della situazione attuale, rispetto al passato è la scarsa partecipazione attiva dei diretti interessati, ovvero i compagni prigionieri. A parte infatti alcuni detenuti "eccellenti" (spesso alla ricerca di soluzioni individuali), e altri "part-time" (in semilibertà o lavoro esterno), favorevoli alla soluzione politica, i prigionieri "full time" sono rimasti per lo più in silenzio. Ma in una recente presa di posizione collettiva, pubblicata nel quaderno N° 2 di Senza Censura, alcuni prigionieri si sono schierati nettamente contro le varie proposte, che quindi sono portate avanti senza neanche il consenso di quelli che dovrebbero esserne i "beneficiari".

I comunisti oggi devono limitarsi a essere spettatori? Per rispondere a questa domanda non è peregrino innanzi tutto ricordare perché i compagni sono ancora oggi rinchiusi nelle galere. Si trovano lì perché hanno lottato contro il modo di produzione capitalista - che per sua natura era ed è produttore di ingiustizie - non contro alcuni suoi aspetti o un suo apparire fenomenico, ovvero contro i cattivi o i "corrotti", che producono danni a una società che, altrimenti, avrebbe uno sviluppo più giusto.

Hanno lottato per il socialismo, e per questo sono ancora oggi in carcere. Sembrerebbe un'affermazione scontata eppure non lo è, dal momento che una rilettura distorta della storia molto in voga in questo periodo porta a identificare l'uso della violenza da parte di alcuni settori della sinistra "antagonista" come risposta allo "stragismo", alle "deviazioni" del capitalismo in una fase specifica, in cui la classe politica (si è "scoperto" poi, con molta gioia dei sostenitori della tesi) era composta da ladri e corrotti. Di fronte a chi presenta i compagni prigionieri come una sorta di novelli Robin Hood, verrebbe quasi da dire che ha ragione Giorgio Bocca, che tempo fa in un articolo pubblicato sulla "Repubblica", ricordava - per ragioni certo opposte alle nostre - come le Brigate Rosse non necessariamente colpivano il più "corrotto" servitore dello Stato ma spesso il più "onesto"; lo attaccavano dunque in quanto nemico di classe, non in quanto ladro.

L'analisi distorta del passato ha ovviamente un peso nell'agire odierno, portando a individuare la possibilità di una "terza via", che unisca alcuni settori del movimento antagonista ai rappresentanti "buoni" e "onesti" dei partiti istituzionali della sinistra. Il problema della memoria, del suo utilizzo nel presente, diventa quindi elemento importante e centrale nell'attualità dello scontro. Del resto, lo sappiamo, la lotta di classe si fa anche distruggendo un patrimonio storico, rinnegando le basi dei movimenti di lotta, le sollecitazioni e gli obiettivi che hanno spinto migliaia di comunisti a lottare e a pagare, per quella lotta, un prezzo molto alto.

Anche noi vogliamo ricordare le lotte di allora, comunicarne la conoscenza alle giovani generazioni senza esimerci dall'evidenziarne gli errori, ma ci sembra necessario sottolineare che ancora oggi la conquista del potere politico è l’unica possibilità realistica (pur se a prima vista questa affermazione può apparire un paradosso) per risolvere stabilmente gli squilibri e le ingiustizie di classe. Conquista del potere che è sempre stata all'ordine del giorno per i comunisti, sia per la generazione politica che la individuava nella possibilità del PCI di governare, sia per la successiva che, priva di fiducia verso questo partito, ha espresso tale necessità attraverso forme di lotta diverse, fuori dai canoni della "compatibilità" in cui sindacati e forze politiche volevano incanalare le energie.

Gli anni '70 videro quindi i comunisti lottare per rompere gli schemi del riformismo, per conquistare il potere in una società a capitalismo avanzato. Il problema non ha ancora trovato una soluzione, e mantiene dunque intatta la sua validità.

Chi oggi dice che quella lotta era solamente difensiva, contro lo stato stragista, i suoi elementi più corrotti, le "deviazioni" delle istituzioni dimentica (più o meno in buonafede) che quelle "deviazioni" rappresentano il modo d'essere stesso dello stato imperialista, gli strumenti di cui si serve in alcune situazioni.

Il capitalismo non ha difetti, è il difetto! Vi sono sicuramente fasi espansive in cui esistono possibilità reali di ottenere riforme, in cui è giusto cogliere tutti i frutti possibili della "democrazia" e del "volto umano" del sistema; bisogna però sempre ricordare che essi non sono valori assoluti, tanto che in altre situazioni le porte della "riformabilità" si chiudono, perché il capitale ha necessità ben diverse che ammortizzare il conflitto sociale. Questa è la fase che stiamo oggi attraversando: la crisi produce la fine di ogni possibilità di riforma del sistema che vada a vantaggio della maggioranza dei lavoratori e delle masse popolari. Al contrario, assistiamo sempre più alla riduzione di ogni conquista che il proletariato, con in testa la classe operaia, ha ottenuto nei decenni passati.

Licenziamenti, precarizzazione della manodopera e flessibilità sono l'essenza del capitalismo in una situazione di crisi. E perché le necessità del capitale abbiano buon gioco, i partiti della sinistra devono essere partecipi della "gestione della crisi", ovvero del tentativo di ridare fiato al profitto padronale a discapito dei lavoratori e delle classi subalterne. La politica del governo Prodi è emblematica in proposito.

Questa è la realtà, che ci piaccia o meno. Non esistono scorciatoie: le posizioni "frontiste" sono solo illusioni, che nella storia si sono già mostrate irrealizzabili. Se l'ipotesi rivoluzionaria ha subito una pesante sconfitta, il riformismo non ha certo avuto sorte migliore. La via italiana al socialismo di togliattiana memoria ha palesato la sua impraticabilità, e a maggior ragione è improponibile oggi, in una fase di crisi del capitalismo, in cui le masse popolari non possono certo pensare di strappare vittorie e conquiste, ma devono al contrario lottare per difendere quelle dei decenni precedenti, che pian piano vengono smantellate.

Se negli ultimi anni non vi è stato un netto peggioramento delle condizioni generali di vita delle masse popolari, ciò non è dovuto alla "magnanimità" dei padroni o alla "umanizzazione" del capitalismo, ma all'inarrestabile sviluppo delle forze produttive, che ha permesso a molti, nonostante l'imposizione di sempre più pesanti "sacrifici", il mantenimento di un dignitoso tenore di vita. Intanto le ricchezze si sono sempre più concentrate nelle mani di pochi, e i più sono stati esclusi dal godimento dei frutti e delle condizioni offerte dall'attuale livello di sviluppo che, sganciato dalla logica del profitto, permetterebbe a tutti di lavorare meno e guadagnare di più. Oggi accade invece esattamente il contrario, tanto che pure la piccola borghesia viene attaccata. Il seguito che la Lega ha avuto negli ultimi anni dimostra proprio il malcontento di settori sociali sempre più vasti.

Fomenta quindi solo illusioni chi oggi, nella pratica, ripropone un'attualizzazione della via "italiana" al socialismo di togliattiana memoria, con l'aggiunta di termini e concetti mutuati da un contesto, quello zapatista, completamente diverso. Ci riferiamo soprattutto ai compagni del "comando generale" del nordest, che talvolta sembrano non accorgersi del fatto, certo non secondario, che non vivono circondati da selve! E così coniugano l'estremismo verbale con una politica riformista, che si esprime nel tentativo di ricomposizione con il PRC, il quale sulla questione della soluzione politica vive oltretutto una contraddizione interna. I vertici appaiono talvolta apparentemente più "avanzati" di parte della base, che male digerisce e comprende la proposta di liberare coloro che proprio il PCI nei decenni precedenti ha additato come "fascisti", e che in qualche caso ha persino attivamente contribuito a far arrestare.

Quale solidarietà? A quei compagni che oggi si mobilitano sulle parole d'ordine, certo importanti, della verità e della libertà, vogliamo ricordare che il terzo polo della questione, ineludibile, è la lotta di classe. Lo si voglia o meno. Tutti i giorni il capitale è costretto a condurre una dura guerra per l'imposizione del proprio comando, in fabbrica e fuori. Il lavoro salariato, lungi dall'essere scomparso, si è trasformato, parcellizzato nei luoghi e nelle forme, ma mantiene il suo insostituibile ruolo nell'accumulazione capitalistica. Che ci si trovi in fabbrica o dispersi nel territorio, con contratti collettivi o senza, sempre di lavoro salariato si tratta.

Lo scopo del capitale è estrarre plusvalore, e il modo migliore per farlo è pagando meno l'operaio. Questo avviene in forme diverse, che convivono, come sempre, nella società capitalistica. Il padrone non può rinunciare alla fabbrica, ma l'organizzazione della produzione di massa ha bisogno di essere "controbilanciata" dall'esistenza di lavoratori privi dei diritti che solo una classe operaia organizzata ha saputo strappare. Che questi settori oggi siano cresciuti, che i lavoratori nelle fabbriche siano diminuiti, è sicuramente vero, ma ciò non muta la natura del capitalismo. I cambiamenti nella composizione di classe, che molti commercializzano come novità positive della società attuale, frantumano la forza proletaria, indeboliscono la coscienza di classe e rappresentano il modo del capitale di mantenere il potere. Perché proprio il potere è lo strumento per garantire la stabilità dei cambiamenti, grandi e piccoli.

Lo sappiamo che il fatto di riaffermare i nostri punti di riferimento non libera i comunisti prigionieri. Ma perdere la propria identità, tentare di liberare i detenuti al prezzo di non sapere più cosa si è - noi e loro - non è accettabile. Altrimenti i compagni sarebbero da un pezzo usciti, decidendo indipendentemente da noi come barattare la loro identità. Come molti, d'altra parte, hanno fatto!

A quanti oggi hanno deciso di battersi per la libertà dei comunisti diciamo che la loro scelta è giusta, ma ricordiamo anche che i compagni nelle galere hanno bisogno di solidarietà proletaria, di classe, non di interclassismo. Devono sapere che altri lottano ancora per gli obiettivi per cui sono finiti in carcere, devono sentire che molti credono oggi che il comunismo, pur nelle mutate condizioni, rimane un obiettivo perseguibile. La forma più efficace e attiva di solidarietà è la prosecuzione della lotta per una società più giusta. Questo è dunque oggi il nostro compito. Perché la lotta di classe continua, i ritmi di lavoro sono sempre più duri, le ricchezze prodotte sempre più grandi ma sempre più concentrate, la disoccupazione, il lavoro sottopagato, nero e precario sempre più diffusi. Il capitalismo non è affatto nuovo per chi non si fa ingannare dalle apparenze!

Roma, gennaio 1998.

Centro di Documentazione e Lotta
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