Relazione sulla fase, crisi capitalistica, lotte e obiettivi

Negli anni dal ’92 ad oggi l’Italia ha attraversato una fase in cui alla crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali già in corso da quasi vent’anni sono state cercate "soluzioni" più complessive, rispetto alla fase precedente in cui l’hanno fatta da padrone "ristrutturazioni e decentramento produttivo" cioè un riassetto dal punto di vista prettamente economico e tecnologico. Tali espedienti oggi hanno portato ad una ristrutturazione più complessiva dell’assetto politico ideologico capitalistico e borghese in Italia, con modifiche istituzionali e con un attacco a tutto tondo rispetto alla classe operaia e proletaria, anche sul piano ideologico e normativo.

Senza addentrarci sul piano istituzionale/governativo, conviene invece soffermarci sull’attacco condotto verso il proletariato.

L’attacco ha assunto anche natura ideologica nel momento in cui sono venute meno quelle forme di rappresentanza, sia pure riformistiche, che avevano mantenuto una unità di classe attorno ad un partito: la fine formale del PCI in quanto "partito della classe operaia e dei ceti popolari" e la definitiva accettazione delle compatibilità capitalistiche, senza soluzioni di continuità neanche di stampo riformistico, hanno indotto la borghesia e il suo apparato statale a far passare a fondo concetti ideologici con ricaduta anche materiale quali "fine della classe operaia" "fine dello stato sociale" ecc. In sostanza, le mutate condizioni formali di rappresentanza e unitarietà dei settori popolari, ha spinto la borghesia a premere sulla divisione di classe all’interno, mirando a togliere egemonia alla classe operaia.

Di fronte a questa "ipotesi" sociologica (riduzione del peso della componente operaia della classe) la borghesia, lungi dal poter fattivamente dimostrare ciò, ha trovato alleati "interni" al proletariato, pronti a saltare a più pari il fosso della collaborazione con l’avversario anche su un piano ideologico, spendendosi in una altrettanto irrealistica apologia della "scomparsa della classe operaia" e della "nascita e predominio" di nuovi soggetti sociali": un vecchio vizio di certa sinistra "antagonista" che oggi ha trovato chi lo sollecitasse. Da qui una pletora di teorizzazioni: "postfordismo", "neoliberismo", "terzo settore", "fuoriuscita dal capitalismo", capitalismo senza capitale ecc.

Fare fronte a questo connubio di "divide et impera" borghese e nuove sociologie della classe, di menzogne ispirate alla necessità di ridurre il potere mobilitante di certi settori di classe e verità sulle mutate condizioni lavorative e normative, è stato e resta un compito politico importante per i comunisti nell’ottica della ricomposizione della classe attorno ad un polo centrale, pur nel riconoscimento dell’insorgere di nuove esigenze di lotta e di bisogni rivendicativi distinti da quelli "classici" del lavoro salariato "normato".

Per una più completa - anche se non esauriente e sempre in via di completamento! - analisi di queste teorizzazioni provenienti dall’interno del "movimento" o dell’intelligenza di sinistra, di questo "nuovo capitalismo dal volto umano" per cui sembrano battersi tanto i Revelli quanto i centri sociali, tutti quanti eludendo la questione che invece anche seppure in forme incomplete era stata al centro dei variegati movimenti degli anni ’70, cioè la questione del potere, rimando ai materiali da noi prodotti sul "neoliberismo", sulla questione di "lavoro, reddito, salario minimo".

Alcuni punti fondamentali

Sinteticamente noi individuiamo alcuni punti fondamentali:

I due punti sono interconnessi, ma entrambi si diversificano negli elementi pratici della lotta.

Infatti, mentre la centralità operaia è un dato che viene spesso ricordato anche da chi poi pratica altre strade, o che viene ritenuto "esclusivo" senza verificare l’influenza dei settori diversi del lavoro salariato (v. Operai Contro); l’aspetto complessivo del lavoro salariato nelle forme capitalistiche - metropolitane e periferiche - è un dato che va analizzato molto attentamente, evitando di cadere nei facili soggettivismi di chi in modo manicheo separa l’operaio di fabbrica da quello dei servizi, il "garantito" dal precario, allo scopo opportunistico di ritagliarsi una fetta di società, di classe in cui prestare meglio la sua attività militante.

Quindi i due punti sono separati ma connessi, e dalla non evidenzia di ciò nasce anche lo scontro non solo pratico ma anche ideologico nei confronti delle teorizzazioni che semplifichiamo come "postfordiste".

Vanno sconfitte, pertanto, le posizioni "riduzionistiche" sia in senso operaista che in senso "precarista", che riducono il lavoro salariato (vero cavallo di battaglia marxiano) alla forma e non alla sostanza. La forma è un elemento variabile della sostanza, che consiste nella sottomissione reale del lavoro al capitale, che si amplia e si complica ma non sfugge alla legge del profitto.

 

Contro le posizioni soggettiviste

Nella critica che dobbiamo muovere a queste posizioni non dobbiamo opporci estremisticamente sostenendo un purismo operaista non idoneo: dobbiamo sostenere che una cosa è analizzare le varie forme normative e contrattuali che lo stato e i padroni usano, a seconda dei rapporti di forza tra classi in un dato momento, un’altra e dire che, in base a queste forme cambia la sostanza del rapporto di classe.

Se l’analisi compiuta anche da piccoli gruppi territoriali di compagni individua la molteplicità delle forme di rapporto di lavoro in ambito capitalistico (contratti nazionali, a tempo determinato, interinale, salario e orario flessibile, lavoro nero ecc.) e quindi fornisce un indubbio e necessario contributo alla conoscenza della composizione di classe, d’altra parte essa si "macchia" di soggettivismo quando da questi elementi - spesso molto parziali o locali - fa giungere questi compagni alla conclusione che un lavoratore precario, o comunque non "garantito", che lavora fianco a fianco a colleghi con contratti nazionali, in un certo comparto (per esempio nei magazzini FIAT) non sarebbe un salariato, o sarebbe comunque un settore di classe non solo nuovo ma anche d’avanguardia.

Naturalmente questo comportamento soggettivista non è generalizzabile a tutti coloro che si organizzano per lottare con un certo settore lavorativo. Ci sono molti casi di compagni che pur ponendosi a difesa e sviluppo di lotte di gruppi di lavoratori "atipici", li considerano come parte di un tutto e si muovono nell’ottica di unirli al settore più grosso e centrale, quello operaio (in tal senso sono disponibili alcuni lavori di inchiesta).

Quindi: pregio dell’analisi differenziata della classe e sviluppo di contraddizioni e lotte in settori non principali; difetto dell’errata valutazione del ruolo di questi settori e sostanziale appiattimento sulle politiche governative tese appunto a differenziare e frammentare il tessuto di classe.

Infatti, quando un settore così individuato non assurge - e non può assurgere - a reale dirigente del movimento complessivo della classe, il risultato è appunto la frammentazione soggettiva e la sfiducia tra componenti diverse della classe proletaria.

Anche la casisitica oggettiva delle lotte condotte in settori non operai o non centrali mostra come i movimenti marginali generati dal capitalismo tanto più resistono ed esistono quanto più sanno, foss’anche a fasi alterne, collegarsi ad altri settori e soprattutto a quello che nella logica capitalistica si vorrebbe essere ostile, antagonistico: è il caso dei disoccupati napoletani - unico movimento del settore nato e mantenutosi - che cerca l’appoggio degli operai delle fabbriche dell’area e partecipa solidarmente alle loro manifestazioni. Sfugge, cioè, alla logica della contrapposizione e frammentazione imposta dal capitale.

Un altro caso di battaglia da condurre contro posizioni semplicistiche all’interno della classe o di settori più politicizzati (e con questo si intendono sindacalisti anche di base, avanguardie di lotta ecc.) è quello sulle 35 ore per legge. Abbiamo sostenuto con il nostro lavoro, che questa proposta, apparentemente vantaggiosa per i lavoratori, inganna e divide ulteriormente. A parte la considerazione che essa è una proposta tutta interna al blocco di governo, non è frutto di movimenti di massa - che pure a volte hanno posto la questione delle 35 ore ("35 anni / 35 ore") - essa comunque è uno di quei gettoni che i riformisti e soprattutto i revisionisti belli e buoni hanno intenzione di spendere per distrarre i proletari dalle loro rivendicazioni più immediate. La riduzione prospettata per legge a partire dal 2001 presenta ben più di un trabocchetto, per esempio la limitata gamma di casi cui applicarla, tende a limitarsi ancora di più per via del fatto che tali casi vengono brutalmente ridotti dall’immissione delle nuove forme di lavoro atipico, dell’interinale, del precariato ecc., che non prevedono queste riduzioni (limitate in pratica ai contratti nazionali che, guarda caso, si mira ad abolire!). Ma a parte questo l’evidenza della truffa sta nel fatto che, dato il livello di sviluppo tecnologico raggiunto dal capitale, oggi non ha più molto senso parlare di "riduzione d’orario a parità di salario". Ha senso invece porre la questione della riduzione dei carichi di lavoro assoluto, dell’aumento delle pause, insomma lottare per rallentare la produzione. Oggi, dati i rapporti di forza che comunque gli estensori di questa legge intendono mantenere o volgere ancor più a loro favore, lavorare 35 ore anziché 38 o 40, si traduce in un lavoro molto più gravoso, perché più gravoso è e sarà il comando del capitale sul lavoro. A meno che i comunisti e le avanguardie operaie non mutino questa situazione, ma ciò non avviene se ci si culla nel sogno di un mutamento a suon di leggi fatte dai padroni per i padroni! Anche su questo alleghiamo interventi più dettagliati, condotti anche all’interno delle rappresentanze dei lavoratori, come il Coord. Naz. RSU.

 

Solidarietà di classe

Con questi ed altri - forse pochi - esempi di esperienza organizzativa ed obiettivi di lotta davanti, noi abbiamo ritenuto che fosse fondamentale rilanciare a tutto campo la parola d’ordine della solidarietà di classe. Che nella nostra pratica si è espressa sia nel partecipare che nel diffondere notizie relative alle lotte di difesa - prevalenti in questa fase - sforzandoci di individuare gli elementi che accomunano più che quelli che dividono (che pur esistono), soprattutto segnalando come ogni lotta che si esprima contro il capitalismo (seppur in modo specifico e relativo) deve essere considerata parte della lotta di classe, indipendentemente sia dalla coscienza soggettiva che ne hanno i partecipanti sia dal peso specifico di quella data lotta.

Rompere il silenzio e la divisione: è l’altro aspetto legato alla solidarietà. Non è vero che non ci sono lotte: è vero invece che ce ne sono tante ma ognuna all’oscuro dell’altra, a causa della mancanza di organizzazioni sindacali di classe, su scala nazionale e intercategoriale, nonché di un partito comunista in grado di farsi tramite di ogni movimento anticapitalistico.

Sostenere le lotte, comprenderne la logica cui rispondono, i metodi, gli obiettivi; analizzarli e restituirli ai militanti stessi. Prassi-teoria-prassi.

Lavorare per unire ciò che il capitalismo e i suoi governi dìvidono (disoccupati contro occupati, lavoratori dei servizi contro quelli di fabbrica, precari contro fissi ecc.)

Individuazione di alcuni punti della fase su cui si accentra l’attacco capitalistico: riduzione delle garanzie e delle conquiste, attacco al salario complessivo (salario, pensioni, servizi sociali), flessibilizzazione di orari e salari.

Questi aspetti sono centrali nel porsi in rapporto con la classe. Rappresentano il corretto rapporto prassi-teoria-prassi. Naturalmente essi non esauriscono il compito dei comunisti, che è quello di costruire organizzazione; ma impedisce almeno che ciò che i comunisti sostengono, per quanto giusto possa essere, resti staccato dalla realtà della lotta di classe.

 

Roma 18/10/99

Centro di Documentazione e Lotta Rosso 16