IL TEMPO DELLE DECISIONI

Da un capo all'altro del mondo imperialista i fatti ci ricordano che nessuna conquista, per quanto "moderata", è duratura e che la sottomissione per salvare il posto di lavoro, legando i propri interessi a quelli del padrone, non garantisce i lavoratori dall'essere trattati come merce. Fatto questo che i traghettatori del revisionismo nel movimento operaio cercano di far dimenticare.

Tutto ciò che oggi viene indicato, con disprezzo, come "garanzia", ciò che noi chiamiamo "diritti dei lavoratori", "diritti sociali" sono frutto delle lotte proletarie che in determinate fasi hanno potuto e saputo ottenere ciò.

La sottomissione al comando di impresa (nel caso di quei gruppi di lavoratori che hanno guardato con occhio benevolo al benessere del proprio padrone, sperando nel proprio) non paga. Chi non ha lottato, chi ha concesso ai padroni quel che volevano in fatto di produttività e disciplina è il primo a pagare. E in più sconta anche l'isolamento in cui si era messo, nell'illusione che il non coinvolgersi con i movimenti di lotta lo salvasse dalla "crisi"... del padrone.

Dalla Renault di Vilvoorde, alla Goodyear, alla Rover ricorre l'espressione: "Abbiamo dato tutto al padrone, siamo stati buoni e obbedienti, non abbiamo preteso nulla e ora ci cacciano, chiudono la fabbrica...!" In queste tre fabbriche prese ad esempio la conflittualità è stata sempre bassissima, anche la sindacalizzazione. Nonostante ciò...

Ma questo dovrà pure farci imparare qualcosa! Anzi, dovremo più che imparare ripassare l'insegnamento marxiano sulle due classi in conflitto insanabile: il proletariato e la borghesia. Certamente le definizione si arricchiscono e diversificano nel corso dei decenni. Ma i fatti si incaricano di riportare migliaia di salariati, traditi e addormentati dal revisionismo e dalla cogestione, alla realtà.

Quale è questa realtà?

E' questa: la lotta di classe non esiste solo in virtù di un atto unilaterale e soggettivo (la dichiarazione di lotta da parte operaia, per esempio); non smette di esistere se una delle parti non lotta (cosa che cercano di accreditare gli ideologi della pace sociale). Essa ha un carattere materiale, ha radici economiche, è opposizione oggettiva fra interessi contrastanti.

Se non lottiamo contro il padrone, egli lotta comunque contro di noi. In un determinato periodo ciò avviene con le concessioni, facendoci anche partecipi di una "punta" di benessere, con le riforme. Intrapresa questa strada cercherà di accreditare l'idea che la collaborazione di classe produce effetti positivi in permanenza, accresce il benessere dei salariati: basterà concedere, essere flessibili...

Poi, dato che le leggi dell'economia capitalista sono molto più "generali" di quanto il padrone - multinazionale o meno - voglia far credere ai "suoi" operai, nel momento di crisi non c'è "collaborazione" che tenga: si procede a suon di licenziamenti e chiusure. Nessun servilismo, nessuna retorica di compatibilità può impedire questo processo.

Naturalmente non tutto il proletariato intero, non tutti gli operai sono stati presi in questa trappola. Ma il fatto è che le cronache ci incaricano di rinverdire questi concetti, partendo appunto da plateali sconfitte. Perchè anche dalle sconfitte occorre trarre un insegnamento. E, possibilmente, tramutarle in vittorie. Come?

Alla Renault, alla Goodyear, alla Rover e in moltissime grandi multinazionali, nonchè in migliaia di piccole unità produttive gli operai ci dimostrano che non dobbiamo mai fare nostre le tesi del padrone. Chi l'ha fatto pensando al proprio benessere, è stato preso a calci nel sedere molto più velocemente e dolorosamente di quanti oppongono sempre al padrone una lotta, seppure di resistenza.

Non solo: nel momento del bisogno hanno pagato il distacco creatosi verso il resto del movimento operaio e/o sindacale, verso le lotte che avvenivano a poca distanza da loro, verso gli altri lavoratori cui evitavano di dare solidarietà per paura di essere "coinvolti".

Ecco che una frase degli operai svizzeri della Haefely Trench può essere indirizzata a questi gruppi di lavoratori che vengono messi sul lastrico dalla famelica ricerca del profitto capitalistico: "Chi lotta può vincere, chi non lotta ha già perso".

D'altra parte il movimento operaio e proletario non deve cadere nell'errore - prodotto dall'opera di divisione condotta dai padroni e dai revisionisti - di isolare o marchiare di infamia o di tradimento ("ve lo siete meritati", "dove eravate quando noi lottavamo"... ecc.) questi lavoratori, negando loro la solidarietà e il sostegno materiale.

Il proletariato nel suo complesso deve cogliere l'importanza "ideologica" di questi "rientri" in campo "amico" da parte di lavoratori. Questa è la dimostrazione - per quel fin qui detto - delle ragioni di chi lotta, di contro alla sconfitta certa di chi si sottomette.

Ma perchè questo "rientro nei ranghi" sia fruttuoso occorre essere in grado di coglierlo, anche sul piano pratico, organizzativo. Questi lavoratori sono disaffezionati ai sindacati confederali che li hanno spinti nelle braccia dei padroni (a volte il sindacato non è stato capace di attrarre i lavoratori, perchè privo di una politica di classe: "se devo cedere ala padrone" - hanno pensato in molti - "allora non ho bisogno del sindacato"!)

L'insegnamento pratico da cui ripartire è, dunque, che solo con la lotta si difendono le proprie condizioni di esistenza; e che questa lotta è permanente, seppure con livelli diversi. I padroni e i governi non regalano niente.

E se è vero che il capitalismo nel suo complesso è giunto ad un punto in cui può solo "negare" diritti e condizioni, ossia è finita e da un pezzo la fase del capitalismo dal volto umano, allora la parola d'ordine che dice "chi lotta può vincere" deve essere integrata dalla consapevolezza che ciò che vinciamo può essere garantito solo da - in primo luogo - una forte organizzazione di classe (sindacato e partito) e - in secondo luogo - da un potere stabile esercitato da noi.

Agli operai della Goodyear che lamentavano la "debolezza del governo" nei confronti della multinazionale (una affermazione di sudditanza agli USA), dobbiamo dire che solo un governo di operai, di proletari sarà forte abbastanza da imporre, come minimo, rispetto dalle multinazionali. Ma anche che l'obiettivo non può essere più mendicare rispetto e diritti, perchè questi li avevamo già ottenuti nei decenni passati, quanto affermare l'inalienabilità di questi, nella prospettiva della soppressione dei diritti stessi dei capitalisti.

Oggi gli operai, e non solo quelli più deboli come alla Goodyear, chiedono alle fabbriche che chiudono di poter continuare la produzione, magari sotto un altro padrone. Occupano le fabbriche per affermare il diritto al lavoro, ovvero a vivere, nei limiti che impone questo sistema sociale. A questo punto non è forse il momento di chiedersi, di mettere nel campo delle esperienze possibili, se la produzione non può essere presa completamente e direttamente nelle mani dei lavoratori?

Si può partire da queste esperienze più piccole, quantitativamente. Ma esse devono necessariamente godere del sostegno e della simpatia del resto del movimento proletario e delle classi popolari.

In sostanza: occorre essere organizzati, occorre lottare per difendere i propri diritti, occorre trasformare la difesa in attacco, la "richiesta" in "pretesa", occorre togliere al capitale il comando della produzione.

Tutto ciò non avviene se si resta su scala "locale", a livello della piccola fabbrica: ma le condizioni immediate materiali possono accelerare certi processi, possono spingere a "sperimentare".

E se è vero che "abbiamo tutto un mondo da guadagnare" allora, per "perdere le catene" occorre pure cominciare da quelle che abbiamo, fabbrica, ambiente, salute ecc. Se il capitale ci impone le sue regole, finito il tempo delle "mediazioni" arriva il tempo di prendere decisioni.

Roma 20/03/00 Centro di Documentazione e Lotta

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