I  PARAPIOGGIA

Il 20 giugno 1750(1) di fronte al notaio Liborio Crusi si costituisce il procuratore del Capitolo di Gallipoli, D.Domenico Rausa, da una parte. Dall’altra, come scrive l’estensore del documento,Tommaso e Adriano Preite di Copertino e Pasquale de Noto di Gallipoli, tutti  “mastri muratori”.

Il procuratore dichiara che il Capitolo possedeva “un compren-sorio di case dirute sito e posto nel luogo ove si dice S.Antonio Abate alias del fuoco”; per questo i suddetti mastri si offrirono di riedificare l’immobile secondo il “disegno da’ medesimi formato e la pianta della fabbrica di dette case da eriggersi... quale pianta in disegno fu l’ultima che al rev.mo Capitolo piacque, ad esclusione di molti altri disegni formati da altri mastri muratori”.

La somma occorrente fu di 1050 ducati; il cantiere fu aperto all’inizio del successivo mese di luglio e doveva concludersi, come si concluderà, nel maggio del 1751.

Nella convenzione fu stabilito che in facciata dovevano eseguirsi “due logge...corrispondenti alle due scale maggiori, e che le medesime logge siano scoverte, ma che in esse vi fusse un arco tondo all’altezza del cornicione...”. Interessante quest’annotazione di carattere tecnico:

che tutti l’astrichi ed intonicature si debbano fare ... di calce e tufo ... alli quali possano frammis-chiare nozzolo di saponera; e tutte  dette case si debbano imbiancare secon-do il solito di questa città”.     

I parapioggia delle finestre sono denominati come difese; l’arma del Capitolo doveva essere “della pietra di Daliano”.  

Qualche anno dopo,  precisamente il 24 marzo 1753(2), il medesimo Capitolo affida a Tommaso, Adriano,  Salvatore e Domenico Preite mastri muratori la ricostruzione di un comprensorio di case dirute “sito e posto nell’abitato di Gallipoli, nel luogo detto la Madonna dell’Angioli, confinanti con la Congregazione dell’Angioli, le case di D.Mario Tredeci, strada pubblica ed altri confini”.

I mastri fecero i soliti disegni richiedendo 1080 ducati per l’impresa costruttiva che iniziarono il 26 marzo e completarono nel dicembre del 1753.

Nel tredicesimo patto della convenzione è prescritto “che alle finestre e porte che guardano la strada debba camminare una fascia di stucco a torno”. Nell’ultimo, il diciottesimo, è scritto: “tutte le camere superiori ed inferiori fussero di lamia tonda a mezza botte, e quelle inca-sciare secondo il solito di questa città, di fabrico rustico”.

Sorvoliamo sulle maestranze che realizzarono questi edifici, a Gal-lipoli attive già dal 1741 in occasione della ricostruzione della chiesa confraternale del SS. Crocefisso(3).

Analizziamo invece alcuni contenuti “tecnici” delle due “convenzioni”. In quella del 1750 il disegno di progetto prevedeva “due logge... corrispondenti alle due scale  maggiori... scoverte ...all’altezza del  cornicione, ovviamente a primo piano.

E difatti due grandi arcate a giorno, impostate su altrettantimignani(4), nonostante le trasformazioni subìte dal prospetto, animano ancora il palazzo del Capitolo di via Bosco.

Le difese, ossia i parapioggia originari delle aperture, sono ora completamente trasformate da un intervento del 1926(5).

Nell’altro palazzo del Capitolo, quello progettato il 1753,  in  facciata non furono previste  logge; è invece espressamente stabilito che alle aperture si dovrà dar risalto con una “fascia” di stucco; non erano previste le consuete cornici  ma quella che è definita  anche in questo caso “difesa”,  ossia i parapioggia.  Elementi architettonici  nella fattispecie semplicissimi: una lastra lapidea rettangolare con gli spigoli risolti da un quarto di cerchio. 

Ove si consideri, invece, la straordinaria ricchezza a Gal-lipoli di questi particolari, si dovrà concludere che la scelta di una loro qualificazione formale semplificata derivava sicuramente dalla destinazione dell’edificio medesimo: civile residenza plurifamiliare. Pertanto  la forma di queste “difese” non sembra per niente casuale.

Vedremo infatti, che la sua utilizzazione e la sua forma, rientrano  invece in un complesso di scelte architettoniche fortemente gerarchizzate anche relativamente ai suoi risvolti all’interno della stratificazione sociale della città.

* * *

Analizziamo ora la funzione dei parapioggia. Da un punto di vista morfologico una finestra si configura come un’apertura praticata nello spessore del muro costituita da una soglia, gli stipiti e l’elemento portante superiore, l’architrave.

Nell’architettura colta questi elementi sono sottolineati da mostre e cornici il cui risalto maggiore è dato proprio dall’architrave anche per la sua funzione di proteggere l’apertura sottostante dagli agenti meteorici e dai raggi solari.Questi elementi compongono un insieme archi-tettonico le cui varianti decorative, specialmente in periodo barocco, saranno praticamente infinite: la loro alternanza, il ritmo della loro successione e sovrapposizione caratterizzerà lo “stile” dell’edificio.

Viceversa può determinarsi un fenomeno di esemplificazione di questa unità architettonica fino a realizzare una semplice apertura provvista, come elemento accessorio di carattere decorativo-funzionale, unicamente del parapioggia.

E’ il caso dell’architettura civile di Gallipoli che viene caratterizzata proprio dalla straordinaria varietà formale di questi elementi: ed è singolare che questa evidentissima particolarità non sia stata mai notata, tantomeno valutata, in sede critica(6).

Urge pertanto evidenziare l’articolazione formale di questi elementi architettonici per intraprendere poi quell’analisi storica che fin qui è mancata.

Per affrontare tutto ciò  è opportuno partire dalle forme più semplici verso quelle più complesse, avvertendo che non si tratta di pura e semplice evoluzione formale.

Il prototipo di parapioggia è chiaramente la semplice lastra  rettangolare - composta da mattoni e di altro materiale lapideo tenero - posta a circa 25-30 cm. dal bordo superiore dell’apertura, altrettanto sporgente e largo poco più della luce dell’apertura medesima.

E’ significativa la circostanza che il suo impiego è confinato quasi esclusivamente, ma non è una regola, sulle facciate di modeste abitazioni.

Il prototipo si arricchisce poi con una serie di tagli  operati agli angoli - vedi il caso del palazzo del Capitolo di via Briganti - fino ad investire il lato lungo che si  anima di curve e controcurve di gusto pienamente barocco.

Così da semplice riparo contro l’acqua e il sole il parapioggia diventa un autonomo elemento architettonico che anima e caratterizza  non soltanto la facciata dell’edificio ma pure la  spazialità stessa della strada che assume aspetti sempre diversi col variare delle ombre proiettate dalla luce diurna.

Che il parapioggia diventi così un elemento autonomo, esaltato nella sua dimensione formale, è confermato dall’eccezionale esasperazione geometrica e dalla dimensione degli esemplari più significativi rintracciabili, ovviamente, nelle residenze aristocratiche: anche in queste unità minime di significato si è voluto imprimere lo status della committenza.

E qui è appena il caso di accennare alle aspre lotte che coinvolsero, specialmente nel sec. XVIII, i vari “ceti” che componevano la società gallipolina; ceti che non tralasciavano nessuna  occasione per dimostrare anche visivamente la loro priorità: in gioco era il controllo politico ed economico di una delle città economicamente più prosperose del Viceregno.

L’architettura servì egregiamente a questo scopo, insieme a tutti quegli altri attributi che connotavano il vivere aristocratico e che G. Labrot ha efficacemente definito segni di riconoscimento(7). E inequivocabili segni di riconoscimento devono essere considerati  i parapioggia di Gallipoli: basti  osservare quelli del grandioso palazzo de Tomasi,  Muzi  o Pasca.

E tuttavia a questi segni, tranne in casi marginali, non si conferì mai quella dignità  architettonica  capace di giustificare l’impiego loro sulle facciate principali delle residenze  aristocratiche.

Se sono utilizzati sulla facciata di  palazzo de Tomasi - questa ricchissima famiglia, intorno al 1717 intentò una causa contro l’università di Gallipoli perchè il suo stemma era stato dipinto “nella sala della regia Corte... senza corona ma so-lo con elmo e cimie-ro”, in dispregio, si riteneva, della loro nobiltà e del “titolo di conte palatino” e delle “molte concessioni e grazie... da’ Serenissimi Regnanti  in questo Regno oltre del costume comune(8)- è perchè sono inseriti in delle mostre di stucco che ripropongono lo schema classico della finestra come quello delle aperture cinquecentesche a piano terra del medesimo palazzo; sul lato di via Crispo i parapioggia sono non solo isolati ma addirittura semplificati come sul lato di via de Tomasi.

Sulle facciate secondarie il parapioggia è utilizzato sul celebre palazzo Tafuri (via Nizza), “arricchito” qui da sinuose mostre in stucco, realizzate su progetto dell’architetto ales-sanese Felice De Palma, uno degli esemplari più riusciti della produzione rocaille salentina(9); sui palazzi Pasca, Monittola, D’Ospina, Briganti  ecc. ecc.

A questo rigido schema di selezione gerarchizzata di questi elementi si oppongono poche ma significative eccezioni. La prima è costituita dal lunghissimo prospetto di palazzo Muzio  (via Micetti) che si articola in nove aperture al piano nobile e cinque sul lato di via Celso tutte sormontate dal medesimo parapioggia dal profilo articolatissimo e probabilmente costruito con l’uso di una ingegnosa geometria combinatoria.

Come spesso accade, anche quando l’edificio ha subìto, nel corso degli anni diversi frazionamenti, la serie continua dei parapioggia permette di ricostruire il suo originario sviluppo volumetrico.

Infatti le due aperture terminali del lato destro di questo palazzo appartengono ad un altro edificio che ha l’accesso da via Coppola, appartenuto nella seconda metà del ‘700 al ricco negoziante di nobili natali Filippo Coppola; qui ai parapioggia è applicata una sorta di nappatura che arricchisce questa tipo-logia in direzione del fenomeno dell’effimero che a Gallipoli ha una buona tradizione anche per l’uso in facciata dello stucco che permette  notevoli variazioni e commistioni decorative(10).

Per palazzo Muzi è probabile, tuttavia, che la persistenza in facciata dei parapioggia derivi da un’interruzione forzata di un progetto di ristrutturazione dell’edificio: così farebbe pensare l’interessante portale in stucco, tipologicamente da assimilare a quelli di palazzo Romito (1751-1770) e di palazzo Pasca, il cui asse è spostato rispetto alla soprastante apertura .

Un’altra eccezione è costituita dal cinquecentesco palazzo Pantaleo (via A.De Pace) sopraelevato nei primi anni del XVI secolo ma evidentemente ristrutturato nel ‘700; ma questa famiglia non poteva certamente  essere considerata doviziosa(11), anche se in un documento del 1790 che testimonia gli elementi  strutturali che costituiscono il prestigio della nobiltà gallipolina, così è scritto: “la famiglia di Don Francesco Panta-leo si è sempre mantenuta con lustro e decoro. Attualmente si mantiene con un ser-vidore e donne di servizio”; situazione molto diversa da quella della famiglia di “D.Oronzo Serafinisauli, barone di Tiggiano, che si è sempre mantenuto con lustro e decoro, ed attualmente si mantiene con sei mule per uso di carrozze, e con servitù composta di cocchiere, due cavalcanti, due servitori di livrea, un volante e più donne di servizio(12).

D’altra parte esistono edifici nobiliari dove l’uso del parapioggia è sui lati secondari. Si tratta di interventi collocabili nella seconda metà del ‘700 e caratterizzati dalla totale trasformazione delle preesistenze.

Gli esempi più eclatanti sono quelli di palazzo Doxi costruito intorno al 1760 dal clan dei Preite che nel decennio precedente, a partire dal 1748, era attivo nel cantiere del vicino palazzo del Seminario: se non ci fossero, in merito, documenti(13), il ricorso ai medesimi partiti formali testimonierebbe da solo la comune paternità progettuale.

L’altro esempio è rappresentato dal monumentale palazzo Romito, innalzato tra il 1751 e il 1770 dall’omonima famiglia di ricchi commercianti oleari di origine napoletana, forse su disegni forniti dall’architetto Emanuele Manieri(14), che qui declina ancora un linguaggio derivato dalle incisioni delle opere del Borromini: senza questi  illustri ascendenti sarebbe veramente difficile capire l’origine dell’alta capacità di caratterizzazione espressiva di alcuni particolari di questo palazzo com’è, sui lati, la fusione delle architravi curve di due finestre affiancate(15).

In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di opere ideate e realizzate da artefici esterni alla tradizione costruttiva di Gallipoli; si potrebbe così spiegare la totale assenza del parapioggia che dunque si configura, anche a questo punto della nostra analisi, come peculiare dell’architettura civile locale.

Siffatta peculiarità è confermata - diversamente da quanto accadeva per esempio a Lecce - dalla mancanza di rapporti tra architettura civile e architettura religiosa nonostante l’identità di maestranze e committenti: neanche nel più modesto edificio religioso, neppure in posizione defilata appare il parapioggia, neppure nella versione curva come appare in palazzo Zacheo.

E’ possibile storicamente determinare quando si fece ricorso all’uso del parapioggia?  In verità è più facile stabilire quando, invece, quell’uso fu negletto.

Non compare nel neoclassico palazzo Ravenna disegnato nella prima metà dell’800 dall’architetto gallipolino Gregorio Consiglio; non compare sulle ottocentesche facciate dei palazzi che si affacciano sulle riviere; non compare sull’edilizia del nuovo borgo realizzato a partire dalla seconda metà dell’800, lontano dal centro antico(16).

L’omologazione alle vicende nazionali dell’architettura, il ruolo delle nuove professionalità, accantonarono le tradizioni locali che sopravvissero soltanto nei piccoli edifici e in quelli rurali.

Si  trattò di un forzato mutamento del gusto che preferiva una lingua nazionale riconoscibile, determinando la scomparsa o la radicale trasformazione di secolari espressioni formali.

Fissato il suo declino - comune come vedremo ad altri elementi ar-chitettonici - cerchiamo ora di verificare la genesi del parapioggia. Ad un impianto urbano ancora profondamente medievale le cui caratteristiche notava già il Galateo al principio del ‘500(17), corrisponde un’edilizia che archi-tettonicamente parlando, nei suoi esiti più antichi è impossibile retrodatare alla prima metà del XVI secolo; lacerti di cornici e mensole su beccatelli ritenuti “medievali” si rintracciano in qualche angolo dell’abitato, ma si tratta chiaramente di residui di costruzioni che al massimo possono appartenere alla fine del XV secolo, come a questo periodo appartiene il più antico esemplare di arco acuto catalano-durazzesco, in corte Reggi.

Tutto questo dipende, ovviamente, dalle vicende storiche della città che nel corso dell’occupazione veneziana del 1484 sopportò un ennesimo, tragico saccheggio; così scrissero i cittadini di Gallipoli al re Ferdinando, per la concessione di grazie all’indomani del tragico evento: “...entrarono li nemici [veneziani], amazando et ferendo omne persona che trovavano et entrati posero detta città a sacco universalmente, non lassando cosa alcuna e quello non posseano tol-lere spaccavano et abru-sciavano... città ... quale tennero circa mesi quattro trattandoci come cani ... non meno posero a sacco la detta città, non solum dentro ma de fora... ruinando li muri...! et lo castello, tollendo le campane dell’ecclesie...(18).

Tragico evento che se non ebbe - probabilmente - le devastanti conseguenze dell’assedio angioino del 1268-69, quando la città venne quasi  completamente rasa al suolo, condizionò comunque un periodo di estrema precarietà nell’organizzazione del tessuto edilizio e nella struttura edilizia delle stesse abitazioni.

Nacque probabilmente in questo periodo,  la tipologia della casa-torre visibilissima ancora - ma in esiti pienamente cinquecenteschi - in tutto l’abitato (via Ferrai, via Contarini, via Bosco, via Fontò ecc.).

E della seconda metà del ‘500 sono alcuni grandi edifici che proprio per la loro dimensione  razionalizzarono i precedenti tracciati della città medioevale; è il caso del lungo prospetto di palazzo Balsamo (via A.De Pace, di fronte al Seminario e alla Cattedrale) ampliato nel 1781(19); del vicino palazzo Pirelli, proprio di fronte alla cattedrale e, come il precedente, provvisto di un robusto arco catalano-durazzesco(20), del palazzo d’Acugna ecc.

Del primo ‘600 è il palazzo Venneri. Su questo edificio, neppure sui lati secondari, si rintraccia l’uso del parapioggia; le aperture sono tutte realizzate secondo lo schema classico.

Ma c’è un esempio che può essere risolutivo della questione. Alla fine di via Ferrai, angolo con via Rosario, c’è un modesto esemplare di casa-torre cinquecentesco in parte conservato, in corrispondenza del civico 4; l’apertura a primo piano  ha subiìto un significativo intervento: tra il fregio e l’architrave tipicamente cinquecenteschi è stato incastrato un elaborato parapioggia tipicamente settecentesco.

Questo episodio rende visivamente chiara la riflessione che si è maturata nel corso di questa analisi:  il parapioggia  è un elemento che soltanto nel XVIII secolo ha avuto un’applicazione costante e tanto diffusa da promuoverlo  da semplice elemento funzionale ad autonomo particolare architettonico dalle spiccate valenze urbanistiche, capace di caratterizzare l’invaso spaziale della strada.

Che quest’osservazione sia veritiera risulta inoltre dalla diffusione di siffatto elemento all’interno dell’abitato della città storica. Questo è bipartito trasversalmente dall’unica arteria ad andamento rettilineo (via A.De Pace) da est ad ovest che, grossomodo, ritaglia due settori, quello di tramontana e l’altro di scirocco(21).  Ad una prima indagine la diffusione del parapioggia sembra uniforme, tuttavia la situazione è ben più complessa, e nel valutarla è necessario considerare più fattori, primo fra tutti il diffuso fenomeno di sostituzione edilizia che specialmente dalla seconda metà del XIX secolo ha interessato interi isolatie in modo particolare l’edilizia che si affaccia sul mare, completamente omologata, da un punto di vista formale, a quella che contemporaneamente nasceva  nel Borgo:  la prova più significativa dell’abbandono definitivo, almeno nell’edilizia di qualità, delle caratteristiche architettoniche tradizionali.

Ora, se il parapioggia, come singola unità architettonica significante, non compare nell’edilizia cinquecentesca - vedi, per esempio palazzo Balsamo su via De Pace - ed è bandito da quella ottocentesca - vedi il neoclassico palazzo Ravenna - ne deriva, come abbiamo già osservato, che la sua  utilizzazione e la sua diffusione si verificò nei due secoli barocchi(XVII-XVIII).  Di più. Il parapioggia non compare nelle ricostruzioni ex novo di edifici barocchi “aulici” sia pubblici che privati (il Seminario, palazzo Tafuri, palazzo Romito, palazzo Doxi ecc.).

La sua presenza, perciò, misura quelle porzioni di tessuto che non sono state interessate da questi fenomeni. Allora noi possiamo riconoscere nel settore a tramontana quello che, complessivamente riguardato, conserva meno testimonianze cinquecentesche che operazioni di sostituzione edilizia.

In altri termini, la maggiore o minore ricorrenza del parapioggia individua la presenza di maggiori o minori interventi edilizi sei-settecenteschi.

Una strada come via Ron-cella è stata chiaramente ristrutturata, nelle sue quinte edilizie nel XVIII secolo; lo stesso può dirsi per la parallela via Zacheo, con i suoi prolungamenti laterali di corte Patitari e di Corte S.Giuseppe, e questo fino a via Monacelle che si prolunga in via Presta.

Qui un’ariosa bifora indica la casa “borghese”(al civico 7) del borghese più importante della Gallipoli settecentesca, appunto Giovanni Presta (1720-17907), medico e scienziato(22).

La sua è la tipica abitazione altoborghese, a due livelli, spaziosa, con “officine” a piano terra e l’appartamento in quello superiore. Se l’esterno non presentava, come non presenta, particolari connotazioni formali, è l’interno invece a organizzarsi come quello degli interni aristocratici.

Vediamo perciò come appariva dai  documenti appena indicati. Morto ab intestato il 18 agosto 1797 nella sua abitazione alla “strada detta di S.Giorgio delli Venneri” (attuale Via Presta), gli eredi  procedettero il 13 settembre successivo all’inventario dei beni, cominciando proprio dalla sua residenza; qui nella “sala superiore” ritrovarono “12 quadri mezzani bislunghi di fiori e frutti...altri 7 quadri di carta piccoli...6 sedie indorate e parte colorate, una banca rotonda, un casciabanco...”; dopo la cucina, nelle due stanze a “mano destra della sala” furono inventariati “29 quadri grandi e 4 quadri mezzani di paesaggi; 4 piccoli con fiori, 13 tondini, otto quadretti alla cinese, 4 altri tondini indorati; due quantiere di legno alla cinese, 2 specchi grandi e 6 placche; 8 sedie alla cinese; un canapè, due boffettine indorate con la veste di pelle; un cantarano... con 15 bicchieri di cristallo, 10 chicchere”; nella stanza seguente “un quadro con la Coronazione di spine, un Crocefisso, S.Giuseppe, S.Vincenzo; due altri con S.Francesco di Paola e S. Francesco d’Assisi; la Salutazione dei Magi; 9 tondini con figure, 2 placche; la Vergine e S.Giovanni; 2 quadri mezzani; 13 sedie alla cinese e un orologio; questa era la camera da letto.

Nello studio c’erano  due quadri grandi, 6 tondini, “il ritratto del medico Ruberti, 2 quadri di fiori; 19 vasi di creta di tabacco(23).

Dal soggetto dei quadri si nota chiaramente come  fossero propri del gusto settecentesco; in questo  ci conforta un documento del 1761 dal quale si ricava che il “magnifico fisico Giovanni Presta” aveva incaricato il pittore di Gallipoli Gaspare Lenti “a fargli alcuni quadri”, come infatti furono eseguiti.

Dopo lo studio un’altra camera era arredata con “8 quadri grandi, 6 quadretti e 4 tondini”; nella “stanza laterale all’anticamera c’erano “6 quadri grandi, 4 quadri piccoli, 5 quadretti, 12 tondini, 3 specchi piccoli e 9 sedie indorate”; seguiva un camerino. Ma la parte più interessante era contenuta nelle “sette scanzie di libri” dello studio. Qui eranoi conservati oltre mille volumi che costituivano, probabilmente, la più importante biblioteca di carattere medico-scientifico di Terra d’Otranto; in gran parte, com’era ovvio, di medicina pratica, stampati tra il 1735 e il 1790; ma c’erano pure edizioni cinquecentesche come la Materia medicinale di Dioscoride nell’edizione veneziana del 1544. Il timore delle malattie veneree è testimoniato da un consistente nucleo di edizioni stampate nel XVIII secolo, nel quale non mancava uno dei testi sacri sull’argomento, la Lue aphrodisiaca del Boerhaave(25): nè mancava un Trattato delle scrofole(Napoli 1785), malattia endemica a Gallipoli; povera di letteratura, la biblioteca del Presta possedeva tutti i testi degli illuministi suoi contemporanei a cominciare da Filippo e Tommaso Briganti. In un ambiente e pian terreno funzionava un “trappeto alla genovese”.

Un aspetto che accomunava gli esponenti di questa classe a quella borghese aristocratica era il possesso del “casino di villeggiatura”. La ristrettezza del sito, le pessime condizioni igieniche, l’impossibilità, come in altri centri, di un giardino urbano, motivazioni economiche ecc., spinsero questi gallipolini a realizzare in campagna strutture residenziali di estremo prestigio.

Il fenomeno, già significativamente studiato(26), assunse nel XVIII secolo aspetti qualitativi e quantitativi mai raggiunti fino a configurarsi come fattore di distinzione cetuale.

E’ dichiarato infatti nel già citato documento dell’8 settembre 1790 come le “famiglie di antichi nobili padrizi...sono altresì tutte ab immemorabili provvedute di speciosi palagi... e di commodi casini di villeggiatura nel feudo della medesima città, nei quali annualmente si trasferiscono nei mesi di maggio ed ottobre, per respirar l’aere campestre(27).

Il casino del Presta era in località Camerelle, e risultava, come in parte si può vedere ancora, composto di numerosi ambienti, con cappella e “giardino serrato... con il cafeaus a poppa di nave che conduce ad un giardino di limoni(28).

In questo tipo di architettura rurale compaiono tutte le gerarchie architettoniche che invece abbiamo riscontrato in quella urbana.

L’unica differenza è soltanto d’ordine quantitativo e decorativo. In campagna saltano le convenzioni edilizie come momenti di differenziazione cetuale; e questo vale, come vedremo, anche nei piccoli centri dell’hinterland gallipolino( Alezio, Tuglie, Taviano ecc.).

Per esempio sulla facciata del piccolo castello di Tuglie, integralmente ristrutturato nella seconda metà del ‘700, fanno bella mostra di sè elaboratissimi parapioggia.

Ma il patrimonio immobiliare del Presta, la struttura interna degli ambienti, il loro arredamento, il rapporto di residenza urbana-residenza rurale ci spinge ad altre interessanti considerazioni.

Il Presta non aveva un oratorio privato che sembra appannaggio del ceto aristocratico, a differenza invece, delle cappelle rurali.

E intorno agli oratori privati, di cui possediamo un’ottima documentazione archivistica, lo spirito aristocratico  costruisce un altro simbolo del proprio status; privilegi, legati. officiature, cerimoniali e soprattutto l’esclusività dell’uso, ne fanno uno spazio architettonico tipico della residenza aristocratica.

La stessa dedicazione dell’edificio poteva legare l’oratorio al pantheon dei protettori civici.

La cappella rurale, aveva invece la sua principale ragione nel non pn privare “gli addetti al coltivo di territori ed al governo delle greggi” del conforto, almeno festivo della santa Messa, come testualmente dichiarava il 1782 il marchese Giuseppe Palmieri che intendeva innalzare un edificio del genere nella sua masseria “nominata l’Itri in tenimento della città di Gallipoli”(29).

1) Archivio di Stato di Lecce (ASL), notar Liborio Crusi, 40/22, Conventio del 20 giugno 1750 alle cc. 107t.-113r; su quell’edificio ubicato in via Bosco cfr. E.PINDINELLI, Architettura civile in Gallipoli tra nobiltà e borghesia, in AA.VV., Paesi e Figure del vecchio Salento, vol.III, a cura di A.De Bernart, Galatina 1989, p.263. L’immobile risulta quasi compiuto l’anno successivo: cfr. ASL, 40/22, atto del 24 aprile 1751.

2) ASL, 40/22, atto del 24 marzo 1753 alle cc. 143r.-147v.; l’edificio in questione,  un secondo Palazzo del capitolo, è in Via Briganti: sarebbe interessante studiare la tipologia di questi che sono, a quanto sembra, i primi edifici appositamente realizzati per essere dati in affitto; potrebbero essere gli antesignani dell’attuale edilizia economico-popolare. 

3) Cfr. E. PINDINELLI - M. CAZZATO, Civitas confraternalis cit., nell’introduzione, pp.81-84; si tratta del clan dei Preite, originari di Copertino. A loro spetta la costruzione - che documenteremo più avanti - del seminario sul quale cfr. V.LIACI, Un pò di storia, in “Annuario e calendario scolastico 1945-46”, integralmente riportato, senza citare la fonte, in  S. VERONA, Guida pratica. Gallipoli e i suoi monumenti, Gallipoli 1983, pp.37-42.

4) Sull’evoluzione e il significato di questo elemento architettonico cfr. A. COSTANTINI, La casa a corte nel Salento leccese, Lecce 1979.

5) E. PINDINELLI, Architettura civile cit., p.263 e fig.419.

6) Cfr., p.es., C. M. SALADINI, Gallipoli, nell’VIII volume dell’einaudiana “Storia dell’arte italiana”, Inchiesta sui centri minori, Torino 1980, pp.343-361. Bisogna notare, invece che un certo interesse sui parapioggia è in Vicoli e balconi, volume pubblicato nel 1990, a cura della Scuola Media Statale “E. Barba” di Gallipoli, con buona documentazione fotografica.

7) Cfr. G. LABROT, Palazzi napoletani. Storie di nobili e cortigiani 1520-1750, Napoli 1993, p.13 (specificatamente tutto il capitolo Un sistema gerarchizzato di dimore).

8) La questione, ben più vasta e che interessò anche la famiglia Pievesauli, è in ASL, 40/13, atto del 17 giugno 1717; alle due famiglie patrizie non fu però riconosciuto questo privilegio per cui le loro insegne rimasero “senza corone e senza elmo ma solamente collo scudo semplice, o ornamento che li spetta e compete, nell’istessa forma che stanno descritte l’imprese delle famiglie nobili nel Seggio di Nido nella fedelissima città di Napoli”.

9) Sul De Palma e sulla sua presenza a Gallipoli cfr. M. CAZZATO, Artisti alessanesi tra ‘700 e ‘800. Contributo alla storia civile e alla storia dell’architettura salentina in periodo tardobarocco, nel II vol. di  Oronzo Gabriele Costa e la tradizione scientifica ecc., Galatina 1993, pp.91-118. In un’opera recentemente pubblicata (Parabita. Memorie e sue antichità di Giuseppe Serino, a cura di A. D’Antico, Parabita 1998, p.54) è scritto che i mastri Giuseppe Negro e Paolo de Salve di Parabita costruirono il palazzo di Nicola Tafuri a Gallipoli.  Su questo palazzo, comunque, cfr. E. PINDINELLI, Architettura civile cit., p.271-72.

10) Su questo aspetto dell’architettura civile di Gallipoli cfr. Civitas Confraternalis cit. pp. 60-61.

11) Cfr. E. PINDINELLI, Architettura civile cit., pp.254-55.

12) Cfr. ASL, 30/35, atto dell’8 settembre 1790, alle cc. 54r.-61r., trascritto in Appendice. Questo è l’elenco delle famiglie nobili elencate nell’atto: Balsamo, D’Aprile, Rocci Cerasoli, Doxi Stracca, Muzi, Tafuri, Sergio, Coppola, d’Ospina, Grumesi, Serafini Sauli, Palmieri, De Tomasi, Aragona, Raymondo, Valentini, Frisulli, Monittola, Zacheo, Briganti, Castiglione, Pirelli, Vasquez d’Acugna, Margiotta, Martini, Patitari, Morelli, Tricarico, Mazzuci, Castriota, Stiso, Pizzarro, Pantaleo. Tutte sono indicate come “famiglie di antichi nobili patrizi”. La storia di alcune di queste famiglie è in V. TAFURI, Della nobiltà e delle sue leggi e dei suoi istituti nel già Reame delle Due Sicilie, con particolari notizie intorno alle città di Napoli e di Gallipoli, Napoli 1869 (parte III, da p.73).  Sulle vicende giudiziarie che contrappose il ceto borghese al patrizio sono riassunte in Civitas confraternalis, cit., pp. 15 e 52-53.

13) Per una storia della fabbrica del Seminario si offrono qui i primi dati documentari sulla sua realizzazione; le operazioni di ricostruzione hanno inizio nel 1748 quando l’arciprete di Gallipoli è nominato dal vescovo “deputato del nuovo seminario erigendo” (Cfr. ASL, 40/22, atto del 6 marzo) e in questa funzione acquista  un “comprensorio di case... nel luogo detto la strada di S.Agata che si va dalla pubblica piazza,,, confinanti con la sacristia della cattedrale”; l’anno successivo, l’11 aprile, si compra per lo stesso motivo il sottostante “basso lamiato per uso di bottega... dal chirurgo Giuseppe Martinez”; in entrambi i casi i “mastri apprezzatori” furono Tommaso Preite, fratello del più famoso Adriano, e Paolino Redi di Gallipoli (Cfr. ASL, 40/22, atto dell’11 aprile 1749, da c. 1342). Tommaso Preite operava a Gallipoli almeno dal 1739 , da quando cioè,  insieme al conterraneo Domenico Toma (coautore, il 1746, della torre dell’orologio) ebbe inizio “la nuova fabbrica... del signor don Giuseppe Grumesi, pubblico negoziante, ... nel luogo detto vicinato di S. Chiara”, (Cfr. 40/22, 1740, da c. 1v.; i due vi lavoravano da novembre del 1739); la prima pietra del Seminario fu posta il 16 marzo 1752 “da Monsignor Branconi... fatto a sue spese, parte dello spoglio del fu monsignor Pescatori che ascese in tremila e più ducati, e parte dell’intrate del lascio del quondam Biagio Sansonetti tesoriere di questa nostra cattedrale; fu fabbricato nel fondo delle case del suddetto D. Biaggio , e d’altre case ivi convicine di Oronzio Martinez comprate da detto vescovo... Lo suddetto Seminario fu compito nella fabbrica in aprile del 1756, ed in detto anno si fecero li due portoni venuti da Napoli, e si fecero le porte e finestre dal P.F. Francesco da Nardò de’ PP. Riformati; tutte le ferriate ed altri ferri per detto Seminario si fecero da mastro Cordella da Nardò qui accasato” (Cfr. Memoria dell’antichità di Gallipoli ecc. di Antonello ROCCIO (Trascritto e annotato dal parroco Occhilupo), manoscritto n.76 nella Biblioteca Provinciale di Lecce, f.92. Un atto rogato dal notaio Giuseppe Piccioli il 20.1.1759, assente il vescovo Brancone, riporta in dettaglio la descrizione dell’intero immobile con “nel terzo piano... in una camera... ritrovasi 4 porte una della cappella e tre delli cameroni tutte di noce interziate di marangia, e radica di noce con pomi, ò siano maniglie di ottone. Di poi nel refettorio con 5 mense di noce sedili e spalliere di noce con cornici e finimenti. L’antrone tutto guarnito di banchi con spalliere tinti verdi” (cfr. ASL, 40/27, 1759, fol.67).

14) Attribuzione già proposta in E. PINDINELLI, Architettura civile, cit. pp.267.68.

15) Più che alle incisioni dell’Opus architectonicum del 1725,  all’Opera del cavaliere F. Borromini cavata dai suoi disegni originali ecc., dello stesso anno; si veda la tav. XLIV.

16) Cfr. A. PERRELLA, Gallipoli. Vicende urbanistiche del “nuovo borgo”. Aradeo, 1993.

17) Nell’epistola Callipolis descriptio, del 1512-13, pubblicata, com’è noto, nel 1558 sui cui modelli cfr. M. CAZZATO, La tarantola, l’Alberti e il Galateo, Lecce 1996.

18) Cfr il diploma del 9 dicembre 1484, nel Libro rosso di Gallipoli, trascritto da G. BARLETTA, negli  Atti del Congresso nazionale su “La presa di gallipoli del 1484 ed i rapporti tra Venezia e Terra d’Otranto”, Bari 1986, pp. 197-202, già pubblicato, tuttavia, da C.MASSA, Venezia e Gallipoli ed altri scritti, n. ed., Gallipoli 1984, pp.164-70.

19) Cfr. E. PINDINELLI, Architetura civile cit., pp.246-48.

20) Anche quest’edificio fu ristrutturato verso la metà del XVIII sec.; cfr. Architettura civile cit., pp.249-251

21) E’ la strada maestra del Castiglione (1853), ovvero “la strada principale” che “s’inoltra nella piazza di S.Agata, ornata di buoni edifizi”, di L.Riccio (Descrizione istorica della città di Gallipoli, manoscritto elaborato tra primo e secondo decennio del secolo,  più volte edito).

22) Sul Presta è ancora fondamentale il profilo pubblicato da A.VALLONE, in Illuministi e riformatori salentini. T. e F. Briganti e altri minori, Lecce 1983, pp.471-507.

23) Il Ravenna in Memorie istoriche cit., documenta l’interesse del Presta per la coltura del tabacco. In totale la biblioteca era composta di 595 opere per un totale di 1124 tomi. Tra queste 76 erano le cinquecentine, 44 le secentine e 452 le edizioni contemporanea al Presta.

25) Precisamente: E. BOERHAAVE, Tractatus medico-practicus de lue aphrodisiaca, continens huius affectionis, ecc., Venezia, 1765

26) Cfr. Guida di Gallipoli. La città il territorio l’ambiente, Galatina 1992, specialmente i saggi di A. COSTANTINI su “I dintorni di Gallipoli” da p. 103; dello stesso autore cfr. Guida alle ville del Salento, Galatina 1993, specialmente il cap. “Casini e ville dell’area di Gallipoli”, da p. 129.

27) ASL, 40/35, atto cit. a cc. 60r.-60v.

29) Cfr. M.CAZZATO, Artisti alessanesi tra ‘700 e ‘800, in Alessano alla fine dell’antico regime, vol.II, Galatina 1993, documento riportato alle pp. 112-113