CAPITOLO SECONDO
Politeismo
e monoteismo
Premessa
Se nel capitolo
precedente abbiamo esaminato il tema della
religiosità sotto il profilo
antropologico, etnologico e sociologico,
e quindi in riferimento a quelle
società umane dove è ancora possibile (o
lo è stato fino a tempi recenti) un
indagine di questo tipo, ci occuperemo ora
di quelle società dell’area
circum-mediterranea che sono state la culla
di quella cultura di cui si ritiene
depositariop il mondo occidentale in generale
ed europeo in particolare.
Cultura che si è espressa nei grandi imperi
mediorientali, nella cultura
ebraica, in quella ellenica ed infine in
quella romana. Lo studio che qui
svilupperemo costituisce il sottofondo su
cui si innestano i capitolii III e IV
e si articolerà nei paragrafi seguenti: 2.1)
Gli dèi nell’area
circum-mediterranea pre-neolitica, 2.2) Il
paganesimo. Eclissi del sacro e
aurora della poesia, 2.3) I concetti di “dio”
nella filosofia antica, 2.4)
Pluralità di dèi naturalistici, dio supremo,
Dio unico, 2.5) Homo religiosus
e homo ateus.
2.1 Gli dèi nell’area circum-mediterranea
pre-neolitica
È molto
difficile poter affermare che nel mondo antico
(e a maggior ragione in quello
preistorico) siano state le condizioni di
vita a determinare le credenze
religiose o viceversa, è tuttavia certo che
sia esistito (come d’altra parte
esiste sempre nelle culture arcaiche) un
rapporto più o meno stretto tra la
religione di un popolo e le caratteristiche
del territorio sul quale esso è
installato (includendovi ovviamente mezzi
di sussistenza e clima) [1]. Così, per una popolazione montanara è
probabile che gli dèi più importanti abitino
le cime e i boschi, per una di
pianura i fiumi e i campi, per una costiera
il mare e i venti; analogamente, la
mitologia ellenica (che è quella meglio documentata)
presenta nelle sue
leggende regionali [2] la presenza
attiva di divinità che riflettono abbastanza
bene (a latere delle
vicende epiche che li costituiscono) anche
gli aspetti naturali dei contesti
abitativi e di sussistenza. Occorre però subito aggiungere che non minore
importanza hanno assunto le vicende storiche
nella formazione delle singole
religioni, se non nella loro nascita certamente
nei loro sviluppi, e che esse,
in qualche caso (come quello di Israele),
siano diventate fattore assolutamente
determinante [3].
È piuttosto
probabile che le società mediterranee e circum-meditteranee
in epoca
paleolitica presentassero, anteriormente
all’avvento dell’agricoltura estensiva
(X-IX millennio a.C.), caratteristiche non
del tutto dissimili da quelle delle
società arcaiche attualmente oggetto delle
ricerche etnologiche ed
antropologiche. E tuttavia si deve logicamente
presumere che la loro cultura di
partenza presentasse, fin dall’inizio, delle
caratteristiche di dinamicità che
appaiono perlopiù assenti nelle società che
abbiamo chiamato arcaiche. Le
quali, per un verso (nella loro rigidità)
sembrano non andare soggette ad
evoluzioni di sorta e per un altro, purtroppo,
risultano facilmente
corruttibili appena vengono a contatto con
culture più evolute, forse perché
risultano mancanti di una struttura ideologica
sufficientemente forte da
resistere alle influenze culturali di conquistatori
o colonizzatori [4].
Va però precisato che la nostra è una semplice
supposizione, basata su elementi
storiografici approssimativi, e che non siamo
in possesso di alcun elemento
veramente attendibile che ci permetta di
stabilire paralleli tra una fase non
documentata dell’evoluzione delle società
europee e mediorientali e la fase
attuale delle società arcaiche, nelle quali
(come abbiamo visto) predomina una
rigorosa immobilità nella continuità.
In base a
riferimenti di tipo linguistico, a qualche
notizia storica e ad abbastanza
numerosi reperti archeologici, sembra legittimo
dedurre che le religioni
neolitiche del contesto europeo e circum-mediterraneo
sarebbero ascrivibili a
due gruppi macro-etnici principali (dei quali
non esistono peraltro che
elementi molto generici di definizione),
quello mediterraneo-semitico e quello
indoeuropeo. Dalle interazioni tra questi
due gruppi, peraltro non ben
definiti, sono nate tutte le religioni che
intendiamo qui prendere in
considerazione. D’altra parte, i nomi divini
nelle varie religioni afferenti un
certo gruppo linguistico, rilevati talvolta
in aree abbastanza lontane, sono
etimologicamente molto vicini tra loro e
riferibili a connotazioni piuttosto
simili, come nel caso dell’accadica Ishtar
e della fenicia Astarte, oppure come
nel caso del sanscrito Dyaus-Pitar, del greco
Zeus e del latino Juppiter, che
derivano da una radice indoeuropea comune
(riferibile al mondo indiano, iranico
ed europeo) [5].
Ricordiamo che
all’ultimo periodo paleolitico (13.000-15.000
a.C.) risalgono le prime pitture
rupestri rinvenute in diverse località dell’Europa,
uniche testimonianze
culturali dell’epoca, le quali vengono interpretate
come espressioni di un magismo
afferente la caccia. Esse ci rinviano a una
situazione religiosa probabilmente
abbastanza simile a quello che modernamente
viene definito sciamanesimo.
Nella più tarda epoca mesolitica (10.000-3.500
a.C.) le comunità
circum-mediterranee, che fonderanno in seguito
le grandi civiltà agricole entro
e attorno le fertili pianure tra il Tigri
e l‘Eufrate e nella valle del Nilo,
si caratterizzano già per l’uscita dalla
condizione di sussistenza tipica della
precedente epoca paleolitica, quella resa
comunemente col termine “di caccia e
raccolta”. Condizione, questa, connessa spesso
ad un nomadismo di necessità,
determinato dalla mancanza, per ragioni climatiche
(periodiche) o per ragioni
di esaurimento (definitive) di risorse di
sussistenza animali e vegetali costanti
e sicure [6].
Una fase
leggermente più evoluta della condizione
umana di “caccia (o pesca) e raccolta”
è quella caratterizzata dallo sviluppo di
una rudimentale orticoltura e di
un’iniziale addomesticamento ed allevamento
di alcuni animali; attività
afferenti le cosiddette società agro-pastorali
[7].
Queste attività, più o meno localizzate in
aree definite e recintate, dovettero
coincidere con le prime scoperte relative
alle leggi biologiche concernenti il
mondo vegetale e animale. Esse possono essere
considerate quindi forme aurorali
di riflessione scientifica, o per lo meno
tecnologica, ma va tuttavia rilevato
che esse sono presenti, in forme più o meno
evolute, anche in quelle società
contemporanee che abbiamo definito arcaiche
[8]. A tale epoca l’homo sapiens aveva già
cominciato ad abbandonare le caverne e i
rifugi naturali ed aveva iniziato a
costruire approssimative e precarie strutture
di abitazione, circondate o meno
di una recinzione per proteggersi dalle fiere
e dai nemici [9].
Ma va sottolineato che in tale epoca non
mancano neppure esempi di edilizia
megalitica, e quindi assai stabile, che sono
stati verosimilmente costruiti a
scopo di difesa contro aggressioni da parte
di comunità nemiche. Ciò testimonia
l’esistenza di conflitti tra differenti gruppi
sociali o popoli e alla
probabile presenza di gruppi particolarmente
aggressivi da cui difendersi,
forse dediti alla sistematica razzia [10]delle
provviste di comunità diventate più ricche
grazie alla fertilità della terra o
alla laboriosità dei suoi componenti. Tra
queste costruzioni vanno ricordate
almeno le imponenti mura di Gerico, attribuibili
ad un periodo collocabile tra
l’8.000 e il 6.000 a.C.
Ad un epoca tra
il 9.000 e l’8.000 a.C. sono riferibili in
Anatolia, Palestina, Irak, Siria ed Iran
i primi insediamenti umani “fissi”, nei quali
è possibile intravedere ambienti
espressamente adibiti a scopi religiosi,
senza essere riusciti ad avere alcuna
informazione concernente i culti in essi
praticati. Ad un epoca successiva
(6.000 a.C.) vanno ascritti grandi insediamenti
urbani come quello di Çatal
Hüyük (Anatolia centrale) dove è già dato
trovare l’esistenza dei riti funerari
e di una vera e propria sala-santuario, nella
quale risulta desumibile il culto
del toro e di una primitiva dea-madre (questa,
probabilmente, residuo cultuale
di epoche precedenti). Ma è in Mesopotamia
dove risulta meglio testimoniata, in
un periodo più tardo (IV millennio a.C.),
la comparsa di attività agricole
estensive e la costruzione di villaggi di
dimensione ragguardevole, con la
costituzione di comunità che potevano raggiungere
anche le mille unità ed a
capo delle quali veniva insediato un re.
Accanto a questo, che esercitava il
potere profano, vi era sempre anche un sommo
sacerdote, quale ministro di un
culto spesso molto ben strutturato e organizzato,
il quale operava con rituali
istituzionalizzati ed assai più definiti
e cogenti di quanto potesse fare lo
sciamano delle fasi precedenti. Sciamano
che era spesso anche il capo-branco
del gruppo umano, e che quindi si presentava
soltanto come un primus inter
pares, vale a dire un componente della comunità
accreditato di
poteri speciali e investito di compiti di
guida e comando sugli altri, pur
rimanendo, sostanzialmente, allo stesso livello
sociale dei suoi compagni.
Con l’avvento
dell’agricoltura avanzata la struttura sociale
muta però in modo decisivo,
anche perché la coltivazione estensiva richiede
molta mano d’opera che va
controllata e guidata da strutture di potere
forti e cogenti. Sorgono pertanto
agglomerati estesi e molto popolosi, vere
e proprie città-stato, nelle quali
i sacerdoti e i re si collocano ad un
livello sociale infinitamente più elevato
rispetto ai normali cittadini, in
quanto legittimi rappresentanti delle divinità
(e in molti casi essi stessi
divinizzati) [11]. Con tali
nuove strutture sociali comincia a instaurarsi
un rapporto di sudditanza tra il
vertice e la base, accanto al quale si va
sempre più sviluppando la schiavitù
di soggetti estranei al gruppo, prigionieri
o comunque assoggettati attraverso
operazioni belliche e di conquista, utilizzati
come mezzi di lavoro allo stesso
titolo delle bestie da soma. È come conseguenza
dell’assetto rigorosamente
gerarchizzato di tali società, a carattere
prevalentemente teocratico, che la
struttura del “divino” si modellerà sul sistema
sociale (più o meno nei termini
posti da Durkheim) con un pantheon caratterizzato dalla prevalenza di un
dio su tutti, normalmente uranico, quale
“essere supremo”. È abbastanza
probabile che l’instaurazione delle teocrazie
mesopotamiche corrisponda al
passaggio concettuale e cultuale dalla femminilità
dell’essere supremo, la Dea
madre terrena, alla mascolinità del Dio-padre
celeste, padrone del mondo e del
destino degli uomini, temibile per il suo
potere di infliggere punizioni
meteoriche e telluriche.
Lo scenario
storico che si presenta nell’area circum-mediterranea
(Mesopotamia, Anatolia,
Egeo, Palestina, Creta ed Egitto) alla fine
del mesolitico risulta quindi già
caratterizzato dal prevalere delle divinità
uraniche e dall’eclissi del culto
principale della Dea Madre, che sopravvive
in figure spesso collaterali
all’essere supremo (che è sempre celeste
e sempre maschio [12])
come la babilonese Tiamat, la siriaca Atargatis e la fenicia Anath.
Ma
si verificano anche vere e proprie palingenesi
della Dea Madre in figure più
complesse, come l’accadica-babilonese Ishtar,
signora delle stelle e degli
inferi, dea dell’amore, della fertilità e
del piacere. E tuttavia, in epoca
mesolitica (ultima metà del II millennio
a.C.), è dato rilevare anche qualche
dominio religioso “a coppie”, dove gli esseri
supremi sono uno maschile e uno
femminile, come nel caso della coppia sumerica
costituita da An (cielo)
e da Ki (terra), nella quale si coglie tuttavia ancora
la presenza della
Grande Madre nella figura di Nammu, che è
la loro comune progenitrice. Ma nella
successiva epoca neolitica vanno sempre più
prendendo il sopravvento i supremi
dèi del fulmine e del tuono, della tempesta
e dell’uragano: il sumero Enlil,
l’hittita Tesup, il cananeo Baal e il giudeo Jahvè, il quale
assumerà anche un super-ruolo di creatore
ex nihilo del cosmo, che
sul piano dottrinario risulterà convincente
e determinante per il suo
affermarsi, anche fuori dei confini storici
del mondo ebraico.
2.2 Il paganesimo. Eclissi del sacro e aurora
della poesia.
Allo scenario
teocratico instauratosi in Mesopotamia, in
Egitto e più tardi in Palestina,
rimarrà completamente estraneo il mondo ellenico,
il quale, a partire dal II
millennio a.C., elaborerà invece la sua religiosità
in direzione completamente
diversa, attribuendo caratteri divini al
mondo naturale nei suoi vari aspetti,
attraverso la invenzione di una moltitudine
di dèi con ben poco di spirituale e
con diverso rango e collocazione, dando così
luogo a un politeismo composito e
multiforme, spesso caratterizzato da processi
mitici di metamorfosi o di
suddivisione/condensazione. Ma la caratteristica
più straordinaria e importante
di tale politeismo è certamente la sua prevalente
antropomorfizzazione: ogni
elemento, forza od aspetto della natura viene
divinizzato in forme antropomorfe
nei ranghi superiori (dèi olimpici) ed in
forme antropomorfe-teriomorfe (anche
con metamorfosi verso il mondo vegetale)
nei ranghi inferiori.
Tale sistema
politeistico naturalistico, fortemente antropizzato,
ha dato così luogo a
quella forma di religione (peraltro molto
simile a quella del mondo latino) che
è stata chiamata in seguito paganesimo. Un’esplosione di fantasia
creativa e poetica che darà luogo, attraverso
la scrittura e le arti manuali, a
una straordinaria fioritura letteraria e
artistica che attraverserà tutto il
primo millennio a.C. e che lascerà all’umanità
un patrimonio culturale
ricchissimo e multiforme. Una forma di religione
che per quello che potremmo
chiamare il suo “basso contenuto di spiritualità
e trascendentalità” ha potuto
essere fonte dello scatenamento della creatività
umana, avendo per contro uno
scarsissimo riscontro fideistico nella coscienza
del pagano in genere. Sarà
questa la ragione per cui, perdute le
ingenuità fideistiche iniziali, finirà per
diventare soltanto una religione
“civica”, di carattere eminentemente formale.
La struttura
mitica di tale religione compare per la prima
volta in forma scritta nell’Iliade
omerica, ma è con Esiodo che si procede alla
sistematizzazione cosmogonica e
genealogica dei vari miti esistenti [13].
Una religione, quindi, caratterizzata da
una struttura fortemente pluralistica
e da una grande complessità rappresentativo-narrativa,
la quale, per la sua ricchezza
poetica e per la sua corrispondente debolezza
ideologica, non poteva che cedere
il passo alla potente struttura concettuale
e salvifica offerta da un
Cristianesimo strutturato e modellato dalle
Lettere paoline e arricchito dagli
apporti filosofici di grandi e coltissimi
teologi come Giustino, Clemente,
Origene ed Agostino.
Di fronte agli
straordinari sviluppi del messaggio cristiano-paolino,
ad un coerente sistema
ideologico costruito a suon di concilii,
ad una accattivante escatologia
salvifica, il mondo pagano manteneva ancora
i suoi principali riferimenti nei
poemi epici e cosmogonici di poeti vissuti
tanto tempo prima. Recita la Teogonia
di Esiodo:
Dunque, per primo fu Chaos, e
poi
Gaia dall’ampio petto, sede
sicura per sempre di tutti
Gli immortali che tengono le
vette d’Olimpo nevoso,
E Tartaro nebbioso nei recessi
della terra dalle ampie strade,
poi Eros, il più bello fra gli
dèi immortali,
che rompe le membra, e di tutti
gli dèi e di tutti gli uomini
doma nel petto il cuore e il
saggio consiglio.
Da Chaos nacquero Erebo e nera
Nyx.
Da Nyx provennero Etere e Hemere
Che lei partorì concepiti con
Erebo unita in amore.
Gaia per primo generò, simile a
sé,
Urano stellato, che l’avvolgesse
tutta d’intorno,
che fosse agli dèi beati sede
sicura per sempre. [14]
Esiodo pone Caos (il vuoto primitivo) all’origine
del
mondo, da cui nasce (prima divinità in assoluto)
Gea, la terra, da cui si
staccò poi il Tartaro, quindi Eros, la forza
attrattiva che unisce, che genera
il tutto e che “rompe le membra” (e di cui
Saffo dirà “che squassa l’anima”) [15]
. È importante notare che il caos esiodeo
non è identificabile col disordine,
con cui più tardi verrà ad indentificarsi,
bensì con una voragine immensa, sede
di un puro nulla, ma che in quanto tale contiene
la forza della generazione del
“tutto”. Poi sorgono a poco a poco l’Erebo,
il crepuscolo, e la Notte, quindi
Etere (pressappoco: la luce diffusa del cielo)
e il Giorno. Poi Gea genera
Urano (il cielo), il Ponto (il mare) e le
montagne.
È veramente
straordinario come fino a questo punto l’universo
religioso greco, ormai
completo in ogni sua parte, manchi completamente
di entità divine vere e
proprie, portanti i significati e i connotati
che caratterizzano la sfera del
sacro in tutte le altre religioni storiche
[16].
Non lo è il Caos, un puro nulla, e non può
esserlo Gea, una materia solida, che
da esso si è generata, e tanto meno l’Erebo,
concernente “il profondo” fisico.
Forse potrebbe esserlo Eros, ma Esiodo non
dice altro su di lui, e naturalmente
non possono esserlo il giorno, la notte,
il cielo e il mare. Ma in seguito
cominciano i connubi e allora Eros viene
implicitamente coinvolto quale causa
prima generativa e creativa. Così Gea si
unisce ad Urano e ne nascono i Titani,
i Ciclopi e gli Ecatonchiri (i giganti dalle
cento braccia). Queste tre
categorie di giganti primordiali sono i primi
esseri con caratteri antropomorfi
e quindi potenziali progenitori sia degli
uomini che degli dèi. Ma solo i primi
sono prolifici poiché si presentano come
costituiti da coppie sessuate: infatti
si tratta di sei maschi e di sei femmine.
Così Oceano si accoppia con Teti e ne
nascono le Oceanine, Iperione (dio della
luce) e Thea (l’irradiante) da cui
nascono le tre fonti di luce, poi Elio (il
sole), Selene (la luna) e Febe (il
firmamento), infine Leto (la notte buia)
e Asteria (la notte stellata).
Nel citato incipit
di Esiodo vi è probabilmente il tentativo
di mettere, all’alba del VII
sec.a.C., un po’ d’ordine nei poliedrici
miti cosmogonici ellenici, integrando
in qualche modo il panorama omerico, il quale
(data la natura epica dell’Iliade
e dell’Odissea), aveva portato sulla scena dei superuomini
divini
capricciosi e rancorosi, da blandire e placare,
a fronte della loro possibilità
di agire sui destini e sulle vicende degli
uomini. Il fatto che in Esiodo le
prime divinità siano in realtà delle entità
fisiche rivela una concezione del
mondo in cui gli dèi non sono altro che degli
abitanti del mondo visibile, così
come lo sono gli uomini, se pure ad un livello
superiore di natura e di potere.
La Teogonia appare quindi come un poema essenzialmente
irreligioso nel
senso moderno del termine, all’interno del
quale le uniche entità divine a cui
il poeta appare devoto sono le Muse, alle
quali chiede ispirazione.
Come si è detto,
prima di Esiodo, lo ionio Omero aveva già
reso un’immagine prevalentemente
antropomorfa della divinità, la quale, rispetto
ad una concezione più sacrale
di essa, non può che essere considerata decisamente
irriverente e persino
blasfema. L’Iliade ci rappresenta un coacervo olimpico diviso
in
fazioni, prevalentemente impegnato a combattersi
e a combattere a fianco di
Achei e Troiani a causa di una poco commendevole
(e terrena) “questione di
corna”, in seguito alla quale il marito offeso
Menelao scatena una guerra
perché il troiano Paride gli ha portato via
la moglie dopo averla sedotta.
Così, in termini ben poco “divini” si pongono
anche i coniugali battibecchi tra
la gelosa Hera e il sommo (e donnaiolo) Zeus.
Si lagna la moglie già tradita e
che teme un nuovo tradimento:
[…] Or grave un dubbio mi
molesta il core,
che Teti, del marin vecchio la
figlia,
non ti seduca; ch’io la vidi, io
stessa,
sul mattin arrivar, sederti
accanto,
abbracciarti i ginocchi […]
E a riscontro il signor delle tempeste:
Sempre sospetti, né celarmi io
posso,
spirto maligno, agli occhi tuoi.
Ma indarno
la tua cura uscirà, ch’anzi più
sempre
tu mi costringi a disamarti, e
questo
a peggio ti verrà. S’al ver
t’apponi
che al ver t’apponga ho caro. Or
siedi, e taci,
e m’obbedisci; ché giovarti
invano
potrìan quanti in Olimpo a tua
difesa
accorresser Celesti, allor che
poste
le invitte mani nelle chiome io
t’abbia.
Il padre divino, colto con le mani nel sacco,
non trova di
meglio che far uso della sua autorità maritale,
aggiungendovi la minaccia e
costringendo la moglie al silenzio:
Disse; e chinò la veneranda Giuno
I suoi grand’occhi paurosa e
muta,
e in cor premendo il suo livor
s’assise, […] [17]
Da poche
battute si evince subito come la base letteraria
della religione greca sia, nei
termini già enunciati, eminentemente “irreligiosa”
(soprattutto se confrontata
con quella ebraica ad essa contemporanea)
e si manifesta attraverso la libera
creazione dei miti e la loro tematizzazione
da parte dei poeti (e non già dei
profeti) che li testimoniano e nello stesso
tempo li rivificano e li ricreano,
in un processo continuo e mutevole che genera
una poesia che si espande e si
riconcentra, per riprendere sempre il suo
cammino nel regno della fantasia. Ma
ciò avviene anche attraverso l’accoglimento
di favole relativamente
“straniere”, che vengono integrate e razionalizzate
in racconti coerenti e
significativi, fino a dar luogo (attraverso
un procedimento di assimilazione ed
proliferazione) a una miriade di entità divine
che afferiscono praticamente
ogni elemento del mondo ed ogni suo aspetto,
ogni area del mondo conosciuto o
fantasticato, collocate in un divenire mitico
che parte dalle origini e giunge
al presente. In questa frammentazione-effusione
della divinità viene perso,
seppure poteva qua e là esserci, ogni elemento
di trascendentalità e tutto
l’insieme pluralistico delle entità divine
viene ad identificarsi con la
poliedrica immanenza delle forze e degli
aspetti della natura secondo una
collocazione topologica definita. È difficile
quindi non cogliere la differenza
abissale che separa questo tipo di religione,
che in quanto libera poesia della
natura e non chiusa ideologia del divino
renderà possibile la nascita della
scienza, rispetto al mito chiuso e trascendentalistico
che ci riporta la Genesi
biblica («In principio Dio creò il cielo
e la terra […]».
Il mondo
politeistico ellenico, nel suo riferirsi
ad aspetti definiti del mondo reale,
risulta pertanto suddiviso in vari contesti:
ctonio (sotterraneo), terrestre,
marino, celeste. Anche ad Oriente, nel mondo
iranico e in quello indiano, si
possono ravvisare caratteristiche simili,
sia pure con debite differenze
imputabili a ragioni storiche o forse anche
di carattere geografico e
climatico. Là, però, vi sarà un’evoluzione
in direzioni specificamente
mistiche, dalle quali il politeismo greco
resterà invece lontano, ma con
l’eccezione dei culti misterici orfici ed
eleusini. Tutto il coacervo di entità
naturali divinizzate viene inserito all’interno
di una lussureggiante
mitologia, complessa struttura narrativa
dell’immanenza che determina (almeno
fino all’epoca classica) strutture variabili
di credenza, sulle quali riposerà
l’identità di quei gruppi umani definiti
e riconosciuti che sono le polis.
Il mito si presenta anche qui come storia
“reale” e ritualmente ripetibile
della nascita della comunità o del mondo
stesso, con cui essa si identifica o
del quale si considera comunque al centro.
Si tratta di una fase culturale
assai simile a quello delle nostre contemporanee
culture arcaiche, in cui
l’uomo vive di un eterno presente, in cui
muore e rinasce insieme con la
vegetazione, secondo un ritmo scandito solamente
dalle fasi lunari o dalle
stagioni, ma vi si contrappone per una dinamicità
intrinseca dovuta al pensiero
filosofico e scientifico che vi si accompagna,
che è per contro totalmente
assente nelle società “strutturalmente” caratterizzate
da una cultura di tipo
arcaico. Sono infatti gli sviluppi, e non
l’origine comune, a determinare la facies
culturale che ogni singolo contesto umano
presenta.
Nella complessa
personalizzazione e definizione di aspetti
o forze del mondo visibile e della
natura il fulmine e il tuono diventano Zeus,
i flutti marini Posidone, i venti
Eolo, il sole Apollo, la luna Artemide, ecc.,
con la costituzione di gerarchie
sostanzialmente analoghe a quelle di altri
contesti del mondo mediterraneo ed
europeo, dove però la sacralità è molto più
spiccata. A questo pantheon
primario e principale si affiancano numerosissime
altre entità extra-umane o
sovra-umane, che vanno dagli spiriti della
foresta (satiri e naiadi) a quelli
delle acque (tritoni, oceanine, ninfe, ecc.).
In questo scenario vi è anche una
sorta di stratificazione in base alla quota,
o per meglio dire in base alla
presenza più o meno ravvicinata della divinità
all’uomo che la pone: le deità
terresti e quelle marine, in quanto più vicine
all’uomo, sono di rango
inferiore, quelle uraniche (celesti) stanno
più in alto e quindi si collocano
ad un livello ontologico-religioso più elevato.
A questo proposito va osservato
che tale gerarchizzazione sembra confermata
a livello antropologico generale e
ciò spiega perché quasi in tutti i contesti
le divinità celesti siano sempre
ritenute di rango più elevato rispetto alle
altre ed abbiano sede nel cielo
oppure, come nel caso del Tien cinese, con
esso si identifichino.
Il mondo
neolitico circum-mediterraneo però presentava
già una base politeistica
autoctona molto ricca, su cui poteva innestarsi
e fondersi l’apporto indoeropeo
(l’invasione dei Dori sarebbe avvenuta intorno
al 1200 a.C.) dando così luogo
ad un panorama politeistico di tale ampiezza
da riuscire a contare centinaia di
tipologie divine. Nasce pertanto il problema
euristico di districarsi tra
evoluzioni, corrispondenze, sovrapposizioni,
in contesti differenti o in
differenti epoche di uno stesso contesto.
Secondo Fritz Graf già nel III
millennio a.C. e quindi nei territori d’origeine,
esiste, molto prima della
fioritura micenea, un corpus di miti indoeuropei relativamente omogeneo
[18].
La mitologia greca nella sua forma più evoluta
e complessa, tuttavia, quale
frutto sincretico e armonico di preesistenti
miti [19]
e di nuovi apporti dei popoli nomadi invasori,
è caratterizzata da una sua
particolare e specifica dinamicità, tutta
ellenica, che determina un arricchimento
continuo di nuovi aspetti narrativi e poetici
[20].
Questo carattere della mitologia greca, che
pone seri problemi interpretativi
agli studiosi del settore offre tuttavia
uno scenario di estrema variabilità,
quasi che le credenze religiose politeistiche,
basate su miti in relativa
evoluzione, abbiano potuto seguire nei vari
contesti i mutamenti sociali,
politici e culturali dei popoli che ne erano
interpreti e depositari. Ciò offre
al ricercatore spunti d’indagine assai interessanti,
soprattutto ove si
confronti la mitologia politeistica, poeticamente
e narrativamente pluralistica
e dinamica, con il contemporaneo monotesimo
giudaico, quale religione rivelata
una volta per tutte, ferma alla lettera dei
testi sacri, bloccata nei suoi miti
e nei suoi dogmi. Ciò è con tutta probabilità
imputabile al fatto che, seppure
ogni comunità del mondo ellenico avesse in
illo tempore elaborato una
“propria” mitologia, man mano che avvenivano
fusioni politiche tra più comunità
si verificava l’allargamento del pantheon comune, allo scopo di
comprendere democraticamente tutto l’apparato
religioso concernente classi di
individui di varia estrazione e appartenenti
a comunità molto differenti, ma
tutte confluenti nella più vasta koinè culturale che si determinerà
successivamente, con le conquiste di Alessandro Magno.
Ma va ancora notato un altro aspetto: essendo
gli dèi
arcaici quasi sempre espressione di un’identità
etnica, quindi in un certo
senso degli dèi “nazionali”, si venne a determinare
più tardi (con la già
citata conquista di Alessandro) una tale
pluralità e complessità del mondo
religioso antico da renderlo, infine, “inconsistente”;
e ciò proprio a causa
della sua abbondanza e della ridondanza conseguente,
il ché costituisce
un’importante concausa del crollo del politeismo
e dell’affermazione del
monoteismo. Ma ciò avvenne anche per l’eccessivo
formalismo assunto dalla
religione classica, quale affermazione di
un puro ritualismo cerimoniale che il
cittadino (indipendentemente dalle sue credenze)
era tenuto ad osservare e
praticare in circostanze determinate, pena
l’incorrere nei rigori della legge.
Ciò risponde, a grandi linee, all’esigenza
conservativa teorizzata della scuola
etnologica francese, e segnatamente da Durkheim,
che ha identificato nella
società stessa l’essenza della sacralità,
in quanto “forma” protetta dell’unità
e identità sociale stessa. D’altra parte,
la condanna di Socrate per empietà è
un caso classico di uso della religione per
fini politici. L’avvento quindi di
una religione soteriologica fortemente ideologizzata,
che privilegia l’intimità
e il rapporto diretto uomo-Dio (come si dà
nel Cristianesimo), appena vinte le
resistenze del potere costituito, non poteva
che spazzare via un politeismo
diventato ormai metafisicamente tanto fragile
e inconsistente da diventare
estraneo alle coscienze [21].
Successo, quello della religione cristiana,
che si trasformerà in vero e
proprio trionfo, quando, superato il periodo
in cui era stata alternativamente
tollerata e combattuta (nei primi due secoli
della nostra éra), essa verrà poi
adottata (e per motivi eminentemente politici)
dallo stesso potere imperiale [22].
È sullo sfondo
di una religiosità così debole e di una fantasia
poetica così fervida che è
possibile un orizzonte religioso decisamente
anomalo, tanto blasfemo e
irriverente da caricare gli dèi olimpici
dei vizi più frequenti nei comuni
mortali: l’avidità, l’egoismo, l’ambizione,
l’invidia, l’adulterio, la
lussuria, la vendicatività [23].
Zeus è infatti un dio-padre rancoroso e vendicativo
come può esserlo soltanto
un patriarca privo di etica e dedito solamente
alla conservazione del suo
potere. Ed è solo da una religiosità
così “irreligiosa” e priva di struttura ideologica
che poteva nascere una
filosofia come quella di Talete, che sottraeva
al “sacro” il principio
dell’universo per conferirlo al “fisico”,
e con essa una poesia come quella di
Alceo e di Saffo, una scultura come quella
dell’Hera di Samo e del kouros del
Dipylon. Con la cultura ellenica nasceva
quindi un orizzonte completamente nuovo nella
storia del mondo e per molti
versi quella stessa cultura è ancora oggi
alla base di tutto ciò che vi è di
dinamico e di innovativo nell’evoluzione
culturale della specie homo sapiens.
2.3 Il concetto di “dio” nella
filosofia greca.
La nascita del
“concetto di Dio” nella filosofia non va
confuso col “senso del divino”, che è
alla base del sentimento religioso, indipendentemente
dal significato che ad
esso si intenda dare. Il “senso del divino”
nasce dalla non-conoscenza del
reale e dal percepimento di forze e aspetti
della natura che eccedono il
controllo umano, i quali rivelano quei caratteri
di “forza” e “potenza”, che
sono i corrispettivi di ciò che viene posto
come “divino” [24].
Un fenomeno reattivo irrazionale, quindi,
ovvero il bisogno esistenziale di un
approccio pre-cognitivo ad un ignoto “potente”
e “incombente” con cui bisogna
intrattenere un rapporto pragmatico. Potenze
di cui (realisticamente o
illusoriamente) si avverte o si percepisce
la presenza (e ciò indipendentemente
dal fatto che tale “senso” venga considerato
innato o culturalmente indotto).
Il concetto di Dio nella filosofia (e sono
numerose le assonanze tra cultura
greca, indiana e cinese) è anch’esso un fatto
reattivo, ma invece razionale, e
non già di carattere intellettivo-pragmatico,
bensì speculativo. In altre
parole, se la nascita del senso del divino
sta all’origine del pensiero
religioso, in quanto effetto dell’esigenza
psichica di rapportarsi sul terreno esistenziale
ad una potenza ignota che si manifesta “qui
ed ora” e con cui bisogna
rapportarsi, la nascita del concetto di Dio
nella filosofia è anch’esso
l’effetto di una causa, ma non già di carattere
pratico-esistenziale, bensì
astratto-teoretico. Questa causa sta principalmente
nel disagio intellettuale
di fronte ad aspetti casuali e caotici del
reale, che si tratta di ricondurre
all’ordine di un mondo che “deve” essere
intelligibile, omogeneo ed unitario.
In altre parole, il compito della filosofia
tradizionale è quello di fornire
spiegazioni razionali in presenza di realtà
non-razionali e di pervenire a
risposte metafisiche (ultra-fisiche) alle
domande poste dal percepimento del
“caos” in rapporto al pre-concetto di “ordine”.
In realtà il
concetto di caos è quanto di più astratto di possa immaginare,
almeno
quanto quello di “ordine”. Entrambi i concetti
paiono avere una base meramente
psicologica, che genera una connotazione
razionalistico-strumentale, utile
nella lettura della realtà, ma a questa sostanzialmente
estranea. Intendiamo
dire che la realtà è caotica ed ordinata
insieme a seconda del paramentro
assunto per definirla. Caos e ordine trapassano
l’uno nell’altro e sono, nel
contempo, pure determinazioni psicologiche
e puri strumenti intellettivi coi
quali interpretare, spiegare e classificare
i vari aspetti dell’universo, che
ci appaiono alternativamente ordinati o caotici,
deterministi o indetermati,
necessitati o casuali.
E tuttavia
sembra non improbabile che sia proprio a
partire dall’ipostasi metafisica di caos
che sia nato un principio metafisico che
vi si opponga e l’annulli: quello
di “ordine divino”. Dove l’ordine è l’essenza
ideale di tutto ciò che è
“perfezione del mondo” o “causa del mondo”,
poiché il mondo e la realtà
percepibile che ci fonda e ci concerne e
in rapporto al quale noi “ci
percepiamo” come entità reali inserite in
un contesto di realtà più vasta che
ci comprende. Ma di questa realtà onnicomprensiva,
che ci circonda e ci
condiziona, e con cui dobbiamo quindi confrontarci
in qualche modo (sia che la
si ponga in termini irrazionali, religiosamente,
o invece razionali,
filosoficamente), non possiamo esimerci dall’elaborare
una qualche spiegazione.
Ciò che però generalmente ci sfugge è che
quello di caos non è concetto
unitario bensì bicipite, infatti la parola
indica per un verso il nulla che
precede un “tutto” (accezione più antica)
e per altro verso un tutto
pluralistico e disordinato (accezione moderna).
Il concetto filosofico di Dio è
pertanto chiamato ad assumere ad un tempo
una doppia funzione: quella di creare
un mondo e quella di conferirgli ordine.
Funzioni le quali, unite o separate,
sono riscontrabili in tutta la speculazione
filosofica di ogni tempo e di ogni
luogo del mondo antico, ma anche nei miti
di un mondo contemporaneo arcaico
pre-filosofico o a-filosofico (e che ancora
oggi si offre alla nostra
indagine), dove la religione divora sul nascere
ogni filosofia e ogni scienza,
annullandole o rendendole inutili.
Se pure nel
mondo greco, tra il VII e il VI secolo a.C.,
vi sono stati tentativi, con
Talete, Anassimandro, Anassimene ed Eraclito,
di trovare nel mondo materiale
(ma nel caso di Eraclito con caratteri metafisico-mistici)
un metonimico
principio primo del tutto, come parte generatrice
dell’insieme, è con Senofane
che si delinea in modo netto lo spostamento
del principio unico verso il
divino. Il concetto di un Dio unico e astratto,
che Senofane (oppositore del
politeismo antromopomorfo) introduce nel
pensiero greco, è un’entità metafisica
unica e totalizzante, ingenerata, perfetta
e immutabile, principio e causa del
tutto. La ben nota polemica di Senofane contro
la pluralità degli dèi [25]
costituisce il nucleo primario di tutti i
concetti di divinità unica e
trascendentale fioriti nella posteriore filosofia
occidentale.
Pressapoco
nella stessa epoca, in India, le Upanishad proponevano una visione del
mondo panenteistica che poneva il brahman come unità e totalità
dell’essere del mondo, più o meno coincidente
con l’ātman, inteso
come anima del mondo. Queste concezioni sfoceranno
più tardi, intorno al
300.a.C., nel sistema Vedānta, col quale l’identità brahman-ātman verrà sancita in modo definitivo. Il brahman-ātman
della filosofia vedantica verrà nell’VIII
secolo radicalizzato col monismo
acosmistico di Shankāra [26]
(e ripreso più tardi in senso monoteistico
dal vishnuita Rāmānuja) [27].
Va comunque notato che il concetto di brahman era già presente, sia pure
come concetto vago, fin dall’epoca vedica
(e quindi precedente la nascita della
filosofia greca). È solo più tardi però che
esso viene via via affermandosi
fino a diventare elemento assolutamente dominante
di tutta la filosofia indiana
(essendo in seguito, nell’Induismo più recente,
assorbito nelle
personificazioni di Shiva e di Vishnu). Il
brāhman-ātman
(l“uno-tutto” vedāntico) presenta anche
qualche analogia con l’essere parmenideo,
come pure una decisa assonanza col Dio neoplatonico,
nonché, molto più tardi,
una certa corrispondenza in una filosofia
panteistica come quella di Spinoza.
Con Senofane la
divinità perde le connotazioni presenti nei
vari rappresentanti del pantheon
olimpico e si afferma definitivamente come
trascendente tutti gli aspetti
materiali del mondo nella loro percepibilità
e nella relazione empirica che con
essi l’uomo possa instaurare. Il Dio di Senofane,
come l’essere di
Parmenide (di cui sarebbe stato maestro)
e i più tardi Demiurgo-Bene di
Platone e Uno-Tutto di Plotino, si caricano pertanto di un essenza
immateriale che si estrinseca come puri intelletto
o ragione, esenti da ogni
scoria materialistica, come anche da ogni
elemento antropico che mal si concili
con tale essenza. Il Dio di Platone però
va ben oltre quello di Senofane, in
quanto ne accentua sia il carattere intellettuale
sia quello morale, assumendo
i caratteri del bene razionale assoluto, conferendo quindi
legittimità metafisica a quello che Socrate
aveva soltanto posto come “virtù”,
quale principio positivo comportamentale
e pragmatico. Ma Platone, per caricare
Dio di significato etico, è costretto a delegittimarlo
come principio fisico;
perciò il Dio di Platone è unificatore, ordinatore
e principio significante del
cosmo, ma non suo creatore.
Platone opera
una scissione che sarà gravida di conseguenze
nella definizione del concetto di
Dio in tutta la filosofia occidentale successiva
(contemperate soltanto dal
panteismo stoico prima e più tardi da quello
spinoziano), operando una netta
dicotomia tra ciò che è intellettuale-spirituale,
eterno ed immutabile, e ciò è
corporeo-materiale, contingente e mutevole.
La dicotomia asettica che in Parmenide si
estrinsecava in un essere
stabile e reale e in un divenire apparente e irreale, diventa in Platone
la dicotomia tra il vero e il falso, tra
ciò che “innalza” e ciò che “abbassa”,
tra ciò che va perseguito e ciò che va evitato,
prefigurando così la dicotomia
etica bene/male (Dio/Satana nel Cristianesimo,
Allah/Iblìs nell’Islam) che
dominerà la cultura europea e mediorientale
almeno fino al XVII secolo.
L’antinomia vero/falso si sposta così in
Platone in una seconda dicotomia
parallela, che ha come termini di riferimento
non più il bene e il male morali,
bensì le idee e loro degradate realtà materiali, che si
offrono ai
nostri sensi corporei allontanandoci dalla
verità.
Platone risulta
essere pertanto un filosofo determinante
per tutti gli ulteriori sviluppi della
filosofia occidentale nei quali venga operata
una distinzione metafisica tra
ciò che è “originale” e immutabile ciò che
è “copia” precaria, rivitalizzando
altresì, nel suo idealismo, la coppia ontologico-esistenziale
arcaica sacro/profano.
Infatti, oltre che anticipatore di ogni spiritualismo
etico-religioso
(neoplatonismo ed agostinismo cristiano),
lo è del realismo dicotomico
cartesiano (res cogitans/res extensa), del criticismo kantiano (noumeno/fenomeno)
e anche dell’idealismo hegeliano, che di
questo costituisce il superamento
attraverso l’ipostasi dello spirito assoluto (una specie di noumeno globale)
che si manifesta storicamente nella realtà
dell’universo (come totalità dei fenomeni).
Ma il Dio platonico non è creatore del cosmo,
poiché, se pure gli conferisce
ordine (il bene) allontanandolo dal disordine
(il male), non è onnipotente e
non può agire sulla realtà materiale, che
esiste indipendentemente da lui. Il
Dio di Platone risulta essere pertanto una
sorta di rappresentante unitario e
ideale delle idee eterne, che trascende le loro copie costituenti
la
realtà materiale e ne rimane estraneo.
Con Aristotele
si afferma un nuovo “modo” di filosofare
(ma non per questo una nuova
filosofia), dove si sostituisce all’intuizione
intellettuale e al mito (a cui
fa ancora largamente riferimento Platone)
l’analisi della realtà sensibile e la
scienza della natura. Conseguentemente anche
l’idea di Dio, che nella filosofia
platonica era di carattere spiritualistico
e morale, assume in Aristotele le
connotazione di una “causa prima” a cui far
risalire tutta una serie di aspetti
ed effetti del mondo reale, soprattutto evidenti
sul piano fisico-cosmologico.
Anche il Dio di Aristotele non è creatore,
ma anziché essere un “ideale” e
metaforico ordinatore e conservatore dell’universo
nel suo unitario e perfetto
“essere” ne diventa un “reale“ primo motore
che lo determina e lo ordina
dinamicamente. Intelletto puro e modello
di perfezione, che regola il “muoversi”
delle sfere celesti e il divenire dell’universo,
esso è, in quanto intelletto
divino, accessibile (nella sua intelligibilità)
all’intelletto umano che da
esso deriva. E tuttavia anche il Dio aristotelico
risulta trascendente rispetto
al mondo, rinnovando così un dualismo ontologico
(se pure non oppositivo come
in Platone) tra forma trascendente (Dio) e materia immanente
(universo).
La prima
esplicita forma di panteismo, dove Dio è l’unità attiva che tutto
comprende, che è in continua trasformazione
e che tutto ricrea periodicamente
in una totale rigenerazione si ha nella cosmologia
stoica. In essa, alla fine
di ogni ”anno cosmico”, il mondo si distrugge
e riparte un nuovo ciclo
generativo, assolutamente identico a quello
precedente. Il monismo stoico pone
pertanto un Dio-Cosmo, dove la mente di Dio
è nello stesso tempo anima e
principio generatore, mentre il suo corpo
è la materia dell’universo. Ma la
mente-anima si determina solo facendosi corpo
(materia) e quindi si crea un
legame necessitaristico in cui la provvidenza
divina genera il mondo, ma il
mondo la retro-determina in quanto ne diventa
sostanza necessaria. In questo
quadro di determinismo assoluto l’ammissione
del libero arbitrio umano è una
pura enunciazione di principio fortemente
contraddittoria; infatti, siccome
tutto è già predeterminato, la divinazione
è per la filosofia stoica
un’attività veridica, la quale non fa altro
che anticipare, come
pre-conoscenza, ciò che avverrà necessariamente.
Una forma un
po’ differente di panteismo la troviamo nel
neoplatonismo di Plotino, per il
quale il mondo materiale è un “emanazione”
di Dio che la comprende senza
tuttavia esserne compreso [28].
Il Dio neoplatonico è il puro essere che contiene tutto l’esser
possibile e addirittura possiede una “sovrabbondanza
d’essere”, quella che
genera la materia allo stesso modo con cui
la luce crea la visibilità o il
calore scalda. In tal senso Dio (l’Uno) è un’unità assoluta e
perfetta in se stessa, al di fuori della
quale nulla è, ma è nello stesso tempo
la molteplicità del tutto che viene ricompresa
nell’unità. Dio è infatti un
tutto unitario che genera il tutto e lo riassume
in sé, attraverso un processo
di “andata e ritorno” che procede per gradi. Al vertice e all’origine
del processo stanno le tre ipostasi divine, l’Uno, l’Intelletto e
l’Anima; dal primo si genera il secondo,
dal secondo la terza e dalla terza per
stadi discendenti successivi tutto il resto.
Ci troviamo pertanto di fronte a
una trinità che per molti versi ricorda quella
cristiana, ma Plotino (che opera
semmai in senso anticristiano) pone un Dio
che opera con l’intelletto e non già
con la volontà; esso quindi opera quasi “logicamente”
per il “meglio” e in
altro senso, possedendo l’essere, non può
fare a meno di produrlo e di
trasmetterlo. Ne deriva che l’Uno non può
esimersi dal creare un “altro” da sé
da ricomprendere poi in sé; quindi la molteplicità,
che è pur sempre un aspetto
del suo essere, predetermina l’unità (come
in un processo di retroazione)
a realizzarsi anche attraverso la molteplicità
stessa. Ma questo rapporto
necessario tra emanante e emanato (non privo
di contraddizioni interne) viene
negato da Plotino: infatti Dio, essendo già
perfezione unitaria realizzata, non
è affatto necessitato a ri-realizzarsi attraverso
la propria emanazione,
essendo già realizzato e perfetto in se stesso
e indipendentemente da essa.
L’identità dell’Uno è pertanto compiuta e
immutabile; quindi ogni sua
emanazione è un’estrinsecazione e nel contempo
un ritorno a se stessa.
Strettamente
connessa all’idea di Dio è nella filosofia
antica quella di “anima”, che
tuttavia (forse con la sola eccezione di
Plotino) non è mai riferibile al
principio divino in quanto presente in ogni
singolo uomo, ma piuttosto come
principio vitale, o “soffio” della vita,
come d’altra parte etimologicamente
significano sia i termini greci ánemos, pněuma e psyché,
sia il latino spiritus, con un significato simile a quello dei
biblici rŭach
e nèfesh. Il concetto di anima in senso cristiano,
in quanto elemento
divino calato nell’uomo, va ricercato piuttosto
nel Pitagorismo e nell’Orfismo,
nei quali peraltro non risulta definita un’entità
divina unitaria e
trascendente. L’anima, nella concezione cristiana,
è pertanto una specificità
concettuale solo vagamente implicata nella
filosofia greca, i cui concetti
giudicati “utili” sono stati piuttosto utilizzati
a posteriori per giustificare
“anche” razionalmente tale concezione.
Abbiamo esposto
in sintesi le varie forme in cui nella filosofia
occidentale è stato affrontato
il problema di Dio, poiché, in varia misura
e in modo più o meno esplicito,
esse si ritrovano nelle formulazioni teologiche,
ufficiali e non, del
Cristianesimo. Per quanto la divinità
della filosofia venga definita come un “Dio”
unitario e razionale (e più o meno trascendente la materia), in
opposizione alle divinità antropomorfiche
espresse nel politeismo della
mitologia, tuttavia esso, in quanto intelletto
puro, non è mai assimilabile al
Dio-persona giudaico-cristiano, che opera
secondo la propria volontà, sia che essa
si presenti come insindacabilmente arbitraria
e sia che si presenti come affettuosamente amorevole. E tuttavia,
se non nella formulazione canonica (espressa
dalla teologia ufficiale
determinata dai vari concili), le varie formulazione
del dio filosofico sono
eccheggiate nelle varie correnti della filosofia
cristiana patristica e
scolastica, creando spesso equivoci che persistono
anche in molta filosofia
moderna.
Il Dio di
Platone risulta pertanto presente, attraverso
il neoplatonismo di Plotino e di
Porfirio, sia in San’Agostino [29]
sia in tutte le correnti teologiche che si
esprimeranno nel misticismo di
Bonaventura da Bagnoregio e, più in generale,
nel francescanesimo, fino a
risultare determinante nell’atteggiamento
teologico assunto da Lutero nel
propugnare la sua Riforma. Per altro verso
il pensiero aristotelico è risultato
fondamentale per la formazione della filosofia
di Alberto Magno, di Tommaso
d’Aquino e di Ruggero Bacone. Ma va ricordato
che anche nella teologia
islamica, parallelamente a quella cristiana,
le filosofie di Platone e di
Aristotele sono risultate determinanti per
la formazione, da un lato, del
pensiero di Avicenna, e dall’altro, del pensiero
di Averroè, peraltro rifluiti
(e per alcuni versi veri veicoli della filosofia
greca) nella Scolastica
cristiana. Va tuttavia notato che il Cristianesimo
(attraverso lo Jahvé
biblico), con la sua ipostasi del Dio-persona,
reintroduce nella concezione
della divinità gli attributi di ogni singolarità
divina antropomorfa. La
volontà e l’arbitrio, che i filosofi
greci seguaci di Senofane avevano cercato
di espungere, proprio perché presenti
in ogni concezione antropomorfica e quindi
volgare della divinità, risulta
rintracciabile, all’ennesima potenza, nel
Dio dell’Ebraismo e in quello del
Cristianesimo.
2.4) Pluralità di dèi
naturalistici, dio supremo, Dio unico.
La tesi di
etnologi come Tylor, che vedevano il monoteismo
abramitico come l’ultimo stadio
di un processo evolutivo della religiosità
era poco convincente già quando
venne formulata, ma col prosieguo delle ricerche
etnologiche ed antropologiche
è diventata oggi del tutto insostenibile.
Come d’altra parte lo era quella di
Lang e Schmidt, che ipotizzava la credenza
originaria dell’uomo primitivo in un
dio unico, quale innata e veritativa intuizione
del reale Dio unico. Non si
puo’ tuttavia negare che, da un punto di
vista strettamente storico,
relativamente alle società che si sono poi
più meno consolidate nel monoteismo
(la più parte) la successione parrebbe confermare
la tesi evoluzionistica. Si
consideri, infatti, che a partire dal VII
secolo le conquista arabe e più tardi
ottomane, in Africa e nell’Asia occidentale,
hanno determinato un’ampia
conversione all’Islam (il quale ha largamente
sostituito le religioni
preesistenti) e che, a partire dal XVI secolo,
il Cristianesimo ha praticamente
evangelizzato tutto il continente americano
e parte di quello africano. Si
potrebbe discutere sul fatto che, in molti
casi si sia trattato più di una
sovrapposizione che di una sostituzione,
ma questo esula dai nostri compiti
euristici. Quello su cui di solito non ci
si sofferma adeguatamente è sul
concetto di “forza” di una religione, quale
causa determinante per il passaggio
da una credenza religiosa ad un'altra. Forza
che deve essere intesa in due
sensi, uno più estrinseco ed evidente, che
è quello
militare-politico-amministrativo, e un secondo,
più intrinseco e sfuggente, che
è quello ideologico.
Abbiamo già
trattato in altra sede delle tipologie della
credenza religiosa e della loro
forza o debolezza [30],
ci limiteremo pertanto qui a ricordare che
il monoteismo è vincente perché
offre risorse e garanzie che le più antiche
religioni non potevano offrire,
soprattutto per quanto riguarda l’unitaria
e definita concezione del mondo
e per l’aspetto salvifico ed
escatologico. Il monoteismo risponde egregiamente
alla incoercibile tendenza
della psiche umana [31]
a privilegiare l’unità rispetto alla pluralità,
in quanto l’unità del tutto e
l’unità dell’ente che determina il tutto
offrono quelle garanzie di “senso” e
di “ordine” compiuti che le visioni pluralistiche
dei politeismi non potevano
offrire.
Per l’argomento
di questo paragrafo, che rappresenta uno
dei temi più interessanti della storia
delle religioni, è di rigore fare riferimento
allo studioso che più si è
occupato di questo problema: alludiamo a
Raffaele Pettazzoni, al quale già
abbiamo accennato nel §1.1. Nel suo saggio, pubblicato nel 1955, dal
titolo L’essere supremo nelle religioni primitive
(L’onnscienza di Dio)
viene ripreso, riassumendolo, il lavoro che
egli aveva già sviluppato
sull’argomento (a partire dal 1920) e che
doveva essere la prima parte di una
ricerca di più vasta mole rimasta incompiuta,
il cui titolo avrebbe dovuto
essere Dio: Formazione e sviluppo del monoteismo
nella storia delle
religioni. A tale saggio quindi ci riferiremo nel
nostro cercare di capire
i motivi per i quali dalla spontaneità ingenua
del politeismo “naturale” abbia
potuto affacciarsi alla mente umana dapprima
la supremazia delle divinità
celesti rispetto a quelle terrene e marine,
e perché poi, tra queste, il dio
del fulmine e della tempesta sia assurto
in un primo tempo al vertice della
sfera divina, per dar luogo in seguito a
quell’ipostasi artificiosa ed astratta
che è il Dio del monoteismo.
Pettazzoni
inizia il suo saggio rilevando che la teoria
del “monoteismo primordiale” è
viziata dalla confusione che viene fatta
con la nozione di “essere supremo”,
poiché la capacità di creare si connette
strettamente a un sapere che è un
“saper fare assoluto”, e che il dio stesso
che “crea dal nulla” è una
“sublimazione ideale del mago, operante per
sola virtù cogitativa e potenza di
volontà”. L’autore continua la sua
analisi mettendo il evidenza il fatto che
in tutte le religioni, dal giudaico
Jahvé, al vedico Varuna, al cinese Tien,
l’essere supremo è anche sempre
onnisciente, e che l’onniscienza si connette
al vento, alla luce, all’acqua
meteorica e a tutto ciò che è afferente il
cielo. L’essere supremo è perciò
sempre un dio uranico, che sa tutto degli
uomini [32],
che ne scruta le anime e li giudica, che
manifesta la sua riprovazione col
fulmine e con la tempesta. L’essere supremo,
infatti, in quanto onnisciente,
onnipotente e deputato a giudicare le azioni
degli uomini, dispone del mezzo
formidabile della “sanzione meteorica”, che
lo rende molto temibile, in quanto
i suoi interventi possono mettere a repentaglio
la vita dell’uomo e dei suoi
animali, ma soprattutto l’abbondanza dei
suoi raccolti. Nell’osservare tuttavia
che il dio creatore è molto spesso un deus otiosus, che crea il mondo
e poi si ritira nella usa beatitudine lasciando
il campo al “dio della
tempesta”, Pettazzoni rileva due categorie
di esseri supremi, quella in cui
prevale l’onniveggenza e quella in cui prevale
la creatività, e ne deduce una
distinzione piuttosto importante:
[…] Questo dualismo non è
puramente ideologico, esso è anche religioso,
e religiosamente rispecchia due
istanze diverse. All’attributo
dell’onniscienza corrisponde un’esperienza
religiosa specifica che non è
la stessa che sta sotto all’attributo della
creatività. Non c’è dietro la
struttura dell’onniscienza divina quella
elementare angoscia esistenziale che
si esprime nei miti delle origini in genere
e in quelli della creazione in
ispecie. È una esperienza sui generis, nella quale sul sentimento della
precaria condizione umana trema l’ombra di
un’altra angoscia, il senso di una
diffusa immanente presenza che incombe su
l’uomo in ogni luogo e in ogni
momento, senza tregua e senza scampo, senza
rifugio e senza evasione, di uno
sguardo cui nulla sfugge e cui nessuno può
sottrarsi, di un mistero che
circonda l’uomo, lo fascia e lo imprigiona,
e a volte subitamente prorompe
nella violenza grandiosa dei fenomeni meteorici
[33].
Abbiamo così un quadro esistenziale
drammatico, che riguarda anche culture arcaiche
come quelle degli Apache o
degli Eschimesi, ma che è indubbiamente determinante
in culture più evolute
come quella giudaica, in riferimento alla
figura e alle prerogative dello Jahvé
biblico.
Venendo al dio del monoteismo vero e proprio,
Pettazzoni rileva
che esso è sostanzialmente omogeneo con tutti
gli altri precedenti dei uranici
onniscienti-onniveggenti-giudici di ogni
altra religione e operanti con lo
strumento della punizione meteorica:
Se Jahve è il dio unico di una
religione monoteistica e Zeus il dio supremo
di una religione politeistica, ciò
riguarda il diverso destino storico delle
rispettive religioni, l’ebraica e la
greca, e non dirime l’originaria omogeneità
dei due iddii, inerente alla loro
pertinenza – in ultima istanza – a civiltà
omogenee. Il dio degli ebrei nomadi
non è un Dio unico pel fatto che «il deserto
è monoteistico (Renan)»; egli diventa
un Dio unico per il messaggio di Mosè potenziato
dallo sforzo assiduo dei
Profeti. Jahve non diventa un dio del cielo
soltanto dopo l’esilio per
influenza del persiano Ahura Mazda, ma molto
probabilmente risale ad un
primitivo iddio del cielo dalle teofanie
meteorologiche violente, quali sono
proprie di tanti esseri di popoli civili
e meno civili. L’onniscienza di Jahve
non è un riflesso di idee egiziane e babilonesi,
come si potrebbe a maggiore
ragione sostenere per l’onniscienza demiurgica
dei testi sapienziali (Hempel);
la sua onniscienza – onniscienza visiva applicata
alle azioni umane e associata
a una sanzione punitiva di carattere meteorico
– è più antica dei Salmi (contro
Gunkel), più antica di Amos (contro Gressmann),
più antica, in un certo senso,
di Mosè: nello stesso senso onde anche l’onniscienza
di Ahura Mazda è
probabilmente più antica di Zarathustra e
quella di Allah forse più antica di
Maometto. Dietro il dio unico onnisciente di una religione
monoteistica spunta il sommo onnisciente
di una religione politeistica, come
dietro a questo si affaccia sovente il supremo
onniveggente essere celeste di
una religione primitivistica [34].
Forse qui Pettazzoni non si rende conto di
finire per dare
ragione all’evoluzionista Tylor, a cui il
suo storicismo intende contrapporsi,
ma indubbiamente rende un quadro credibile
dell’arcaicità dell’idea
dell’onniscienza-onniveggenza divina connessa
con la punizione atmosferica, sia
essa la tempesta e la grandine, oppure il
caso estremo del diluvio. Il Nostro
rileva però più oltre un altro aspetto comune
dei monoteismi: quello che
l’avvento di essi è sempre coincidente con
una riforma religiosa rispetto a una
religione precedente, e che a determinarla
vi è sempre una figura specifica,
che è il riformatore di quella vecchia e
fondatore di quella nuova. Vi è però
ancora un’altro aspetto da rilevare ed è
quello che riguarda l’intolleranza
religiosa dei monoteismi nei confronti non
soltanto di ogni politeismo ma anche
di ogni altro monoteismo, con la dicotomia
tra l’eletto superiore e lo
straniero inferiore, tra il credente nella
verità e lo schiavo della menzogna
idolatra, tra il fedele e l’infedele. Ma
l’instaurazione del dio unico
rappresenta la cassazione di tutte le divinità
precedenti o la loro immediata
riqualificazione come demoni. Il caso più
evidente, specialmente per i suoi
aspetti linguistici, è riscontrabile nel
Mazdeismo. Zarathustra rifonda la
religione persiana cominciando col dire che
gli dèi tradizionali (i daêva)
si sono votati alla falsità e all’inganno
e facendoli perciò diventare demoni.
Tuttavia essi mantengono il loro nome, che
significa appunto dèi, ma si tratta
di dèi che sono diventati “falsi”; allora
Ahura Mazdā riceve una nuova
qualifica come “dio vero” e unico che essi
combatte. Con questa degradazione
degli dèi a demoni il Mazdeismo si presenta
apparentemente come dualistico, in
realtà il vero Dio è unico. D’altra parte
anche nel Giudaismo e nel
Cristianesimo i demoni sono angeli ribelli;
il loro capo, Satana
(corrispondente all’Angra Mainyu del Mazdeismo),
è passato dalla condizione
divina a quella demonica. Osserva il Pettazzoni:
Di questo dio supremo dell’antica religione
politeistica
Zarathustra fece il suo Dio unico. Quanto
agli altri dèi, egli non negò la loro
esistenza; li negò come dèi, ma li mantenne
nella forma che sola era
compatibile con la dottrina monoteistica,
cioè come demoni. In ciò noi abbiamo
in certo qual modo un’anticipazione di quel
che accadde più tardi nella
religione cristiana. Anche il Cristianesimo
non poteva che negare le antiche
divinità del politeismo greco e romano; e
tuttavia non negò la loro esistenza,
bensì e fece dei démoni: omnes dii
gentium daemonia, secondo la formula di sant’Agostino, «tutti
gli dèi dei
gentili sono démoni» (Enarrat. in Psalm. XCV-XCVI) [35]
Relativamente
agli influssi della religione persiana (Mazdeismo
prima e Manicheismo poi) sul
mondo giudaico e successivamente su quello
cristiano è piuttosto interessante
l’analisi che ne fa Dario Sabbatucci. Secondo
questo studioso contemporaneo,
appartenente anch’esso alla scuola storicistica;
il Mazdeismo (o Zoroastrismo)
compare già con Dario, che regna dal 522
al 486 a.C.. Esso risulterebbe perciò
precedere (anche se non di molto) la formalizzazione
della religione di Jahvé [36]
in terra ebraica; ciò avverrà infatti soltanto
dopo la cattività babilonese e
quindi certamente in tempi posteriori al
520 a.C. [37].
Sottolinea lapidariamente questo autore:
Certo è che Isaia parla di Dario, ma Dario
non parla d’Isaia.
Certo è che nella sacra scrittura ebraica
si parla dei Persiani, ma nel libro
sacro persiano, l’Avesta, non si parla degli Ebrei.
L’antropomorfismo di Dio fu l’elemento dottrinario
che i filosofi
tardo-antichi rimproveravano al Cristianesimo,
in quanto veniva considerato il
negativo recupero di un volgare antropomorfismo
pagano che consideravano ormai
superato. Ma è già in tale situazione che
la teologia cristiana mostra quella
grande plasticità concettuale che rimarrà
esemplare nei secoli, quella di
adattare sempre la dottrina alle necessità
contingenti poste da obbiezioni
logiche o da evidenze scientifiche non espungibili
provenienti dall “esterno”.
Salvo poi colpire in modo feroce e intollerante
ogni alternativa dottrinaria
proveniente dall”interno”, bollarla col termine
di eresia e ricorrere, se
necessario, anche alla violenza. Ma va precisato
che ciò è regola e prassi di
ogni ideologia, anche laica, come la storia,
in ogni tempo e occasione, ci
insegna. Il problema dell’antropomorfismo
di Dio è stato abilmente e
intelligentemente risolto portando ogni attributo
divino di derivazione umana
all’ennesima potenza, quindi ad un livello
ontologico del tutto trascendente l’uomo,
sancendo inoltre l’inversione creativa narrata
nel Vecchio Testamento, per cui
sarebbe stato Dio a creato l’uomo a propria
immagine e somiglianza e non
(Feuerbach insegna) il contrario. In tal
modo la concezione del Dio unico
ebraico-cristiano risulta ineccepibile e
inattaccabile, in quanto l’uomo è
copia della divinità (come per Platone lo
erano le realtà sensibili rispetto
alle idee), la quale rimane trascendente,
nella sua suprema perfezione di
onniscienza e onnipotenza, all’umanità stessa
che l’ha posta. Il Dio cristiano
(ma non meno l’Allah islamico) rivivifica
lo Jahvé giudaico, ma nello stesso
tempo lo spoglia delle sue indubbie rozzezze
arcaiche, perfezionandolo alla
luce della filosofia greca (platonica, aristotelica,
e stoica). Di essa il monoteismo
mutua e ingloba gli aspetti compatibili con
se stesso e nel contempo rende
inoffensivi (presentandoli come
concettualmente superati) quelli non compatibili
o superflui. In tal
modo la geniale macchina teologica che Paolo
da Tarso aveva messo in marcia con
la sua interpretazione della figura di Gesù
(e con la sua indefessa e quasi
eroica predicazione) veniva perfezionata
e rodata dalla teologia posteriore,
facendone una splendida ideologia di consenso
e di gratificazione psichica,
prima ancora che espressione di autorità
spirituale e morale.
Il
Cristianesimo opera così una sintesi tra
il concetto di divinità espresso dal
(per molti versi irrazionale) biblico Jahvé
e il Dio (tutto razionalità e
perfezione) della filosofia platonica. Ma
la gestione di questa sintesi,
proprio in quanto connubio di differenti
(e per qualche verso opposte)
concezioni della divinità, costringe la teologia
a continui aggiustamenti e la
espone inoltre al rischio di contestazioni
e divisioni al proprio interno. Dio,
infatti, in quanto onnipotente, potrebbe
anche fare il male, ma ciò risulta
inconciliabile con la sua perfezione. E allora
il male diventa presente nel
mondo sia come conseguenza del peccato originale
e sia per la continua attività
corruttrice di Satana. E tuttavia l’esistenza
del mondo, in quanto regno del
male, mal si concilia con l’assoluta bontà
di Dio, la quale, si noti, non è più
la benevolenza interessata di Zeus e neppure
l’atto d’amore di Jahvé verso il
“suo” popolo, ma è l’essenza del puro amore
all’estrema potenza, che si rivolge
indifferentemente a tutti gli uomini di buona
volontà sulla faccia della terra.
E tuttavia la conciliazione c’è nella figura
del Cristo, ed è tale che porta,
in realtà, proprio all’apoteosi di un Dio
trinitario non solo amorevole ma che
fa dell’amore e della pietà i massimi comandamenti.
Non per nulla il suo amore
è tanto grande da averlo condotto alla kenosi [38]
e al sacrificio di se stesso sulla croce
(sia pure solo come “figlio”),
redimendo con ciò l’umanità dalle conseguenze
della trasgressione dei suoi
edenici progenitori.
Ma come può un
Dio che manifesta la sua bontà infinità nel
creare l’uomo prima e nel soffrire
poi sulla croce per salvarlo dalla terribile
condanna (che in quanto giudice ha
pur dovuto infliggergli) permettere che il
male continui a trionfare nel mondo?
Problema dottrinario non da poco. Ma anche
qui la teologia cristiana compie il
suo miracolo; infatti il male del mondo non
è fine a se stesso, ma col suo
imperversare esplica la funzione di mettere
alla prova la fede degli uomini. Il
“grande ribelle” Satana ridiventa così, nella
sua veste di biblico tentatore,
un divino strumento nelle mani di Dio, assumendo
e nel contempo superando il
sottile dualismo zoroastriano [39],
di cui certamente il cristianesimo è tributario.
Come Satana ha tentato
paradigmaticamente e strumentalmente Gesù
nel deserto per metterlo alla prova e
(implicitamente) per dimostrarne la divinità,
così il male (in generale) appare
come lo strumento mandato da Dio per mettere
alla prova la fede del cristiano,
dimostrare la sua dignità di creatura privilegiata
e consentirgli di conseguire
il premio supremo di accedere alla paradisiaca
comunione con lui.
Il meccanismo
teologico-politico che viene messo in atto
dalla teologia cristiana dei primi
secoli, e almeno fino al tardo medioevo,
consiste soprattutto nel determinare
la lettera e la forma delle sacre scritture
e nel fissare nei ricorrenti
concilii i dogmi inappellabili in cui la
fede si estrinseca come credenza e
come culto, proprio per far fronte a tutte
le aporie che la complessità di una
dottrina sincretistica aveva generato. Complessità
derivante dal voler
conciliare il Dio della filosofia con quello
della fede, il Dio della ragione
con quello dell’amore, il Dio onnipotente
con quello che deve ammettere il male
per realizzare il suo fine salvifico.
Aporie che si
incontrano molto meno nell’ebraismo, dove
la divinità è tutta autosufficiente e
compiutamente espressa nella lettera biblica,
che ne è epifania compiuta nella
“giustizia”, secondo il patto di alleanza,
e non secondo “bontà”. Jahvé mette
alla prova Isacco, chiedendogli il sacrificio
del figlio, ma non si sognerebbe
mai di mettere a repentaglio la sua integrità
unitaria di creatore del mondo
(neppure simbolicamente o metaforicamente)
per amore del popolo che ha scelto
ed eletto. Nell’ebraismo l’esegesi opera
all’interno di una concezione della
divinità assoluta, autosufficiente e monolitica,
mentre nel cristianesimo essa
deve fare i conti con denotazioni complesse
e articolate della divinità, che
includono, tra l’altro, anche elementi dell’orfismo
e dell’essenismo, oltre a
quelli (già citati) dello zoroastrismo, e
più tardi (a III secolo inoltrato)
anche del neoplatonismo.
Anche il Dio
dell’Islam è per molti versi un Dio semplice,
un Dio che impone poche regole,
ma una al disopra di tutte: quella dell’obbedienza.
Pur avendo praticato per
diversi secoli (culturalmente “luminosi”
e contemporanei a quelli “bui” del
Cristianesimo) la filosofia greca, l’Islam
non ha mai preteso di fare di Allah
un Dio di perfezione razionale e per ciò
stesso di perfetta bontà (aspetti
peraltro estranei al Dio di Abramo), ma si
è preoccupato di farne un Dio
onnipotente e temibile, che impone regole
inappellabili sia sul piano cultuale,
sia su quello etico, sia su quello civile.
Vincolando in tal modo non solo il
singolo maomettano, ma ogni comunità islamica
a fare proprio il comando
inappellabile della divinità in tutta la
sua estensione e in ogni suo dettaglio, senza
che possano avere spazio
atteggiamenti dubbiosi o arbitri interpretativi.
Si potrebbe
aggiungere che, in un certo senso, il Cristianesimo,
con la sua intrinseca
complessità dottrinale, ricca di un sincretismo
che ingloba aspetti del
misticismo ellenico, della religione iranica,
della filosofa greca e della
gnosi, mescolando il tutto col messaggio
biblico, abbia finito per determinare
una fortezza che giganteggia per la sua mole
concettuale, ma che presenta
numerose soluzioni di continuità nelle sue
muraglie. Punti di fragilità che si
evidenziano specialmente dove essa pretende
di conciliare la fede con la
ragione, per cui le aporie interpretative
e le contraddizioni diventano tali, e
così evidenti, da consentire al pensiero
scientifico (e all’ateismo che lo
segue da vicino) di insinuare i cunei di
una razionalità vera, che mette in
mora (e spesso ridicolizza) la pretesa razionalità
“d’acquisto” della teologia
cristiana.
Per contro, sia
l’Ebraismo sia l’Islam non soffrono (se non
in modo molto marginale) gli
attacchi del pensiero scientifico, proprio
perché Dio è in essi “il fuori
scala”, ineffabile e irrapresentabile, ma
soprattutto ininterpretabile da parte
della mente umana. Jahvé e Allah, intrattengono
con il fedele un rapporto di
sudditanza severo ed assoluto, che esclude
ogni concessione adattativa alle
modalità operative della ragione umana in
termini di approccio intepretativo di
carattere filosofico razionalistico. I loro
attributi possono anch’essi venire
considerati quelli umani positivi portati
all’estremo limite di perfezione, ma
non comprendono quelli dell’amore del dio
cristiano, bensì quelli, per alcuni
versi ad esso antitetici, della giustizia
e dell’intransigenza; attributi che
conferiscono a Dio una potenza e un livello
di trascendenza che lo allontanano
ontologicamente in modo netto dall’uomo e
dalle sue possibilità di un rapporto
razionale. D’altra parte, il Dio di questi
due monoteismi, come abbiamo visto,
non solo non si qualifica come razionale,
ma espunge la razionalità stessa
dagli orizzonti umani concernenti il “sacro”.
Per essi tutte le conquiste della
ragione e dell’intelletto umani gli sono
completamente estranei, o almeno
indifferenti, e soprattutto irrilevanti sul
piano dell’acquisizione di meriti
validi sul piano del sacro. Per altri versi
resta ad essi inapplicabile un
concetto come quello della cristiana teodicea, la loro giustizia è oltre
ogni motivazione antropica e inavvicinabile
per la comprensione umana. In
definitiva il rapporto dell’uomo col Dio
ebraico ed islamico non è mai un rapporto
d’amore, ma solo ed esclusivamente di pura
dipendenza. Allah non è né razionale
né buono, ma semplicemente “grande”; al cospetto
della sua grandezza l’uomo può
soltanto prostrarsi, adorarlo e ubbidirlo;
nient’altro. Non ci si stupirà
quindi, se riteniamo di poter affermare che
nell’Islam il monoteismo raggiunge
il suo livello più alto di evoluzione e di
concreta realizzazione nella
coerenza.
2.5)
Homo religiosus e homo ateus.
La contrapposizione offerta nel titolo di
questo paragrafo potrà forse far pensare
all’atteggiamento preconcetto di chi
voglia contrapporre il negativo al positivo.
Questa sarebbe una posizione
tipicamente ideologica, della quale le religioni
sono la più perfetta
espressione (in buona compagnia con ideologie
che si richiamavano proprio
all’ateismo!), ma non è certamente la nostra.
Ciò che a noi interessa è
l’aspetto critico della contrapposizione
e il problema teorico posto da essa;
ovvero del perché esistano due situazioni
antropiche “limite”, la prima
rappresentata dall’uomo “totalmente religioso”
e la seconda dall’uomo per
niente religioso, cioè l’“ateo”. La nostra
esposizione non potrà pertanto
esimersi dal ritornare all’uomo arcaico per
sviluppare adeguatamente la nostra
indagine. Egli, infatti, possiede strumenti
concettuali indefettibili per
spiegare e sistematizzare il mondo e l’esistenza
a partire dalla sacralità,
strumenti che gli pervengono dal possedere
una religiosità onnipervadente, che
realizza il “sacro” nel modo più perfetto.
Ricordiamo che,
come aveva già concluso Levy-Bruhl, la visione
del mondo dell’uomo arcaico è
fondamentalmente mistica e pertanto prevalentemente
sganciata dalla realtà
fisica in cui si trova immerso. Ci pare quindi
che l’elemento determinante e
qualificante risulti il seguente: le sue
categorie interpretative, con le quali
vede e giudica il mondo, sono una proiezione
della sua psiche sul mondo e non
provengono da un’introiezione delle connotazioni
del mondo reale su di sé; ciò
determina una “creazione” poetica ed esplicativa
di esso attraverso il mito,
che è un immagine del mondo alternativa a
quella scientifica e che per molti
versi “funziona” persino meglio. Con
tale operazione creativa l’uomo arcaico soltanto
molto marginalmente traduce la
sua percezione fisica del mondo in termini
reali, poiché gli aspetti del mondo
perdono immediatamente la loro qualità di
oggetti percepibili, utili o dannosi,
manipolabili o soltanto subibili, per diventare
elementi sacrali di un mondo
sacralizzato. Non è quindi la percezione
l’elemento che fonda la sua visione
del mondo, ma l’invenzione della sua nascosta
natura e delle sue cause. Il
mondo così “inventato” si struttura in un
“sistema” che spiega se stesso e nel
contempo spiega la posizione che l’uomo assume
all’interno di esso e i suoi
rapporti cogli enti che con lui lo formano.
L’uomo arcaico infatti, avendo già
spiegato attraverso il mito la struttura
del mondo e le ragioni del suo essere,
non ha altro fare che “leggerlo” come un
libro già da sempre aperto e può
dedicare la sua attività intellettuale non
solo alla sua descrizione, ma ad
un’attività classificatoria delle entità
(soprattutto viventi) concernenti il
territorio di sussistenza nella quale rivela
dei livelli di sofisticazione
osservativa e catalogativa straordinari.
Passa
probabilmente da tale punto cruciale il discrimine
tra il destino di quelle
comunità che in alcune aree del pianeta hanno
vissuto la religiosità arcaica
come una fase temporanea e quello di altre
che invece vi si sono attestate,
come una condizione soddisfacente, da conservare
e da preservare da ogni
turbativa culturale esterna e da ogni variazione
interna. Ma va precisato che
mentre Levy-Bruhl aveva definito la mentalità
arcaica “pre-logica”, intendendo
con ciò un “non ancora” rispetto al “nostro”
pensiero logico, in realtà essa
possiede una “sua” logica particolare e specifica
di grande interesse
antropologico, tanto è vero che il “sistema”
del mondo che la religiosità
arcaica realizza “funziona” benissimo e assicura
continuità e prosperità alle
poche comunità che ancora vi si attengono,
sempre che l’uomo “tecnologico” non
irrompa ad alterarne il territorio e turbarne
la struttura sociale [40].
In altre parole, l’uomo arcaico non sa che
farsene della nostra logica, non gli
serve, avendone elaborata nei millenni una,
di carattere esclusivamente
religioso, che risulta per lui del tutto
soddisfacente. Infatti, è largamente
testimoniato come l’uomo arcaico per un verso
tema gli strumenti dell’uomo
tecnologico (come oggetti di una magia che
non conosce) e per un altro
disconosca e disprezzi la scienza da cui
traggono origine. Teme i primi perché non ne capisce il funzionamento e
disprezza la seconda perché non ne percepisce
l’utilità. In altre parole: egli
teme e disprezza le nostre nozioni e le risorse
strumentali che ne derivano,
che non capisce (ma ciò è anche, dal più
al meno e di converso, ciò che
solitamente facciamo noi nei confronti delle
sue).
Per l’uomo arcaico tra scienza e produzione
di cose non può
esistere alcun rapporto, così come non esiste
tra concetti ed oggetti. Solo
questi sono reali e la spiegazione del fatto
che esistano non è suscettibile di
indagine, per la semplice ragione che di
essi, come del “tutto” in generale,
egli “sa già tutto”. La nostra attività scientifica,
come inarrestabile ricerca
delle cause gli pare un gioco inconcludente,
e soprattutto inutile. La ricerca
delle cause è infatti l’operazione di uno
che “non sa” mentre l’arcaico “sa” a
priori come stanno e vanno le cose, e ciò
forse anche perché le cose nella
realtà arcaica non sono un “altro da me”,
ma entità integrate “come me” in un
sistema che ci comprende tutti e il cui funzionamento
avviene secondo leggi
immutabili fissate illo tempore.
A questo proposito è estremamente significativo
il modo con cui
l’uomo arcaico classifica le cose del mondo
e le inserisce in uno schema di
corrispondenze e di dipendenze. In un famoso
saggio del 1902 [41]
Emile Durkheim e il suo (allora) allievo
Marcel Mauss hanno reso esplicito il sistema
classificatorio di alcune popolazioni dell’Oceania
e dell’America, rinvenendo
diffuse coincidenze nelle modalità con le
quali anche altrove si “sistematizza”
il mondo. E questa sistematizzazione, secondo
le loro ricerche, ha come modello
non già la struttura del mondo stesso, ma
la struttura sociale del gruppo di
appartenenza nel quale avviene il suo rispecchiamento.
I rapporti esistenti tra
gli individui all’interno della comunità
arcaica determinano i rapporti tra le
cose del mondo ed esse vengono sistematizzate
secondo il modello dei rapporti
sociali, quindi in maniera relazionale e
gerarchica a prescindere dalla loro
realtà fisica. Il sistema primitivo di classificazione
e gerarchizzazione
prescinde in misura così radicale dal mondo
stesso che il sole, in un certo
sistema totemico, può essere fatto derivare
dal pellicano, dove questo è il
totem e quello uno dei suoi sotto-totem.
L’assimilazione di un animale che calca la
terra con un astro che sta
nel cielo non deve stupire, infatti non è
la “natura” dell’elemento a contare,
ma la sua “funzione” religiosa. Questa classificazione,
per noi illogica, è
invece per l’uomo arcaico perfettamente logica,
secondo la prospettiva
religioso-pragmatica in cui vive e si realizza.
Il concetto astratto utilizzato
nel pensiero scientifico, che estrae le proprie
enunciazioni dall’empiria della
prassi, nella mentalità primitiva non esiste;
il pensiero è sempre
”pragmaticamente” una classificazione di
esseri e funzioni all’interno di un
sistema “sacrale”, perfetto e immutabile,
che funziona indipendentemente dalle
evidenze fisiche.
La società
dell’ homo religiosus per eccellenza, quella arcaica, è basata
su una
“macchina divina” immutabile e alla quale
nessuno può attentare, che dispone
della vita di ogni persona e impone ruoli,
riti, tabù, rapporti e azioni
definite, con possibilità di scelte individuale
praticamente nulle e dove il
concetto di individualità è quasi ignorato,
poiché, solo l’insieme è “soggetto”
umano “reale”. Non si può non cogliere qui
il rapporto esistente tra le società
arcaiche e la società brahmanica, nella quale
l’appartenenza ad una casta
determina posizione, compiti e possibilità
di vita di ogni singolo individuo.
Ma la società castale ci offre anche un altro
elemento importante per il nostro
studio, in quanto incarna, con maggiore evidenza
di qualunque altra, il
“blocco” religioso di ogni dinamica sociale,
al fine di assicurare una
stabilità assoluta di ruoli e di prospettive
esistenziali. In tale situazione
anche chi appartiene alla casta più bassa,
quella dei paria, e soffre le
peggiori condizioni del sistema, se ne sente
nel contempo totalmente
rassicurato e garantito, in quanto sa che
se osserverà diligentemente il dharma
(il dovere-ruolo) che gli compete accadrà
che nella prossima reincarnazione
assumerà automaticamente lo status sociale di una casta superiore. Ciò
poiché è solo la legge samsarica che determina
il destino dell’uomo: con essa
nulla è indeterminato e nulla è casuale.
Il sistema brahmanico rappresenta la
più perfetta struttura sociale esistente,
in quanto esso ha espunto alla radice
l’indeterminazione e la variabilità dall’orizzonte
del mondo,
istituzionalizzandone i loro opposti. Il
meccanismo vedico, attraverso una
rigorosa sistematizzazione ontologica di
ogni entità vivente e del suo destino,
realizza ordine e stabilità, per cui garantisce
ai propri appartenenti, anche
nelle peggiori condizioni di esistenza, un
quadro concettuale “certo” e
immutabile del mondo e della vita. Entro
la sua cornice è sempre possibile la
sofferenza fisica e psichica, ma risulta
escluso ogni elemento concettuale che
possa turbare lo schema di riferimento in
cui la psiche si riconosce. Una
realtà umana spesso stupefacente, e sempre
affascinante, che l’uomo
“tecnologico” europeo o americano sperimenta
con sorpresa da diversi secoli
ogni qual volta viene a contatto con la mentalità
induista.
Per quanto si possano avere dei dubbi sulla
opportunità
antropica di uno status come quello dell’homo religiosus ci
vediamo costretti ad ammettere che si tratta
di una condizione umana che
presenta i suoi innegabili vantaggi, dal
momento che rende un immagine del
mondo rassicurante e gratificante, con l’estirpazione
radicale del disordine e
della casualità. È per questa ragione che
l’ateismo appare anche, e per molti
versi, del tutto prematuro (e persino inopportuno)
rispetto a quel contesto,
anche per il fatto che la religiosità (come
interiorizzazione, tematizzazione e
organizzazione della sacralità) risulta largamente
vincente a tutte le
latitudini e continua ad impregnare la maggior
parte dell’umanità, dimostrando
così una sua innegabile funzionalità antropica.
Essa infatti riesce a
stigmatizzare ideologicamente il caos e il
caso come espressioni del “male”; un
male metafisico eliminabile soltanto col
ricorso al “bene” metafisico, ovvero
all’entità trascentendentale che si realizza
nella “divinità” che conferisce
ordine e senso al mondo.
L’homo religiosus si sente a suo agio (potremmo dire che
“sta bene”), quando può fare
riferimento ad un “sacro” istituzionalizzato
e garantito dalla chiesa-comunità
di cui fa parte; che è poi la vera “sostanza”
di esso. Sostanza che è nello
stesso tempo storia sacra che si ripete e
si conferma all’infinito, in quanto
realizzazione della storia divina (nei moderni
monoteismi) o del mito ciclico
(nelle religioni arcaiche). Anzi, il “bene”
e lo “star bene” si identificano
con l’epifania del “sacro” (la ierofania di Eliade) e questo, come
fulcro dell’esistenza umana, diventa il “centro”
della realtà autentica,
rispetto alla quale la realtà fisica ed effettuale
non è semmai che una sua
imperfetta copia degradata e reietta. Questo
centro, d’altra parte, è origine e
fine della comunità stessa nel suo essere
mondo. Il mito in cui l’homo
religiosus arcaico riconferma il “sacro”, crea e ricrea
continuamente un
mondo fuso con la trascendenza, e quindi
col “bene” assoluto. Dunque la religiosità primitiva realizza
una
circolarità di proiezioni psichiche che nasce
dal centro di gravità del sacro e
determina gli ambiti del bene e del male
(il sacro e il profano), ovvero
l’ordine dell’immutabile contro il disordine
del diveniente.
Tuttavia, se il mondo arcaico ci disvela
l’essenza della
religione, affondando questa il suo sorgere
nella notte dei tempi, non è ancora
per nulla chiarito perché il mondo arcaico
sia rimasto completamente “dentro”
il sacro, mentre quello che abbiamo chiamato “antico”
(concernente il
passato delle società tecnologiche) se ne
sia distaccato in buona parte. Ma una
prima parziale conclusione possiamo trarla,
osservando che, evidentemente, l’homo
religiosus arcaico ha ritenuto conveniente il dominio della
sacralità per gli innegabili vantaggi che
essa garantisce in termini di
“identità” individuali sempre ricomprese
in una totalità unitaria. Perdere la propria identità (ovvero il
“centro”) è tutt’uno col perdere la vita,
e quando ciò accade sopravviene la
morte civile dell’individuo e ciò conduce
anche, abbastanza spesso, anche
quella biologica [42].
Il termine di homo religiosus allude allo status antropico
di quella parte di umanità non ancora contaminata
dal pensiero scientifico e,
secondo un’intepretazione laica, tale status consiste nell’essere
immerso in una weltanschauung caratterizzata dal prevalere di un modo
irrazionale e ingenuo di pensare il mondo
e l’esistenza, profondamente pervaso
dalla credenza in una realtà illusoria. Questa
viene determinata dalla
sovrapposizione alla realtà effettuale di
una realtà sacra onnipervadente che
la mette in ombra e la svilisce. Tale lettura
laica della weltanschauung
arcaica contrasta nettamente con quella che
ne ha dato Eliade, per il quale
(come abbiamo già visto) l’homo religiosus, al contrario, sperimentando
autenticamente il “sacro”, vive immerso nel
“vero” essere. Un essere,
che si estrinseca in uno spazio [43]
e in un tempo sacri, nettamente contrapposti
a quelli profani.
Ricordiamo che tale contrapposizione è altrettanto
netta di
quella che operava Durkheim e in termini
analoghi; ma mentre in questo la
chiave di lettura è sociologica nello studioso
rumeno essa è invece ontologica;
ne deriva che quella di Eliade si presenta
come la più chiara, coerente ed
universale antitesi alla weltanschauung atea. Questa lettura non ci
offre soltanto una definizione di religiosità
che vale per il contesto arcaico,
ma che può valere in generale per ogni religione,
anche per quella che nei
contesti in cui è presente il pensiero scientifico
ha assunto una forma meno
rigida, ma proprio per questo, dal più al
meno, “degradata”.
Nell’interpretazione di Eliade il tempo sacro,
come sospensione del tempo
profano, e lo spazio sacro, come luogo “separato”
e privilegiato, mettono
l’uomo in rapporto diretto con la trascendenza.
Ma a ben vedere si può
legittimamente concludere che essi sono tipici
ed indispensabili elementi di
ogni religiosità, sia essa politeistica,
panteistica o monoteistica. Non esiste
infatti nessuna religione priva di un calendario
liturgico, di rituali
periodici, di occasioni liete o tristi in
cui ritualizzare e riattualizzare la
storia sacra o il mito, così come ogni fede
religiosa trova il proprio “centro”
in uno spazio dove abita la divinità, determinato
e separato dal mondo profano;
sia esso il tempio egiziano, la cattedrale
cristiana o il bosco sacro dei
pagani. Sembra tuttavia fuori discussione
che, in termini di “autenticità”, la
religiosità arcaica si presenti al livello
più alto di “fede” e di
interiorizzazione della credenza nel sacro.
Che il cristiano creda nel Dio
“vero” e che l’uomo arcaico creda in uno
“falso” fa la differenza soltanto ove
si esprima un giudizio assiologico dall “interno”
di una fede e di una
credenza, ma dal punto di vista delle denotazioni
religiose (o meglio sacrali)
che abbiamo delineato è indubitabile che
la religiosità arcaica si presenti
come “superiore” a quella cristiana.
Ma se l’homo religiosus trova il suo humus ideale
nel contesto arcaico ciò non significa che
anche in un contesto contemporaneo
altamente permeato dal pensiero scientifico
non sia possibile vivere una
religiosità profonda ed autentica. La monaca
di clausura di un convento posto
all’interno di una grande metropoli è, in
linea di principio, nelle condizioni
di riuscire a vivere la sua fede in modo
non meno autentico dell’uomo arcaico.
Ma è assai probabile che un biologo cristiano,
che lavori all’interno di un laboratorio
altamente tecnologico, incontrerà maggiori
difficoltà a vivere la propria fede
con la stessa intensità e gli stessi livelli
“qualitativi” della monaca di
clausura. Va tuttavia aggiunto che, se risulta
possibile che un cristiano
moderno riesca a vivere pienamente e intensamente
la propria fede anche in un
contesto fortemente laicizzato e profano,
ciò costituisce la riprova di quanto
la religione a cui aderisce vanti una struttura
concettuale straordinariamente
“plastica”, e quindi in grado di adattarsi
ad ogni temperie senza perdere la
sua sostanziale efficacia. Questo va a tutto
merito del sistema dottrinario
cristiano sul piano dell’efficienza, ma rimane
il fatto, quasi inevitabile, che
la religiosità cristiana, in generale, abbia
perduto negli ultimi tre secoli,
sul piano cultuale e rituale, la condizione
“ideale” e auspicabile che era
riuscita a mantenere ben oltre la fine del
Medioevo, che era stato
indubbiamente il periodo più glorioso del
Cristianesimo in termini di
autenticità religiosa. Infatti, se il rapporto
con la divinità è l “essenza”
dell’esistenza umana, è evidente che quanto
più stretto, coinvolgente e
costante esso può essere, tanto più “santa”
risulterà la vita del fedele. Da
questo punto di vista la condizione arcaica
risulta quindi privilegiata in
termini, ci pare, indiscutibili.
Diventa però qui necessario tentare un confronto
tra la
religiosità arcaica e quella dei monoteismi
abramitici, prese entrambe nella
loro generalità, per capire in che cosa esse
differiscano. Ciò dal momento che,
sia l’una che l’altra, sono riuscite sia
a sopravvivere attraverso i millenni,
sia a mantenere fondamentalmente inalterata
la loro weltanschauung; la
cui validità, su un piano che definiremo
“funzionalistico”, non ha quasi subito
cedimenti. Senza alcuna pretesa di lasciarci
andare a valutazioni
etno-antropologicche sofisticate la nostra
riflessione ci conduce però a
ravvisare un elemento comune tra esse, che
ci pare essere quello relativo al
fatto che entrambe le tipologie religiose
si presentano come “sistemiche”. Non
erano infatti sistemi i politeismi pagani
fioriti in ambito medio-orientale ed
europeo precedentemente all’avvento del Cristianesimo,
con la loro
indeterminazione e l’estrema variabilità
dei miti e delle loro
personificazioni. Tanto è vero che non hanno
retto all’impatto del messaggio
dei monoteismi cristiano ed islamico, i quali
(con la loro visione del mondo,
la loro dottrina soteriologica e la loro
escatologia) colmavano un vuoto
esistenziale che i paganesimi antichi con
la loro debolezza (in termini
concettuali e dottrinari) non potevano certo
riempire. Non vorremmo però dare
la sensazione di voler qui equiparare la
religiosità arcaica a quella
monoteistica, poiché le differenze restano
enormi, specialmente in termini di
“forza [44].
Dove per forza intendiamo non già la religiosità in sé,
in termini di
autenticità, ma la “macchina” di persuasione
che essa supporta. Ed è
indubitabile che una macchina di persuasione
si basa non soltanto su una
migliore struttura dottrinaria e una maggior
capacità dialettica nell’esporla,
ma anche in quegli strumenti “al contorno”,
offerti dalla tecnologia, dalle
arti e dalla letteratura, che le catechesi
cristiana ed islamica possono
utilizzare.
Quasi tutte le religioni arcaiche (sia pure
con sopravvivenze
sincretiche nei monoteismi ad esse subentrati)
sono state via via spazzate via
da Cristianesimo e Islam, attraverso la conquista
o la colonizzazione, in un
vasto areale che va dalla penisola indiana,
all’Africa e alle Americhe. D’altra
parte, sia le religioni arcaiche sia quelle
abramitiche sono, pur possedendo
caratteristiche molto differenti, religioni
assolutamente “sistemiche”, dove
nelle prime il sistema si presenta piuttosto
semplice e nelle seconde più
complesso. Questa relativa equivalenza è
riconoscibile quantunque quelle
arcaiche non posseggano la struttura ideologica
di quelle monoteistiche e
soprattutto la loro universalità, che è un
elemento fondamentale per il
superamento di localizzazioni ed etnicizzazioni.
L’elemento che rende quindi
comprensibile la sopravvivenza delle religioni
mitiche nei contesti arcaici non
è soltanto la loro sistemicità, ma soprattutto
il loro “isolamento”. Infatti,
solamente questo le ha preservate e difese
dall’irruzione della weltanschauung
monoteistica, la quale, qualora si fosse
affacciata ai loro orizzonti, le
avrebbe annullate completamente con la sua
forza religiosa. La tesi che noi
sosteniamo è che il successo o l’insuccesso
di una religione dipende sì anche
da ragioni storiche ed ambientali, ma soprattutto
dalla sua forza, che è
costituita da un aspetto intrinseco, che
è la sua weltanschauung in
termini di appagamento psichico, e da uno
estrinseco, che è il più elevato
livello intellettuale e tecnologico di chi
la propone o la impone [45].
Tornando al nostro discorso principale, dobbiamo
ora rilevare
che la dicotomia tra homo religiosus ed homo ateus indica allora
la contrapposizione estrema che può verificarsi
tra due atteggiamenti
esistenziali reciprocamente incompatibili,
che dal punto di vista antropologico
costituiscono due limiti, per ragioni opposte,
difficilmente raggiungibili. Nel
nostro mondo, infatti, quello più o meno
tecnologico nel quale il pensiero
scientifico ha inferto duri colpi alla religiosità,
è veramente difficile,
oggi, essere portatori e testimoni di una
credenza religiosa assoluta e priva
di dubbi. E se pure è già meno facile accettare
in tutto e per tutto il nucleo
di una dottrina risalente a molti secoli
fa è tuttavia nel campo cultuale e
ritualistico dove il cristiano moderno si
trova a marcare il proprio distacco
dai precetti e dai sacramenti afferenti,
di rigore, l’impianto dottrinario. Ma
per altro verso non è neppure facile far
propria una filosofia, quella atea,
che azzeri venti secoli di Cristianesimo,
intendendo riallacciarsi ad un
pensiero filosofico che ne ha preceduto l’avvento
di cinque secoli, ma che poi
è stato quasi dimenticato durante quindici
secoli di dominio teologico. Dominio
il quale, non facciamoci illusioni, ha permeato
in modo così profondo e totale
la nostra cultura che non è possibile dl
tutto prescinderne, neanche per chi si
proclami ateo e senta profondamente il proprio
distacco da essa nella
realizzazione della propria libertà metafisica.
Ma se l’homo religiosus è sempre più difficilmente realizzabile
nel mondo moderno delle società tecnologiche
anche quello l’homo ateus
rappresenta un limite esistenziale assai
problematico, se non altro perché gli
strumenti culturali e di supporto messi a
disposizione dalla cultura religiosa
sono sconfinati, mentre quelli sulla teoresi
atea attualmente disponibili sono
pochissimi e perlopiù assenti dalla sfera
pubblica. Questa differenza abissale
tra il corpus della cultura religiosa (o di quella che
indirettamente vi
è riconducibile) e quella che (in qualche
modo) reca un messaggio e dei
contenuti atei non è priva di peso e significato,
laddove si ponga il problema
del “dubbio” sulle proprie convinzioni, nella
prospettiva, se non di una
conferma, almeno di un rafforzamento di esse.
Ciò è assai importante proprio in
riferimento a un ateismo di tipo non semplicemente
“pratico” ma “teoretico”,
cioè concettuale e non soltanto comportamentale.
Dove per ateismo teoretico
intendiamo quello che si fa interprete di
una teoresi filosofica che si basa su
di una totale libertà metafisica e che implica la totale espunzione del sacro
dai suoi orizzonti ontologici. Ciò significa
che rimane sempre facile, sia per
ragioni filogenetiche che di imprinting (ma soprattutto per ragioni di
disponibilità e presenza culturale) essere
religiosi, mentre è assai difficile
essere atei nel senso da noi posto che, lo
ribadiamo, è quello che storicizza
la religione e con essa si confronta sul
piano etico. Se sul piano teoretico,
infatti, nessun confronto è possibile tra
ateismo e religione, non così sul
piano etico, in quanto molti aspetti della
morale religiosa (quelli che
potremmo definire di carattere “naturale-universale”)
sono perfettamente
condivisibili anche da parte dell’ateo. Il
confronto perciò si sviluppa,
semmai, sulle alternative esistenziali che
l’homo liberato dai vincoli
metafisici è in grado di proporre e non sui
comportamenti individuali e sociali
realmente “virtuosi”.
Il fulcro delle
nostre tesi sulla religiosità e sulla sua
funzione esistenziale (prima ancora
che sociale) riposa fondamentalmente sul
concetto di omeostasi [46]
psichica, a cui abbiamo poco sopra accennato.
Essa consiste, secondo il
nostro punto di vista, in uno stato di rilassamento
della psiche che è
condizione basilare per la buona salute dell’uomo
in generale. Tale esigenza
omeostatica, che soltanto eccezionalmente
può risultare assente [47],
determina l’orizzonte esistenziale in cui
ogni individuo tende a collocarsi ai
fini della sua sopravvivenza e del miglior
modo di affrontare l’esistenza. Se
la nostra tesi è plausibile ne deriva che
l’attuale stato evolutivo dell’homo
sapiens sembra testimoniare una selezione filogenetica
che ha privilegiato,
attraverso le generazioni, gli individui
che posseggono una buona omeostasi
psichica e non solamente chi è più dotato
di forza e di intelligenza. D’altra
parte, è quasi una banalità ricordarlo, chi
possiede un ottima omeostasi
psichica ha migliori possibilità di utilizzare
al meglio le proprie risorse
fisiche ed intellettuali, mentre, al contrario,
ogni stato psichico perturbato
rende scarsamente o malamente utilizzabili
le proprie facoltà.
Quanto sopra
significa quindi che, a livello filogenetico,
chi gode di omeostasi psichica ha
migliori probabilità non solo di sopravvivere
e di affrontare al meglio i casi
della vita, ma soprattutto di avere una progenie
più sana e numerosa [48];
ciò nel senso che l’omeostasi favorisce la
“tonicità” delle proprie risorse
psico-fisiche e rende quindi più
probabile essere dei “vincenti” anche in
termini generativi. Tuttavia, se ciò è
facilmente riscontrabile in una condizione
umana caratterizzata dalla
precarietà e dall’indigenza, per una (come
la nostra) che abbia invece risolto
i problemi esistentivi elementari e che abbia
ampliato gli orizzonti della
propria cultura è difficile dire se ciò rimanga
vero. Va comunque considerato che la nascita della
specie homo
sapiens non supera in ogni caso i duecentomila anni
e che quindi la sua
evoluzione va riferita ad un tempo brevissimo
in termini cosmologici. Ciò
significa che nei prossimi millenni la nostra
specie potrebbe subire delle
alterazioni per noi ora inimmaginabili, sempre
che il sapiens (come è
già accaduto per il neanderthalensis) non si estingua lasciando il posto
a una specie più evoluta e vincente.
Se, pertanto, l’esigenza dell’omeostasi
psichica caratterizza diffusamente e prevalentemente
l’attuale stadio evolutivo
dell’uomo, nulla vieta di pensare che questo,
mutando il suo rapporto col
mondo, possa, in uno stadio evolutivo futuro,
trovare omeostasi in weltanschauungen
differenti, che potrebbe avere a proprio
fondamento proprio l’abbandono di
ogni religiosità, ovvero la conquista di
quella libertà metafisica che
l’ateismo prefigura. È in questo senso che
l’ateismo potrebbe risultare quindi
“oggi” persino antropologicamente prematuro,
in quanto realizzabile soltanto da
parte di più o meno numerosi “fuori schema”,
limitatamente a quella piccola
parte del pianeta la cui cultura è pervasa
di pensiero scientifico e dove può
venir messa in discussione la struttura mentale
dell’homo religiosus.
Struttura tipica, che determina (per lo più
inconsapevolmente) la sistematica
eliminazione dal proprio orizzonte esistenziale
di ogni elemento di carattere
turbativo che possa insinuare disordine e
casualità. Non deve quindi stupire
che il caos ed il caso risultino due connotazioni cosmologiche
e
filosofiche che da sempre vengono combattute,
ed in modo implacabile, da tutte
le religioni. Una delle prime funzioni del
“sacro” è infatti di recare ordine e
definizione nel cosmo contro il disordine
e l’indeterminazione.
Di fronte alle
difficoltà dell’esistenza, che devono essere
affrontate col massimo apporto di
energia psico-fisica, solamente una perfetta
omeostasi della psiche
(quale fondamentale “funzione” mentale) garantisce
un’adeguata tonicità, con la
più alta resa sul piano funzionale di ogni
azione necessitata dalle circostanze
o determinata dal desiderio. Qualunque “credenza”,
indipendentemente dalla sua
origine e dalla sua veridicità, che “stabilizzi”
la psiche, permette allora di
disporre compiutamente delle energie assorbibili
dall’attività mentale. In
altre parole, secondo la nostra tesi, il
“sacro” è funzionale al miglior
equilibrio psichico, in quanto protettivo
e gratificante, mentre il “profano” è
un territorio conflittuale dove la psiche
è sottoposta a continui stress, che
ne mettono a repentaglio lo stato di quiete
o che (freudianamente) richiede un
elevato dispendio energetico. Se l’homo ateus riesce a convivere col
caos e col caso deve essere perché si è operata
in lui una modificazione
strutturale della psiche che glieli rende
tollerabili, o almeno affrontabili,
attraverso strumenti concettuali che il religiosus non possiede o
rifiuta.
In definitiva,
possiamo dire che ciò che caratterizza precipuamente
l’homo ateus
rispetto al religiosus suo contemporaneo è il fatto di riuscire
a
conseguire la sua omeostasi psichica senza far ricorso ad una weltanschauung
religiosa. L’homo ateus rappresenta quindi quello status
esistenziale nel quale, da un punto di vista
ontologico, viene ammesso e
tollerato un universo casuale e privo di
fini, nonché l’accettazione del fatto
che il fenomeno “vita” (in un suo piccolo
e insignificante pianeta) sia una
realtà assolutamente casuale e priva di significati
nell’economia del cosmo
nella sua generalità. Nell’ateismo teoretico,
quindi, il “senso” dell’esistere
non può venire cercato né in un supposto
essere finalistico
dell’universo né nella presenza del fenomeno
vita sul nostro pianeta, ma
esclusivamente nell’immanenza dell’esistere che concerne ogni singolo
uomo in rapporto ai propri simili, in rapporto
alla vita nel suo complesso e in
riferimento alla struttura di un universo
che l’ha resa possibile. Ma è anche
in riferimento al retaggio religioso, di
cui ogni uomo ateo (consapevolmente o
no) è comunque ed in qualche modo interprete,
che non è tanto il rifiuto di
esso a qualificare l’ateismo ma l’affermazione
della libertà metafisica in
termini teorici. Solo questo salto di qualità
dell’ateismo rende coerente la
scelta di esso quale orizzonte ontologico
ed esistenziale foriero di
quell’autodeterminazione anti-metafisica
che soltanto la libertà metafisica
rende, per l’appunto, possibile.
[1] Un interessante contributo a questo problema è fornito, sia pure per linee esterne al problema stesso, da Jared Diamond nel suo Armi, acciaio e malattie (Einaudi 1998). Secondo questo studioso le diversità culturali sono da attribuire in primo luogo alle differenze ambientali (morfologia e clima), ma ancor più alla presenza sul territoriodi di specie vegetali ed animali ricche di elementi nutrizionali per qualità e dimensione e soprattutto facilmente addomesticabili. L’autore amplia poi la propria analisi e le proprie considerazioni al problema della prevalenza o alla sottomissione (o addirittura all’estinzione) di vari ceppi etnici attribuendolo allo stile di vita, all’impatto (positivo o negativo) del progresso tecnologico e al sistema immunitario. Le popolazioni che hanno sviluppato fin dalla preistoria attività agricole e di allevamento avrebbero, attraverso la promiscuità con gli animali, contratto malattie alle quali, attraverso le generazioni, sarebbero divenute resistenti, mentre la difesa del territorio e delle derrate avrebbe determinato l’organizzazione di specialisti della guerra mettendo in atto la conversione degli attrezzi agricoli in armi di offesa. Questi guerrieri, in un secondo tempo, quando l’incremento demografico avesse determinato densità di popolazione incompatibili con le risorse locali, potevano essere adibiti ad attività di conquista e razzia per compensare tale mancanza. Il successo di tali operazioni, genericamente imperialistiche, sarebbero state determinate dal fatto che le popolazioni dedite alla caccia e alla raccolta sarebbero state più deboli sia fisiologicamente (malnutrizione) sia organizzativamente (comunità poco gerarchizzate) sia strumentalmente (assenza di metallurgia avanzata).
[2] Ricordiamo che, ad esempio, quella dei Lapiti e dei Centauri è una leggenda della Tessaglia, che le storie di Cadmo ed Edipo sono ambientate in Beozia e Tebe, che Sisifo è il fondatore di Corinto e che Bellerofonte è suo conterraneo, che Teseo è eroe della Ionia e dell’Attica, che Minosse e il Minotauro sono relativi a Creta, e così via. Tuttavia, dal periodo classico in poi, ci troviamo ormai di fronte a una koiné ellenica ben definita, nella quale, sia pur con un certo frazionamento politico e amministrativo, il pantheon greco risulta sufficientemente unitario, sì da poterlo considerare relativamente omogeneo e senza distinzioni di luogo.
[3] Le testimonianze e gli atteggiamenti degli autori biblici posteriori alla conquista di Gerusalemme, avvenuta nel 586 a.C. da parte di Nabuccodonosor (con la deportazione a Babilonia del re e della classe dirigente) sono sicuramente condizionate da questo evento tragico nella storia del popolo ebraico. Ma d’altra parte avvilenti saranno anche le più tarde annessioni al regno dei Tolomei prima (323-198 a.C.) e a quello dei Seleucidi poi (198-142 a.C.). Fortemente traumatica sarà inoltre, nel 142 a.C., l’introduzione con la forza dei culti ellenistici nel Tempio di Gerusalemme, avvertita come un’abominevole violazione della sacralità del luogo. Ciò darà luogo alla rivolta guidata dai Maccabei, che si concluse con la riconquista dell’autonomia politica e l’insediamento di Simone Maccabeo come re e sommo sacerdote.
[4] Cfr. nota 54 (su Jared Diamond)
[5] Sarvepalli Radhakrishnan, uno studioso indiano docente di Etica e Religioni orientali all’Università di Oxford, nel suo Religioni orientali e pensiero occidentale (Bompiani 1966 – p.22), così si esprime sui rapporti tra religione vedica e greca: «La religione olimpica dei greci e le credenze vediche hanno avuto un’origine comune. C’è anche una straordinaria somiglianza tra la vita sociale come è descritta nei poemi omerici e quella dei Veda. Entrambe sono patriarcali e tribali. Queste consonanze dimostrano che i due popoli dovevano essere stati in stretto contatto in un’epoca più antica, ma nessuno dei due conservò memoria alcuna di quei tempi, e in seno all’Impero persiano si incontrarono come estranei. Gli europei troveranno dunque nel Rig-Veda reminiscenze della propria eredità razziale.».
[6]
Interessante il saggio di Uwe Wesel Il mito del patriarcato (Il
Saggiatore 1985), che mentre rende giustizia
di tante teorie arbitrarie sul
patriarcato preistorico delinea la società
di cacciatori-pastori “puri” (orda)
come una società basata su di una “mobilità”
e un’”agilità” assolute, tali da
far sì che i vecchi e gli infemi venissero
uccisi per non doverli trasferire
nei continui spostamenti. La stesso destino
poteva essere riservato ai bambini
molto piccoli qualora venissero a costituire
delle “eccedenze negative”.
[7] Alcuni dati relativi all’addomesticamento sono particolarmente interessanti. La capra è stato il primo animale a venire addomesticato, verso l’8.000 a.C. Seguono la pecora e il maiale (VIII millennio a.C.), i bovini (VI millennio a.C.), l’asino (V millennio a.C.) e infine il cavallo (IV millennio a.C.).
[8] A questo proposito sottolinea Malinowski: «Il successo della loro agricoltura [dei Melanesiani] dipende – oltre che dalle eccellenti condizioni naturali da cui sono favoriti – dalla loro estesa conoscenza dei tipi di suolo, delle varie piante coltivate, del reciproco adattamento di questi due fattori e, ultima ma non meno importante, dalla loro conoscenza dell’importanza di un lavoro duro e accurato.» (Magia, scienza e religione – Newton Compton Editori 1976 – p.38).
[9] Le prime società stanziali di cui sono stati rinvenuti reperti risalirebbero al XII-X millennio a.C. sono quelle della valle del Giordano (Gerico) e del Kurdistan (Ganj Dareh).
[10] Vedi nota 57 a p.30 sull’estrema mobilità e sui costumi spietati delle cosiddette “orde” (dal turco urdu = esercito).
[11] In tempi molto più recenti una situazione analoga venne a determinarsi col Sacro Romano Impero, quando l’autorità religiosa, il papa, investiva l’imperatore del potere a nome della divinità.
[12] Non mancano tuttavia dee celesti molto importanti come la sumerica Inanna, regina del cielo, della fertilità e dell’amore. E vi è anche un caso di vera inversione, come quello dell’egiziana Nut, che è la dea del cielo ed è sposa sposa di Geb, che è invece dio della terra.
[13] Osserva il Gomperz (Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, vol. I, p.53): «La moltitudine dei miti, la folla delle divinità dovettero finire per sconcertare e stancare lo spirito ai credenti. Nel suo acrrescersi e moltiplicarsi, il mondo della favola assomiglia all’intrico di una foresta vergine, nella quale, senza alcun ordine, i vecchi ceppi non facciano che produrre con inesausta abbondanza sempre nuovi rami. Occorreva una scure per praticare in essa dei passaggi, ed un braccio vigoroso per maneggiarla. La robusta energia e l’intelligenza di un contadino ha compiuto l’opera gravosa. Coltivatore fu infatti il più antico poeta didascalico dell’Occidente, Esiodo da Ascra in Beozia.».
[14] Esiodo Opere Einaudi-Gallimard 1998 – Teogonia, versi 123-128 - p.9.
[15]
Il frammento di Saffo recita (Diehl 50, Lobel-Page
47): «1)…Eros mi squassa
l’anima, 2) come vento che al monte su le
querce s’abbatte.» (Poeti greci – a
cura di Raffaele Cantarella – Rizzoli 1993
– p.193).
[16] Secondo Fritz Graf (Il mito in Grecia – Laterza ’85 – p.66-67) Esiodo doveva essere a conoscenza di precedenti miti anatolici o mesopotamici (probabilmente hittiti) ignorati, o non presi in considerazione, da Omero.
[17] Omero Iliade (nella traduzione di Vincenzo Monti) Rizzoli 1990 – Libro I, versi 735-755 –pp.162-163.
[18] Fritz Graf Il mito in Grecia Laterza 1985 – p.56. In particolare Graf osserva che le metafore alla base della creazione poetica sono le stesse presso i greci, presso gli iranici e presso gli indiani.
[19] Dice William K.C. Guthrie nel suo I greci e i loro dei (Il Mulino 1987 – p.51): «I termini ‘primitivo’ ed ‘evoluto’, indipendentemente dai pregiudizi soggettivi che inevitabilmente li pervadono, sono insoddisfacenti in quanto non vi è in essi accenno di spiegazione del perché una forma religiosa differisce dall’altra. In questo caso è più utile ricordare che un popolo invasore non ha radici. Durante le sue migrazioni e per qualche tempo anche dopo, mentre costituisce la classe dominante, esso vive della sua spada, dei suoi cavalli e del suo ingegno, come gli Achei a Troia. Gli dei di questa stirpe di guerrieri nomadi dovevano esser probabilmente diversi da quelli dei popoli che vivevano coltivando la stessa terra sulla quale i loro avi avevano dimorato da innumerevoli generazioni. Vedere il contrasto tra un popolo il cui interesse è il mantenimento della continua fertilità, e un altro che è coinvolto solo dalla battaglia, dalla conquista e dal dominio, è di maggiore aiuto che parlare di culture primitive ed evolute. Ricordiamoci infine che in nessun documento storico possiamo probabilmente trovare la testimonianza di alcuno di questi due tipi di religione, in quanto esistenti in una forma pura e incontaminata.» Nello stesso libro Guthrie (p.53) riporta un passo di H.J.Rose nel suo Handbook of Greek Mytology (London 1928 – p.18 ss.) che ci pare un’eccellente sintesi esegetica sullo stesso problema.
[20] E questa è forse una delle differenze più importanti rispetto a contemporanee mitologie europee, mediorientali ed indiane; ma soprattutto rispetto alle mitologie delle attuali società arcaiche. Vanno tuttavia fatte tre considerazioni importanti: 1) La penisola ellenica era aperta, attraverso i commerci, a tutto il mondo antico allora raggiungibile via mare e via terra, mentre le società arcaiche sono per lo più chiuse in un loro territorio che procura le risorse per la sopravvivenza, 2) il mondo greco, estremamente parcellizzato all’inizio, è andato via assumendo (già in epoca classica, ma specialmente in epoca ellenistica) un carattere sempre più multietnico, che ha portato alla integrazione in un pantheon unico di numerose tradizioni mitiche di varia provenienza; 3) mentre nel mondo ellenico la scrittura della storia (sia pure in forma aurorale e mitizzata) è un attività già presente in una vivace letteratura epica (basti pensare ai poemi omerici), nelle società arcaiche la trasmissione soltanto orale non permetterebbe comunque di storicizzare gli avvenimenti e le eventuali trasformazioni del tessuto sociale.
[21]
Secondo Karkheinz Deschner i teologi protocristiani
(Op.cit. vol. I
pp.172-180) nella fase critica di ascesa
del cristianesimo hanno messo in opera
una sistematica diffamazione della cosmologia,
della cultura e della religione
pagana. Infatti (p.177): «Dopo la sua definitiva vittoria sul paganesimo,
i
toni cambiarono completamente: La prima grande
svolta nel conflitto con i
pagani si ebbe nel 311, quando l’imperatore
Galerio, seppur con riluttanza, rse
il Cristianesimo “religio licita” (cfr.p.182)
e, soprattutto, nel 313, allorché
l’imperatore Costantino venne
manifestando una crescente simpatia per il
Cristianesimo, cui concesse una ampio
ventaglio di privilegi (cfr.pp. 200 e pp
208 ss.). ».
[22]
Come è noto Costantino, con l’Editto di Milano
del 313, riconosceva il
Cristianesimo, concedendo alla Chiesa una
cospicua serie di privilegi, e nel
380 Teodosio lo imponeva come religione di
stato in tutto l’impero. Una lettura
anticonvenzionale e ricca di dettagli di
quel periodo storico è resa ancora da
Deschner nel suo già citato saggio, con un’attenta
analisis storica che svela
numerosi retroscena della storia del Cristianesimo
solitamente tenuti celati.
[23] È noto, a questo proposito, l’atteggiamento censorio di Senofane di Colofone, il quale, come risulta da varie testimonianze e frammenti (Sesto E. in Adv.math I, 289 e IX, 193, Clemente A. in Stremata, V, 110 e VII, 22, e altri) aveva stigmatizzato la bassezza morale degli dèi olimpici a sostegno della sua tesi dell’unico “dio-tutto” eterno ed immutabile. Egli portava con ciò un attacco diretto all’antropomorfismo della religione greca (forse sulle orme del monismo induista e di quello ebraico) e determinava, secondo la tradizione dossografica, la nascita della Scuola di Elea e l’origine del monismo metafisico.
[24] Cfr. § 1.1
(il luminoso nell’interpretazione della religione di
Rudolf Otto).
[25]
Numerose sono le testimonianze sull’argomento.
Clemente Alessandrino riferisce
le seguenti affermazioni di Senofane: «Ma se i bovi i cavalli e i leoni
avessero le mani o potessero disegnare con
le mani, e far opere come quelle
degli uomini, simili ai cavalli il cavallo
raffigurerebbe gli dèi, e simili ai
bovi il bove, e farebbero loro dei corpi
come quelli che ha ciascuno di loro.»
(Stromata,V, 110). E ancora: «Gli etiopi dicono che i loro dèi hanno
il naso camuso e sono neri, i Traci che hanno
gli occhi azzurri e i capelli
rossi.» (Ivi VII, 22). Da parte sua Sesto Empirico
riporta la seguente
rampogna : «Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi
tutto ciò che per
gli uomini è onta e biasimo: e rubare e fare
adulterio e ingannarsi a vicenda.»
(Adversus mathematicos,
IX, 193).
[26] Šankāra (VIII sec.) sarà il primo teorizzatore del monismo assoluto nel sistema vedānta, largamente ispirato ai testi delle Upanişad. Per Šankara l’unica realtà è il brahman (il principio cosmico da cui tutto deriva e che il tutto pervade) che si identifica con l’ ātman (l’anima generale del cosmo).
[27]
Rāmānuja (1017 ca –1137) si oppose
all’acosmismo di Šankāra ed
elabora una dottrina vedānta in senso monoteista, con Vishnu quale
divinità reale di riferimento.
[28] Questo tipo di concezione viene definita panteismo acosmistico e anche come panenteismo. Si tratta di una concezione filosofica che realizza una sorta di saldatura tra la filosofia occidentale e quella orientale, poiché il rapporto che il brahman-atman vedāntico intrattiene col mondo percepibile (attraverso la maya che ne è potere creativo) un rapporto col mondo percepibile che è lo stesso esistente tra il Dio neoplatonico e il mondo materiale.
[29] Traiamo da La città di Dio (Rusconi 1984) di Sant’Agostino qualche riferimento a Platone: (VIII, 4, p.386) « Perciò Platone ha la gloria di aver portato la filosofia alla perfezione […]», (VIII, 5, p.387: «[…] Platone, che è di gran lunga e meritatamente superiore a tutti gli altri filosofi gentili […] » (Ibidem): «Se dunque Platone ha deto che sapiente è chi imita, conosce, ama questo Dio e trova la felicità partecipando alla sua vita, che bisogno c’è di passare in rassegna altri filosofi? Nessuno è più vicino a noi dei platonici.» (VIII, 11, p.397) «Alcuni, che la grazia di Cristo unisce a noi, si sorprendono quando sentono o leggono che Platone ha avuto intorno a Dio idee riconosciute in armonia con la verità della nostra religione ».
[30] Necessità
e libertà (Clinamen 2004) pp.89-90
[31] Ivi – § 1.5, 4.1, 10.5.
[32] Un’interessante eccezione a questa prerogativa dell’essere supremo è quella rappresentata dal greco Zeus, il quale in realtà non conosce le azioni e le intenzioni umane per virtù propria, ma perché dispone di una rete di trentamila informatori invisibili che osservano gli uomini e le loro azioni. Come sempre la religione greca, lontana dalle astrazioni, detrascendentalizza la divinità per riportarla alla concreta realtà umana sia pure in forma iper-umana.
[33] Raffaele Pettazzoni L’essere supremo nelle religioni primitive - Einaudi 1957 – pp.93-94.
[34] Ivi – pp.107-108.
[35] Ivi p.160.
[36] Relativamente alle ascendenze del monoteismo ebraico va segnalato che un già molto anziano Sigmund Freud pubblicava tra il 1934 e 1938 tre saggi relativi a una sua lunga ricerca storica sfociata nell’ipotesi che Mosé non fosse ebreo ma un funzionario egiziano altolocato al servizio di Ekhnatòn. Alla luce di ciò la religione di Jahvè avrebbe origine, attraverso Mosé, nel monoteismo imposto da Ekhnatòn per combattere lo strapotere della classe sacerdotale egizia verso la metà del XIV secolo a.C. Il dio unico Atòn, imposto dal faraone per rafforzare la propria posizione, dominò la scena religiosa egizia per un pugno di anni finché il suo creatore non usci di scena (probabilmente assassinato) permettendo così il ritorno alla religione tradizionale. Mosè avrebbe in seguito lasciato l’Egitto e in terra ebraica, sulla base della religione del dio Atòn, da lui abbracciata, avrebbe dato vita (attraverso la fusione con elementi preesistenti) alla religione di Jahvé. Il dato di partenza di Freud sta nel fatto che il nome “Mosé” sarebbe una corruzione della parola egizia mose (lett. bambino), che compare come suffisso di numerosi nomi egizi dell’epoca (Ahmose, Tutmosi, Ramose). L’ipotesi freudiana non ha mai avuto molto eco e molto credito, ma ciò (indipendentemente dalla sua reale consistenza) è abbastanza comprensibile dato il fuoco di sbarramento ideologico che la contrasta, poiché se si configurasse come tesi avrebbe un’impatto devastante sulla dottrina ebraica.
[37] Dario Sabbatucci Monoteismo – Bulzoni 2001 – p.25.
[38] Il termine, di origine greca (lett. svuotamento) indica la rinuncia di Dio, nella persona del Figlio, alle prerogative divine, con l’accettazione della condizione umana in tutta la sua fragilità e sensibilità alla sofferenza. Il concetto prende origine dalla Lettera ai Filippesi (2, 6-8) nella quale San Paolo afferma: «Egli, pur possedendo la natura divina, non pensò di valersi della sua eguaglianza con Dio, ma preferì annientare se stesso prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini […]».
[39] Lo zoroastrismo (o mazdeismo) è un monoteismo che contiene forti elementi dualistici. Ahura Mazda, il supremo dio creatore e reggitore del mondo, per conservarlo nel bene è costretto a dover combattere continuamente l’azione devastante di Angra Mainyu (lo Spirito Malvagio) che domina e gestisce le forze del male.
[40] Ma occorre aggiungere che ciò accade finché l’uomo delle società avanzate non arriva a turbare il suo “edenico” equilibrio. Quando tale equilibrio si rompe i risultati culturali sono devastanti, poiché l’uomo arcaico non possiede l’elasticità mentale per elaborare una weltanschauung alternativa o adattata al nuovo orizzonte gnoseologico. Venendo messi in crisi i punti di riferimento della religiosità (vedi i § 1.1, 1.2 e 1.3) le società impregnate dalla weltanschauung mistica si frantumano e alla cultura dell’immobilità subentra quella della competizione su base irrazionalistica. Rimanendo il pensiero arcaico sostanzialmente a livello pre-razionale, malgrado le iniezioni di razionalità mal assimilata implicita nell’addestramento all’uso di strumenti e apparecchi (dalle armi, alla televisione, al telefono, ecc) realizzati in un contesto estraneo, come è quello razionale e tecnologico, esso si trova a cavallo tra un mondo che “sta perdendo” ed un altro che “usa”, ma che non capisce. L’abbandono della weltanschauung religiosa costituisce allora un dramma epocale, poiché, da un lato, l’uomo arcaico non può abbandonare (senza perdere la propria identità individuale e sociale) la weltanschauung religiosa, ma nello stesso tempo essa nella sua mente si de-struttura, decadendo così a pura superstizione disordinata e arbitraria, e perde quindi tutti quegli aspetti positivi (conferimento di regola e di ordine) che la rendevano monolitica e perfetta.
[41] Su alcune forme primitive di classificazione in E.Durkheim, H.Hubert, M.Mauss Le origini dei poteri magici Bollati Boringhieri – Torino 1991.
[42] Mauss, in Teoria generale della magia (Einaudi 1991, p.330-347), analizza i tipi di suicidio che l’uomo arcaico mette in opera quando ritiene di aver commesso una trasgressione irreparabile alle regole religiose del gruppo.
[43] Ci sembra interessante ribadire il punto di vista di Eliade con le sue stesse parole (Il sacro e il profano Bollati Boringheri 1995, p.45): «Se dovessimo riassumere il risultato delle precedenti descrizioni, diremmo che l’esperienza dello spazio sacro rende possibile la “fondazione del Mondo”; nello spazio ove il sacro si manifesta, là si rivela il reale, ha origine il Mondo. L’irruzione del sacro non proietta solo un punto fisso in mezzo all’amorfa fluidità dello spazio profano, un “Centro” nel “Caos”; essa dà luogo inoltre a una rottura di livello, apre la via di comunicazione tra i livelli cosmici (Terra e Cielo) facilita il passaggio ,ontologicamente, da un modo di esser all’altro. Questa rottura nell’eterogeneità dello spazio profano crea il “Centro” attraverso il quale si può comunicare con il “trascendente”; il quale,rendendo possibile l’orientatio, fonda conseguentemente il “Mondo”. La manifestazione del sacro nello spazio ha quindi una validità cosmologica: ogni ierofania spaziale, ogni consacrazione di uno spazio, equivale a una “cosmogonia”.».
[44] Abbiamo già introdotto questo concetto all’inizio del § 1.7 con riferimento al testo di Necessità e Libertà. In questo, al capitolo IV, noi supponevamo una sorta di “selezione naturale” concernente l’avvicendamento delle religioni, rispondente al concetto di ragione biologica, che avevamo posto come essenza originaria dell’evoluzione del mondo vivente, in ogni suo aspetto ed espressione.
[45] Non prendiamo qui in considerazione l’elemento più propriamente “politico”, ovvero il rapporto che si instaura tra una religione e il potere temporale, la cui importanza è fuori discussione. E’ però oggetto della sociologia e non della filosofia determinare gli strumenti attraverso i quali i poteri si scontrano e si alleano in vista del proprio successo, con reciproco rafforzamento delle differenti posizioni mediante collaborazione ideologica sul piano delle istituzioni, dell’etica, dell’istruzione e della cultura.
[46] Cfr. Necessità e Libertà Cap.IV.
[47] Come si sa vi sono individui che sfuggono sistematicamente ogni situazione esistenziale ripetitiva e che cercano costantemente la novità e il rischio proprio per rompere la monotonia della vita; essi realizzano pertanto se stessi attraverso la dinamicità esistenziale e non attraverso la stabilizzazione. Non è però chiaro se tale comportamento risulti dettato da una “scelta di vita” o non invece da una “pulsionalità” conseguente a specifici elementi caratteriali. Se di ciò si tratta, l’anticonvenzionalità e la trasgressione (rispetto ai moduli comportamentali comuni) sarebbero allora conseguenti ad una certa struttura della psiche individuale e non ad una scelta dettata da una razionalità consapevole.
[48] Una tesi collaterale, facilmente verificabile dai dati demografici, potrebbe enunciare che i contesti culturali che favoriscono l’omeostasi psichica (molto spesso quelli ad alto tenore di religiosità) favoriscano anche indirettamente i tassi di natalità.