La lettura di questo poema
apocrifo di Dante Alighieri deve essere preceduta da quella dei primi quattro
capitoli de “I Delitti del Mosaico” di Giulio Leoni.
De Mosaici
Delicto
Nel mezzo del cammin di nostra
vita,
nell’anno del Signor mille e
trecento,
appena eletto alla carica
ambita
di Prior di Fiorenza, un tristo
evento
la notte insonne mia venne a
turbare.
Il quindici di Giugno, mi
rammento,
mentre le scienze io stavo a
studiare,
ecco il Bargello bussare alla
porta.
Quel disgraziato mi venne a
chiamare,
al fin d’accompagnarmi, con la
scorta:
“Venga, Priore, la prego, sin
duda,
abbiam trovato una persona
morta
nella vecchia Cappella di San
Giuda,
e lei, che se n’intende di
Latino,
potrà scoprir la veritade
nuda:
c’è un morto ucciso, e quindi un
assassino,
ma il delitto è davvero cosa
strana:
hanno ammazzato il Mastro
Comacino,
e forse c’è la mano di
Satàna.
Messer Durante, è grande la
questione,
e forse, Lei decida, non è
umana:
a mio parer la Santa
Inquisizione
dovrebbe investigar questo
delitto...”
“Il tempo al tempo, grande
pelandrone!-
Risposi al quel Bargello
derelitto-
Non affrettarti, ma porta
pazienza!
Puniremo il misfatto di
Diritto,
se spiegar lo potremo con la
scienza,
intanto, caro mio stolto
Bargello,
lasciamo il Papa fuori da
Fiorenza!”
M’incamminai, seguendo quel
drappello
che, pavido, s’andava a passo
lento.
Giunti a San Giuda mi dissero: “È
quello!”.
Entrato lì, m’apparve, mi
rammento,
sul muro, la figura d’un
gigante
dall’aurea testa e dal busto
d’argento,
mentre il resto del corpo
sottostante
era di ferro, nero come il
fiele,
e infine, poi, all’argilla
somigliante,
d’un color che ricorda molto il
miele.
D’un tal gigante, di metallo e
stucco
Si parla pur nel Libro di
Daniele,
o forse, del Profeta
Cabacucco,
comunque nell’Antico
Testamento,
ch’apparve in sogno un giorno al
Re Nabucco.
Ma lì a San Giuda, in quel cupo
momento,
quella figura alta e
maestosa
di tessere incollate col
cemento
volea significare un altra
cosa:
un messaggio vitale et
incompiuto,
una scoperta ‘sì forte e
grandiosa,
che, quando il mondo l’avesse
saputo
il Fato Umano sarebbe
cambiato.
Il Comacino, avendo
voluto
rivelar quel segreto, fu
ammazzato.
Già venne l’alba. Il lungo
camminare
e la vision del morto avean
stremato
la mente mia, già fiacca dal
vegliare,
così ch’andai cercando uno
speziale,
per prendere una droga ed
alleviare
un poco quel dolor, ‘ché molto
male
avevo in capo, sotto la
criniera.
L’aconito col pepe ben si
vale
a far fluire fuor la bile
nera.
‘Sì, presso la Fontana della
Morte
conobbi quel Teofilo
Sproviera.
Elli mi disse: “Ho qui, per bona
sorte,
per lei, messere, nuova
medicina,
quasi miracolosa, molto
forte:
potente più della Turca
Assassina,
meliore del papavero
d’oriente,
che portan gli infedeli dalla
Cina”.
Ora so che quel farmaco
potente
proviene da una terra
misteriosa
che scopriron gli antichi in
occidente.
Però non voglio anticipar la
cosa,
dirovvi sol che quella strana
manna
in quel sito remoto cresce a
iosa
e chiamasi in latino ‘Doppia
Canna’,
o pur ‘La foglia dalle nove
dita’,
o pure ‘l’Erba di Maria
Giovanna’.
Essendo l’emicrania
dipartita
e finalmente lucido ‘l
pensiero,
presi ad esaminare con le
dita
le carte di quel mastro, ed ecco,
in nero
s’un foglio di pregiata
pergamena,
io vidi la figura d’un
veliero,
ecco la chiglia, ed ecco una
gomena,
e poi la vela, gonfia di
Mistrale,
ma a guardarla mi prese grande
pena,
e riprese la testa a farmi
male,
‘ché quella vela e l’albero,
anche quello,
erano cosa del tutto
irreale,
sporgendo entrambi da sotto il
vascello,
come se il vento fosse sotto il
mare.
Mi sentivo più stolto del
Bargello,
ma ripresi il disegno ad
osservare
e d’improvviso vidi, da una
parte,
un segno noto. Quel
particolare
era una stella, disegnata ad
arte,
era Venus, la stella del
mattino,
e dell’occaso, che mai si
diparte
dal Sole, e gli rimane ben
vicino,
mentre, nel Terzo Cielo ‘sì
vagando,
percorre lentamente il suo
cammino.
M’accorsi qui che stavo
divagando,
per ciò decisi di tornare al
sodo
ed altri indizi quindi andai
cercando.
Volli capire, innanzi tutto il
modo
e la ragione di cotal
lavoro,
e quale fosse il nesso, e quale
il nodo,
e chi pagasse il prezzo di
quell’oro
e chi pagasse il prezzo
dell’argento,
s’eran fiorini, o soldi del
Moro,
i fondi per pagare il
monumento.
Chiamai Ser Duccio, il calvo
segretario,
che teneva dei conti ogni
memento,
in ordine, nel libro
dell’Erario.
Elli mi disse ch’era a
conoscenza
dei preventi, ed aprendo quel
diario
mi disse: “È per lo
Studium della Scienza,
tal qual ce n’anche a Roma ed a
Bologna.
Il Papa vuol che l’abbia anche
Fiorenza,
‘ché di saper di Scienza c’è
bisogna
in tutte le città de li
Cristiani.
Il Papa pensa che sia una
vergogna
che sian più dotti oggi
que’pagani
d’Ispagna, dell’Egitto e di
Sorìa,
che gli eredi di Roma,
l’Italiani.
I soldi, poi, per tale
maestria,
come l’opra del Mastro
Comacino,
non vengono da noi, ma d’altra
via,
‘ché non ci spende Fiorenza un
fiorino.
Credo che siano soldi dei
Dottori
del Collegio, non gente di
vicino,
ma tutti dotti venuti da
fuori,
per esempio Sproviero, lo
speziale,
ch’è ricco certo, ad alleviar
dolori...”
Duccio s’avvide d’aver detto
male,
e s’azzittì, ‘chè lo colse il
pensiero
ch’anch’io appartengo a
quell’Arte Spetiale.
Io lo interruppi: “Che dici?
Davvero,
ciò che favelli importanza può
avere!
Di quel Collegio fa parte
Sproviero?
Va’ pure adesso, ma voglio
sapere
ogni cosa sui membri del
Collegio!”.
Lo licenziai, per andare a
vedere
come avesse Sproviero il
privilegio
di fare parte di ‘sì dotta
lega:
s’era speziale di cotanto
pregio,
o se ci fosse sotto qualche
bega,
e c’era un modo solo, in fede
mia:
andar di nuovo a cercarlo in
bottega.
M’accolse con garbata
cortesia
e m’invitò a venire quella
sera
da Baldo, dal crociato,
all’hostaria,
al vespro, infatti, la riunione
c’era
de’ Dotti del Collegio, a
desinare.
Andai. E come fuor de
l’atmosfera.
Mi ritrovai, d’improvviso a
vagare
pel Terzo Cielo insieme a
Sproviero,
‘ché riconobbi, seduti a
cenare,
dotti dei quali già sapevo
invero,
ognuno grande in la sua propria
scienza,
ognun di loro, però,
forestiero:
‘ché niun di loro era nato in
Fiorenza.
Eran quei dotti uno strano
serraglio,
‘ché riconobbi, nei volti,
parvenza
di can , di volpe, di scimmia e,
non sbaglio,
aquila pure, e cavallo e
leone.
Si presentaron, passandomi al
vaglio,
ma col rispetto di detta
occasione:
erano Menico, il
Naturalista,
Bruno, Teologo, in saio
marrone,
poi ancora Antonio, famoso
Giurista,
Iacopo, noto Architetto
romano.
Si presentarono, in fondo alla
lista,
pure Verniero, del mar
Capitano
e Cecco d’Ascoli, ch’era il
Rettore,
Medico e dotto degli Astri e
d’Arcano,
e, tra li Pari, il Primo e ‘l
Maggiore.
M’ero seduto allo scanno pria
vuoto,
quando mi colse uno strano
rumore,
al tempo stesso vicino e
remoto,
di tamburello e di dolce
metallo.
Ella ci apparve, nel lento suo
moto,
ci venne incontro, a passo di
ballo
quella bellezza, lasciandomi
muto:
d’onice gli occhi, ed il corpo,
cristallo.
Ma, d’improvviso, un urlo
acuto,
‘ché ‘l monco Baldo, sì, l’hoste
Crociato
un ebbro, ardito di più del
dovuto,
pei colleoni aveva
afferrato
E, trascinato l’incauto
meschino,
fuori di porta l’aveva
buttato.
Antilia, intanto, venuta
vicino,
mostrava ai Dotti la propria
bravura,
le mosse ardite d’un Ballo
Divino.
Gira e rigira, la sua
copertura
Fatta di veli, s’aprì come un
fiore,
pure mostrando la sua Selva
Oscura...
Vorrei continuar a dir
d’Amore,
ma pongo fine quivi a mie
favelle,
‘ché nella testa sento un gran
dolore,
un’emicrania, da veder le
stelle.