A n d r
e a *
Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. Alto,
avvolto nel suo lungo cappotto scuro, teneva tra le mani un libro ancora
nella custodia di cèllofan. Non lo vedevo da oltre un anno. L’ultima
volta lo avevo incontrato al matrimonio di sua cugina. Mi era apparso
inquieto, insofferente, scambiammo appena qualche parola.
<< Ciao Andrea! >> lo
salutai volutamente con l’aria di chi incontra un amico con il quale
poche ore prima ha preso un caffè.
Rispose a stento al saluto. Per niente sorpreso dal suo
comporta-mento, ripiegai il giornale e lo invitai a sedersi al mio
fianco sulla panchina:
<< Accomodati, è da molto tempo che desidero avere tue
notizie.>>
Aderì all’invito così velocemente da darmi l’impressione
che non aspettasse altro. Osservandolo mentre si aggiustava il cappotto
per se-dersi facendo scorrere la mano dietro la schiena, pensai che lo
conoscevo da sempre. Amici dall’infanzia, lo stesso liceo, la stessa
facoltà di Economia e Commercio, avevamo avuto insieme anche alcune
esperienze di lavoro.
Andrea era quel che si suol dire un ragazzo perbene e così ebbe
un infarto in giovane età. Superata la fase acuta della malattia, i
medici gli consigliarono di sospendere per un certo periodo ogni attività
e di condurre una vita tranquilla, senza sforzi, al più fare “brevi
passeggiate in piano”. La primavera volgeva al termine e Andrea, per
difendersi dall’estate infuocata ed intensa del suo paese, decise di
ritirarsi nella antica casa di campagna, a Corticelle di Mercato S.
Severino. Molti ricordi legavano Andrea a quella casa. Vi aveva
trascorso i periodi più felici della sua infanzia e, altrettanto
felici, i primi anni di matrimonio.
Più volte, durante l’estate, andai a fargli visita, passando
con lui l’intera giornata. In quel vecchio palazzo i giorni
trascorrevano lenti, somigliandosi l’uno con l’altro. A brevi e
assolate passeggiate nei dintorni, Andrea alternava lunghe letture nel
cupo silenzio del giar-dino dietro casa. Il pino vertiginoso, custode
geloso delle storie più segrete della famiglia, le due magnolie
altissime, dalle scintillanti foglie metalliche,
e la folta vegetazione creavano un’ombra spessa e protettiva.
In questa casa un tempo Andrea aveva conosciuto la gioia piena,
l’appagamento
senza condizioni, beatitudini senza amarezze: in una parola sola:
l’amore. Ogni mobile, ogni oggetto aveva per lui un significato, un
senso, una storia. Non c’era fiore o cespuglio che non avesse curato
amorevolmente, non c’era albero su cui non fosse salito per
raccoglierne i frutti. Quel pezzo di mondo gli era interamente
appartenuto, gli era profondamente familiare, infinitamente caro.
Andrea era professore di ragioneria e commercialista, benché ai
tempi dell’Università avesse dimostrato di possedere una spiccata
attitudine e una vera passione per l’economia. Sognava, a vent’anni,
di risolvere i problemi dell’umanità, in special modo il problema
della fame e del sottosviluppo dei popoli del terzo mondo, che oggi
appaiono sempre più come abitanti di un altro
mondo. Erano frequenti le sere in cui, invece di venire a cinema con me
e gli altri amici, si recava ad un seminario o si attardava a discutere
dei problemi dei Paesi in via di sviluppo, come eufemisticamente si
chiamavano allora i Paesi sotto sviluppati.
Parlava di programmazione lineare,
di priorità dell’industria
pe-sante su quella leggera, di investimento in istruzione, di
produttività, ecc. ecc.. Si laureò a pieni voti discutendo una tesi
sulle prospettive di sviluppo dell’industria conserviera vegetale,
campo in cui aveva esperienza, avendo aiutato per diversi anni il padre,
titolare insieme con il fratello di un’azienda del settore.
Accadde, però, per destino, come dicono i pagani, o per opera e
virtù della Divina Provvidenza, come dicono i cristiani, che finì per
occuparsi di imposte e tasse, anziché di teorie e politiche dello
sviluppo economico o di gestione aziendale.
Le cose, all’incirca, andarono così. Nell’Italia
meridionale, l’uni-co luogo in cui venivano affrontate le
problematiche dei Paesi del terzo mondo era l’Università, ma Andrea
dovette lasciar cadere in malo modo la grande occasione che gli si
presentò. Il professore che lo aveva seguito nella stesura della tesi
di laurea gli offrì un incarico di assistente. Andrea ne parlò a casa,
ma il padre disse che c’era la fabbrica a cui pensare. Non se ne parlò
più.
Dopo il servizio militare nella bella e addormentata Trieste,
Andrea partecipò ai corsi per l’abilitazione all’insegnamento,
conse-guendo un ottimo voto finale che, sommato al voto di laurea, gli
consentì un facile ingresso nelle Scuole Superiori, peraltro anche in
una sede comoda, vicino a Corticelle, dove con l’aiuto della fidanzata
stava già arredando la casa per le nozze.
Il padre, qualche anno dopo, vuoi per l’età, vuoi per i tempi,
vuoi per il deteriorarsi dei rapporti con i nipoti comproprietari,
giudicò che non vi erano più le condizioni per mandare avanti
l’azienda in maniera proficua e decise di cedere la sua quota.
Si concludeva così una guerra familiare che, senza essere stata
mai dichiarata, si combatteva da circa trent’anni e in cui i
discendenti delle
due famiglie avevano profuso le loro migliori energie, le più fresche,
quelle giovanili. Andrea aveva sempre cercato di mettere pace tra i due
gruppi, ma non sempre i suoi sforzi ebbero successo. Ed essendo il più
giovane, pagò il prezzo più alto, proprio nel momento in cui
attraversava il confine che separa la giovinezza dalla maturità.
Dopo il sogno universitario, svaniva anche quello
imprenditori-ale.
Anche ad un modesto conoscitore dell’animo umano, Andrea, in
quei giorni, sarebbe apparso come un toro scalpitante senza arena, come
un fiume senz’acqua, come un viandante senza via. Da allora, pur
vivendo in bruciante tensione come una candela che arde da entrambi i
lati, ora in esaltante creatività per un progetto edilizio da
realizzare, ora pervaso da un frenetico godimento di trasmettere ai suoi
alunni ciò che dalla vita aveva appreso, Andrea si portava dentro
l’anima un sentimento di frustrazione che gli faceva
apparire tutte
le sue attività piccole ed insignificanti, mentre non lo erano
affatto.
Di nient’altro viviamo se non dei nostri sentimenti, poveri,
belli o splendenti, e ogni qualvolta facciamo torto ad uno di essi, è
un colpo che portiamo al nostro cuore! E non solo metaforicamente.
Andrea non serbò rancore verso nessuno per come erano andate le
cose, e negli anni successivi si adoperò perché il padre, sempre
impegnato per la propria attività nel periodo estivo, trascorresse le
restanti estati della sua vita in vacanza al mare, nel fresco della
pineta di Paestum.
Così era stato Andrea nella giovinezza, in quel tempo favoloso
in cui niente al mondo appare impossibile, niente al mondo difficile. In
quel tempo tutto gli apparteneva e a tutti dava consigli. E in seguito,
ancora per molto tempo, aveva continuato a vivere allo stesso modo ….
fino alla svolta che la malattia aveva bruscamente determinato. Adesso
un nuovo mondo si schiudeva alla sua vista, in pendio e irreale,
costituito da ripide e lunghe discese e da lenti e brevi salite, spesso
affrontate con l’aiuto di coppe ricolme di vino.
Queste mie considerazioni vennero bruscamente interrotte da
Andrea che, guardandomi fisso negli occhi, mi chiese:
<< Gino, cosa mi è successo?
Non so più cosa fare, quale strada prendere per uscire da questo
vicolo cieco in cui mi sono cacciato>>.
Pronunziò le parole ad alta voce come chi da lungo tempo si
porta dentro un greve peso e finalmente
è riuscito a liberarsene.
La sua domanda non fu per me del tutto inaspettata. Spesso, negli
ultimi tempi, mi era capitato di pensare ad Andrea, al difficile momento
che stava attraversando da circa tre anni, da quando era stato male.
Fisicamente sembrava essersi ripreso, psicologicamente ancora no.
Non dovetti riflettere molto prima di rispondere:
<<Se non mi dici dove vuoi andare, ossia qual è per te in
questo momento la meta più importante da raggiungere, come posso
indicarti quale strada devi prendere?>>
<<Vorrei per prima cosa riacquistare la serenità
perduta>>, ri-spose.
<<Ah, per questo puoi star tranquillo, la strada c’è,
devi ricercar-la innanzitutto dentro di te.>>
<<In che modo?>>
esclamò.
<<Non ho ricette, Andrea. Posso solamente dirti come vedo
sia andata per te la vita fino ad oggi. Credo ti sarà
d’aiuto.>>
Osservai Andrea, aspettavo una risposta che non arrivò. Non mi
guardava più in viso, stava chino con le braccia poggiate sulle gambe e
fissava la figura sulla copertina del libro che teneva tra le mani. Dopo
un attimo d’indecisione, mi feci coraggio.
<< Ti sei portato dentro -- continuai -- per troppo lungo
tempo un sentimento di insoddisfazione. Ti sei sentito uno sconfitto
anche quando risultavi
vincitore. Non vedevi soddisfatte dalla vita tutte le tue aspettative,
qualcosa, molto, dei tuoi sogni giovanili, dei tuoi ideali più alti,
era rimasto in fondo al cassetto. Di fronte alle continue smentite che
la vita quotidiana dava ai tuoi sogni di potenza e di gloria si
presentavano due strade: o abbandonare le tue illusioni giovanili o
sublimarle. Tu hai scelto la seconda, la più semplice.
Per molto tempo hai creduto nella felicità e nella possibilità
di rendere felici gli altri che non lo erano. Sognando di aiutare gli
abitanti dei Paesi poveri ad uscire dalle condizioni di precarietà e di
fame, hai finito per sentirti buono ed altruista, superiore e potente.
E’ difficile per te ora ricordare
e capire quei sogni che allora riempivano la tua immaginazione.
Talmente strani, talmente lontani dalla reatà adesso ti appaiono,
adesso che con la malattia hai scoperto una cosa antica: la precarietà
della vita.
Hai declamato l’Io, narcisisticamente, fin dalla nascita, ora
il confronto con la naturale infelicità della vita ti ha fatto prendere
coscienza della tua imperfezione, dei tuoi limiti. Ti eri illuso che
potevi voler
tutto, ora la paura
ti ha riportato con i piedi per terra. Il tuo
smarrimento è pari alla passata cieca sicurezza. La vita ti appare
adesso come un gioco senza speranza che un baro armato ti ha obbligato a
giocare. “ La partita è truccata, --
tu dici -- come posso giocare? “.
Per l’ennesima volta nella vita ti trovi ad un bivio. Di fronte
al baro
armato potrai subito dichiararti vinto,
rinunciando ad affermare la tua dignità: allora veramente
perderai ogni diritto di far parte del consesso umano. Oppure potrai
giocare, guardando ben dritto negli occhi l’antagonista. Perderai
prima o poi, ma intanto ribellandoti al tuo destino ti sarai battuto nel
solo modo che ti è concesso: mantenendo fede a te stesso.
Ma a ben guardare, Andrea, è questa poi solamente la tua
con-dizione o non è forse anche la mia e quella di tutti gli altri
uomini? >>
Avevo parlato tutto d’un fiato. Spesso avevo osservato Andrea
seduto al mio fianco, cercando di incrociare il suo sguardo, ma egli non
alzò mai gli occhi dal libro che lentamente faceva girare tra le mani.
Senza distogliere lo sguardo dal libro, disse:
<< Per me è stato diverso. Ho accettato a cuor leggero
sconfitte e rinunce credendo ogni volta di privarmi di un pezzo
dell’abito, ed invece, a poco a poco, mi sono tolto la pelle di
dosso.>>
<< La vita di ogni uomo è fatta di vittorie e sconfitte,
di ascese e ricadute. Ragionando a questo modo, non ti sembra di
esagerare?>>.
<< No, non esagero. Gino, io ho perso l’identità!>>
<< L’identità non è data solamente dalla memoria del
tuo passato, dalle cose che hai fatto o speravi di fare; a dar forma
all’identità contribuiscono soprattutto le speranze, le aspettative
di ciò che potrai ancora realizzare. Il vento che soffierà domani sarà
solo quello di domani.>>
Trascorsero alcuni momenti di silenzio, poi, quando si rese conto
che non avevo altro da aggiungere, Andrea si girò verso di me e
mi fissò per alcuni istanti. Mi sembrò di scorgere un lieve sorriso
sul suo volto. Poi, guardando l’orologio, esclamò:
<<Sono le cinque e mezza! Si è fatto tardi.>>
Velocemente si alzò e si allontanò lungo il viale tirandosi su
il bavero del cappotto per ripararsi dal vento che spingeva alle sue
spalle.
Lo accompagnai con lo sguardo finché non scomparve alla pri-ma
curva del viale, poi andai via anch’io prendendo la sua stessa
direzione.
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