Rassegna stampa

Viaggio in Bosnia, il Paese che non c'è

Bosnia: l'incubo della diga. Il conflitto fra le diverse comunità assume una piega incontrollabile

Bosnia, violata l'ultima tregua

Guerra civile in Bosnia Erzegovina. Karadzic, il capo delle milizie serbe in Bosnia  dal bunker sotterraneo sogna la Grande Patria

Strage a Sarajevo tra la folla in fila per il pane: 8 morti e 50 feriti

Per la Bosnia una proposta delle grandi potenze

Testimonianze. Parlano le donne bosniache. Gli abusi e la prigionia: finché è tardi per abortire

Bosnia, a Ginevra si ridiscute tutto. L'America decisa a intervenire in Bosnia con l'aviazione anche senza l'appoggio degli alleati della Nato

Il progetto di liMes - Ricostruzione: le vere rovine sono fuori da Sarajevo


REPORTAGE / Da Sarajevo fino a Banja Luka attraverso tre frontiere, quattro monete e un muro di odio

Viaggio in Bosnia, il Paese che non c'è

Parla la leader serba Plavsic: Lo Stato costruito a Dayton frantumato in una miriade di enclave

di Massimo Nava

DAL NOSTRO INVIATO BANJA LUKA - C'è un'indelebile aria di solennità davanti al «Banski Dvor», il palazzotto asburgico sede della presidenza serbo bosniaca. Qui, fra corridoi lustri e imponenti colonnati, si è insediata Biljana Plavsic. Ecco una vera capitale, verrebbe da esclamare fra giardini ben curati e isole pedonali dove i giovani guardano vetrine di moda modestamente europea. Zagabria è a meno di duecento chilometri, Jajce, memoria storica della fondazione della Jugoslavia, a meno di settanta, Sarajevo a 235. Ma per arrivare a Banja Luka le distanze chilometriche si fanno abissali come il divario fra la normalità e l'assurdo del dopoguerra bosniaco. E' un viaggio nella commedia, tragicomica come i protagonisti che l'hanno voluta, fra immense distruzioni e parodie di nazionalismi ormai coperti dalla stanchezza e dal senso di una sconfitta collettiva. Si parte da Sarajevo con in tasca i dinari della Bosnia musulmana, unita dagli accordi di Dayton con le altre etnie, ma di fatto smembrata in istituzioni tricefale, presidenze collegiali, rappresentanze politiche di etnie che non si riconoscono e che non trovano accordi nemmeno sui prefissi telefonici, sulle poste, sul colore della bandiera, sulla «lottizzazione etnica» degli ambasciatori. A nord, dopo Zenica, si entra in un'enclave croata, difesa a colpi di cannone dalle mire serbe. Le bandiere sono quelle di Zagabria, la benzina si paga in kune croate, bambini in bicicletta fanno il pic-nic sul fiume ed esibiscono le maglie a scacchi bianco-rossi della nazionale di calcio. Nei bar si beve caffè turco. A Doboj comincia il territorio della Srpska Republika, la Repubblica dei serbi di Bosnia, a sua volta ormai divisa fra l'area di Banja Luka e quella di Pale. I soldati della Nato montano la guardia al ponte di ferro, unica possibilità di passaggio fra targhe in latino e in cirillico. I tassisti croato -bosniaci aspettano i pochi serbi che si avventurano da questa parte e lo stesso fanno i tassisti della Srpska Republika. Loro accettano dinari serbi (la stessa moneta che circola a Belgrado), dinari bosniaci e kune, ma preferiscono i marchi tedeschi, il vero lasciapassare in tutto il territorio. Gli affari uccidono anche l'odio. A pochi chilometri, verso est, c'è l'Arizona market, un chilometro di terra di nessuno dove croati, musulmani, serbi e montenegrini commerciano e vendono di tutto in perfetto accordo. Sigarette, auto rubate, jeans, beni di consumo, moda italiana e alimentari passano senza problemi ogni frontiera e ogni barriera etnica. E l'area di Banja Luka volta le spalle ai contadini e ai falchi di Pale, fino a ieri fratelli di sangue e di battaglia, sapendo che l'antico benessere può ritornare soltanto con la reintregazione. Nell' Hotel cadente, chiamato ancora «Bosnia», è aperto il casinò. Il paesaggio collinoso rivela ferite terribili e dimenticate. A Derventa, nessuna casa croata ha resistito alle «tigri» di Arkan, il capo dei volontari serbi che attuarono la pulizia etnica per conto di Belgrado. Su queste strade dissestate e fra queste rovine, la polizia serbo-bosniaca, colonna portante dello strisciante colpo di stato attuato dalla Plavsic, più che prepararsi ad eventuali scontri, utilizza il radar antivelocità. Mentre i telefonini entrano a tratti nella rete croata, il poliziotto di Banja Luka minaccia di inviare un rapporto a Belgrado. Se lo facesse, il rapporto arriverebbe prima di una cartolina spedita a Zagabria o a Sarajevo. A Banja Luka, la commedia è all'ultimo atto. Convivenza multietnica e pezzi di storia sono stati cancellati e rasi al suolo. Una delle più belle moschee della Jugoslavia è un parcheggio. Molte chiese cattoliche sono state colpite. Qui, il vescovo croato venne sequestrato per mesi e molti sacerdoti e suore sono stati uccisi in nome della gloria serba e ortodossa, ma poi la città ricca di industrie e università si è gonfiata di profughi serbi cacciati dalla Croazia e dalla Bosnia e sistemati nelle case delle altre etnie: la conquista dei confini è stata ottenuta con il trasloco dei popoli. Adesso c'è Biljana Plavsic, una delle più invasate teoriche di questo trasloco, l'ex pupilla di Karadzic che abbracciava il comandante Arkan dopo le sue imprese. Con lei, nel palazzo asburgico, sedeva fino a qualche mese fa Nikola Koljevic, il grande studioso di Shakespeare, l'ex amico degli intellettuali di Sarajevo, che si è sparato alla testa la primavera scorsa aggiungendosi alla galleria di personaggi tragici che popolano lo scenario balcanico. Adesso c' è Biljana a promettere pace, giustizia e democrazia. Lo fa con mezzi anomali, facendosi appoggiare dalle truppe della Nato che ha sempre odiato, sostituendo il ministro della difesa con un generale e conquistando i ripetitori della televisione per stroncare la propaganda di Pale. La gente applaude e strappa i manifesti di Karadzic. Molti sperano in un accordo con Pale. Belgrado sembra strizzarle l'occhio e la Comunità internazionale li chiude sul passato per tenere sotto controllo il presente impazzito. Per far terra bruciata attorno a Karadzic tutto è lecito: anche la proposta di trasferire il tribunale dell'Aja in Bosnia, un compromesso che terrebbe buoni i serbi e agevolerebbe la svolta moderata della Plavsic. Sul muro del palazzo asburgico c'è la scritta «Europa», ma come è lontana.

Domenica, 12 aprile 1992

Bosnia: l'incubo della diga. Il conflitto fra le diverse comunità assume una piega incontrollabile

I musulmani vogliono abbattere lo sbarramento sulla Drina e provocare una strage I serbi occupano altre località nella Repubblica, mentre a Sarajevo la vita si è spenta

SARAJEVO. Dopo tutte le disgrazie che si sono abbattute sulla Bosnia Erzegovina ora c'è anche la minaccia di strage. I pericoli sono innanzitutto due, a Visegrad, la località famosa per il ponte sul fiume Drina, protagonista dell'omonimo romanzo del premio Nobel bosniaco Ivo Andric, dove uno squilibrato, un radicale musulmano, ha il controllo assieme a un gruppo di compagni armati della locale centrale elettrica, la maggiore in Bosnia Erzegovina. Si chiama Murat Sabanovic, e minaccia di far saltare la diga se non cesseranno gli attacchi contro la città musulmana lungo il fiume Drinan, che segna il confine tra la Bosnia Erzegovina e la Serbia. Secondo gli esperti Sabanovic dispone di sufficienti quantità di esplosivo per realizzare la sua minaccia. In quel caso su Visegrad e su tutto il corso del fiume che corre verso nord si abbatterebbero undicimila metri cubi di acqua al secondo. Una catastrofe per non parlare del fatto che l'acqua distruggerebbe diversi impianti dell'industria chimica che si trovano lungo il fiume. Una analoga minaccia viene da Gorazde, più a nord, dove un altro gruppo di estremisti musulmani controllano la fabbrica "Azot". I guerriglieri minacciano di versare nel fiume Drinan duecento tonnellate di ammoniaca, sempre se non cesseranno tutti i combattimenti in Bosnia Erzegovina. Nel caso questa minaccia fosse realizzata probabilmente verrebbero inquinati Belgrado e, secondo alcuni esperti, anche il Mar Nero. Invece il conflitto continua ad estendersi. I serbi continuano ad attaccare. Il punto più nevralgico è a Foca, nell'Erzegovina orientale. Dopo due giorni di combattimento i serbi sono entrati nella città e sulle moschee sventola la bandiera di Belgrado. L'occupazione di Foca provocherà probabilmente l'entrata in guerra del Sangiaccato, una regione di 180 mila musulmani radicali che si estende anche al Montenegro e alla Serbia meridionale. Tra gli altri punti nevralgici c'è senz'altro la Erzegovina occidentale dove prosegue la guerra aperta tra le forze croate e quelle serbo-federali. Inoltre l'Armata è entrata a Modrica, una città della Bosnia settentrionale, con il pretesto di impedire scontri fra le varie nazionalità. La popolazione locale, croati e musulmani, invece, afferma che non c'era alcun pericolo di tali scontri e s i organizza per attaccare l'esercito. A Sarajevo la vita si sta spegnendo. Non c'è più da mangiare, in molti quartieri non c'è acqua e elettricità. Non si può lasciare la città, perché è una trappola. Sui tetti si moltiplicano i cecchini, di notte entrano in azione i mortai e i cannoni. Molti giornalisti se ne sono andati finché erano ancora in tempo, ma è arrivata la BBC e la tragedia ora va in diretta televisiva, in mondovisione. Ieri è arrivato pure l'inviato della Cee, il diplomatico portoghese Josè Cuthiliero. Si è incontrato per due volte con i leader dei tre partiti nazionali e con il comandante della seconda zona militare che copre la Bosnia Erzegovina, generale Kukanjac. Non c'è invece stata la seduta plenaria dei negoziatori anche perché il capo del partito serbo Karadjic opera nella clandestinità e dice di non poter entrare a Sarajevo. Il consigliere partirà nelle prossime ore per l'Europa e la gente spera che da lì arrivi qualche segnale incoraggiante. Ieri la Comunità europea ha lanciato un appello per un immediato ristabilimento della pace nella Repubblica neoindipendente. In un comunicato emesso a Lisbona, la Cee ha chiesto ai governi di Serbia e Croazia di condannare le violenze. I Dodici hanno inoltre riaffermato il loro sostegno all'integrità territoriale della Bosnia. Il riconoscimento della Bosnia da parte della Comunità europea e degli Stati Uniti ha provocato un'escalation di violenza: le milizie serbe sono all'offensiva per conquistare fette di territorio bosniaco e i croati, che pubblicamente sostengono l'integrità della Repubblica, si stanno muovendo nello stesso senso per accaparrarsi fette di territorio. Il segretario generale dell'Onu Boutros Ghali, ribadendo la volontà di compie re ogni sforzo per una soluzione pacifica del conflitto in Jugoslavia, ha annunciato ieri che rimanderà in Bosnia-Erzegovina l'inviato speciale Cyrus Vance. Boutros Ghali non ha però indicato una data precisa per la nuova missione di Vance. Parlando a Ginevra, il segretario delle Nazioni Unite ha affermato che l'organizzazione mondiale "farà tutti gli sforzi necessari per il mantenimento della pace e della sicurezza nella regione". Eros Bicic

Martedì, 21 luglio 1992

Infuriano i combattimenti nonostante l' accordo di Londra e il comandante ONU generale Mac Kenzie chiude l'aeroporto di Sarajevo

Bosnia, violata l' ultima tregua

Bosnia, violata l'ultima tregua Sospeso l'arrivo degli aerei con soccorsi umanitari. Feriti due Caschi blu canadesi dalle schegge di una granata La Cee chiede che la rappresentanza di Belgrado sia esclusa dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni internazionali.

Giudicando dalle prime 24 ore, l'accordo di tregua raggiunto a Londra tra le tre etnie della Bosnia.Erzergovina è clamorosamente fallito. Le centinaia di granate cadute sui quartieri di Sarajevo dopo le 18 di domenica (quando il cessate il fuoco doveva entrare in vigore) hanno polverizzato l'ottimismo che prevaleva nelle capitali della diplomazia mondiale. Non solo, ma gli attacchi di ieri mattina hanno costretto il comandante delle forze dell'Onu in Bosnia, il generale canadese Lewis MacKenzie, a chiudere (si spera, temporaneamente) l'aeroporto di Sarajevo, dove ultimamente arrivavano anche 20 aerei da trasporto al giorno, portando 200 tonnellate di aiuti umanitari. Il generale MacKenzie ha spiegato in una breve conferenza stampa che i radar predisposti al monitoraggio elettronico del territorio circostante avevano registrato che le traiettorie di diversi proiettili, in arrivo e in partenza dal vicino quartiere musulmano di Dobrinja, si incrociavano proprio sopra la pista dello scalo aereo e che soltanto a quel punto egli si era deciso a chiuderlo. "Sarà riaperto . ha detto ancora il generale . solo quando avrò la certezza della completa sicurezza dell'aeroporto". Non si può certamente dire che nelle scorse settimane, da quando è attivo il ponte aereo con Sarajevo, il comando dei Caschi blu e gli stessi piloti fossero troppo pignoli nel giudicare i parametri di sicurezza. I voli sono continuati nonostante il verificarsi di diversi incidenti, l'ultimo dei quali registrato sabato, quando due Hercules francesi sono stati colpiti da raffiche di mitra, fortunatamente senza conseguenze. Questa volta si è trattato, evidentemente, di un pericolo ben diverso. Forse ha inciso anche il fatto che ieri mattina doveva partire da Sarajevo per Zagabria a bordo di un jet dell'Onu una delegazione della Bosnia Erzegovina guidata dal capo dello Stato Izethbegovic. Avrebbe dovuto incontrarsi con il presidente croato Tudjman per definire tutta una serie di questioni nei rapporti tra i due Paesi, compresa una probabile ed esplicita alleanza militare. Izethbegovic non è partito e si è rivolto ai giornalisti per esprimere il suo rammarico. Nell'occasione ha però nuovamente minimizzato sia il ruolo dei Caschi blu, sia la consistenza degli aiuti militari che arrivano nella capitale bosniaca. Ha invece ripetuto la richiesta di un intervento militare internazionale contro la Serbia, oppure della fornitura di armi alle forze musulmane, richiesta che del resto è stata rinnovata al segretario generale dell'Onu Boutros.Ghali e ai cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Se al mattino c'era ancora qualche dubbio che si trattasse di "attacchi d i assestamento", che di solito precedono la tregua vera e propria, o di casi di insubordinazione di singole unità, l'intensità dei combattimenti pomeridiani ha dissipato ogni dubbio: la guerra continua e forse diventa ancora più violenta. Il numero d ei morti conferma questa tesi: cinque persone hanno perso la vita nell'esplosione di una granata nel centro della città vecchia, 14 i feriti. Tra di essi anche due Caschi blu canadesi, raggiunti dalle schegge. In altri quartieri sono stati uccisi, secondo il ministro della Difesa bosniaca Doko, almeno altre dieci persone, mentre il numero complessivo dei feriti supera i cento. Le bombe hanno distrutto anche una chiesa, una scuola, un ufficio postale. Molti edifici in diversi quartieri di Sarajevo sono in fiamme. Dalle province arrivano poche notizie, ma è certo che continuano l'agonia di Gorazde e gli scontri a Doboj, Brcko, Breza, Bihac, Bugojno, Jajce. Nei circoli politici internazionali c'è ancora chi, come il ministro degli Esteri britannico Hurd, dice che per vedere se la tregua tiene o no bisogna aspettare almeno due o tre giorni. Ma la delusione è evidente: è chiaro che non significano niente le firme dei tre leader nazionali bosniaci, e nemmeno le promesse del primo ministro della "nuova Jugoslavia", Panic, come non servono le sanzioni contro la Serbia e i moniti alla Croazia. Ora sono stati anche sospesi gli aiuti umanitari e si è nuovamente all'inizio. Anzi peggio, perché nel frattempo sono falliti molti tentativi, mentre molta energia e molto prestigio sono stati sprecati. Chiedersi chi ha sparato per primo probabilmente non ha più alcun senso e quindi, secondo gli osservatori a Zagabria, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e gli altri organismi internazionali si trovano un'altra volta davanti a tre possibilità: aumentare la pressione nei confronti della Federazione serbo-montenegrina, puntare sull'ampliamento del mandato alle forze aeronavali Ueo.Nato nell'Adriatico per aprire corridoi umanitari via terra, oppure approvare un intervento militare internazionale, seppure limitato. Eros Bicic

Martedì, 11 agosto 1992

Guerra civile in Bosnia Erzegovina. Karadzic, il capo delle milizie serbe in Bosnia  dal bunker sotterraneo sogna la Grande Patria

Un mese fa ha abbandonato le montagne della sua Bosnia e si è rifugiato a pochi chilometri da Belgrado, in un bunker sotterraneo costruito negli anni Cinquanta dal maresciallo Tito. Vive ossessionato dal pericolo di attentati e si fa circondare 24 ore su 24 da feroci pretoriani armati di kalashnikov. Precauzioni comprensibili: il dottor Radovan Karadzic, il medico psichiatra col faccione bonario, da due anni leader dei serbi di Bosnia, è forse oggi l'uomo più odiato dei Balcani. Per i suoi nemici è un sanguinario, un bugiardo, uno che accoltellerebbe alle spalle chiunque. Un individuo dal passato dubbio che sotto quei ciuffi grigi da ragazzone invecchiato nasconde un fanatismo nazionalista superiore perfino a quello del leader di Belgrado, Slobodan Milosevic. La sua reputazione in Europa è talmente cattiva che in luglio ha dovuto scrivere una lettera di autodifesa al "Times" di Londra: "L'Occidente ci addossa tutte le colpe, ma noi serbi non siamo il diavolo". Che nella personalità del dottor Karadzic ci sia qualcosa di luciferino, però, è innegabile. Davanti alla tragedia dei lager, che i serbi utilizzerebbero per la "purificazione razziale" delle regioni da loro controllate, il leader serbo ha sostenuto tre diverse "verità" nel giro di pochi giorni: la prima che "si tratta di bugie senza alcun fondamento, tutta propaganda musulmana"; la seconda che "sì, abbiamo dei campi di detenzione, ma trattiamo bene i prigionieri: la Croce Rossa può visitarli quando vuole"; la terza che "sono stati commessi degli sbagli e ordinerò di chiudere tutti i campi". Originario del Montenegro, autore addirittura di tre libri di poesie per bambini, ex medico della squadra di calcio di Sarajevo, "l'uomo delle tre verità" sembra uno specialista nel nega re l'evidenza. All'inizio della guerra, in un'intervista con il quotidiano francese "Le Figaro", aveva detto: "Noi serbi non abbiamo milizie armate". Chi gli faceva notare che i suoi cecchini e i suoi artiglieri tengono da mesi Sarajevo sotto assedio , si sentiva rispondere con un sorriso accattivante: "Vogliamo solo difenderci, noi non attacchiamo nessuno. Sono i mussulmani che vogliono la guerra santa contro i cristiani serbi". Evidentemente la jihad va male: oggi il 60 per cento del territorio della Bosnia è sotto il controllo militare dei generali di Karadzic. E Sarajevo, dove ha esercitato la professione di psichiatra per tanti anni, soffre da mesi un sanguinoso assedio. Chi lo conosce dice che tra Karadzic e Sarajevo c'era un conto aperto. Quasi un'inconscia voglia di rivincita nei confronti di una città che non lo ha mai amato. "Quando è arrivato qui era un contadino di 14 anni senza nemmeno le scarpe e anche da medico non è mai entrato nella nomenklatura", dicono i suoi compagni di studi. Padre di due figli, entrambi studenti di medicina, sposato con un'altra psichiatra, Karadzic si è messo in mostra negli anni Settanta finendo in prigione. L'imputazione resta un mistero: il diretto interessato sostiene che il regime non gli perdonava il suo anticomunismo, per i nemici il reato era in realtà malversazione di fondi pubblici. Poi la grande svolta: nel 1990 Karadzic fonda il Partito democratico serbo, oggi forte di 700 mila iscritti. Quando la Bosnia ha tenuto il referendum per l'indipendenza dalla Jugoslavia, Karadzic lo ha boicottato e ha proclamato unilateralmente una Repubblica indipendente serba per "impedire la creazione di uno Stato unitario islamico". Oggi Karadzic si trova al centro del sanguinoso puzzle jugoslavo. Qual è l'obiettivo finale? Lo storico Milorad Ekneric, ideologo del movimento, lo riassume così: "Nemmeno centomila morti saranno troppi per far rinascere la Grande Serbia". Riccardo Orizio

Venerdì, 28 agosto 1992

Strage a Sarajevo tra la folla in fila per il pane: 8 morti e 50 feriti

SARAJEVO . (r.e.) Ancora una strage di civili a Sarajevo, la capitale bosniaca da mesi sotto assedio. Un proiettile di mortaio è caduto su una strada in cui si trovavano decine di persone in fila per fare la spesa e acquistare generi di prima necessità. I morti sono stati otto . tra i quali un ragazzino di undici anni . e i feriti almeno una cinquantina, tra i quali molti bambini che accompagnavano le mamme al mercato. L'esplosione è avvenuta alle 8.30 in via Danilo Dacic, proprio vicino alla caserma "Maresciallo Tito" e di fianco al più grande forno della città. La bomba ha investito la gente in fila per il pane e le donne sono fuggite urlando con i loro bambini in braccio. Donne e anziani sono inciampati l'uno sull'altro tentando di mettersi al riparo. Il sangue delle vittime, dei feriti si è riversato sul pane che veniva distribuito e molti testimoni hanno riferito di arti umani saltati in aria. Un attacco simile si era già verificato lo scorso 27 maggio, quando 20 persone in fila per il pane erano state uccise. L'episodio aveva spinto il governo musulmano della Bosnia a interrompere la partecipazione alla Conferenza di pace organizzata dalla Cee e presieduta da Lord Carrington. Poche ore dopo un altro proiettile è esploso vicino all'ingresso di u n caffè del centro della città, provocando almeno nove feriti. L'Onu ha annunciato che i suoi caschi blu cercheranno di ripristinare l'energia elettrica nella maggior parte della capitale bosniaca, al buio da alcuni giorni. Inoltre cercheranno di aprire un corridoio fisso per l'invio di aiuti umanitari in partenza dalla città portuale dalmata di Spalato, in Croazia. Si tratterebbe del primo corridoio terrestre fisso per aiuti umanitari ed esso potrebbe trasportare ogni giorno, a bordo di cinque autocarri, 35 tonnellate di latte in polvere, altri generi alimentari e medicinali per le popolazioni bosniache provate dalla guerra civile. Un primo convoglio francese, accompagnato fino a Zagabria dal presidente del Parlamento europeo Simone Weil, è stato autorizzato dai guerriglieri serbi a proseguire la sua marcia verso la città bosniaca di Doboj. Radio Sarajevo ha riferito che i combattimenti proseguono in vari quartieri della capitale, con l'impiego di artiglieria e carri armati. Scontri tra musulmani e serbi si sono verificati anche nel Nord della Bosnia, a Brcko e a Gradacac, dove la moschea è stata colpita dall'artiglieria. L'emittente bosniaca ha riferito che continua a essere bombardata anche Gorazde, a Sud.Est di Sarajevo, dove sono rifugiati quasi 30 mila profughi e mancano l'acqua e la corrente elettrica. L'agenzia Tanjug di Belgrado, invece, ha detto che nella capitale bosniaca continua l'offensiva delle forze musulmane su tutti i fronti, per cercare di spezzare l'accerchiamento serbo. L'Ucraina ha inoltre categoricamente smentito le notizie su una sua presunta violazione delle sanzioni economiche dell'Onu nei confronti della Nuova Jugoslavia (Serbia e Montenegro), fornendo aiuti tramite imbarcazioni in navigazione sul Danubio. Il ministero degli Esteri di Kiev sottolinea che tali notizie non hanno alcun fondamento e che l'Ucraina intende osservare scrupolosamente le direttive delle Nazioni Unite nei confronti della Nuova Jugoslavia. Nel documento si afferma che negli ultimi due mesi imbarcazioni ucraine hanno effettuato operazioni di transito nel porto danubiano serbo di Prakhovo, dove le merci dalle unità navali sono state caricate su treni diretti a Skopje, in Macedonia. Tali operazioni . sostiene il governo di Kiev . non sono in contrasto con la risoluzione 757 dell'Onu, che autorizza ogni tipo di transito attraverso il territorio della Nuova Jugoslavia.

Domenica, 17 gennaio 1993

" black out " delle comunicazioni, ma secondo i serbi a Gornji Vakuf e iniziata la battaglia decisiva tra croati e musulmani

Per la Bosnia una proposta delle grandi potenze

ZAGABRIA . I mezzi di informazione croati e bosniaci hanno improvvisamente sospeso tutte le informazioni sugli scontri tra croati e musulmani a Gornji Vakuf, nella Bosnia centrale. Radio Zagabria si è limitata a riferire che "pare che i combattimenti siano cessati". "Non sono affatto cessati" affermano circoli militari serbi di Banja Luka. Secondo loro ieri pomeriggio è iniziata la battaglia decisiva, in cui vengono impiegate tutte le armi, dai carri armati ai cannoni e ai mortai pesanti. Per il momento i croati non sarebbero riusciti a stabilire il controllo della città e dintorni come intendono, poiché Gornji Vakuf si trova nella regione che secondo il piano di pace di Ginevra sarà controllata dai croati. Ancora bombe su Sarajevo Anche a Sarajevo si continua a morire. Continuano a bombardare il centro della città. Un'altra granata è caduta nella via Radojka Lukic. Ha ucciso un a persona e ferito numerose altre. Il bilancio di venerdì a Sarajevo è di dieci morti e quarantacinque feriti. Tuttavia l'attenzione degli osservatori militari è concentrata sulla Bosnia settentrionale, lì dove passa il corridoio che collega i territori che i serbi controllano in Bosnia e Croazia con la Serbia. Il capo dei serbi bosniaci Karadzic ha dichiarato a Belgrado di essere sempre più convinto che martedì prossimo il Parlamento della Repubblica serba ratificherà l'accordo sul futuro assetto costituzionale della Bosnia Erzegovina, che egli ha già accettato a Ginevra, ma ha anche ripetuto che i serbi non rinunceranno mai al corridoio con la Serbia, perché per loro è di vitale importanza. "Lo avremo . Karadzic . o con le buone o con l e cattive". In tutta l'area si combatte praticamente senza sosta e nelle ultime ore le forze croate avrebbero ottenuto importanti risultati sul fronte settentrionale e sarebbero a soltanto un chilometro dalla città di Doboj dove i serbi sarebbero stati presi dal panico. La propaganda dei croati Contemporaneamente i croati bosniaci stanno conducendo un'intensa azione propagandistica tra i profughi bosniaci in Croazia, cercando di convincerli a tornare nelle loro terre e combattere per la liberazione. Alla possibilità che in Bosnia continui la guerra, continuano a pensare anche le grandi potenze. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Spagna hanno concordato una proposta di risoluzione che presenteranno al consiglio di sicurezza al fine di far rispettare il divieto di volo sulla Bosnia. La Russia però non ha voluto esprimersi in merito, preferendo aspettare l'esito del negoziato di Ginevra. Interessante è la notizia che i membri permanenti del consiglio di sicurezza hanno ammonito la Croazia per le violazioni del cielo bosniaco. Al Palazzo di vetro è stato infatti reso noto che nella ultima settimana del '92 ci sono state ventisette violazioni, delle quali diciannove commesse dai croati. Eros Bicic

Mercoledì, 10 marzo 1993

Testimonianze. Parlano le donne bosniache. Gli abusi e la prigionia: finché è tardi per abortire

"Stuprata, ma il figlio è solo mio" Racconta Selma: "A quale dei miei violentatori somiglia questo faccino? Non mi importa più, lo tengo" Sui "bambini dell'odio" anche l'imam di Croazia e Slovenia vicino alla posizione della Chiesa cattolica

ZAGABRIA . Un vecchio musulmano uscito miracolosamente dai lager serbi della Bosnia settentrionale ci diceva nell'ottobre scorso in un assolato cortile della città di Bihac, assediata dai serbi: "Una donna musulmana che tiene al proprio onore non vi parlerà mai di come, quando e da chi è stata violentata. Per lei si tratta di un'enorme vergogna, la peggiore che ci sia. Dopo averla subita, lei si sente colpevole e mette la propria vita nelle mani del marito, del suo uomo, e semmai dei genitori di lui. Soltanto loro verranno a conoscenza di quello che veramente è accaduto e decideranno sulla sorte della donna". Un tale codice morale parla a favore della tesi secondo cui le donne violentate in Bosnia sarebbero molto più numerose di quanto si pensi. Admira (nome inventato) ha 29 anni, un bambino di 10, un marito che è riuscito a uscire vivo dai campi di concentramento serbi. Viveva in un grande villaggio musulmano vicino a Doboj, conquistato dai serbi in autunno. Capelli neri in disordine, la pelle del viso molto scura, il corpo minuto. Nella mano costantemente una sigaretta, mille caffè al giorno. All'arrivo degli invasori è stata rinchiusa prima in una scuola e poi nel palasport di Doboj, trasformato in campo di concentramento. "Ci schedavano subito all'arrivo. Poi quella lista la facevano pervenire ai nostri parenti che si trovavano nel territorio libero. Se ci volevano vivi dovevano pagare, in marchi tedeschi. C'era anche un tariffario. Mio fratello ha pagato". Admira è stata una delle tante violentate. Il centro per la ricerca sui crimini di guerra a Sarajevo dispone di una vasta documentazione secondo cui le donne stuprate in Bosnia sarebbero almeno 27.000. Ora Admira vive a Zagabria ospite di un a famiglia musulmana. "Nei lager ci dividevano in categorie. Innanzitutto sceglievano quelle più carine. Venivano violentate per prime e più delle altre, ma godevano anche di privilegi. Le altre facevano lavori pesanti, o venivano usate come scudi umani sul campo di battaglia. Io sono stata esposta in prima linea per 36 ore, al sole, con il caldo, senz'acqua, perché c'era il pericolo che le forze musulmane e croate bloccassero il corridoio che collega i territori occupati dai serbi con la Serbia . Infatti i nostri, vedendoci lì allineate, non hanno attaccato. Al campo le ragazze (molte le bambine di 10 12 anni) venivano sottoposte a esami medici per verificare se dopo gli stupri erano rimaste incinte. In caso di esame positivo venivano sotto poste a un trattamento speciale: la gravidanza doveva continuare fino al settimo mese quando l'aborto era impossibile. Allora venivano "rispedite" ai loro uomini". Dopo decine di stupri Admira non era ancora rimasta incinta. I carnefici furiosi: "Ci devi dire quale trucco usi. Eppure sei fertile, hai avuto già un bambino". Per punirla la costringevano a orinare su un vecchio Corano. Admira aveva la spirale, ma il ginecologo che visitava le donne di Doboj era musulmano e non ha mai svelato ai serbi il suo segreto. "Erano persone malate di mente . ricorda Admira piangendo .. Quelli del paese che non volevano essere riconosciuti si coloravano la faccia, come gli indiani, oppure si mettevano una calza sul viso. Erano sempre ubriachi o forse drogati. Il massimo della loro felicità era trovare un familiare maschio di noi 1500 donne che eravamo rinchiuse in quel campo. Allora costringevano i padri a violentare le figlie, i figli a violentare le madri. L’ho visto con i miei occhi". Admira ci mostra con un forte rossore sul viso una profonda e lunga cicatrice sopra il seno sinistro: "Il mio primo stupratore non aveva pazienza, mi ha tagliato le spalline del vestito, con un lungo coltello. Mi ha ferita, ma prima di lasciarmi andare ha fatto quello che voleva". A differenza di Admira molte altre donne sono rimaste incinte, dicono almeno diecimila. La stragrande maggioranza ha partorito i "figli dell'odio". Molte madri non vogliono vedere i neonati e li abbandonano, in modo particola re quando il parto avviene in ospedale. Perciò le organizzazioni umanitarie preferiscono farle partorire nelle famiglie, aspettando che prevalga l'istinto materno. Fikreta ha 21 anni, è di Brcko: "Venivano in casa nostra il giorno, la notte, da soli o in gruppo. Me lo facevano fare davanti agli occhi dei miei genitori e poi mi proibivano di vestirmi. Ogni giorno mi picchiavo violentemente sul ventre per non rimanere incinta. Poi, quando la pancia ha cominciato a crescere, non ho avuto più il coraggio di farlo". Selma, 30 anni, vive assieme al bambino in un buon albergo zagabrese: "Mi tenevano quasi in prima linea, in una baracca, per divertirsi quando i combattimenti cessavano. Erano in dodici. Quando ho partorito ero decisa ad abortire. Poi i miei seni si sono riempiti di latte. Ho voluto allattarlo, una volta sola. Guardavo quel piccolo faccino e cercavo di capire a quale dei miei stupratori assomigliasse. A un tratto ho capito che era comunque e soltanto figlio mio". "L'Islam, come la Chiesa cattolica . dice il capo della comunità musulmana della Croazia e della Slovenia, Sefko Omerbasic ., vieta l'aborto. Non c'è autorità religiosa che possa ordinare di abortire, ma d'altro canto c'è forse qualche autorità religiosa che possa vietarlo a queste donne?". Eros Bicic

Lunedì, 2 agosto 1993

Bosnia, a Ginevra si ridiscute tutto. L'America decisa a intervenire in Bosnia con l'aviazione anche senza l'appoggio degli alleati della Nato

Gli USA: "Libereremo Sarajevo" A Ginevra trattative ancora in alto mare, ora Izetbegovic vuole ridiscutere tutto

DAL NOSTRO INVIATO GINEVRA. Chi, cedendo ai torpori suggestivi del pieno dell'estate, già vedeva nella "Carta costituzionale" per la nuova Bosnia Erzegovina l'inizio della fine della feroce guerra etnica che da sedici mesi devasta la Balcania, si rende conto adesso che il capitolo finale, nonostante le firme dei rappresentanti serbo, croato e musulmano, resta ancora un foglio vuoto. Ieri i capi delle tre comunità, finora impegnate a combattersi per restare divise, hanno accettato di discutere riuniti intorno a un tavolo sul piano che, con un colpo di spugna costituzionale, cancella le inimicizie presenti per creare. sulla carta, comunque . la futura Repubblica dei Popoli Uniti della Bosnia Erzegovina. La suggestione della trattativa fra nemici, come simbolismo, sembra senz'altro un progresso significativo. Izetbegovic, l'esausto presidente musulmano di una Bosnia Erzegovina originaria, immediatamente riconosciuta come Stato dalla comunità internazionale ma solo per essere abbandonata e data in pasto ai cani della guerra, accetta di trattare con Karadzic e con Boban, i capi delle comunità serba e croata, che disinteressandosi degli anatemi dell'Onu e delle minacce ripetute di intervento militare si sono proclamate "Repubbliche", e che sul campo di battaglia hanno vinto. Ma la "Magna Charta" per la nuova Bosnia Erzegovina in realtà è una torre di Babele legale, dove ciascuno pretende di negoziare con lingue diverse. L'articolo 1 del documento, che evita di parlare di "federazione" o di "confederazione" ma parla invece con calcolata vaghezza di "unione", proclama: "L'Unione delle Repubbliche di Bosnia ed Erzegovina... comprende tre popolazioni componenti, la musulmana, la serba e la croata, alla pari di un gruppo di altri popoli. L'Unione... sarà membro dell'Onu come Stato, e in quanto tale sarà ammessa su richiesta alle altre organizzazioni del sistema Onu". Sotto questo frasario, astutamente calibrato con l'inconfessabile fine che nessuno ci capisca granché e che ciascuno lo possa interpretare come preferisce, Izetbegovic alla pari di Karadzic e di Boban ha firmato. Ma lo ha fatto sotto la pressione di una comunità internazionale contraria ad appoggiarlo revocando l'embargo delle forniture di armi, e disposta a usare la minaccia dell'intervento della Nato solo come mezzo di pressione sui serbi della Bosnia. Proprio questa notte gli Stati Uniti hanno dichiarato che intendono usare la forza per spezzare l'assedio di Sarajevo anche da soli se gli alleati della Nato non li appoggeranno. Oggi a Bruxelles l'Alleanza Atlantica affronta la questione. In queste condizioni la firma di Izetbegovic è come se fosse stata scritta con l'inchiostro invisibile. C'è ma non c'è, a seconda della luce sotto la quale si guarda la Carta. Consapevole di essere militarmente distrutto e di non poter sostenere un altro assedio invernale, anche se con le possibilità di continuare la guerra locale a lungo che gli derivano dall'avere accettato la logica di chi non ha nulla da perdere, il leader dei musulmani, subito dopo avere firmato, contesta. E chiede di aprire una trattativa nella trattativa, perché “l'iniquo e inaccettabile articolo 1 del piano, che riduce i bosniaci nelle condizioni del popolo curdo”, venga riscritto. Renzo Cianfanelli

Giovedì, 15 febbraio 1996

Il progetto di liMes - Ricostruzione: le vere rovine sono fuori da Sarajevo

Anticipiamo uno stralcio dell'intervento pubblicato integralmente sul prossimo numero della rivista «liMes» Della Bosnia abbiamo in occidente un'immagine parziale e deviata, interamente concentrata sulle città - soprattutto Sarajevo e Mostar. Questa immagine è stata creata dalle televisioni di tutto il mondo. Lo stereotipo è stato parallelamente avvalorato dalla miriade di funzionari internazionali - negoziatori, esperti, osservatori - che per anni hanno percorso la Bosnia secondo tracciati sempre uguali, precostituiti. E così schematizzano delle entità territoriali apparentemente omogenee, che in realtà sono molto più variegate. Ricordiamo che nel 1991, prima della guerra, sui 51.129 kmq della Repubblica bosniaca risiedevano nominalmente (ma in realtà erano di meno già allora, perché molti lavoravano all'estero) 4.365.639 abitanti, di cui il 43,7% musulmani, il 31,3% serbi, il 17,3% croati. Dopo quattro anni di combattimenti non ne restano che 3 milioni e 100 mila circa, di cui 1 milione e 700 mila musulmani, 500 mila croati e 900 mila serbi - ma si tratta di stime approssimative. Queste persone vivevano e vivono in un territorio in gran parte montuoso, coperto di boschi, solcato da ampie vallate e percorso da tre fiumi principali, la Bosna, la Neretva e il Vrbas. A parte le cinque principali città (Sarajevo, Tuzla, Banja Luka, Zenica e Mostar, dove nel 1991 si concentravano in tutto un milione di abitanti), la gente abitava in una miriade di villaggi e cittadine, oggi in gran parte distrutte e abbandonate. La popolazione che viveva nelle campagna è ora confluita nelle città, trasformandole in giganteschi alveari di sfollati. La distruzione in Bosnia non ha coinvolto solo e nemmeno principalmente le città. La guerra ha devastato soprattutto il territorio lungo gli assi di comunicazione dove si erano sviluppate cittadine e villaggi. Quanto alle principali città, distruzioni consistenti sono avvenute solo a Mostar e Sarajevo. A Mostar, in particolare, le milizie croate hanno completamente distrutto il settore Est (musulmano), già colpito dai bombardamenti serbi. Il problema della ricostruzione si pone quindi in termini globali: bisogna recuperare il territorio nel suo complesso, distribuendo le risorse tra città e campagna per non approfondire ulteriormente il solco scavato dalla guerra. Oggi in Bosnia non c'è più un villaggio o una campagna dove tornare, mentre le città già scoppiano di sfollati. La ricostruzione secondo Euroslavia Una ricostruzione vincolata alla distinzione tra le tre aree omogenee e limitata all'interno dei confini della Bosnia-Erzegovina rischierebbe di risolversi in una formidabile dispersione di risorse e non attiverebbe dinamiche di pace e di ripresa. Il punto debole è di voler canalizzare le risorse di beni e servizi attraverso il retroterra bosniaco servito dal porto croato di Ploce. Questa è la terra controllata dai «duri» croati di Erzegovina, che hanno istituito un sistema arbitrario di doppie dogane, con cui negli anni di guerra si sono assicurati consistenti «pedaggi» (e non solo). In questo «zoccolo duro» erzegovese si sono inoltre consolidati i traffici illeciti della criminalità internazionale. La scelta dello sbocco erzegovese è frutto di un'ottica di ricostruzione che vede come prioritario il territorio della Federazione croato-musulmana. Ma trascurare l'entità serbo-bosniaca significa prescindere dalle interconnessioni oggettive che, se utilizzate e valorizzate, avrebbero un effetto di moltiplicazione nel sistema economico interno e garantirebbero maggiori sbocchi verso le altre repubbliche ex jugoslave, e attraverso quelle verso i Balcani e il resto d'Europa. Vediamo invece quali alternative esistono assumendo un punto di vista diverso, quello del Progetto Euroslavia. L'asse Banja Luka-Doboj-Tuzla. Due aree dalle grandi possibilità di ripresa - Banja Luka e Tuzla - sono in questo momento divise dal confine tra Republika Srpska e Federazione croato-musulmana. Il corridoio della Posavina - che costeggia aree completamente devastate - è per entrambe più un motivo di imbarazzo politico che di vantaggio. D'altra parte, visto da Tuzla, il corridoio di Brcko è un passaggio a livello che finisce per strozzarne i traffici con la Croazia. Tenuto conto invece dei rapporti preesistenti fra Banja Luka e Tuzla, della loro comune proiezione commerciale a nord, del fatto che entrambe utilizzavano Doboj come perno geoeconomico, perché non ipotizzare con spregiudicatezza un circuito alternativo che giovi ad entrambe? Si tratterebbe di un asse euroslavo Banja Luka-Doboj-Tuzla che abbia come terminali esterni Slavonski Brod in Croazia e Lipovac in Serbia. L'asse Zenica/Travnik-Knin. L'aspetto fondamenta le di questo secondo asse euroslavo è il tentativo di rendere permeabile il tratto di confine fra Croazia e Bosnia, contiguo al Settore Sud della Krajina già abitata dai serbi. Con la conquista croata della Krajina e del vasto territorio serbo-bosniaco tra Drvar e Glamoc, Zagabria ha avviato un progetto di ripopolamento di quelle terre, basato sul ritorno dei croati nella Krajina e la reinstallazione di profughi croato-bosniaci, provenienti da altre zone della Bosnia. Come volgere in positivo un processo di pura colonizzazione, per certi aspetti forzata? Trasformandolo in un territorio aperto, attraversato da un asse di comunicazione e sviluppo che metta in contatto la Bosnia centrale musulmana con la costa dalmata tra Zara e Sebenico. Questo asse Zenica/Travnik-Knin potrebbe collegarsi a Banja Luka via-Jajce, aprendo intanto un corridoio umanitario per soccorrere gli oltre 200 mila sfollati serbi. L'asse Foca-Trebinje-Dubrovnik (o Niksic). Qui si tratta di rivitalizzare un'area serbo-bosniaca che può ritrovare una funzione solo emancipandosi dal baricentro di Pale. Il centro industriale di Foca è oggi pieno di sfollati e rischia di diventarlo ancora di più nel caso di un massiccio esodo serbo da Sarajevo. L'alternativa che qui proponiamo è di ridare respiro a questa regione serbo-bosniaca reinserendola nel contesto dell'area dalmato-montenegrina, nella quale ha sempre vissuto prima di esserne tagliata fuori dal secessionismo di Pale. La città croata di Dubrovnik avrebbe un o speciale interesse a questa connessione perché non ha alcuna vocazione a legarsi ai «duri» dell'Erzegovina. Se osserviamo adesso la cartina, notiamo immediatamente il relativo isolamento di Sarajevo. Il distretto di Sarajevo, con il corridoio e l'enclave di Gorazde, appare perdere la sua centralità geopolitica. Complessivamente, tra i territori conquistati dai serbi a est e quelli guadagnati dai croati a ovest, il retroterra musulmano di Sarajevo e della Bosnia centrale si è estremamente assottigliato e soprattutto non ha sbocchi né prospettive di sviluppo. Come riagganciare questa sorta di super-enclave «verde» agli assi euroslavi, che possono darle una funzione e un collegamento esterno? L'assedio a Sarajevo sarà veramente finito quando esisteranno i tre precedenti perni euroslavi cui la capitale bosniaca potrebbe allacciarsi. Abbiamo tracciato alcuni percorsi alternativi di ricostruzione avendo bene in mente che solo un approccio integrato, basato sulla permeabilità delle frontiere, sulla ricucitura delle «ferite» territoriali, sulla cooperazione fra tutte le repubbliche balcaniche e sulla prospettiva della loro comune ammissione in Europa può stabilizzare l'ex Jugoslavia. Al contrario, un'iniziativa umanitaria e un pro getto di ripresa che accentuassero le linee di frattura dentro e fuori la Bosnia sarebbero la premessa di ancor più tremendi conflitti.

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