Maurizio Zambelli

TRE PAIA DI SCI PER MC KINLEY E DYCKEY

L’idea di effettuare una salita con gli sci al di fuori delle Alpi, ci venne l’anno scorso durante una settimana scialpinistica nell’Oberland Bernese. Cosi, Carlo, Giovanni ed io cominciammo a pensare alle cime che si sarebbero potute salire e scendere con gli sci ai piedi. Dopo varie idee e proposte venne scelto il Mc Kinley in Alaska, che con i suoi 6.194 metri di altezza e la cima più alta del Nord America, e che nelle sue vicinanze nasconde ancora molte cime sconosciute a noi scialpinisti mediterranei. Fatta la scelta incomincio il periodo di preparazione burocratica; infatti, necessitava il permesso dei Ranger, visto che il Denali (nome originale indiano della montagna ribattezzata poi dagli americani Mc Kinley in onore di un loro presidente) e nel fulcro del Denali National Park. Ottenuto il permesso dei Ranger, si preparo quella che doveva essere la base di partenza per una trasferta cosi impegnativa, quindi decidemmo di effettuare almeno venticinquemila metri di dislivello con gli sci per arrivare adeguatamente preparati al 5 maggio, data fissata per la nostra partenza. Subito la stagione sciistica si presento avarissima di neve, quindi ci obbligo a trasferte abbastanza lunghe per trovare neve sufficiente per i dovuti allena- menti. E cosi, macinando chilometri in auto e metri in dislivello arrivo anche il fatidico cinque maggio. Partenza da Linate e arrivo ad Anchorage con almeno un quintale di materiale. Qui abbiamo effettuato le ultime spese: viveri e fornelli a benzina. Poi, in volo per la destinazione vera: Kailtna Glacier. Sono le 20.45 del 7 maggio quando il Piper ci scarica sul ghiacciaio. E’ bel tempo, e lo spettacolo del Mc Kinley, Hunter e Foraker, è superbo. Subito ci avviamo con tutto il materiale, diviso fra zaino e slitta al traino, verso quello che sarà il nostro primo campo in terra d’Alaska. Alle ventitré decidiamo di fermarci perché la luce comincia a scarseggiare. Piazziamo la Salewa (tendina) e ci infiliamo nei nostri sacchipelo dopo aver gustato un bel risottino agli asparagi. Subito si capisce che la temperatura é decisamente più bassa che quella europea, nonostante siamo solo a milleottocento metri. Dopo quattro giorni di salita relativamente leggera, ci troviamo ad affrontare il primo tratto ripido. Con l’aiuto di corde fisse risaliamo il canalone a quota 3.500 e portiamo oltre gli zaini e le slitte "ribelli". Ribelli perché sui tratti ripidi si mettono sempre sulla verticale, ostacolando cosi ogni tentativo di traverso che si voglia fare. Finalmente raggiungiamo quota 4.000. Scaviamo una buca alzando il più possibile i bordi della stessa con blocchi di neve tagliati con l’apposito coltello, per riparare il più possibile dal vento la nostra tendina. Difatti e il vento uno degli ostacoli maggiori da affrontare; un vento polare che soffia a cento e più miglia l’ora, che ti disperde tutto il calore corporeo e ti mette sempre alla prova, sia come equilibrio, sia come resistenza fisica. Necessitano sempre due ore per la preparazione del campo, dopodiché cuciniamo il nostro pasto e soprattutto facciamo sciogliere neve per ottenere acqua, importantissima a questa quota. Infatti, ci e stato raccomandato di bere tantissimo perché, con la quota, aumenta il pericolo di disidratazione. Il luogo del nostro quarto campo e denominato Windy Corner, difatti, di notte dimostra che non ci poteva essere un nome più appropriato, per il vento che insistentemente soffia su questo passo. Basti pensare che lo spessore del ghiaccio e stato completamente eroso e la roccia viva affiora in più punti. E’ il 12 maggio, e la sera, con l’accompagnamento musicale dello sbattere dei teli della tenda, ognuno di noi pensa al dislivello percorso e calcola che più o meno dovremmo essere a metà strada. Ma ogni calcolo e approssimativo, perché la conversione piedi/metri e resa ancor più variabile dagli sbalzi continui dell’altimetro. L’unica costante e il freddo e il tempo che alterna quattro ore di sole con quattro ore di neve. Le giornate sono lunghissime perché, a questa latitudine e in questa stagione, ci sono circa venti ore di luce e quattro di penombra. Questa condizione favorevole ci consente di metterci in marcia anche ad orari "pomeridiani" se il tempo si mette al bello. Sabato 13 maggio arriviamo a quota 4.300 dove e situato un campo medico sperimentale che studia il comportamento del fisico in quota. Ci presentiamo alla dottoressa canadese che per due mesi, con tre colleghi, si fermerà qui a compilare statistiche su se stessa e sugli alpinisti di passaggio, riguardo alle variazioni che la quota porta alla respirazione e al tono cardiaco. Dopo un’accurata visita ci rassicura, giudicandoci in ottima forma. La notizia ci carica ulteriormente perché, se tutto fila liscio, in tre o quattro giorni potremmo arrivare in cima. La mattina seguente ci mettiamo in marcia per raggiungere, per canali abbastanza ripidi, l’inizio della West Buttress, la via da noi scelta per arrivare in vetta. Anche qui, issiamo il materiale, slitte escluse, all’inizio della cresta, poi ritorniamo alla nostra tenda per passarvi la notte. L’indomani, ormai leggeri e aiutati dalle corde fisse, rimontiamo velocemente il ripido canale, recuperiamo il materiale trasportato il giorno precedente e, sci sullo zaino, affrontiamo la famosa West Buttress, che tradotta alla lettera sarebbe "cresta ovest". La giornata é stupenda e lo spettacolo grandioso. A nord abbracciamo con lo sguardo tutta la pianura bianca di neve che arriva sino al Polo Nord; a sud lo sguardo scavalca i più bassi Hunter e Foraker e ... via sulle foreste di betulle sino all’Oceano Pacifico. E davvero uno spettacolo mozzafiato che fa dimenticare il peso dello zaino sulle nostre spalle. Finita la cresta si apre uno spazio "quasi" pianeggiante a metri 5.200, l’ultimo posto comodo per piazzare il campo. La quota, aggravata dalla latitudine (qui i ghiacci scendono sino al mare) si fa sentire; inoltre, dopo la cresta, la preparazione del campo risulta molto faticosa. Difatti tutti i buoni propositi di muri di neve alti e ben costruiti lasciano posto alla stanchezza e cosi un muretto di quaranta centimetri viene velocemente alzato dietro la tenda. Poi ci infiliamo svelti nei nostri sacchi perché il freddo e intensissimo. Valutiamo la temperatura ad almeno meno trentacinque e ognuno di noi, chiuso con il proprio tepore, pensa a domani, perché domani sarà il gran giorno tanto atteso della "ci- ma". Carlo e tranquillo; lui con l’Himalaya e la Patagonia alle spalle e il veterano dei tre, l’esempio per me e Giovanni da seguire. Gio é preoccupato, perché non sa come si sentirà al di sopra dei seimila, ed io penso alla mia Cecilia che starà giocando con i suoi orsacchiotti nel lettino, oppure, data la differenza di orario, starà facendo colazione al caldo. Cosi, complice la stanchezza, ci si addormenta. Mercoledì diciassette. Partenza alle nove, sci nello zaino, per rimontare il ripido traverso che porta al Denali Pass. Il tempo per il momento e bello, ma si intuisce che cambierà presto perché il cielo e troppo azzurro-grigio. Difatti, superato Denali Pass ci mettiamo gli sci e poco dopo anche il goretex perché inizia a soffiare il solito vento freddo e insistente. Come se non bastasse anche una nebbia impenetrabile ci avvolge. Continuiamo a salire finche l’altimetro segna 6.060 metri. La pendenza e finita e davanti a noi si intuisce un enorme spazio pianeggiante. E quello, scopriremo poi, che gli americani chiamano il "campo di football". La nebbia e sempre fittissima e insistente e decidiamo, vi- sto che davanti a noi si erige una seraccata ripidissima di lasciare gli sci e fare questi ultimi centocinquanta metri con i soli ramponi. La salita e lenta. Ad un certo punto intravediamo un picchetto alto circa cinquanta centimetri. Sara un segnavia, penso, ne abbiamo visti tanti salendo! Invece Carlo, davanti a me, si ferma, lo raggiungo e mi grida, per farsi sentire nel vento, che siamo in cima. Subito dall’entusiasmo tiro la corda verso di me cosi che Giovanni possa raggiungermi nel più breve tempo possibile. Siamo tutti e tre in vetta al Mc Kinley, l’unico segno e il minuscolo picchetto di ferro e tanto vuoto intorno a noi. Sono le 16 e siamo incontrollabilmente felici. Dopo aver scattato solamente tre fotografie perché il tempo e in deciso peggioramento, iniziamo la discesa. Guadagnamo velocemente il "campo da football" e per la fittissima nebbia non ritroviamo gli sci. Tale contrattempo ci costa oltre mezz’ora di ricerca e finalmente: ecco i nostri amati sci. Calzatili iniziamo una discesa molto impegnativa, e resa difficile dalla quota e dal freddo, ed ecco- ci al Denali Pass. Qui il vento e davvero impossibile. Giovanni prima, io dopo, veniamo letteralmente sollevati e scaraventati lontano. Solo l’attenzione e la prontezza di Carlo evitano inconvenienti più seri. Alle ventidue raggiungiamo la nostra tenda. La stanchezza si sente, sciogliamo un po’ di neve per l’acqua e ci buttiamo, cosi come siamo, dentro i sacchipelo. Ora nessuno parla, ognuno dentro di se sta assaporando la soddisfazione di aver raggiunto la cima dopo tanti sacrifici; ognuno pregusta la discesa dell’indomani sino ai 4.200 metri del Rescue Gully, un canale abbastanza ripido che porta direttamente al "campo medico" by-passando la cresta West Buttress non sciabile. La mattina seguente siamo tutti in crisi per l’insufficiente assunzione d’acqua nel giorno precedente. Esco a far sciogliere la neve, ma non volendone sapere il fornello di funzionare, commetto un grave errore: tolgo i guanti per manovrare meglio il rubinetto, ma come tocco la bombola di ferro, mi rimane attaccata ad essa la pelle dei polpastrelli. Partito finalmente il fornello ci concediamo un enorme e bollente te: ci sembra arrivi sino alle unghie dei piedi tanto é caldo! Subito, senza perdere tempo, smontiamo la tenda e incominciamo la discesa. L’inizio del canale e molto ripido, circa sessanta gradi, con i ramponi lo scendiamo sino a che la pendenza non ci consente di calzare gli sci. La sciata e molto bella anche se impegnativa sino ai 4.200 dove ci attende, ancora intatta la nostra buca: alziamo la tenda. All’indomani, con bella giornata affrontiamo i 2.400 metri di dislivello che ci condurranno a sera alla postazione radio sul Kahiltna Glacier: è qui che quindici giorni fa ci lasciò l’aereo taxi. Chiamiamo via radio il "nostro pilota" e gli comunichiamo di venirci a prendere la mattina seguente. Giovanni, accusando nel frattempo forti dolori di pancia decide che volerà in paese a Takeetna, mentre Carlo e io decidiamo di farci portare su un altro ghiacciaio, il Ruth Glacier. Di lì si avranno a disposizione diverse salite scialpinistiche fra le quali il Dickey. Dopo aver sorvolato le famose Mooses Tooth, paradiso degli arrampicatori americani, raggiungiamo il bellissimo Ruth Amphitheater. Piazziamo la tendina e studiamo la salita sulla carta. E’ un’ascensione di milleduecento metri di dislivello quindi fattibile, tempo permettendo, in una sola giornata. Durante la notte un’abbondante nevicata ci blocca per tutta la giornata intera. L’indomani il tempo migliora e partiamo. Inizialmente la salita sembra molto facile poi a metà, il solito vento e la solita nebbia ci costringono a fermarci. Aspettiamo una schiarita per muoverci. Invece della schiarita arrivano quattro americani. Uniamo i nostri sforzi per capire la via giusta. Il risultato pero e completamente opposto e sbagliamo direzione. Raggiungiamo sì la cima, ma superando seraccate quasi verticali, ponti su crepacci aerei al massimo e portandoci spesso gli sci sulle spalle. Raggiunta la vetta, ancora avvolti dalla nebbia, decidiamo di guadagnare velocemente la via del ritorno. La discesa ci consente una sciata bella e impegnativa. La neve, per via del basso tasso di umidità e molto leggera e ci permette evoluzioni veramente spettacolari. Sul ghiacciaio finalmente intravediamo un puntino rosso che ci fa distinguere la nostra tenda dal bianco accecante. Come ultimo pasto sui ghiacciai d’Alaska ci concediamo un pasticcio di pollo e peperoni, naturalmente liofilizzati. Giovanni starà certamente folleggiando alla "Festa della birra". Ne gusterà almeno due boccali per noi?