Maurizio Zambelli

VOLCANOES

22-30 aprile 1995

Comodamente seduto sulla poltroncina del Boeing 767, scruto 10.000 mt. sotto di me, la superficie bianca e immacolata della Groenlandia. È il 22 aprile 1995. La destinazione del volo partito da Copenhagen è Seattle, capoluogo dello Stato di Washington, ai confini del Canada sull’Oceano Pacifico. Con me ci sono Antonio e Vittorio, mentre Giovanni e Paolo mi aspettano all’aeroporto alle 14.00, ora dell’atterraggio. Dopo aver assolte le modalità di ingresso negli Stati Uniti, mi trovo di fronte, proprio all’uscita dei voli internazionali, a Giovanni che, abbronzatissimo, non vede l’ora di raccontarmi i quindici giorni trascorsi sulle nevi del Canada. Il tempo è bello, e già dal parcheggio Hertz, mentre carichiamo sci e bagagli sulla Cadillac, in lontananza notiamo il Mount Rainer. Esso, con i suoi 14.411 piedi, pari a 4.394 metri, è la cima più alta di tutti gli Stati Uniti esclusa l’Alaska. Fa parte della catena montuosa delle Cascade Volcanoes. Questo vulcano dista dalla costa del Pacifico circa 170 km; essendo un rilievo isolato, è l’unico baluardo contro le perturbazioni umide e copiose provenienti dall’oceano. In queste zone, nella stagione invernale, sono normali 15-20 metri di neve! Difatti, il nostro avvicinamento verso White River, punto di partenza della nostra salita, è interrotto dalla non praticabilità della strada a causa della neve. Sarà per il fuso orario o perché in aereo non sono riuscito a dormire, ma mi addormento in macchina mentre torniamo a Seattle, dove chiediamo informazioni per un approccio al Rainer da un’altra vallata. Ormai è sera, e avute le informazioni che volevamo, ci fermiamo a dormire in uno dei numerosi lodge che ci sono nel Rainer National Park. Ci svegliamo presto e ascoltiamo per radio le previsioni del tempo che promette bello per tre giorni. Entusiasti ci dirigiamo verso Paradise a q. 1647, partenza del nostro itinerario sci-alpinistico. Dalle informazioni raccolte in precedenza, le condizioni meteorologiche di questa regione, sono molto variabili e di norma in una giornata si avvicendano anche 2 o 3 volte pioggia o neve con il sereno. La notizia quindi che per tre giorni consecutivi il tempo sarà bello, stupisce gli americani, ma soprattutto porta il nostro morale alle stelle! Parcheggiamo davanti alla stazione dei Ranger e prepariamo gli zaini, con tende e viveri per tre giorni. Registriamo, come d’obbligo la salita dai Ranger, i quali ci descrivono le varie possibilità di itinerario. Iniziamo lentamente a salire; la neve è veramente tanta! Compattata sarà circa 4 metri di spessore, il che conferma i 15-20 metri di precipitazione invernale! La pendenza è sempre regolare e non troppo sostenuta, quindi nel giro di due ore siamo sul Muir Snowfield a quota 2251.Questo nevaio conduce a Camp Muir q. 3105, 10.188 piedi. Lo sperone roccioso è chiamato Camp, perché qui è installata una postazione fissa di monitoraggio sismico che trasmette a valle l’attività vulcanica del Rainer. Con calma piazziamo le due tendine su un ripiano sassoso sgombro dalla neve. L’impressione avuta già da Paradise è che la cima di questo vulcano sia vicinissima, però nonostante ci siamo alzati di 1500 metri e camminato per cinque ore, la distanza ed il dislivello da percorrere sono ancora tanti! Ci infiliamo nelle tendine che non è ancora notte. Verso sud dalla pianura coperta di foreste, emergono altri vulcani, che caratterizzano tutta la fascia costiera del Pacifico. La luce del tramonto è suggestiva e le sagome coniche dei vulcani che si stagliano verso sud, prendono un colore rosa-violaceo molto particolare. Si vedono chiaramente il St. Helens, e Adams nello Stato di Washington, i Monti Hood, Jefferson, Three Sisters nello stato dell’Oregon, mentre più a sud, nascosto dalla foschia dovuta alla distanza, lo Shasta, nello stato della California. Il mattino seguente la sveglia è fissata alle 4.00. Colazione calda e sostanziosa dopo di che infiliamo gli sci, già con le pelli di foca applicate e ci incamminiamo rimontando obliquamente il pendio del Cowlitz Glacier, sino al Cathedral Gap. Qui ci accoglie una luce dell’alba stupenda, che fa risaltare la cima sopra di noi contro un cielo blu scuro, il versante su cui ci troviamo ora è battuto da un vento forte che rinforza ulteriormente nel giro di poco tempo. Risaliamo un tratto del Ingraham Glacier sino a un tratto con pendenza di 50 gradi. Lo rimontiamo con gli sci in spalla, fiduciosi nel fatto di rimetterli ai piedi una volta passato questo ripidone. Il vento sempre più forte, ci obbliga però ad abbandonare gli sci e continuare a piedi con ramponi e picozza. Giungiamo, dopo aver attraversato numerosi crepacci nascosti dalla neve soffiata dal vento, alla fine della Disappointment Cleaver. Siamo sulla cresta del cratere del vulcano, la Columbia Crest a q. 4394.Il vento è foltissimo e ha già cancellato la nostra pedonata di salita. Scendiamo immediatamente sperando il vento cali alle quote inferiori. Rimettiamo gli sci e su una neve ormai ventata e quindi non bellissima, raggiungiamo le nostre due tendine. Prima di ripartire verso il fondo valle, "salviamo" la tendina di due alpinisti canadesi che, sollevata come una piuma dal vento se ne stava volando verso sud. La fissiamo con sassi enormi, auspicandoci la riconoscenza dei canadesi! Giungiamo alla macchina stanchi morti, vuoi per la fatica della salita e della discesa, ma soprattutto per il vento. Rimettiamo sulla Cadillac tutto il materiale e ci dirigiamo a sud con destinazione Mount St. Helens, 8365 piedi, 2550 metri. Le distanze da percorrere sono notevoli, quindi sfruttiamo le ore di auto per informarci sulle salite successive. Il Mount St. Helens è quel vulcano, famoso in tutto il mondo per l’esplosione della sua sommità avvenuta il 18-5-1980. In tale occasione, la sua cima, si abbassò di ben 350 metri e le ceneri di questa esplosione, portate dal vento, arrivarono fino in Giappone. Tutta la zona nel raggio di decine di miglia, per diversi giorni restò al buio, tanta era la cenere in sospensione nell’atmosfera. Troviamo da dormire in un lodge ai piedi del vulcano e dopo una doccia e una cena ci rechiamo a dormire. La mattina seguente partiamo alle 5.00 e in auto cerchiamo di avvicinarci il più possibile alla montagna. Dopo poche miglia la strada è impraticabile anche per un fuoristrada, quindi parcheggiamo e iniziamo l’avvicinamento. Percorriamo diverse miglia in pinete fittissime fino a sbucare dopo circa 2 ore, nei pressi del Climber Bivouac, alla cui quota cessa ogni tipo di vegetazione. Da qui la salita è a vista. La Monitor-Ridge, che rimonta senza un attimo di tregua tutto il versante sud del vulcano. La neve è la tipica primaverile, il vento è calato, quindi gustiamo la salita. Dopo circa 1700 metri di dislivello, raggiungiamo quello che è rimasto della cima del Saint Helens. È impressionante la sensazione di vuoto che coglie sul filo del cratere! Il versante nord, quello opposto alla nostra salita, è completamente mancante! Sotto i nostri sci si apre una voragine di 800-900 metri. La puzza di zolfo è pungente e se il nostro versante è coperto dal Dryer e Swift Glacier, il versante nord è tutto brullo, bruciato dalla lava e dall’esplosione del 1980.Ammiriamo stupiti lo spettacolo dantesco e decidiamo di scendere prima che la neve si trasformi troppo. Le aspettative riguardanti la sciata, non vengono smentite. La pendenza è ottima, così come la neve. Sono i tre centimetri di neve molle su di un fondo durissimo che fanno tutto! In meno che si dica, bruciamo tutto il dislivello sino alla macchina. Con nostra sorpresa, ma neanche troppa, troviamo la neve intorno all’auto calpestata, con chiare impronte di orso! Il tempo tiene ancora, quindi anziché il giorno di riposo programmato in un enorme Jacuzzi, decidiamo di trasferirci ancora più a sud. Lasciamo lo Stato di Washington ed entriamo nello Stato dell’Oregon. Già da Portland, che è sull’Oceano, si vede chiaramente uno scivolo lunghissimo verso est. Non è una gigantesca pista da K.L., ma il Mount Hood, 11.239 piedi, 3426 metri. Arriviamo in auto sino al Timberline Lodge a q. 1800 mt. La strada fin qui è tenuta sgombra dalla neve in quanto esistono e funzionano due impianti di risalita. È tardissimo, ceniamo e ci mettiamo subito a letto, perché anche domani mattina la sveglia sarà di buon’ora. Il mattino seguente il cielo è ancora sereno, ma verso ovest, sull’oceano si intravedono in lontananza le prime nuvole. La salita sulla South Side Route è costante e ripida. Non da un minimo di tregua. La puzza di zolfo è penetrante e da quasi fastidio. Lasciamo sulla nostra destra la Devil’s Kitchen e proseguiamo su un impegnativo pendio fino a Hog Back. Da questo punto dobbiamo, per la pendenza, togliere gli sci, fissarli sullo zaino, e mettere i ramponi. Il tratto finale nei pressi del Pearly Gates è abbastanza ripido e ghiacciato. Da questo corridoio di ghiaccio, sbuchiamo direttamente sulla cima. Lo spettacolo naturale ai nostri piedi è favoloso! Oltre le foreste, in lontananza si intravede la città di Portland e ancora oltre l’Oceano. Dalla cima percorriamo l’affilata cresta fine all’imbocco di un bel canale sciabile che porta diretto al Old Crater. Mettiamo gli sci e con cautela saggiamo la pendenza. Il tratto sarà lungo 250 metri con una pendenza di 40-50 gradi! Il fondo è ideale, quindi con divertimento e soddisfazione scendiamo nel cratere. Rimontiamo di poco nei pressi del Hog Back e continuiamo la bellissima discesa. Vista dall’alto sembra proprio una pista da K.L.! Durante lo spostamento in auto verso nord le prime gocce di pioggia bagnano il parabrezza. Come previsto il bel tempo è finito!