Programma
 
“Religioni del Mediterraneo di fronte alla sfida del mercato globale”
a cura di CRIC e Millemondi

Università di Catania
Aula Magna – Monastero dei Benedettini
31/1 – 1/2/2003

PLURALISMO RELIGIOSO E INTERCULTURA. 
Adel Jabbar*
La nuova visibilità del pluralismo religioso

Più che parlare di pluralismo religioso come un aspetto nuovo che interessa l'Italia è più indicato parlare di maggiore visibilità del pluralismo religioso. 

Il pluralismo religioso infatti da sempre caratterizza ogni società nel mondo, non c’è nulla di nuovo in questo. Anche nella realtà italiana esperienze religiose diverse sono convissute nella storia. Oltre al gruppo cattolico maggioritario, esistono da sempre realtà minoritarie, come ad esempio i protestanti e i valdesi, la cui esperienza storica risale al 1200 e che si trovano nell'area nord-occidentale della penisola, oppure i luterani nel nord-est, soprattutto nelle realtà confinanti con il mondo tedesco. Pensiamo poi ai cristiani ortodossi presenti a Venezia e a Trieste, con le loro comunità greche, russe, serbe, rumene o ai Testimoni di Geova, una presenza numericamente molto significativa e una realtà molto dinamica. Con l’immigrazione inizia ad avere un certo peso anche la presenza dei Pentecostali, pensiamo ad esempio ai ghanesi che hanno aderito a questa versione del cristianesimo. Infine non possiamo tralasciare l’antica presenza ebraica in Italia, dato che gli ebrei sono arrivati a Roma prima dei cristiani!

Oggi il mosaico delle fedi, oltre a queste presenze tradizionale, diventa ancora più vario. Negli anni sessanta/settanta i movimenti giovanili, in molte parti del mondo occidentale, Italia compresa, hanno introdotto un rinnovamento della società anche in termini spirituali. I giovani di quegli anni intraprendevano lunghi viaggi verso luoghi lontani dal punto di vista geografico per vivere e abbracciare altre esperienze spirituali/religiose: buddismo, induismo e diverse altre religioni orientali, come la fede ba’hai. Per cui l’Italia fino ad oggi ha continuato ad attingere dall’esperienza religiosa proveniente da altri contesti. Quindi quando parliamo di credenti nel buddismo, nell'induismo e nella religione ba’hai, spesso parliamo anche di cittadini italiani, di lingua e cultura italiana. 

Per quanto riguarda la religione islamica, la presenza musulmana in Italia non rappresenta certo una novità: pensiamo alla Sicilia o ad altre realtà del meridione nel periodo medioevale o alle comunità presenti a Livorno intorno al '600; pensiamo poi all’impero austro-ungarico, impero plurireligioso, che ha lasciato tracce a Trieste o nel Trentino Alto-Adige della presenza di cittadini e di soldati di religione musulmana (fra le altre): a Trieste si trova il primo cimitero musulmano che risale proprio a quell’epoca mentre nei cimiteri dell’Alto-Adige si trovano alcune tombe di soldati che sono rivolte verso la Mecca. E poi non trascuriamo i numerosi cittadini italiani di fede islamica. Con l’immigrazione l’islam si diffonde ulteriormente in Italia, ma non è certo quello forte, dominante del periodo medioevale: quello era il periodo d’oro della civiltà musulmana, mentre oggi l’islam che torna a far parte dello spazio pubblico è quello degli immigrati. 

Di fatto, oggi, oltre al pluralismo autoctono c'è quello rappresentato dagli immigrati. In base ai dati della Caritas quasi il 47% degli immigrati presenti sul territorio italiano (dati basati su quelli del Ministero degli Interni) sono di religione cristiana (di cui più della metà di religione cattolica e quindi ortodossi e protestanti). La presenza musulmana si aggira intorno al 36% e poi ci sono tutte le altre realtà religiose, come buddisti, induisti, shintoisti, animisti…

Dunque il pluralismo religioso è sempre esistito. Ma perché oggi è più visibile?

Stiamo vivendo un periodo di unificazione europea e questo significa che i confini diventano, anche dal punto di vista religioso, frontiere porose, più facilmente attraversabili. Se è vero che l’Europa è cristiana, ricordiamoci anche che fra i cristiani ci sono cattolici, ortodossi, protestanti, e sono presenti altre minoranze religiose tra cui quella musulmana. Solo nell’Europa occidentale vivono 12 milioni di musulmani provenienti da diversi contesti. Poi ci sono i musulmani europei: tra questi vi sono olandesi, francesi, inglesi e, come si è detto, anche italiani. Negli anni sessanta e settanta diverse persone hanno abbracciato l’islam nel loro percorso di ricerca spirituale. Quindi il contesto di unificazione europea rende maggiormente visibile questa pluralità e rimette in discussione il ruolo che le diverse religioni possono dare alla costruzione europea. A ciò contribuisce anche l’inclusione euroea di diversi fra i cosiddetti “paesi dell’est”, dove le componenti ortodosse e musulmane sono molto consistenti. L’ingrandimento dell’Europa verso Est implica l’entrata di queste nuove componenti. Pensiamo che in Europa negli anni cinquanta, quando ebbe inizio la costruzione dell’Unione Europea, esponenti politici di spicco di quel periodo, come Schumann, Adenauer e De Gasperi, dichiaravano quanto segue: “L’ispirazione cristiana, intesa come fondamento di una storia comune, può essere considerata in questo contesto come una forza viva e creatrice”. Quindi, negli anni cinquanta, nonostante l’Europa si definisse laica, alcuni esponenti di spicco consideravano la religione cristiana come forza viva e creatrice della stessa. Oggi invece nella dichiarazione di Nizza per produrre la nuova costituzione europea si afferma che esiste un “comune patrimonio spirituale dell’Europa”, quindi senza una definizione precisa. Questo dimostra come il pluralismo religioso oggi venga riconosciuto senza l'individuazione una particolare una “forza viva e creatrice per l’Europa”, per quanto il dibattito sia ancora aperto.

Infine la visibilità è dovuta anche al fatto che oggi si assiste ad un ritorno della ricerca del sacro, di spiritualità, in particolare nei paesi ricchi, in una società che si fonda su una forte visione materialistica, economicistica. Oggi la dimensione spirituale viene recuperata nella vita quotidiana per contrapporsi a questa visione dell’homo oeconomicus, materiale, che trae il proprio riconoscimento da quanto produce e consuma. 

Il ruolo della scuola

Poiché ciò che qui ci interessa maggiormente è il vissuto religioso degli immigrati nel processo di adattamento al nuovo contesto, possiamo chiederci in che modo la scuola può recepire la funzione della religione in questo percorso. Sappiamo bene in realtà che l’inserimento nella nuova realtà significa spesso inserimento nel mercato del lavoro. In altre parole, l’inserimento dell’immigrato è assolutamente assoggettato alle dinamiche del mercato del lavoro. Quindi le regole e le dinamiche del mercato del lavoro incidono moltissimo sull’inserimento delle persone. Di fatto l'immigrato che perde lo status di forza lavoro perde anche la legittimità della sua presenza. L’immigrato è tuttavia in primo luogo una persona e come tale possiede una complessità identitaria, vive delle pluriappartenenze, tra le quali c’è quella religiosa. Quindi la religione può costituire un fattore importante nel ricostruire la nuova identità dell’immigrato. Secondo Weber alcuni elementi identitari non sono facilmente sostituibili e tra questi vi è quello religioso, che egli definisce un “carattere intrinseco e permanente” A che cosa assolve la religione nell'esperienza migratoria? Aiuta a ricostruire questa identità complessa, perché nel contesto d’arrivo l’immigrato viene schiacciato sulla sua dimensione economica. In questo caso, l’identità religiosa diventa un elemento anche per conquistare un diverso riconoscimento da parte del gruppo maggioritario, ad entrare in relazione con gli altri non solo come lavoratore. L'elemento religioso aiuta pertanto anche a ricomporre l’identità della e nella comunità. 

Secondo alcune posizioni piuttosto semplicistiche, il professare la medesima religione maggioritaria della società di accoglienza facilita l’integrazione degli immigrati. Ma pensiamo agli italiani emigrati in Francia: erano facilitati dalla vicinanza linguistica e geografica e la religione era la stessa. Eppure l’inserimento degli italiani in Francia non avviene attraverso la religione, ma attraverso le attività sociali dei sindacati. Le condizioni sociali degli operai italiani in un particolare momento della storia del movimento operaio in Francia hanno costituito la base per l’inserimento. Ancora, quando gli italiani arrivarono in Canada, soprattutto nel Quebec, altra zona francese di religione cattolica, la gran parte di loro non andò a frequentare la scuola cattolica, nè andò a frequentare i luoghi in cui si parlava il francese, più affine all'italiano. Scelsero di parlare la lingua inglese e scelsero la scuola protestante. Perché? Proprio per mantenere un'identità, per meglio differenziarsi e mantenere i caratteri del proprio gruppo.

Questo per dire che le semplificazioni sono spesso fuorvianti; nel caso specifico, non si può di certo dire che a parità di religione l'inserimento sia automatico e non sorgano problemi di identità. Al contrario, l'identità religiosa permette di distinguersi dall’altro e di poter entrare in una relazione che richiede un riconoscimento, crea spazi di confronto, consente una visibilità, un accesso alle risorse e ai luoghi pubblici. In questo modo l'inserimento non avviene in virtù di una presupposta "somiglianza", bensì di una differenza che si pone in maniera dialettica. 

Per questo è importante il riconoscimento delle diverse realtà religiose e il considerarle parte integranti della storia italiana di oggi. Habermas sostiene che la sfida odierna è l'inclusione dell'altro, secondo un'ottica non di assimilazione ma di apertura alla differenza. “L’inclusione dell’altro significa che i confini della comunità sono aperti a tutti”. La comunità diventa quindi un luogo aperto e vario, una visione opposta a quella che intende la comunità come un'entità chiusa ed appartenente solo a chi vi è nato, ha seguito un certo modello culturale ed un certo tipo di religione. Infatti Habermas sostiene ancora che “i confini della comunità sono aperti soprattutto a coloro che sono reciprocamente estranei e che estranei vogliono rimanere” . La comunità deve dare quindi la possibilità di esistere ed esprimersi anche a quelli che sono e si sentono diversi. Quindi oggi nell’affrontare la questione del pluralismo religioso diventa necessario collocarsi all’interno di quest’ottica: includere la differenza rispettando la distanza nel riconoscimento e nel rispetto reciproco.

Arriviamo così al tema della scuola. Che cosa può fare la scuola? Perchè proprio la scuola?
La scuola è interpellata direttamente dalle trasformazioni che avvengono sul territorio. Le famiglie immigrate che portano i propri figli nella scuola italiana portano anche altre esperienze, importanti sul piano educativo e sul piano dell'appartenenza. Nel caso di una diversa appartenenza religiosa, anche questa diventa strategica sul piano della relazione proprio perché contiene elementi nuovi che vanno ad arricchire il contesto scolastico. E di certo un'agenzia educativa come la scuola rappresenta il terreno ideale per cominciare ad esplorare queste differenze e a comprendere come sono vissute sia all'interno sia all'esterno dell'ambiente scolastico. Inoltre la scuola, dovendo trasmettere alle nuove generazioni contenuti e strumenti per leggere e vivere questa società, deve tenere conto nella formazione degli alunni della pluralità delle esperienze e dei vissuti che compongono tale società. E in questi vissuti, in queste storie, la religione ha comunque una rilevanza, “Una rilevanza legata al fatto che la componente religiosa ha investito (e investe) l’intero complesso di vita, funzionando come importante modalità di riferimento identitario. Essa ha informato di sé le tradizioni, i riti della nascita e della morte, le prescrizioni alimentari, la simbologia degli oggetti, la scansione dei tempi, il sistema delle feste, l’articolazione degli spazi, i rapporti con le istituzioni del potere; ha attraversato l’intera produzione storico-culturale-antropologica e influenzato la stessa organizzazione sociale” . 

La c.m. del 2 marzo 1994, n.73 dal titolo “Dialogo interculturale e convivenza democratica: l’impegno progettuale della scuola”, dà un significato sostanziale al dialogo interculturale che non si esaurisce nell’enfasi culturalista, ma estende il concetto stesso di democrazia introducendo l’inclusione delle nuove minoranze e delle relative differenze. In questo riprende il pron. c.n.p.i del 13 aprile 92, nel quale si conviene che “i valori che danno senso alla vita non sono tutti nella nostra cultura, ma neppure tutti nella cultura degli altri: non tutti nel passato, ma neppure tutti nel presente o nel futuro. Essi consentono di valorizzare le diverse culture ma insieme ne rivelano i limiti, cioè le relativizzano, rendendo in tal modo possibile ed utile il dialogo e la creazione della comune disponibilità a superare i propri limiti e a dare i propri contributi in condizioni di relativa sicurezza”. L’inclusione dell’altro, della sua estraneità, diventa dunque centrale nel concetto stesso di convivenza democratica.

Nella pratica, rimane il fatto che se fare intercultura in termini non convenzionali o folcloristici è difficile, un approccio interculturale alla religione risulta ancora più arduo e rischioso. Se le iniziative volte a presentare il significato delle diverse appartenenze religiose si fermano su un piano superficiale, non vengono inserite in un percorso organico di studio, possono essere vissute dagli alunni in termini meramente ricreativi. 

Se le religioni, così come le culture, sono considerate in termini statici ed unicamente espressivi si perde il significato sociale delle stesse. Il compito della scuola in ambito interculturale è infatti duplice. Da una parte deve saper prestare attenzione alle specificità culturali, di cui la religione è parte fondamentale, dall’altra deve poter cogliere e trasmettere agli alunni i cambiamenti e le trasformazioni sia sociali sia culturali. 

Una scuola che accoglie la diversità e si propone di valorizzarla deve pertanto in qualche modo conciliare il valore dell’appartenenza originaria con la realtà e le necessità del cambiamento storico-sociale. 
Una via potrebbe essere proprio quella di rintracciare nelle varie discipline di insegnamento (dalla letteratura alle scienze) le diverse interpretazioni e i segni lasciati da altri universi simbolici culturali e religiosi (e certo i riferimenti non mancano). In tale modo è possibile ripercorrere le trasformazioni e il cambiamento sociale in termini di continuità e di incontro dinamico e dialettico fra apporti differenti. Ciò può contribuire a spiegare il cambiamento e nello stesso tempo valorizza le diverse appartenenze originarie, che ritrovano così parte della loro storia e cultura dentro i diversi ambiti del sapere e dentro i processi di trasformazione degli stessi.

Per questi motivi, un approccio educativo a questi temi può considerare la religione come elemento importante, a prescindere dalle convinzioni personali (credente o non credente) e anche da concetti che siamo abituati a considerare come centrali nell’interpretazione della realtà, ad esempio religione/laicismo. 
Del resto gli intrecci fra queste due sfere permangono anche nella stessa scuola italiana pubblica, che si definisce laica, ma appende nelle classi simboli a chiaro contenuto religioso e basa le proprie cadenze su un calendario ampiamente scandito da ricorrenze religiose “Non è laica la scuola di stato quando istituisce al suo interno un insegnamento confessionale come l’unico vero, ma neppure quando elimina dai suoi programmi qualsiasi insegnamento religioso, reputandolo marginale alla preparazione di giovani alla vita” .
Come si è già avuto modo di osservare, l’importanza della religione nella storia dei popoli e nelle relative espressioni culturali non può essere trascurata ai fini della formazione e dell’educazione interculturale, perché anche le religioni rappresentano delle visioni del mondo. “E’ a scuola che bambini e bambine devono poter imparare ad analizzare la pluralità dei percorsi, attraverso i quali i differenti popoli hanno costruito, nel corso della storia, differenti ‘versioni del mondo’. E’ a scuola che possono affrontare attività di analisi – confronto tra codici culturali diversi, ad esercitare il pensiero a decentrarsi, ad allontanarsi dai propri modi di leggere e interpretare la realtà –a guardare e a guardarsi con lo sguardo degli altri- e a ritornare alla propria cultura arricchiti dall’esperienza del confronto” .

Su questi aspetti è in atto una riflessione in varie realtà scolastiche, portata avanti da diversi organismi (a titolo indicativo Forum dell’intercultura della Caritas di Roma, CEM Mondialità di Brescia, IRRSAE Puglia). 
Una delle questioni sulle quali si concentra l’attenzione è il rifacimento e la revisione dei testi scolastici, spesso improntati in termini eurocentrici. 

Altri aspetti riguardano la formazione agli educatori e agli insegnanti, nonché la necessità di far accogliere i cambiamenti introdotti dalle nuove presenze alle scuole pubbliche come a quelle private convenzionate, in maniera tale da aprire e adeguare i propri progetti educativi al valore dell’intercultura e della presenza plurireligiosa. 

*sociologo ricercatore dei processi migratori e interculturali (STUDIO RES, Trento, studiores@tin.it ); insegna sociologia delle migrazioni presso l'Università Cà Foscari di Venezia ed è docente al Master sull'immigrazione presso la medesima università.