Il 30 Dicembre io il Luigi e il Roberto ,orfani di altri invitati.......decidemmo dopo ritrovo e rituale caffè(decaffeinato X me) di rigironzolare in cerca di castelli nel territorio sloveno contiguo alla nostra provincia e così sfidando freddo e gelo fù fatto.Dapprima passammo davanti al castello di Stanjel o castel S.Angelo , che prima o poi posterò anche la sua storia poi visitammo una chiesetta sperduta dedicata a san Giorgio carina e caratteristica costruita nel 1540 domina tutta la valle del vipacco nella sua parte piu alta perfettamente conservata e restaurata.A lei il compito di dare pace e tranquillita a chi faticosamente è disposto a salirci fino in cima.Da lì ci avviammo verso il castello di Rifembergo splendido maniero e caratterizzato dalla larga torre centrale e i tre ordini di mura a sua difesa ancora perfettamente conservati. Spenderò un’altro giorno per descrivere giro e percorsi,per ora preferisco dirvi che la visita al castello l’avevo già fatta in estate e mi ero portato appresso delle pagine da leggere tratto in modo integrale dagli archivi diplomatici della Serenissima Repubblica di Venezia e scritto dal loro ambasciatore in visita nei territori dell’impero(non dimentichiamo che questo era territorio imperiale asburgico!!!!a quel tempo.Il periodo a cui si riferisce è datato 1780 ed è stato pubblicato una volta solo come stralcio d’opera “SETTECENTO” dal Giulio Posar-giuliano nel 1924ricordo cosi che un pomeriggio nel caldo di agosto con una birra fresca vicino a me e seduto sugli spalti mi apprestai a leggere......e quindi anche a voi una buona rilettura.

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E vi narro la visita che sono venti giorni ,ho fatto al conte quale incaricato di affari della nostra serenissima repubblica. Dopo un lungo viaggio, prima in carrozza, poi a cavallo, finalmente
giungevo ai piedi del colle su cui sorge il castello: era meriggio di una delle più ardenti giornate d'agosto. Accecato dal sole ,bruciato dalla polvere ,tutto piovente di sudore in quella fornace della mia parrucca ,ora entravo nell'ombra densissima di un viale di querce che adagio adagio saliva al castello. La mia cavalcatura, in preda allo sfinimento, si trascinava innanzi non so come. A sinistra la strada era limitata dal declivio stesso del colle, a destra oltre un basso muricciolo, il colle continuava nella sua ripida discesa densa di bosco. Gli uccelli  tacevano ma c'era uno stridore di cicale e a momenti un frusciare così carezzevole di fronde ch'io sarei sceso di sella per andarmi a stendere in qualche cantuccio sull'erba grassa a dormirvi di tutto gusto.


Che stanchezza ,che sonno in quell'ora! Quando il destino volle mi trovai sotto la poderosa torre che si levava altissima nel cielo e poco dopo scendevo in un vasto cortile già ricoperto a metà dall'ombra della gran fabbrica. Fui accompagnato in una stanzetta tranquilla: il letto a baldacchino, un seggiolone e il canterano su cui un lumino vegliava malinconica immagine affumicata dal tempo; accanto sulla parete l'acquasantiera di porcellana con traverso un rametto di ulivo. Mi liberai da quel demonio di parrucca, mi spogliai di quanto possibile a spalancai le imposte: che respiro, che vista immensa si apri ai miei occhi stupefatti: una vallata vastissima, qua e là il biancheggiare di borgatelle, il guizzo di agili campanili, e ampissimi campi coltivati, e folti di frutteti , e interminabili filari di viti che si arrampicano sui colli e li rigavano tutti là dove non si addensava il bosco: largo nereggiare di pinete alternato da verdi spianate di pascoli.

In quell'ora premuta dal sole tutto riposava allo stridore delle cicale, nella carezza di rari aliti d'aria. Riavvicinai le imposte e mi distesi sul letto anzi che no. Forse mi addormentai e mi destò una donna che veniva recando un vassoio con su un bel pezzo di cacio, una pagnotta ,quattro pesche sorprendenti e un grosso boccale di vino. Mi disse che il padrone, uscito a caccia sarebbe rientrato soltanto a notte. Mangiai anzi divorai di tutto piacere facendo gorgogliare quel vino denso, schiumeggiante, asprigno ma un tantin dolce, delizioso: lo chiamano terrano.(Questo ve lo faccio provare) Mi rimisi alla finestra per un'insaziabile curiosità di godere del panorama. Finalmente si poteva respirare. Il sole andava declinando. Colline ed alberi allungavano le loro ombre sui morbidi campi. La valle tutta si rianimava. Lungo le strade fatti piccolissimi dalla lontananza scricchiolavano carri stracarichi di fieno tirati da lenti bovi e sgambettavano gruppi di gente in direzioni varie verso i loro paesetti. E come il sole,il cielo si facevano più rossi, più si accentuavano violacee le ombre che carri e animali e uomini si tiravano appresso. Già sui paesetti si sbandavano lievi nebbie di fumo azzurrino: nelle lontananze, dondolio di campane.

E ruinò la notte: una notte quieta, sotto un cielo appena offuscato da lievissimi vapori in cui le stelle faticavano a tremolare. Poi l'aria si mosse mettendo leggeri brividi alle folte verzure dei boschi vicini e sollevando ondate di immense fragranze. Il cielo rapidamente illimpidiva. tutte le campane si erano da poco quietate anzi a momenti pareva che l'ultimo dei fremiti dei bronzi tenue ondulante trascorresse ancora nell'aria, ultima eco del dì. D'un tratto sù dalla strada venne avanti un crescente frastuono di voci e di cavalcature, un latrare di cani. Sentii sbatacchiare alcune imposte al piano di sotto e voci di donne gridare

-Eccoli! Attizza il fuoco, prepara gli spiedi .i coltelli, il sale presto ragazze -In un momento tutto il castello fu pieno di grida ,nitriti, latrati: un via vai di gente per i corridoi, lungo le scale, un fremito, un ansito ovunque. D'un tratto nella notte una tromba potente risuonò e come per incanto il frastuono si fece enorme. Pareva si trattasse di un assalto ,di un invasione. Ma poco a poco tutto si ricompose in una calma in cui però si sentiva la vita. Vestito mi ridistesi sul letto. -Che si siano dimenticati di me? pensavo. In tutto questo loro daffare la cosa non sarebbe proprio impossibile-E volgevo lo sguardo nella piccola stanzetta appena rischiarata dal lumino accanto all'immagine. Sentivo lontano, in chissà quali corridoi, uno sbattere di porte e vociare di donne. Poi tutto si confondeva in un ronzio incessante. Questa volta mi avevano dimenticato davvero. Mi sentivo inquieto. cercai di sopirmi. Nulla. Pensai di levarmi ancora e di rimettermi alla finestra .Ma neanche questo mi andava. Ora fermavo l'attenzione a numerare i rintocchi degli orologi dai campanili. Le ore passavano E udivo così limpido, nel suono dei colpi battuti come se la punta del campanile con il suo grande occhio sempre vigile sui destini umani, fosse stata lì fuori, sotto la mia finestra: uno ,tre, sette dieci. E silenzio.

Poco dopo un altro orologio più lontano dalla voce piu lenta e quasi stanca, si destava ad allargare nel silenzio altri rintocchi e mentre era a mezzo del suo faticoso discorrere un altro orologio più che mai vicino, più che mai vivace, scattava a segnare anche lui i suoi dieci tocchi confondendo i primi con quelli dell'altro e continuando poi solo e beato quando l'altro aveva finito. Eppure pensavo questi benedetti orologi dovrebbero tutti nello stesso momento segnare le ore: Tutti i campanili della vallata, quale più melodioso quale più canterino, nello stesso istante: uno tre sette dieci! Un concerto di bronzi di voci dell' aria.E poi ampia su tutto la notte stellata. E al primo quarto tutti gli orologi in coro, dalle valli e dai monti:dan1 E alla mezza ancora tutti uniti: dan, dan! Mi perdevo in queste considerazioni quando fui scosso da un passo affrettato nel corridoio. Sobbalzai a sedere sul letto. fu picchiato l’uscio. Comparve la donna che mi aveva recata la colazione. Teneva sulla destra un candeliere di ottone con su un moccolo a cui faceva schermo con la sinistra perché l’aria del corridoio e la sua fretta non le spegnessero la fiamma.

Il Conte mi attendeva a cena. E lo trovai infatti sulla soglia della vasta sala piena di luce e di gente. Mi venne incontro con un sorriso di cordialità perfetta: giovane, alto, occhi vivaci di una fierezza dignitosa: in tutta la persona un’eleganza di vestire, una ricercatezza di pizzi, di trine, e poi una finezza di modi che parebbe impossibile in un provinciale. Mi porse una mano candidissima e mi accompagnò a tavola. In un batter d’occhio ognuno fù al suo posto :saremo stati circa una ventina fra dame e cavalieri. Sul candore delle tovaglie ingombre di finissime porcellane, di cristalli rilucenti, di rose sparse ovunque, numerosi candelabri di argento a cinque bracci spandevano abbondante luce .E finalmente si venne al sodo. Ora vi narrerò ciò che fù recato su quella mensa a delizia del nostro gusto. Per opera di abilissimi valletti presero a circolare laghi piatti ricolmi di squarci di carni le più saporite in una fragranza di formagg,i di burro, di arrosolato; di vitello, agnello, maiale, moltissima selvaggina. Ad ogni piatto di carni seguiva uno di squisite verdure come delicati piselli, le più soavi spinaccine e fresche insalate che nelle gocce di olio e aceto ricordavano le gemme di rugiada , e succosi asparagi di primissimo taglio e dorate patatine minuscole come confetti. Tutti erano preoccupati di fare il più grande onore a quella tavola e al suo magnifico padrone. Ed ecco finalmente, quando non se ne poteva più arriva il vino: il ritardo precalcolato ad arte, doveva far meglio gustare quel prezioso liquore, una specialità del castello E vi assicuro fu il caso di commuoversi fino alle lacrime .

In tutti c’era una arsione, una sospensione angosciosa, una brama di bere che gia mancava il respiro. E quel primo fiotto di liquido rubino quel dolce vaporante succo della vite, quel bagno di salute e di allegria fu accolto con indicibile entusiasmo: tutte le braccia, discretamente si allungarono con passione E in quel momento fu come un miracolo: dai calici in crescente vibrazione di vuota e riempi si levarono i primi tenuissimi fumi a ondeggiare a mezz’aria muovendo la brigata alla piu vasta allegria. Poi l’animazione assurse momenti di vero baccano. Facevano intanto trionfale ingresso i dolci e le frutta dalle monumentali torte di creme di fragili panne, di densi canditi. Ciò che mi colpì furono certi divini bombè: sottili croste di cioccolata e dentro le più delicate panne, candide alcune, altre colorate di liquori, azzurrine o rosa. Tutto questo fra commoventi risate di limpidi deliziosi rosoli. non saprò mai dire né quando né come io sia tornato alla mia stanzetta .Il fatto è che la mattina dopo mi ci ritrovai con mio sommo stupore risvegliatomi come dalla morte Ma ora viene il meglio, Sapevo quel castello ricco di storia, di romanzesche vicende e che fra l’altro circa un secolo fa rimase.........


Beh questa parte ve la racconterò in un’altra puntata davanti al castello


Grazie e alla prox.

Kugluff & Anacleto