Claudio D'Ettorre (Omar Wisyam)
Giorgio Cesarano e la critica capitale
"L'origine dell'uomo non è alle spalle, ma dinanzi agli uomini. L'origine della specie è il fine della rivoluzione biologica."
Il più grande scrittore della critica radicale in Italia era un poeta. Infatti lo stile della prosa di Giorgio Cesarano non soltanto è facilmente riconoscibile e identificabile per le asperità che lo inarcano nella vasta e monotona pianura della scrittura gauchiste, ma il tono è di gran lunga il più veemente, più profonda l'attitudine allo scavo interiore e il lessico il più ricco di richiami fonici e simbolici al mondo della poesia che, nella nostra lingua, si sia potuto ascoltare negli ultimi decenni.
L'opera di Giorgio Cesarano critico teorico (il poeta, il romanziere, lo sceneggiatore, il traduttore, a parte) si limita a due libri pubblicati in vita: "Apocalisse e rivoluzione" e "Manuale di sopravvivenza", il primo dei quali fu composto insieme a Gianni Collu.
Entrambi gli scritti furono concepiti come testi "a breve termine". Il primo "scritto d'occasione" fu "provocato" dall'uscita de "I limiti dello sviluppo" (il rapporto redatto dal Gruppo del M.I.T. all'inizio degli anni '70); il secondo rispondeva polemicamente soprattutto al "messianesimo neo-terapeutico" dello "sciamano" D. Cooper, autore di "Morte della famiglia" (Einaudi), e al "feticismo" e all' "ipnosi religiosa" di G. Bataille, autore de "L'erotismo" (Mondadori).
In apertura al "Manuale di sopravvivenza", Cesarano avvertiva che, da tempo, stava scrivendo una "Critica dell'utopia capitale", titolo modificato dell'anteriore "Critica dell'utopia capitalista" - in Avvertenza ad "Apocalisse e rivoluzione" - (e, in precedenza, "L'utopia capitalista" e prima ancora, "Tattica e strategia del capitalismo avanzato nelle sue linee di tendenza"), in cui il medesimo discorso sarebbe stato ampliato, approfondito e altrimenti affrontato.
Questa Critica dell'utopia capitale , che si profilava allora come "un obiettivo non ancora prossimo", la morte dell'autore non permise di condurre a termine.
La Critica avrebbe dovuto essere un'opera esaustiva, perché concludesse ed esaurisse quel discorso che si era iniziato nel 1969 e al quale collaborarono, in diverse forme e in mutati contesti, Gianoberto Gallieri, Eddie Ginosa, Joe Fallisi, oltre a Gianni Collu.
Con la nuova formulazione (la "Critica dell'utopia capitale") Cesarano giunge a rimarcare uno scarto semanticamente notevolissimo rispetto alla precedente, per cui l'aggettivo assume il compito severo di evocare e precisare il senso definitivamente funebre del sostantivo implicato ed implicito. La critica dell'utopia capitale del Capitale ricalca l'evento in corso di una sfida liberatoria ed esiziale, la posta in gioco essendo la vita e la morte, poiché la stessa critica sarà una critica capitale e la morte che non sarà data, dovrà essere ricevuta e la vita che non sarà strappata alla morte, sarà perduta.
Ci si rende conto man mano che si procede nella lettura che ciò che Cesarano designa con il termine capitale si colora di una sanguigna ambiguità, in cui alla connotazione economica trascende una determinazione onnivora, una vocazione destinale.
Entrambi i libri "d'occasione" sono contrassegnati dunque dal senso di un'urgenza - urgenza vitale, indilazionabile, che ha conosciuto le passioni ed i suoi infortuni, ed insieme onnipresente incombenza della morte - a cui il lessico la sintassi e lo stile di chi è stato poeta si adattano talvolta non senza sforzo e fatica per via della fortissima tensione a cui sono costretti, ma in cui l'eleganza, quando splende, non è mai retorica disgiunta dall'energia contenuta dalla passione, ma ne è metafora viva.
"Apocalisse e rivoluzione", con le parole dello stesso Cesarano, "introduceva a un ampliamento dell'ottica radicale diretto ad aprire il campo della critica a una dimensione totale dello scontro in atto, definito come il processo della rivoluzione biologica." (Prefazione al "Manuale di sopravvivenza")
Nella tesi n. 72 di "Apocalisse e rivoluzione" Cesarano e Collu scrivevano:
"Il contenuto reale dell'alternativa in gioco è apocalisse o rivoluzione: è questo che il corpo della specie sa ormai istintivamente, da quando non si tratta più, per tutti, che di vivere finalmente o di morire infine. Ogni soluzione proposta come intermedia è pura menzogna. La rivoluzione della vita contro la morte è una rivoluzione totale, una rivoluzione biologica, definitoria delle sorti della specie."
Ma non è una novità dell'ultim'ora, beninteso: "Non è da oggi che la rivoluzione è biologica ma da sempre. Noi viviamo il momento catastrofico della soluzione finale. (...) Proprio perché siamo così vicini alla fine, la liberazione della specie appare come un'impresa disperata, ma ciò che si dispera in noi è la morte, l'impraticabilità della sopravvivenza: la forza della rivolta passa attraverso il massimo della debolezza, è alla soglia dell'estrema invivibilità che la necessità di vivere erompe con la potenza di un aut-aut irrimandabile." ("Apocalisse e rivoluzione", Tesi n. 107)
La rivoluzione biologica si pone al di fuori e contro qualunque politica, perché l'antagonismo politico è quello che il capitale ha sempre dimostrato di saper integrare alla propria incessante razionalizzazione. Nella tesi n. 73 si può leggere:
"La rivoluzione biologica non passa più per alcuna mediazione razionale, per alcuna politica possibile. Non si tratta più di discutere su questioni distributive, su argomenti di ricchezza e povertà, su moralità di appropriatori e di espropriati, quando a vivere veramente non è più nessuno, quando a rischiare di morire sono indifferentemente tutti. Questa è la consapevolezza semplice e terribile che serpeggia velocemente dovunque, e di cui vediamo ogni giorno esplodere sempre più frequenti e vicini i fuochi sparsi ancora per poco. E questa è la matrice di una rivolta indomabile e irrecuperabile. Più nessuna controrivoluzione potrà stravolgere la potenza della negazione in energia della riproposizione, più nessuna controrivoluzione avrà spazi per i suoi automatismi integratori, quando ciascuno avrà finito di capire che non c'è più nient'altro da capire se non che così si muore. È di questo che gli ultimi potenti hanno il giusto terrore. È per questo che sognano la sopravvivenza della politica."
Cesarano non si nasconde la debolezza e la fragilità della prospettiva rivoluzionaria che intravede, e di cui dice di essere certo come di cosa sicura:
"Vedremo vivi la vittoria della vita: la partita ha i tempi segnati. Non si tratta più di lottare per un futuro che non ci appartiene, ma, al contrario, di battersi sul posto per qualcosa che sta accadendo così dentro come fuori di noi, la cui fine e il cui principio sono e saranno campiti nelle vite nostre e dei nostri figli." (Tesi n. 74).
Tuttavia il capitale sa ringiovanire ad ogni generazione, catturando e rigenerandosi pure attraverso le forme più disparate dell'opposizione. La mobilità sociale sperimenta il motto del capitale a cui nulla deve sfuggire: O con sé o contro di sé, ma sempre in sé.
Nella Tesi n. 71 l'esortazione svolta con le parole del capitale così recita:
"Colorati, sii fantasioso, produci immaginazione: c'è carestia di senso. Fa quello che vuoi purché quello che vuoi passi per la valorizzazione socializzata di te stesso. Concentrati: la scuola dell'obbligo ti parcheggerà il più a lungo possibile, ancora più a lungo se sarai un leader; dopo non ti aspetta che la carriera di persona. Solo di persone concentrate in sé stesse può essere nutrita la composizione organica della comunità chiamata ad autoregolarsi. L'ultima arma per esorcizzare l'autogestione generalizzata è l'egoarchia generalizzata."
Questo passaggio cruciale, con l'accenno all'egoarchia generalizzata, rimane nella topografia dei concetti disegnata da Cesarano e da Collu, una potentissima intuizione. Essi comprendono quale sia il bersaglio reale del nemico:
"È necessario capire fino in fondo questo gioco cinico e sottile. Alla totalizzazione capitalista - il dominio realmente assoluto della produzione dell'esistente - il movimento reale risponde con la totalizzazione organica della propria rivolta radicale: il contrario della morte per tutti o della sopravvivenza della morte nella non-vita di tutti, è la rivendicazione ultimativa della vita (...)." (Tesi n. 72)
La razionalizzazione, la ratio illuminista non ha convertito tutti i potenti; vi sono fazioni in guerra micidiale e scoperta all'interno del campo avversario:
"C'è tra loro chi è risoluto a risolvere seminando la strage, difendendosi sin d'ora da un'umanità che concepisce non quale gregge, ma quale orda, con le armi collaudate in Vietnam (anche su questo i falsi nemici stringono accordi sopra le teste martoriate di un popolo-cavia, ma anche qui i corpi che si battono per non morire riescono a schernire la tecnologia della morte). Stanno venendo anni torbidi e sanguinosi. Questo lo dobbiamo sapere tanto meglio quanto più risolutamente rifiutiamo di arrenderci all'ultima figura della morte, arruolandoci sotto la sua bandiera. Capitale illuminista e capitale terrorista, confondendo tutte le carte si scontreranno in una sgomentante confusione anche nei nostri stessi corpi, nelle nostre stesse vite. I partigiani della vita non si lasceranno pacificamente uccidere, ma non consentiranno alla morte di impadronirsi della loro passione. Lasciamo che i suicidi seppelliscano gli assassini." (Tesi n. 79)
"Il processo rivoluzionario non potrà avere mai più i tratti esclusivi della guerra civile, i tratti della Comune di Parigi o della Mackhnovicina. Ma è sempre più probabile che la produzione in vitro della guerra civile, lo spettacolo speciale pirotecnico e sensazionale del terrorismo teleguidato, ottenga un relativo successo, e di conseguenza un relativo coinvolgimento di una parte del proletariato rivoluzionario nella sua pratica alienata." (Tesi n. 86)
Il terrorismo come spettacolo speciale, come infame spettacolo della guerra civile, fu un'acuta e nitida prefigurazione, che delineata all'inizio della stagione del terrorismo brigatistico in Italia (il libro fu composto tra il giugno e il settembre del 1972) oggi riscuote nuovo e imperioso credito, ma su scala planetaria. Il disegno di Cesarano e Collu, nel suo tratteggio, coglie i moventi del militante nichilista "all'intersezione tra istinto di morte - operante socialmente a un livello divenuto ormai pressoché ontologico - e il bisogno di valorizzazione" una volta scaduti merceologicamente gli altri canali di sublimazione. Questi nuovi martiri dovevano essere smascherati e indicati "al proletariato rivoluzionario come i suoi più insidiosi nemici" (Tesi n. 82). Lo spettacolo speciale, "debitamente ridondato dagli organi competenti, è effettivamente una delle ultime chances del sistema per resuscitare dalla catalessi il sensorio emotivamente indifferente dei fruitori di mass-media, galvanizzandolo col contatto di una politica concentrata in elettrochoc." (ibidem).
La questione che ponevano gli autori era quella dell'occultamento dei termini reali dello scontro. Nella matrice sociale dell'immaginazione soggettiva, cioè nella rappresentazione pianificata di immagini, devono regnare e dominare "lo schema riducente e opacizzante della politica, il perdurare mistificato di tutti i passati perduti" (Tesi n. 83). Le odierne guerre condotte dai vari terrorismi e le guerre statali e internazionali a questi e ai prossimi terrorismi dovranno "continuare ad usurpare i luoghi, i modi e i tempi della rivoluzione."
La realtà colonizzata dal capitale ha raggiunto lo zenith dell'alienazione. La tesi che affronta la questione (Tesi n. 108) può servire pure ad illustrare come la forza ardente della passione si sforzi di rappresentare il contendere essenziale del bisogno fondamentale di essere, secondo lo schema dialettico di un imminente aut-aut apocalittico:
"Al punto massimo dell'alienazione autoproducentesi, tutta la realtà colonizzata dal capitale è protesi: lingua inorganica reificata, sistema simbolico costruito in luogo dell'essere. L'autentica fame dei corpi - il bisogno ormai inferocito di essere - vede il concreto come il trasparente apparire dell'inessenza. Ma è una trasparenza di ghiaccio temprato: nessuna illusione sulla facilità di smascherare la mascherata. Proprio in quanto l'inessente assedia la sopravvivenza di ciascuno, e la fonda come tale, isola ciascuno nella sua propria miseria di senso, nella sua propria fame inappagata. È questo il paradosso che senza atterrirci dobbiamo imparare dai fatti: la volontà di rivolta è ormai il bisogno di vita che nessuno può nascondersi; la generalizzazione, a livello di latenza, è un fatto compiuto; ma più la sopravvivenza si fa insostenibile e asfissiante, più la posta in gioco si mostra come la lotta della vita contro la morte, più l'oggettività massificata della miseria si stringe e si rapprende attorno alla rivolta di ciascuno: la debolezza dell'irrealtà non è fuori, ma dentro di noi, nella identica misura in cui noi siamo non altrove ma dentro la sopravvivenza, non in illusori e impossibili spazi liberati, ma in tutto e per tutto nella dimensione, in questo senso unitaria, del destino generale, del quale il dispotismo del capitale è padrone di fatto, e continuerà ad esserlo sino all'ultimo istante del suo potere. Nessun gradualismo è progettabile, se non quello letale della controrivoluzione. Ciò che la rivoluzione sa è sostanzialmente già tutto: niente potrebbe essere più semplice e più ultimativo. Il resto della lotta è affidato alla crescita sempre più veloce di un'emergenza già ora nei suoi termini elementari storicamente matura: l'impossibilità della vita. Vivremo la dialettica dell'assurdo: mentre tutti sapranno ciò che sempre meno è verosimile nascondere; ciascuno sarà coinvolto nell'automatico obnubilamento di questa sua naturale competenza per dolore, coinvolto a parlar d'altro, e soprattutto a fare altro, e l'altro avrà la forma del bisogno eluso, l'altro sarà il falso della carenza vissuta; tutto questo con la massima velocità di trasformazione, e con l'approssimazione efficace, di cui le scienze dell'inganno si mostreranno capaci. La lotta che il senso fittizio già ora combatte contro la dialettica radicale sarà soprattutto una battaglia giocata sui falsi scopi, sul mimetismo e sull'illusionismo. Come è già evidente a partire da episodi significativi come il rapporto del M.I.T., non è più possibile al capitale nascondere il progresso dei propri esiti letali, e, al contrario, la strategia del capitale è ormai tutta nella simulazione di una capacità autocritica che sta a rappresentare, dunque a simboleggiare fittiziamente, l'assunzione del controllo scientifico sulla catastrofe, e la pianificazione tempestiva di un'inversione di tendenza risolutrice. Ma guai a chi si accontenterà di vigilare su questo terreno soltanto macroscopicamente rappresentativo, le mosse di un nemico immaginato come uno stato maggiore di potenze aliene: non si accorgerà che l'organizzazione spazio-temporale della inessenza lavora nel contempo dentro di lui, com'è nella sua meccanica ormai collaudata. Il capitale è il discorso reificato della controrivoluzione, e la controrivoluzione non è che il ribaltamento automatico dei bisogni reali in esaudimenti fittizi, tanto e simultaneamente sul terreno delle scelte sociali, delle risoluzioni economico-politiche messe in scena a livello dei destini planetari, come sul terreno dell'interiorità di ciascuno, solo illusoriamente di quelle scelte e risoluzioni spettatore, fruitore, o avversario, solo fittiziamente isolato nella sua soggettività irrelata, invece realmente e concretamente saldato, dall'interiorizzazione perfettamente consumata dell'economia politica, di cui ogni sopravvivenza è consustanziata, ai destini generali nella loro simultaneità in processo. Anche in questo la controrivoluzione ha anticipato, stravolgendone il senso, il bisogno cardinale della rivoluzione: l'individualità è distrutta, ma solo perché agonizzi qualche anno di più il dominio dell'impersonalità autonomizzata del non-senso."
Al millenarismo apocalittico del capitale, che diviene autocritico, descritto in Apocalisse e rivoluzione, Cesarano oppone l'altro corno dell'aut-aut, come ribadisce ancora in questa tesi del "Manuale di sopravvivenza":
"Il fittizio paga sempre più cara la sua forza, quando al di là del suo schermo traspare il reale possibile. Nondimeno, è proprio ora che il dominio del fittizio si è fatto totalitario. Ma, appunto, ecco segnato il suo limite dialettico e naturale. O scompare nell'ultimo rogo anche il desiderio insieme con il suo soggetto, la corporeità in divenire della Gemeinwesen latente, o dispare ogni simulacro: si scatena la lotta estrema della specie contro gli ultimi gestori dell'alienazione, nel tramonto sanguinoso di ogni sole dell'avvenire albeggia finalmente un'avvenire possibile. Agli uomini non manca ormai, per essere, che separarsi definitivamente da ogni utopia concreta. L'ultima, è quella, concretissima, della controrivoluzione, in cui si realizza il capitale autocritico. Avere l'origine come fine è un programma ormai perfettamente realistico. L'origine della comunità umana totale coinciderà con la fine di ogni simulacro e di ogni rispecchiamento, riassunti nell'astrazione perfetta del capitale fittizio. Là dove il desiderio già certo del suo oggetto reale si fonderà nel suo soggetto liberato." (Tesi n. 89)
Non esistono fughe in avanti, scrivono Cesarano e Collu, perché l'utopia del capitale, la sua fuga in avanti, è illusoria, quanto è vera, reale e latente la rivoluzione, così come è concreta la prospettiva rovesciata:
"Il presente è tutto per tutti. Se è possibile e necessario, perché è vero, affermare che il futuro sarà la rivoluzione, è perché il presente è già la rivoluzione in processo. Se è inevitabile prospettare l'altro corno dell'alternativa, la vittoria della morte e la fine della specie, è perché il presente è la vittoria della morte e la fine della specie, spettrografate nella teleologia delle apparenze. Ma il regno delle apparenze è il concreto - le cose, l'organizzazione dei gesti che le investono di senso e le connettono, i meccanismi che le producono, e che producono quali cose chi le produce, in un unico movimento di reificazione e di astrazione insieme -, mentre il processo reale è il latente, sempre meno occultato, ma non ancora liberato." ("Apocalisse e rivoluzione", Tesi n. 110)
Ancora, contro i pianificatori dell'inessenza:
"Siamo agli ultimi: si tratta di essere. Nessuno può illudersi oltre di scambiare più la propria forza-lavoro contro una chance di sopravvivenza, da quando ciascuno sa per esperienza diretta che di sopravvivenza si muore, tanto nel chiuso delle stanze dove insorge la vita asfissiata quanto nell'aperto della totalità universale, dove a soffocarne è la vita organica dei destini planetari. Ognuno pretende e tenta di vivere, anche e tanto più quando si costringe, misurandosi con la sua sopravvivenza, a soddisfarsi. Proprio perché ha potuto credere che sopravvivere fosse sufficiente, proprio perché ha consentito di cedere alla ragione che lo induceva a misurarsi, ciascuno si smisura nel vuoto della sua inessenza. Non si può non avvertire fisicamente di quanta vitalità è carico il vuoto che è la vita di ciascuno. Non si può ignorare il senso del malessere epidemico: quello di anticipare di un passo solo il suo ribaltamento terribile."
Ma questo processo di oltrepassamento non è innocuo né gratuito, conosce ben presto il prezzo che deve pagare per disfarsi delle illusioni: "chi ha percorso il passaggio obbligato del superamento della politica sa sulla propria pelle di che cosa si sta parlando", perché, nelle più varie forme, è sempre all'ordine del giorno il pericolo del ritorno offensivo del passato che si è creduto, per un tratto, di avere liquidato e infine perché "gli immediati dintorni della dialettica radicale sono il corridoio o il terreno vago del fratricidio." (idem, Tesi n. 116)
Qui la critica trova il suo punto d'arresto, dove la dialettica reale, vivente, esaurisce le sue forze nel conflitto con l'esistente, con il reale. Cesarano e Collu ricordano Eddie Ginosa:
"Di suicidi come il suo, frutto di una temperie omicida, sono certamente segnate le prime piste dello sbocco al di là della politica, e delle sue micidiali metamorfosi. La cronaca mente sempre più sulla realtà; sempre più il capitale amministra il suo progressivo disastro occultandone l'emergenza, mentre ne propaganda gli estremi astrattizzati per cooptare quanti può nell'ideologia del sopravviversi. È così che ai rivoluzionari viene parzialmente nascosta la loro stessa consonanza e coerenza con i destini generali, è così che può sembrare a ciascuno negli istanti più sgominati del suo isolamento, d'essere infedele a se stesso: perché non vede la sua fedeltà al processo. Non si tratta di essere indulgenti: si tratta al contrario di essere intransigenti, e dunque di vietarsi ogni accecamento. È tanto più vero che ciascuno deve scambiare i propri desideri per realtà quanto più è vero che nessuno può scambiare i propri incubi per verità. L'immediatismo ha le sue radici nella disperazione. L'affanno che prende alla gola chiunque non sia disposto a tollerare un istante di più la non-vita, non deve e non può convertirsi nel delirio amfetaminico, nell'angosciosa e spastica voglia d'essere immediatamente, hic et nunc, e in positivo, in salvo, oltre la negatività della preistoria e oltre la propria preistoria. Mai più così è la certezza in movimento che anima la volontà di ogni rivoluzionario, e la sua forza trae spicco e si campisce sul dominio in dissoluzione dell'ancora così. Insieme e dentro l'uscita universale dalla preistoria, può soltanto e deve verificarsi la sortita di ciascuno dalla sua preistoria, separata e impotente solo nella debolezza privata. Tanto più è fedele al suo compito, tanto più è nell'universale. Non esiste la volgarità del volgo se non nell'immaginazione sociologica che lo circoscrive come soggettività obnubilata. Il proletariato rivoluzionario sa quel che vuole con la forza del suo corpo armato di un'esigenza qualitativa irrimandabile, nella quale è per bruciare ogni inganno produttivo sulla qualità. Solo il tempo produttivo scandito dal capitale, e solo le sue leggi di realizzazione del valore possono indurre il miraggio di una separazione tra l'intolleranza e il suo contesto, tra l'impazienza e il processo, e spingere i migliori a pretendere da sé di realizzarsi immediatamente o di morire, di prodursi in positivo o di sentirsi esclusi dal processo, uccisi nella preistoria. È questa l'ultima allucinazione possibile, e la più insidiosa, prima che il processo disveli a ciascuno la coerenza della dialettica radicale con l'essere in divenire della specie, il segreto agli sgoccioli della preistoria, il suo senso di stato latente del possibile vicino ad aprirsi, la sua essenza di crisalide ormai morta, della cui spoglia il capitale è l'inutile ed anacronistico sigillo e custode, mentre al suo interno è ormai matura l'essenza ulteriore della vita." (idem, Tesi n. 117)
Il Leit-Motiv insurrezionale, esibito dagli slogan (in quarta di copertina) riguardo alla rivoluzione biologica e alla signoria senza servitù, deve rientrare, e cedere il passo a note più amare, poiché la prassi rivoluzionaria finisce per agire su un'altra scena da quella annunciata e rivendicata. In questo testo, come nel successivo "Manuale di sopravvivenza", Cesarano riflette su una schisi che rischia di essere irreparabile. Il famigerato salto qualitativo non riesce ad avvenire. Le incapacità degli altri a sostenerlo occultano malamente la coscienza di una avvertita, per quanto rifiutata, impraticabilità. Nella novantaduesima tesi di "Apocalisse e rivoluzione" si trova scritto:
"Mentre il capitale giunto al punto massimo del colonialismo sulla materia, capisce di dovere, per sopravvivere all'avvelenamento, smaterializzarsi, e lo fa assumendo al suo servizio il pensiero critico, lo fa abbandonando di colpo l'apologia pubblicitaria del pattume opulento, le avanguardie della politica e della pop-politica militante agiscono come il forzuto idiota delle comiche, che per sfondare porte aperte, finisce con tutta la forza nel bidone delle immondizie. Per troppo tempo il pensiero rivoluzionario, assediato dalla contro rivoluzione trionfante, aveva espresso la sua potenza esclusivamente nella forza della negazione; per troppo tempo la dialettica radicale, asfissiata dalle maree di positivismo putrescente, non aveva potuto affermarsi che come dialettica negativa: nel momento in cui il movimento reale ha fatto saltare i primi anelli della catena seriale, nel momento in cui ha immediatamente mostrato, con l'apparire della rivoluzione biologica, l'insensatezza demenziale della normalità quotidiana, la sostanza mortale dello stile di vita capitalista, esso ha bruciato in un istante tutto lo sforzo passato di quel pensiero prigioniero della negatività, sprigionandolo nell'affermazione violenta e luminosa della qualità disseppellita. Non era per caso che a muoversi, tra i gas e le randellate della polizia, erano i cadetti di quel pensiero negativo, i suoi eredi predestinati. Non s'erano ancora rinselciate le strade che il capitale capiva di dover imboccare una nuova via. Esaurita la forza della prima spinta, gli insorti si trovavano immediatamente tanto più deboli quanto più grande e totalizzante gli si era rivelata la potenza dell'affermazione. Nessuna scuola politica aveva preparato gli animi all'insurrezione travolgente della qualità riaffermata, nessuna tradizione del pensiero segregato aveva osato nutrire in sé il sogno di una globalità vitale, ingaggiata nello scontro ultimativo della vita contro la morte. Qualcuno (certamente i Situazionisti; qualche altro isolato, ma in debolezza) aveva temerariamente preannunziato il riapparire della rivoluzione, mentre denunciava con furore la collusione del movimento operaio con l'organizzazione micidiale della democrazia del pattume, la cattura della politica nell'ideologia dell'inessenza. Ma non era bastato e non poteva bastare: mai l'anticipazione separata della verità ha potuto immediatamente generalizzarsi, se non in esplosioni tanto più minacciate nella loro probabilità di durare quanto più qualitativamente eccezionali. Tutto è mutato, dal '68 in avanti, ma alla potenza illuminante del movimento insurrezionale - e l'insurrezione era quella della vita riscoperta e affermata come possibile, non quella soltanto delle barricate e delle occupazioni - è seguito, nei protagonisti della sommossa, con la spossatezza fisica e con la fatica di durare nuovi, il suo ribaltamento in debolezza. Proprio perché era stata così totale, così fisiologica e dunque biologica, così globalmente più forte e più grande di qualsiasi programma politico e culturale, l'insurrezione della qualità doveva reggersi e durare soltanto a patto di continuare ad essere l'affermazione del tutto sul niente, l'accensione ignea della passione che brucia ogni carta e ogni schermo. Ma, appunto, i protagonisti di quelle prime apparizioni, erano gli eredi predestinati del pensiero politico e culturale, e il riflesso indotto dalla spossatezza, e dallo stupore di essere stati imprevedibili, non poteva che ricondurne la maggior parte alle nicchie da cui erano scaturiti: terrorizzati dalla stessa potenza della novità che avevano incarnato, gli affamati di tutto ricominciarono a masticare il niente."
La ricostruzione della sconfitta, l'analisi delle cause, se possono apparire deboli (sintomatico della schisi, nella cornice di una rivoluzione biologica, il riconoscere la spossatezza di durare nuovi), permangono in rapporto diretto con una passione che, agli occhi di Cesarano e Collu, non ammetteva alcun accecamento e alcuna falsificazione, ma doveva subirli come infortuni, come sventure. Nella successiva tesi si diceva che nulla più può accadere per caso, sotto il dominio assoluto dell'inautenticità programmata. Per cui l'affermazione che la rivoluzione partiva dal corpo doveva esperire la sua difficoltà essenziale, e finiva per inverarsi spezzandosi sull'ostacolo che essa stessa aveva riconosciuto in anticipo: nella scadenza rovesciata del suicidio.
Nel libro successivo Cesarano scriverà: "L'istinto di morte non è che il riflesso più angustamente biologico di quel tendere verso la totalità, accecato nell'oggettualità a se stesso, nel quale il desiderio si rovescia in passione negativa. Alla passione rovesciata, la morte appare come la sola totalità immediatamente attingibile, finché lo è di fatto." ("Manuale di sopravvivenza", Tesi n. 115)
Il "Manuale di sopravvivenza" (agosto-dicembre 1973) che da un lato occhieggia apertamente il famoso "Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni" di Raoul Vaneigem, dall'altro mette, a partire dalle strane parole del titolo, in guardia il lettore avvertito, che sa bene che il messaggio andrà inteso al contrario, cioè incarnando una prassi che prevede evidentemente il rifiuto della sopravvivenza. Il senso di urgenza storica che promanava dal libro precedente sembra più che mai all'opera, la passione esplode, sebbene confrontata in un contesto più dilatato, ma anche più interiore se non intimo, su un terreno che Cesarano dice, tra virgolette, essere prigioniero del micro-universo individuale.
All'inizio del libro ("Manuale di sopravvivenza", Tesi n. 3), Cesarano scrive:
"La congiura, sta nel tacere il continuum vuoto della noia. Perciò la spezzatura clamorosamente lacerante della noia, la passione, esplode per quello che è: un'iconoclastia. A nessuno è consentito di mandare in frantumi, dall'interno, la maschera cui è contrattualmente fissato." La persona sociale è prima di tutto un ruolo, e nessun ruolo è accettabile, tanto meno quello di rivoluzionario, infatti "Nessuno crede meno alla rivoluzione, degli ebefrenici che si annoiano a morte parlando di rivoluzione." Ma chi scrive la tesi n. 3 è, o forse teme di essere, un depresso (che dice la verità, senz'altro) e la tesi successiva lo dichiara: "La personalità depressiva è il prodotto finale del capitale opulento". Questa tesi annuncia l'argomento principale del libro, quando l'autore ammette: "È vero anche la coppia è una prigione. Ma per uscirne, occorre prima trovarsi nella prigione. È necessario che la prigione contenga e recluda degli esseri virtuali, che solo in quanto tali possono scoprirsi in grado realmente, e realmente desiderarlo, di evaderne. E per trovarsi (materialmente: esserci) nella prigione della coppia, occorre innanzitutto trovarsi, nella prigione del sé."
La personalità depressiva è depressa soprattutto dal suo sapersi frammentata, e dal suo compiacersene, aggiunge Cesarano, "incollata alla ripetizione e all'obbedienza" (idem, Tesi n. 10). La rivoluzione biologica del libro precedente prende l'aspetto ora dell'insurrezione erotica, che ne è una precisazione essenziale, perché afferma la vita, il bios, la naturalità dell'essere. Il tema è introdotto nella tesi tredicesima:
"L'insurrezione erotica è un prendere le armi. L'amore è un duello contro la morte quotidiana, contro il sacrificio perpetuo all'alterità-Io. L'estasi, l'uscita da sé, è la conquista momentanea dello spazio-tempo al di là dell'Io, l'anticipazione corporeamente vissuta della dimensione in cui si realizzerà il fine: l'inizio della nascita. Conosciamo altre possibili insurrezioni vitali, ma altrettanto sappiamo come la loro relativa rarità storica - relativa soprattutto rispetto alla clausura della peripezia individuale, e all'autenticità del loro manifestarsi al di là della funerea celebrazione dell'assenza che è una manifestazione politica - le consegni fatalmente a quella mitologia dell'eversione, e del sé eversivo, che è una delle più efficaci elusioni del vissuto rivoluzionario."
Proprio ciò che è devalorizzato e denigrato, squalificato e domestico, cioè l'amore, può spezzare il necrotico continuum della sopravvivenza.
L'amore è lo strumento privilegiato della critica, e la critica, il suo insorgere, è un'azione che attacca simultaneamente il carattere fittizio del soggetto (l'Ego, la persona sociale) e il carattere fittizio della realtà sociale. (cfr. "Manuale di sopravvivenza", Tesi n. 151 ter)
Ma intanto il luogo comune della sopravvivenza è la disperazione: "Il luogo comune della disperazione è, a un tempo, il terreno vago dove si ritrovano morti i suicidi e la soglia di una comune iniziazione alla lotta ultimativa. Nessuno perviene solo alla certezza necessaria della necessità della lotta. Vi si oppongono tutte le parodie rimaste della libertà, libertà di consumarsi in una gamma precostituita di impotenze terapeutizzate, nell'isolamento dello spettatore giunto alla perfezione assoluta del suo ruolo: assistere in attitudine catatonica alla disgregazione di se stesso." (idem, Tesi n. 173)
L'isolamento:
"Il passaggio attraverso la riduzione glaciale, puntiforme, dell'isolamento non è né una peripezia casuale, né un segmento indifferente della deriva in cui ciascuno si perde o si trova, non mai casualmente, nel labirinto. In questo passaggio si spezzano e si consumano irreversibilmente tutti quei legami familiari (con la famiglia biologica, ma, ciò che più conta, con tutte le sue ri-formazioni vicarianti: coppia, cerchia, gruppo, partito), tramite i quali ognuno è religato alla propria origine quale predestinazione alla sventura e alla resa. Non c'è crisi esistenziale profonda che non allinei attorno al soggetto assediato la cerchia dei fantasmi aguzzini:a dimostrargli come egli non sia mai stato che l'ombra riflessa dei loro giudizi. Rimpicciolito al ricordo dell'infante che fu, il soggetto non può concepirsi se non come il disertore dei sogni abbandonati, o simmetricamente, l'idiota prigioniero di sogni da bambino." (Tesi n. 152)
La seconda parte del libro, la vera e propria Insurrezione erotica (in tutto 62 tesi), prosegue il disvelamento di sé, la conoscenza di sé nel dolore ("L'angoscia è il memento vivere della corporeità", scrive nella tesi n. 53), che in qualche modo era inevitabile, data la necessaria soggettivazione della disamina di Cesarano, mediata, nel percorso, dal confronto con il saggio "L'erotismo" del "cristiano", del "servo-soldato di Cristo", Georges Bataille. Ma la questione è centrata sul positivo, per quello che può esservi di realmente positivo, dell'amore:
Se Bataille scriveva che "Niente a conti fatti, è illusorio nella verità dell'amore", Cesarano scrive: "Tutto, a conti fatti, è illusorio nell'amore se si tratta di fare i conti. L'essere amato equivale davvero, per chi lo fa oggetto d'amore, alla verità dell'essere: le equivale nel senso che ne è la cifra simbolica, la moneta-figura. L'oggetto è l'equivalente generale dell'essere, in una circolazione di capitale fittizio in cui l'essere ha per requisito essenziale quello di mancare. Non si capirà mai a sufficienza la portata positiva di ciò che è assenza. Ciò che manca è potente, ciò che manca si impone d'essere, di ciò che manca il processo nutre la sua dinamica inseguitrice." ("Insurrezione erotica", Tesi n. 6)
Il confrontarsi con l'amore, per essere tale, deve essere anche un confronto sull'angoscia:
"La fatalità è la stasi. La personalità vissuta come il giudizio inappellabile, la condanna all'ergastolo. La definizione in negativo, per esclusione. La costellazione delle presenze, in cui ti conosci come assenza, come involucro del vuoto. L'IO dettato in nome del padre, sentenza e croce: il dubbio ortogonale alla disperazione. Il nome e cognome. La fisionomia impietrita nello specchio. Il viso che tasti tremando, nell'angoscia. L'angoscia-madre, l'angoscia-travaglio, il premere contro le pareti per nascere: per nascere, finalmente. Lungo tutta la vita. Il movimento spastico, il movimento-cuore. Nel silenzio, nauseato e atterrito dalle parole. La parola dis-conoscente. I nomi che negano. La neutralità omicida delle frasi, gli sguardi che negano il vedersi. Gli occhi che ti inchiodano a ciò che non sei. La figura di te: l'altro. Riconosciuto senza fine ogni tu, ogni ciao - mentre si disconosce e rivolta, senza fine. Gli occhi del padre, della madre, gli occhi dei fratelli, gli occhi dei figli. L'oggettificazione. Che cos'hai? Parla! La prigionia, la negazione ineffabile nel linguaggio. E la prigionia, la negazione eloquente nel silenzio. Di cui ciascuno è l'auscultazione raccapricciata. L'intelligenza sbarrata dalle parole. Dalle parole tradite, monetizzate, depauperate. Fatte cadere. Schiacciate. Le parole-schegge. Le sfere frantumate. Il bagliore sbriciolato. Come stai? Che cos'hai? Spiegati. Non capisco. Perché mi guardi così? Tra intendere tutto, a un millimetro, a un istante, e non voler capire, in un sempre che è la stasi, che è la fatalità. Ma rotta, divelta, a spasmi, in ciascuno, in un segreto che è di tutti, velato appena dall'interdizione, sempre più trasparente, sempre più imminente, nel movimento-angoscia, nel desiderio-angoscia, nel patire che matura il sommovimento, nell'intendere che si avvicina, che si vuole. Altro che lusso. Altro che spreco. L'angoscia è l'incedere gigantesco della storia, miniato nella peripezia di ciascuno. La bancarotta imminente del credito, dell'attesa. La crescita del desiderio che esige, la lotta dell'istante che rifiuta di sacrificarsi. L'erezione appassionata del presente. L'insurrezione silenziosa ma sterminata dei corpi. Tanto più forte, quanto più clandestina. Tanto più certa, quanto più ooccultata dalle forme dirotte della derelizione. A mano a mano che il niente sembra trionfare. Più l'insurrezione si fa potente, più incombe la desolazione. Il nihilismo è la fragilità trasparente del fittizio. La traslucidità dello schermo vicino a spezzarsi. Il disgregarsi dello specchio, in cui il passato dilegua, col suo potere. L'assottigliarsi dei muri. L'indebolirsi e il disperarsi della fatalità, scudiscio ormai snervato d'ogni tirannia. L'impallidire dello sbirro: l'agonia dell'angelo custode. La timidezza, anche, della potenza che si scopre, incredula, dello spazio che cede, della catena che si allenta. Il vizio duro a cedere dell'umiliazione. L'oscenità dell'assuefazione. La coazione a ripetersi il divieto. (idem, Tesi n. 52)
Non si può non notare come l'accendersi della scrittura abbia stravolto la sintassi aforistica della forma-saggio approdando a una concitazione sincopata del pensiero, impervia e inconsueta, ribollente e magmatica, dove tutte le forme dello scrivere praticate dall'autore in tempi diversi convergono, o forse vi precipitano.
I corpi sono desolati, grami come aree edificabili, ed edificati in effetti, sempre più costruiti. La memoria è la funzione del dimenticare (non del ricordare), "custode vigilante del non-essere coatto" (idem, Tesi n. 20), e l'Io è colui che non può: l'Io è il signore della schiavitù ignominiosa di tutti. "Nessun Io gode nessun piacere. Al piacere - sintomo dell'essere l'Io è sempre l'altro" (idem, Tesi n. 29). La vera guerra civile è all'interno del palazzo dell'Io. "Liberarsi dell'Io, questa è la battaglia." (idem, Tesi n. 25) Ed eccola la vita brulicare, quando l'Io è sgominato, è dileguato.
Tutto questo sesso nel dominio apocalittico del capitale? In un'epoca di molto precedente alla diffusione di internet, Cesarano trovava già pronto tutto il materiale che lo spettacolo del sesso avrebbe rovesciato, a richiesta, spamodica e compulsiva, sugli schermi, nelle nicchie private, di ciascuno, in ogni angolo di tutto il globo.
"Ma ormai è cosa pubblica: i produttori del vizio surgelato in rappresentazioni (che più sacreddi così non ne ha vedute il mondo) hanno saccheggiato tutti i Krafft-Ebing, gli archivi di polizia criminale, i confessionali, gli schedari degli psichiatri; ed eccole le vergogne fotografate a colori, patinate (...) Dov'è più la nausea? (...) Che cosa vanno imparando i figli di questi fedeli della nuova messa spettacolare? Dove troveranno la forza del disgusto? In nessun luogo: è finita, sta finendo, la regola del divieto. È cominciata, sta cominciando, la coerenza del voler vedere. Il sesso è il sesso, la morte la morte. Il processo, doppiato un limite, avanza a ritroso. Dalla rappresentazione verso la nuova verità. Nel tempo enormemente dilatato del pornoshow ciascuno scopre di assistere alla tortura di tutta la propria vita, inchiodato alla sedia della sua perpetua astanza finalmente rivelata."(idem, Tesi n. 41)
Ormai Cesarano si avvia alla conclusione della disamina:
"Troppo breve. Troppo assediata. La vendetta del tempo, della quotidianità desertica, contro l'istante. L'ironia, e peggio, il suo contagio: l'autoironia. Il contagio dell'incredulità. L'astio, pronto a infiltrarsi, nel rivolo del risentimento. Ma è stato vero? Ma anche tu? Ma come me? Proprio perché l'estasi può essere quella vittoria, quando il procedervi cade prima di toccarla, quando viene meno al suo progetto e alla sua premessa, il dubbio inquina la presenza vicendevole degli amanti, ne indebolisce il potere, fa sì che riappaia come feritoia nella prigione. Spasmi di dubbio: il cui veleno si annida nella labilità con cui si profilano, nell'apparire-disparire, sfuggendo l'affrontamento, conservando l'immunità del perdurare irrisolti. Scarti spastici di prospettiva. Il corpo che si avviava ad espandersi, a farsi mondo, come in una zumata si raggrinzisce. Il sentire-capire sanguigno, il confluire dei sensi col senso, regredisce a pensiero, a incertezza. Il respiro è riconquistato dal progresso dell'ansia. Si cessa di trans-crescere, di procedere, con la pelle (premendola nella forza dall'interno, attraversandola-affermandola) al di là del suo delimitarsi. Ci si distacca, col venir meno della propria presenza corporea. Si giace nel proprio-corpo. Dovunque non qui, comunque purché non in presenza. L'altro è già l'Altro. La presenza è del boia alieno che giace castrando, raggrinzendosi, non sai se in te, nell'Altro, che si equivalgono, immiserendosi, carcerati nell'identità del non-essere, definiti nell'alienità." (Tesi n. 57)
Infine, a chiudere il cerchio di un cammino che si vuole profondamente unitario, la prima e l'ultima tesi del libro sono identiche.
In conclusione, non c'è che da disimparare a fraintendersi, come scriveva Cesarano. Non è cosa da poco! La critica radicale non ha nulla ha che vedere con le carriere universitarie o con i prodotti dell'industria culturale di moda. La sua ambizione è, tra l'altro, quella di non essere merceologicamente appetibile. E dunque non è neppure emendabile, in senso stretto, perché non appartiene, essenzialmente, che all'emergere di una soggettività, con il disvelamento e il delucidamemento progressivamente più profondo e doloroso della sua alterità all'esistente. Non c'è niente da spartire con il discorso o il mercato della cultura, fin qui! Non c'è materiale buono per le finte polemiche, per il discorso mediatico (Cesarano affermava, definitoriamente, che la critica radicale "è la negazione del discorso praticata con i suoi mezzi contro i suoi fini"). Ci sono la trasparenza di un vissuto e il senso di un percorso, che si offrono alla riflessione dei suoi simili. Se qualcuno ha commesso degli errori, è probabile che altri ne commetta. Ma chi potrà dire che ha mentito a se stesso? Chi potrà dire che i suoi errori, quali che siano e che non conosco, altro siano dall'erranza di chi è stato coerente, per molti lustri, al proprio compito, al proprio programma? (e l'errare, l'errore, la deriva, non sono comunque meta?). Le parole di Cesarano sono uno strumento con cui misurarsi per imparare a meglio conoscersi, e a meglio riconoscerci. Infine è decisamente raro ritrovare altrove, e a me ancora non è capitato leggere altrove, anche di rivoluzionari spesso universalmente famosi, una disamina su ciò che siamo e soprattutto su ciò che ancora non siamo, che sia altrettanto profondamente incisiva, nitida, sofferta, sincera.
"La distruzione realizzata dal capitale è irreparabile. Niente di ciò che esso ha devastato né può né deve essere restaurato. Tutto si troverà, cercandosi. Ma perché possa farlo, occorre che il senso di tutto il cammino preistorico si ricapitoli nella cognizione della manque. Ciò che ci manca, indica la via. Le mutilazioni sono i segni. Nessuna pacificazione con il presente è possibile."
24 giugno 2004