Articolo tratto da "Liberazione" del 1/5/2003

 

Per il secondo giorno di seguito i marines sparano contro una manifestazione di civili nella città di Falluja: quattro morti e tre feriti
Iraq strage permanente
Daniele Zaccaria
 
Sembra diventato lo sport preferito del marine: il "tiro al civile" fa proseliti e annerisce le cronache provenienti dall'Iraq occupato. L'ennesima strage di innocenti avviene a Falluja, la stessa località dove lunedì i soldati hanno ucciso a sangue freddo tredici persone ferendone una quarantina. Si ricomincia da dove si era finito quindi, seguendo il logoro climax dei massacri precedenti: nelle strade della piccola città si forma un'improvvisata manifestazione, che raccoglie diverse migliaia di persone. Sono civili, che chiedono a gran voce il ritiro delle truppe d'occupazione e giustizia per i morti dei giorni scorsi. Per la prima volta appaiono in piazza i vessilli del gruppo radicale "Fratelli musulmani", che si mescolano alla contestazione: è complicato decifrare la composizione di questi cortei in cui coesistono rivendicazioni politiche, sociali e religiose. L'unico tratto comune è costituito dall'odio verso gli invasori, potente cemento civile dell'epoca del post-Saddam. Un sentimento che si sedimenta e cresce di giorno in giorno nelle pieghe della società irachena, invelenendo ancor di più i passaggi di una convivenza forzata. E, nei disegni di Washington, destinata a durare a lungo.

Alcuni ragazzini lanciano qualche pietra, gli adulti gridano frasi dure, a tratti virulente rivolte contro gli alleati, gli elicotteri "Apache" volteggiano nell'aria come mosconi sorvolando la cittadina, diventata ormai una suppellettile dell'"Us. Army". E, puntuali come un orologio, i soldati cominciano a sparare nel mucchio: pietre contro fucili, tanto per rispettare i crismi del conflitto asimmetrico. I morti sarebbero almeno quattro, più contenuto il bilancio dei feriti, non più di tre. Evidentemente le raffiche delle mitragliatrici sono durate meno a lungo. Giusto il tempo necessario a terrorizzare e disperdere la folla.

«I nostri uomini hanno tutto il diritto di difendersi», la recita del ritornello del Comando centrale di Doha, stavolta è affidata a Stewart Upton, un oscuro portavoce che espone senza troppa convinzione la difesa d'ufficio dei marines. Peccato che gli ufficiali del Centcom non sono in grado di dimostrare che le postazioni americane siano state effettivamente colpite da colpi di arma da fuoco. «Hanno usato dei mitra Ak-47», giura il colonnello Arnold Bray. Però, anche in questa occasione i giornalisti presenti in loco abbiano totalmente smentito le versioni fornite dai gallonati generali del Pentagono. L'inviato della rete satellitare del Qatar "Al-jazeera" Diyar al-Omari, per il secondo giorno consecutivo smentisce la tesi della legittima difesa, affermando che l'aggressività degli abitanti si è limitata a qualche sporadico lancio di sassi e a una copiosa profusione d'insulti. Altro che kalashnikov: «Durante la protesta, alcuni giovani disramati si sono avvicinati alle truppe Usa appostate in un vecchio edificio del partito "Baas", invocando l'immediata partenza dei militari stranieri, i quali, a quel punto, hanno aperto il fuoco sulla folla».

Intanto, dall'ospedale di Falluja il personale medico fornisce i primi inquietanti dettagli sulle carneficine. Ahmed Ghanim al-Ali, direttore della struttura sanitaria, riferisce alla stampa che nella strage di lunedì sono morti tre bambini di dieci anni. La manifestazione era infatti composta in larga parte da studenti tra i cinque e i vent'anni, partiti dalla scuola comunale. Per i sostenitori dell'incidentalità dei fatti, c'è un altro particolare sconcertante: «I militari hanno sparato contro gli infermieri che stavano raccogliendo i cadaveri e assistendo i feriti», spiega indignato al-Ali che poi aggiunge: «I marines si stanno comportnado come dei cow-boy, dicono che sono venuti qui per liberarci, ma ci stanno facendo subire le stesse umiliazioni del popolo palestinese».

 

Torna alla home page