L'ATTEGGIAMENTO
MARXISTA VERSO LA GUERRA
Da: EDWARD H. CARR, "La
Rivoluzione Bolscevica", Einaudi, Torino, 1964.
I rivoluzionari francesi stabilirono una
chiara distinzione tra guerre di liberazione per liberare popoli dal dominio
di monarchi oppressivi, e guerre di conquista per condurre popoli sotto
il dominio monarchico; ed essi approvarono le prime altrettanto
calorosamente quanto condannarono le seconde.
Nessuna opposizione veniva nutrita per la guerra in se stessa, e
nemmeno per l'« aggressione » nel significato comune di
essere i primi a cominciare una guerra. Il criterio di
giudizio era se la guerra era combattuta per i « popoli » o
le « nazioni » oppure per gli autocrati (1). I movimenti
democratici europei del periodo dal 1815 al 1848 furono eredi di questa
tradizione. A quel tempo quasi ogni guerra combattuta contro l'Austria
di Metternich, allora principale centro d'autocrazia e di reazione in
Europa, sarebbe stata considerata degna di simpatia ed appoggio da parte
dei democratici. Questo fu l'atteggiamento assimilato e pienamente condiviso
da Marx ed Engels nei primi anni della loro attività. Dopo il 1848,
in questa dottrina si resero necessari due riadattamenti secondari. Poiché
la socialdemocrazia o il socialismo venivano ad essere distinti dalla democrazia
liberale o democrazia tout court, le guerre meritevoli
d'appoggio furono quelle suscettibili di favorire la causa socialista
piuttosto che quella democratica; e la Russia
sostituì l'Austria come principale nemico. Numerosi
brani possono essere citati dagli scritti di Marx ed Engels per dimostrare
che uno dei principali criteri da loro applicati dopo il 1848 per
giudicare l'opportunità di una guerra era se essa era
suscettibile d'indebolire o distruggere l'autocrazia russa (2).
C'era,
tuttavia, un'altra e del tutto differente
tendenza nella tradizione socialista.
I primi socialisti, fedeli alla loro filosofia utopistica, insistettero sull'universale fratellanza degli uomini, e
considerarono la guerra come mostruosa ed innaturale. La tradizione che
essi ereditarono era quella dei filosofi del secolo XVIII da Saint-Pierre e
Leibniz a Rousseau e Kant i quali avevano nutrito visioni di «pace
perpetua»; i loro successori furono i «pacifisti» liberali del secolo
XIX (3) la cui opposizione alla guerra era basata su motivi umanitari piuttosto che
politici. Ma quando la coscienza di classe fu generata dalla lotta di classe,
e il socialismo divenne proletario, anche l'opposizione alla guerra
assunse una tinta proletaria che apparve rinforzata dall'argomento che la
guerra era la necessaria conseguenza
del capitalismo. Le guerre nazionali erano condotte per
conto dei
capitalisti e per il loro vantaggio. L'avvento del socialismo avrebbe
eliminato
la causa fondamentale della guerra e il suo unico incentivo. I lavoratori i quali sopportavano i colpi della
guerra e non traevano alcun beneficio
da essa, potevano avere interesse soltanto alla pace. La tradizione socialista comprendette sempre un forte
elemento di opposizione alla guerra, basato su uno specifico interesse
dei lavoratori al mantenimento della pace; essa corrispose così alla
tradizione liberale del tardo secolo XIX la quale ascriveva la guerra al governo
autocratico e credeva nella democrazia
quale garanzia di pace. Tutti questi punti di vista erano potenzialmente «pacifisti», in quanto la
guerra come tale era condannata indipendentemente dal suo movente od oggetto. Marx
ed Engels da parte loro
denunciarono insistentemente tutte le forme di pacifismo in quanto implicanti l'idea di una naturale comunanza di
interessi; Marx fu particolarmente
sprezzante verso l'opposizione di Cobden e Bright alla guerra di Crimea (4). In generale, Marx ed Engels
furono troppo pienamente consapevoli
delle potenzialità rivoluzionarie della guerra per considerarla
come un male incondizionato; alla fine del 1848,
dopo aver definito l'Inghilterra come «la roccia contro la quale
s'infrangono le onde della rivoluzione», Marx concludeva che «la vecchia
Inghilterra sarà distrutta soltanto da una guerra mondiale» (5). Nel 1859 Engels
salutò favorevolmente l'«alleanza franco-russa» con l'argomento che essa avrebbe costretto la Prussia ad entrare nella guerra d'Italia a fianco,
dell'Austria:
"Noi tedeschi dobbiamo trovarci con l'acqua fino al collo prima di farci trasportare in massa nel
furor teutonicus; e in questa
occasione il pericolo di
annegare sembra
essere giunto sufficientemente vicino. Tanto meglio... In una tale lotta deve venire il momento in cui
soltanto il partito più risoluto, il partito che non
indietreggia dinanzi a niente, sarà in condizione di salvare la
nazione (6). Non era facile riunire questi diversi
elementi in un coerente corpo di dottrina sulla guerra.
Le relativamente scarse prese di posizione della Prima Internazionale sulla
guerra e sulla politica estera rifletterono queste contraddizioni ed incertezze.
L'indirizzo inaugurale del 1864 redatto da Marx ricordava abilmente
al lettore l'interesse degli operai d'impedire guerre che profondevano
«il sangue e la ricchezza del popolo», la «delittuosa
follia» delle classi dirigenti volte a «perpetuare e
propagare la schiavitù», e la perversità
dell'accondiscendenza alla «barbarica potenza» di San
Pietroburgo. Ma l'argomento era più eloquente che
chiaro; e l'autore si preoccupava
forse più di guadagnare la
simpatia delle confuse menti dei sindacalisti inglesi
che non di esporre la dottrina marxista. Né veniva proposta
alcuna azione se non di vigilare, e, se necessario,
protestare contro la diplomazia dei governi. Concrete situazioni di guerra
trovarono la Prima Internazionale confusa e divisa. Alla vigilia della
guerra austro-prussiana del 1866 un'agitazione contro la guerra
cominciò a Parigi. Secondo le parole di
Marx «la cricca di Proudhon tra gli studenti di Parigi predica la
pace, definisce antiquata la guerra e
un'assurdità le nazionalità, e attacca Bismarck e
Garibaldi». Si riconosceva che «come polemica contro lo sciovinismo», ciò era «utile e
spiegabile». Ciò nonostante questi discepoli di Proudhon erano «grotteschi» (7);
e quando il Consiglio generale approvò un
sentimentale appello redatto da Lafargue agli «studenti e giovani
di tutti i paesi» contro la guerra, esso
venne sprezzantemente definito da Marx, in assenza del quale era stato
approvato, come «scempiaggini» (8). Lo scoppio della guerra stessa fu
seguito da una serie d'inconcludenti dibattiti
nel Consiglio generale, che alla fine si mise d'accordo su una risoluzione
assolutamente non impegnativa:
"Il Consiglio generale dell'Associazione Internazionale degli Operai
considera l'attuale guerra sul continente come una guerra tra governi,
e consiglia gli operai a rimanere neutrali e uniti tra
loro allo scopo di acquistare forza
attraverso l'unione, ed impiegare
la forza così ottenuta per realizzare la loro emancipazione
sociale e politica" (9).
Poiché
la breve campagna conclusasi a Sadowa finì
prima che questa risoluzione
venisse pubblicata, il consiglio agli
operai non ebbe conseguenze
pratiche. Ma la vittoria prussiana, e la minaccia di guerra tra la Prussia
e la Francia nella primavera successiva, ebbero un significativo seguito.
Nell'estate 1867 un comitato di democratici e progressisti borghesi dei
principali paesi dell'Europa occidentale convennero in un congresso di
sostenitori della pace che si riunì a Ginevra il 9 settembre di quell'anno. Quest'iniziativa suscitò notevole
simpatia tra i gruppi operai rappresentati nella Prima Internazionale;
e Marx ritenne necessario dedicare
un discorso di mezz'ora al
Consiglio generale il 13 agosto 1867 per un attacco
alla «verbosità pacifista». Egli non criticò
singoli delegati partecipanti al Congresso, ma argomentò contro
ogni genere di partecipazione ufficiale da parte dell'Internazionale.
L'Internazionale era essa stessa già un
congresso di pace operante per l'unità tra gli operai dei
diversi paesi; e, se gli organizzatori del congresso di
Ginevra capivano ciò che facevano, essi
si sarebbero uniti all'Internazionale. Coloro che non contribuivano a
modificare le relazioni tra lavoro e capitale ignoravano le vere
condizioni preliminari della pace universale. Gli
eserciti esistenti avevano soprattutto lo scopo di tenere soggiogata la
classe operaia, e conflitti internazionali erano promossi di tanto in
tanto «allo scopo di tenere in buona forma
le truppe». Infine la pace a qualunque costo avrebbe lasciato
un'Europa disarmata preda della Russia; era necessario mantenere
eserciti come difesa contro la Russia (10).
Le
proposte di Marx ebbero il sopravvento al
Consiglio generale. Ma al congresso
dell'Internazionale a Losanna che
precedette il congresso di Ginevra e al
quale Marx non fu presente, si
manifestarono nuove divergenze. Una commissione costituita dal
Congresso fece
una relazione in termini entusiastici in favore di un «vigoroso
appoggio» al
progetto di Ginevra e di
una «partecipazione a tutte le sue
iniziative». Dopo un accanito dibattito in assemblea plenaria un
delegato
francese di nome Tolain, proudhoniano,
propose ed ottenne l'approvazione di
una risoluzione di compromesso
in cui si dichiarava che «allo scopo
di abolire la guerra, non è
sufficiente sciogliere gli eserciti, ma è
anche necessario modificare l'organizzazione
sociale nel senso di una sempre
più giusta distribuzione della
produzione», e condizionante la
partecipazione al congresso di Ginevra dal suo appoggio a tale
principio (11). Ciò
permise a un rappresentante del Consiglio
generale di presentarsi al congresso
di Ginevra e di fare, tra rumorose proteste, una dichiarazione secondo
cui «la rivoluzione sociale
era la condizione preliminare necessaria per una pace duratura»
(12). Marx fu seccato dal fatto che un delegato
entusiasta di nome Borkheim avesse pronunciato al congresso un discorso
auspicante una guerra preventiva contro la Russia mettendo così
in caricatura [verkladderadatscht] le sue
idee (13).
Un altro passo avanti fu fatto quando il successivo congresso annuale dell'Internazionale
si riunì a Bruxelles nell'estate del 1868, anche questa volta
in assenza di Marx ed Engels. La tensione internazionale andava costantemente
crescendo e il problema della guerra non poteva più essere eluso.
Una sezione germano-svizzera dell'Internazionale presentò al
congresso un progetto di risoluzione che invitava gli operai di tutti i
paesi a «rifiutare il servizio dell'omicidio e
della distruzione, come pure ogni
lavoro per rifornire gli eserciti
di guerra». La risoluzione alla fine adottata dal
congresso raccomandava semplicemente «la cessazione di ogni lavoro»
in caso di guerra - «uno sciopero dei popoli contro la
guerra» (14). Lo «sciopero contro la guerra» fu
fatto proprio dalla frazione dissidente bakuninista
dell'Internazionale al suo congresso del 1873 a Ginevra, e divenne
in anni successivi un importante principio dei sindacalisti francesi ed
altri, i quali l'accettarono come un'alternativa all'azione politica. Ma
per il momento la risoluzione di Bruxelles non ebbe seguito e fu presto
dimenticata. Essa non ottenne mai l'approvazione di Marx ed Engels, i
quali si opposero costantemente a ogni formula che bandisse la guerra come
tale o fosse diretta indiscriminatamente contro tutte le guerre. La guerra franco-prussiana sottopose questi
contrastanti punti di vista a una severa prova. La mobilitazione delle
due parti e lo scoppio delle ostilità non dettero luogo ad alcuna
presa di posizione ufficiale a nome
degli operai o dei partiti o
gruppi socialisti nei due paesi. Non sorse pertanto la questione di
un'opposizione pratica alla guerra; e la campagna fu così
rapidamente decisa, che nessun genere di opinione pubblica fu in grado di
cristallizzarsi da una parte o dall'altra con sufficiente
rapidità da influenzarne il corso. Le dichiarazioni di politica
socialista che furono fatte ebbero
la loro influenza non su
questioni immediate, bensì sull'elaborazione dell'atteggiamento
dei socialisti nelle guerre future. Le divisioni del 1914 in Germania
furono già anticipate nel 1870. Mentre Bebel e Liebknecht
elevarono al Reichstag il 21 luglio 1870 una protesta contro la guerra
(la quale era già in corso da una settimana), il
comitato del Partito Socialdemocratico Tedesco, riunito a Brunswick,
emise una dichiarazione che condannava la
«criminale aggressione» di Napoleone III e, implicitamente,
dava il suo appoggio
alla causa prussiana. L'atteggiamento di Marx ed Engels fu assai sfumato.
Essi condannarono la guerra come guerra di conquista sia da parte di
Napoleone che da parte di Bismarck. Furono costantemente contrari ai
propositi
annessionistici di entrambe le parti, tra cui l'annessione dell'Alsazia-Lorena.
Ma, una volta che la guerra era in corso, una vittoria prussiana
sembrò loro, per una serie di ragioni, il male minore. In primo luogo,
essi non potevano fare a meno di considerare la caduta di Napoleone come un
interesse degli operai. Una volta ottenuto ciò, la situazione
sarebbe
cambiata: «non appena un governo repubblicano e non sciovinista sarà
al
timone a Parigi», scriveva Engels a Marx il 15 agosto 1870, il compito
sarebbe stato «di operare con esso per una pace onorevole»
(15). In
secondo luogo, essi erano favorevoli all'unità della Germania,
proprio come
erano favorevoli all'unità dell'Italia, come legittima
soddisfazione di
aspirazioni nazionali e di progresso rispetto a una reazionaria
Klein-staaterei. Ciò diede origine a quella che sembra
retrospettivamente una distinzione
alquanto esagerata tra gli obiettivi della « Prussia » e
gli obiettivi della
«Germania». Bismarck, riteneva Engels già il 22
luglio 1870, aveva
cominciato con intenzioni annessionistiche per la Prussia; ma
«l'affare gli è
già sfuggito dalle mani, e i signori sono evidentemente riusciti a
suscitare in Germania una totale guerra nazionale» (16). Marx -
per reazione, è
vero, a un sentimentale compatriota filofrancese - giunse al punto di
parlare del «carattere difensivo della guerra da parte dei
tedeschi (non dirò
della Prussia)» (17); ed Engels, sintetizzando la situazione dal
punto di vista
del partito, ritenne importante di «porre in rilievo la differenza tra
interessi tedeschi-nazionali e dinastici-prussiani » (18). In
terzo luogo, essi pensavano
che in caso di realizzazione dell'unità germanica, «gli
operai tedeschi
possono organizzarsi su una base nazionale molto più ampia che non
prima» con la vantaggiosa conseguenza dello «spostamento
del centro di gravità del
movimento operaio continentale dalla Francia alla Germania» (19).
Infine, un
nuovo colpo sarebbe stato inferto al tradizionale nemico, la Russia:
Marx
speranzosamente avanzava l'ipotesi che «una resa dei conti tra Prussia e Russia» non
sarebbe stata «affatto improbabile», e che
il «sentimento nazionale di recente rafforzato» della
Germania difficilmente si sarebbe lasciato trascinare al servizio della
Russia (20).
La Prima Internazionale andava ora avvicinandosi alla sua fine; e non le
furono imposte altre prese di posizione sulla questione della guerra. Ma lo
stesso Marx, quando scrisse nel 1875 la sua famosa critica del programma
di Gotha del Partito Socialdemocratico Tedesco, si permise un'ultima
invettiva contro il fatto che il partito era permeato d'illusioni pacifiste:
"E a che cosa il partito operaio tedesco riduce il suo
internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo
sforzo sarà «la fratellanza internazionale dei
popoli» - una frase presa a prestito dalla Lega borghese per la
libertà e la pace che dovrebbe passare come sostitutiva
della fratellanza internazionale della classe operaia nella sua lotta comune
contro la classe dirigente e i suoi
governi. Della funzione
internazionale della classe operaia nemmeno una parola"
(21).
Il movimento operaio, come il seguito degli avvenimenti dimostrò, rimaneva
diviso senza speranza sulla questione della guerra. Marx ed Engels,
essi stessi non del tutto immuni da discordanze al riguardo, non erano
riusciti a conquistare gli operai a un punto di vista internazionale ben
definito.
La Seconda Internazionale trovò più difficile eludere il
dilemma. La successione di guerre minori nei due decenni
prima del 1914 non diede grande fastidio, perché si trattava di
guerre coloniali verso le quali i marxisti avevano sinora mostrato
scarso interesse. Ma la prospettiva di un'incombente guerra tra le
potenze europee cominciò presto ad apparire oscuramente
all'orizzonte. Engels sollevò chiaramente la questione in un articolo
del 1891:
"Che cosa significa «guerra» ai nostri giorni, ognuno sa.
Essa significa Francia e Russia da una parte, e Germania, Austria e
forse Italia dall'altra. Socialisti di tutti questi paesi, chiamati
alle armi contro la loro volontà, sarebbero costretti
a combattere gli uni contro gli altri. Che cosa farebbe allora il
Partito Socialdemocratico Tedesco? Che cosa
accadrebbe di esso?
Sfortunatamente la risposta di Engels,
basata sulla tradizione marxista degli ultimi quarant'anni, era tale da
poter essere, come fu, impiegata con efficacia nel 1914. Egli criticava
l'annessione tedesca dell'Alsazia-Lorena nel 1871 nelle circostanze
esistenti, e orgogliosamente citava la previsione del consiglio della
Prima Internazionale nel suo appello del 9 settembre 1870, secondo cui l'avidità
prussiana avrebbe soltanto «costretto la
Francia a gettarsi nelle braccia della Russia». Tra Francia e
Germania, la Francia rappresentava ancora la
rivoluzione - «soltanto la rivoluzione borghese,
è vero, ma ancora rivoluzione». Ma la Francia, una volta
alleatasi con la Russia, avrebbe «rinunciato al suo ruolo
rivoluzionario», mentre «dietro la Germania ufficiale si
trova il Partito Socialdemocratico
Tedesco, il partito al quale
appartiene il futuro, il prossimo futuro del paese».
Né la Francia né la Germania avrebbero cominciato la
guerra. La Russia si sarebbe mossa per prima; allora
la Francia sarebbe avanzata verso il Reno; e «allora la Germania
combatterà semplicemente per la propria
esistenza» (22). E l'articolo terminava con una previsione
generale che per la sua adattabilità a tutto,
offriva scarso orientamento alla Seconda Internazionale circa il dovere
dei socialisti nei paesi interessati in caso
di guerra: Nessun socialista di qualunque
nazionalità può desiderare il trionfo dell'attuale
governo tedesco nella guerra, né quello della repubblica
francese borghese, e meno che mai dello zar, che equivarrebbe alla
sottomissione dell'Europa, e pertanto i socialisti di tutti i paesi
sono per la pace. Ma se ciò nonostante si giunge alla guerra,
una sola cosa è certa: questa guerra, nella quale quindici
o venti milioni di uomini armati si massacreranno uno con l'altro, e tutta
l'Europa sarà devastata come mai prima - questa guerra deve o
apportare l'immediata vittoria del socialismo, oppure
sconvolgere da cima a fondo il vecchio ordine di cose e lasciare dietro di
sé tali cumuli di rovine che la vecchia società
capitalistica sarà più impossibile che mai, e la
rivoluzione sociale, per quanto rinviata di dieci o quindici anni,
sarà sicuramente vincitrice dopo quel periodo
tanto più rapidamente e tanto più completamente (23).
L'articolo
di Engels era sintomatico del dilemma
della Seconda Internazionale durante i due decenni seguenti. Da una
parte, la
crescente coscienza che la guerra tra le potenze europee, se fosse
avvenuta,
avrebbe apportato
devastazione e disastri di una vastità
senza precedenti, rendeva sempre più difficile ignorare il
problema o
rifugiarsi in vaghe dichiarazioni di protesta. D'altra parte, il
riconoscimento
nazionale dei sindacati e il graduale inserimento degli operai
nell'ossatura
della nazione andavano
rendendo sempre più difficile affermare
che gli operai potevano rimanere
indifferenti alla vittoria o alla
sconfitta del loro paese. Fu Engels, nell'articolo
già citato, a provocare tra i socialdemocratici tedeschi
un'impressione
piuttosto imbarazzante calcolando che nel 1900 i socialisti avrebbero
probabilmente costituito la maggioranza dell'esercito tedesco (24). Ma la
Seconda Internazionale mancava anche di quel tanto di guida che
l'eminente
figura di Marx aveva assicurato alla Prima. Il fatto che la guerra fosse il
risultato delle contraddizioni economiche del capitalismo e che sarebbe scomparsa soltanto quando il
socialismo avesse sostituito il capitalismo quale forma di
organizzazione sociale, era dottrina accettata che trovava
posto nelle risoluzioni di ogni congresso. Ma da ciò non si
traevano conclusioni comuni. La Seconda Internazionale rappresentava
molte sfumature di opinione di sinistra, dai
pacifisti (soprattutto inglesi) di ogni varietà,
ai propugnatori (prevalentemente francesi) dello «sciopero
generale contro la guerra» (25), a coloro la cui politica si
limitava all'agitazione pacifica e a quelli infine (soprattutto
tedeschi) che desideravano salvaguardare in una forma o nell'altra il
diritto degli operai a partecipare alla difesa del
loro paese se fosse stato attaccato. Toccò ai socialdemocratici
russi, bolscevichi come pure menscevichi,
d'immettere un'altra tendenza di pensiero. La guerra russo-giapponese e
la caduta di Port Arthur al principio del
1905 provocarono un'inequivocabile presa di posizione da parte della penna
di Lenin:
"Il proletariato ha motivo di rallegrarsi. La catastrofica disfatta del
nostro peggiore nemico non significa soltanto che la
libertà russa si è avvicinata: essa è
anche presagio di una nuova sollevazione rivoluzionaria del
proletariato europeo... L'Asia progressiva, avanzata ha inferto un
irreparabile colpo all'Europa arretrata e reazionaria (26).
Questa diagnosi, che
fu condivisa da bolscevichi e menscevichi, come pure
dalla maggioranza degli SR, sembrò ampiamente confermata quando, poco
più di una settimana dopo, la «domenica di sangue»
fu il segnale d'inizio della rivoluzione russa. Altrove in
Europa i socialdemocratici non si mossero a contestare l'opinione che la
disfatta nazionale poteva essere un vantaggio per la causa rivoluzionaria,
finché si trattava di una disfatta russa.
Ma non si aveva premura di applicare lo stesso principio agli altri paesi.
In verità, il fatto di rendere dovere universale dei partiti
socialisti quello di opporsi ai loro governi nazionali
in tempo di guerra e in tal modo operare per la disfatta delle proprie
nazioni, avrebbe significato introdurre un principio interamente nuovo;
infatti Marx ed Engels, e i marxisti dopo di loro, avevano sempre
presupposto che, nel caso dello scoppio di una guerra, un belligerante
potesse essere più meritevole di appoggio
socialista dell'altro. Anche se il criterio giusto per compiere la scelta
qualche volta risultava incerto, era sempre stato dato per certo che una
scelta poteva e doveva essere fatta.
Questi
erano i presupposti correnti quando la Seconda
Internazionale, al suo congresso
di Stoccarda nel 1907, si trovò costretta ad assumere un'importante
presa di posizione politica sulla questione della guerra. Al congresso
di Stoccarda parteciparono, per conto del Partito Operaio
Socialdemocratico russo, Lenin, Martov e Rosa Luxemburg (27). Esso si
dimostrò un'occasione di grande importanza. Il fatto che
l'Europa andasse alla deriva verso la guerra, stava
cominciando dappertutto a penetrare
nella coscienza delle masse e a
provocare diffuse reazioni pacifiste. La concezione
della guerra come qualcosa in se stessa fondamentalmente nemica degli
interessi dei lavoratori e richiedente la condanna e un'azione preventiva
da parte dell'Internazionale, guadagnava terreno. Nella sua risoluzione
su «il militarismo e i conflitti internazionali» il
congresso riconosceva che, in considerazione delle
differenze di opinione largamente
prevalenti,
«l'Internazionale non si trova in grado di stabilire
anticipatamente forme rigorosamente definite per la lotta delle classi
operaie contro il militarismo». Ma essa faceva nondimeno alcune
dichiarazioni sorprendentemente precise. La risoluzione affermava
essere dovere della classe operaia e dei suoi rappresentanti in
parlamento «di lottare con tutte le loro forze contro gli armamenti
navali e terrestri e di rifiutare i
mezzi per essi» - il
famoso impegno a votare contro i crediti militari. Ma la
presa di posizione più sensazionale era riservata agli ultimi
due paragrafi, che furono originariamente proposti dalla delegazione
russa come emendamento al progetto presentato
dall'ufficio di presidenza, e furono accettati
dopo qualche opposizione da parte di Bebel e della delegazione tedesca.
Qui, per la prima volta in questo contesto, venivano specificamente
sollevati i problemi della lotta di classe e della rivoluzione sociale:
"Nel caso di una minacciata dichiarazione di guerra gli operai dei
paesi interessati e i loro rappresentanti in parlamento, appoggiati
dall'attività coordinatrice dell'ufficio internazionale, debbono
impiegare tutti i loro sforzi per
impedire, con le misure che
appaiono loro più efficaci e che varieranno naturalmente con
l'inasprirsi della lotta di classe e della situazione politica
generale, lo scoppio della guerra.
Se
ciò nonostante dovesse essere dichiarata la
guerra, il loro dovere è di agire allo
scopo di portarla a sollecita
conclusione, e di lottare con tutte le loro forze per
utilizzare la crisi economica e politica causata dalla guerra allo scopo di
scuotere le masse del popolo e di affrettare la distruzione del dominio
di
classe
delle classi capitalistiche" (28).
Questi paragrafi, per quanto non sembri che alcuno abbia attirato
l'attenzione su questo punto, abbandonavano il costante presupposto di
Marx ed Engels secondo cui, in caso di guerra, i
socialdemocratici dovevano operare una scelta, e sarebbero stati in
grado di fare una scelta alla luce
degli interessi finali del
socialismo, tra gli opposti belligeranti. Nel periodo storico in cui
era entrato ora il mondo, i socialdemocratici si sarebbero opposti
ugualmente a tutti i governi capitalistici belligeranti. Due anni
dopo Kautsky, per lungo tempo riconosciuto come il principale teorico
del partito, non soltanto accettava ed elaborava la nuova tesi nel suo libro
Der Weg zur Macht, ma le forniva una giustificazione teorica. La guerra
internazionale era ora diagnosticata come una crisi nel sistema capitalistico,
che offriva così agli operai la migliore occasione per abbattere
il capitalismo. La formula raggiunta con tanta difficoltà a
Stoccarda fu ripetuta e sanzionata dal congresso della
Seconda Internazionale a Copenaghen nel 1910 e da una speciale
conferenza convocata a Basilea nel novembre 1912 per esaminare i problemi
derivanti dalla guerra balcanica. Questa ripetizione sembrò
conferire una certa solennità alla dottrina. Deputati socialisti
e socialdemocratici di tutti i paesi regolarmente compirono
il gesto di votare contro i bilanci militari, benché, dato che essi
rimanevano dappertutto una minoranza relativamente piccola nei
rispettivi parlamenti, il gesto rimanesse senza efficacia pratica.
In
realtà questo quadro della socialdemocrazia
internazionale che parlava attraverso la Seconda Internazionale in nome
degli
operai del mondo uniti
rimaneva un'astrazione. In un mondo di
sviluppo e possibilità economiche uniformi, le differenze
nazionali potevano,
come il Manifesto comunista prevedeva, progressivamente scomparire. Ma
in un
mondo in cui lo
sviluppo era stato assai inuguale, larghe
differenze erano destinate a comparire
nell'atteggiamento degli operai dei
diversi paesi. Nei paesi avanzati, in
particolare la Gran Bretagna e la
Germania, dove gli operai avevano
raggiunto un tenore di vita relativamente
alto e un posto riconosciuto nella politica nazionale, l'attrazione
della
fedeltà nazionale fu abbastanza
forte nel primo decennio del secolo xx
da sfidare la fedeltà di classe. In
tutti i paesi dell'Europa occidentale
le prese di posizione dei dirigenti
degli operai contro il militarismo e la
guerra potevano comportare un'esplicita o implicita riserva del diritto
dell'autodifesa nazionale; e ciò
significava non un ritorno al criterio
marxista di appoggiare la parte la cui
vittoria favorisse la causa socialista,
bensì la tacita accettazione della distinzione
borghese liberale (che Marx aveva sempre deriso come illusoria) tra
guerre
aggressive e difensive. Soltanto nell'arretrata Russia, dove gli
operai godevano di minori benefici, la socialdemocrazia rimase largamente
inaccessibile alla richiesta di lealtà verso un governo nazionale; Lenin nel 1915 giustamente
attribuì quest'immunità degli operai russi
dallo «sciovinismo» e dall'«opportunismo» al
fatto che «da noi lo strato di operai e impiegati privilegiati
è molto debole» (29).
Ciò, tuttavia, fece considerare
in un nuovo contesto il fondamentale dilemma
della rivoluzione russa. Nello schema marxista della rivoluzione, la
differenza tra la Russia e l'Europa occidentale nello sviluppo
economico era espressa in una differenza fra gli stadi da esse
raggiunti nel processo rivoluzionario. Il mandato del congresso di
Stoccarda di utilizzare la guerra «per affrettare la
distruzione del dominio di classe della classe capitalistica»
aveva senso, strettamente parlando, soltanto in paesi dove era
stata completata una rivoluzione borghese e il capitalismo aveva
raggiunto la sua maturità; e tale presupposto risaltava ancor
più chiaramente dall'interpretazione di Kautsky della guerra
nell'epoca contemporanea come di una crisi del capitalismo. In Russia,
come tutti convenivano, la rivoluzione borghese non era stata ancora
completata e il capitalismo non aveva ancora raggiunto la sua
maturità, cosicché la risoluzione di Stoccarda aveva
senso per la Russia soltanto se il completamento della rivoluzione
borghese, che avrebbe condotto a maturità il capitalismo, e
l'assalto della rivoluzione socialista, che avrebbe «affrettato
la distruzione» del capitalismo, fossero stati inseriti in un
unico processo. Nessuno tranne Trockij (il quale non fu a Stoccarda)
considerava ancora apertamente questa eventualità. Ma, ci si
tuffasse o meno nelle raffinatezze dottrinali della «rivoluzione
permanente», sembrava abbastanza chiaro come assunto
pratico, specialmente dopo il 1905, che l'arretrata Russia, lasciata alle
proprie risorse, era ancora assai lungi dall'esser matura per una
rivoluzione proletaria. Mentre i socialdemocratici nell'Europa
occidentale potevano ragionevolmente sperare e operare per la vittoria
finale del socialismo nei loro paesi senza considerare molto ciò
che accadeva altrove, i socialdemocratici russi potevano sperare in
una sollecita vittoria del socialismo in Russia soltanto se esso fosse
risultato vittorioso anche in uno
o più paesi progrediti
europei. I confratelli più deboli avevano nella fratellanza del
proletariato internazionale un interesse pratico maggiore di quelli
più forti. La socialdemocrazia russa rimase ostinatamente e
apertamente internazionalista in un senso che non era più vero
per la socialdemocrazia nell'Europa occidentale.
Lo
scoppio della guerra nel 1914 costrinse questa
latente divergenza a manifestarsi
apertamente. I socialdemocratici
occidentali, dopo qualche iniziale
divisione ed esitazione, si schierarono
con poche eccezioni in appoggio ai loro governi nazionali; la
risoluzione di
Stoccarda venne tacitamente disubbidita e dimenticata. La decisione del
numeroso gruppo socialdemocratico tedesco al Reichstag il 4 agosto 1914
di
votare il bilancio di guerra
costituì un momento cruciale. Kautsky in
una serie di articoli successivamente
raccolti sotto il titolo Internationalismus und der Krieg tornò al punto di vista di Marx e di
Engels secondo cui i socialdemocratici dovevano
appoggiare la parte la cui vittoria fosse maggiormente suscettibile di
giovare alla causa socialista; e seguiva senza argomentazione la conclusione
che la vittoria della Germania e la sconfitta della Russia erano preferibili
al risultato opposto. In Russia, l'iniziale impulso tra i
socialdemocratici fu di opporsi alla guerra con ogni mezzo: i
socialdemocratici alla Duma, bolscevichi come menscevichi,
parlarono e votarono con unico atteggiamento contro i crediti di guerra. Ma
Plechanov e alcuni dei dirigenti menscevichi all'estero seguirono
l'esempio dei socialdemocratici occidentali e si dichiararono per la difesa
nazionale; e un atteggiamento «patriottico» non fu raro nel
piccolo gruppo di operai organizzati e relativamente privilegiati in
Russia, soprattutto quelli di obbedienza prevalentemente menscevica
(30). Quando cominciarono pressioni e persecuzioni, molti
bolscevichi in Russia - particolarmente di rilievo tra loro Kamenev -
cominciarono ad ondeggiare; e non ci fu unanimità neppure tra i bolscevichi
all'estero. Da questo confuso tumulto emerse tra i socialdemocratici
russi una triplice divisione. A destra, un gruppo di menscevichi proclamò
il dovere patriottico della difesa nazionale. A sinistra, Lenin appoggiato
da un gruppetto di bolscevichi in Svizzera - dapprima da Zinov'ev quasi
solo, poi con qualche riserva da Bucharin, Sokol'nikov, Pjatakov,
Safarov e altri - sostenne la causa del disfattismo nazionale e della guerra
civile. Fra questi estremi un numeroso gruppo misto, comprendente sia
menscevichi che bolscevichi, assunse una posizione
«centrista», denunciò la guerra e reclamò
una pace «democratica», senza annessioni né
indennità, ma si astenne dal propugnare il disfattismo nazionale
o la guerra civile; questo gruppo, le cui
inclinazioni erano pacifiste piuttosto che
rivoluzionarie, ebbe il suo quartier generale a Parigi e fu
rappresentato da un giornale conosciuto successivamente (a causa delle
periodiche interdizioni della censura) come
«Golos», «Nase Slovo» e «Nacalo», di
cui Martov e Trockij furono i principali collaboratori. Esso
corrispondeva largamente ad analoghi gruppi «centristi» che
cominciavano ad emergere in altri partiti di sinistra - in
particolare una parte del Partito
Socialdemocratico Tedesco
capeggiata da Kautsky, e un gruppo dell'ILP in
Gran Bretagna diretto da Ramsay MacDonald.
Lenin
non perse tempo nel definire la sua
posizione. In una serie di tesi lette a
un gruppetto di bolscevichi a Berna
nei primi giorni del settembre 1914 egli denunciò «il
tradimento verso il
socialismo della maggioranza della Seconda Internazionale»,
affermò che «dal
punto di vista delle classi
operaie e delle masse lavoratrici di
tutti i popoli della Russia il
male minore sarebbe la sconfitta della monarchia russa e dei suoi
eserciti», e chiese l'estensione a tutti gli eserciti
belligeranti della «propaganda della rivoluzione sociale, della
necessità di rivolgere le armi non contro
i loro fratelli, gli schiavi salariati degli altri paesi, ma contro i governi
e partiti reazionari e borghesi di tutti i paesi». Queste tesi furono
incorporate in un appello emesso due mesi dopo a nome del comitato
centrale del partito, nel quale Lenin coniò la parola d'ordine
della «trasformazione dell'attuale guerra
imperialistica in guerra civile». Egli divenne
sempre più intollerante verso i «centristi», i quali
respingevano la difesa nazionale ma si rifiutavano di
accettare come logica conseguenza
il disfattismo e la guerra
civile, conservando così un piede nel campo degli scopi di
guerra «democratici» e del pacifismo borghese. Nel marzo 1915
fu tenuta a Berna una conferenza delle organizzazioni bolsceviche all'estero.
Qui Lenin compose temporaneamente le sue divergenze col gruppo
che si era raccolto attorno a Bucharin (31), e provocò
un'importante dichiarazione di politica bolscevica. La
guerra veniva definita come guerra
imperialistica, essendo una
guerra per la divisione delle colonie da parte della
Gran Bretagna, della Francia e della Germania e per l'acquisizione di
analoghi territori (Persia, Mongolia, Turchia, ecc.) da parte della
Russia: essa era caratteristica di un'epoca «in cui il
capitalismo ha raggiunto la più alta fase di sviluppo... e in
cui sono completamente maturate le
condizioni obiettive per la
realizzazione del socialismo». Essa veniva così distinta
dalle guerre «nazionali» del periodo 1789-1871; l'elemento
nazionale nella lotta della Serbia contro l'Austria era un'eccezione
che non modificava il carattere generale della
guerra. La trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile era
pertanto «l'unica parola d'ordine proletaria
giusta». La propaganda di pace non accompagnata da questa parola
d'ordine era un'illusione. «In particolare, l'idea che una pace
democratica sia possibile senza una serie di rivoluzioni è
profondamente sbagliata». Più tardi in quell'anno, Lenin per la
prima volta considerò la situazione pratica che si sarebbe determinata se
una rivoluzione proletaria fosse avvenuta anzitutto in Russia durante la
guerra. Egli pubblicò sull'organo del partito «
Sozial-Demokrat » una breve dichiarazione modestamente intitolata
«Alcune tesi», l'ultima delle quali può essere
definita in certo senso come la prima dichiarazione di
politica estera del futuro governo rivoluzionario:
"Alla domanda che cosa farebbe il partito del proletariato se la
rivoluzione lo portasse al potere durante la presente
guerra, rispondiamo: noi proporremmo la
pace a tutti i belligeranti a condizione che venisse data la
libertà alle colonie e a tutti i popoli dipendenti e oppressi
che non godono dei pieni diritti.
Con gli attuali governi né
la Germania, né l'Inghilterra, né la Francia
accetterebbero questa condizione. Allora noi dovremmo preparare e
condurre una guerra rivoluzionaria, cioè dovremmo
non soltanto attuare completamente con le
misure più decisive tutto il nostro programma minimo, ma
dovremmo sistematicamente spingere all'insurrezione tutti i popoli ora
oppressi dai grandi russi, tutte le colonie e i paesi soggetti
dell'Asia (India, Cina, Persia, ecc.), e anche
- e prima di tutto - incitare il proletaariato d'Europa all'insurrezione contro
i suoi governi e nonostante i suoi socialsciovinisti. Non vi è
alcun dubbio che la vittoria del proletariato in Russia creerebbe
condizioni straordinariamente favorevoli per lo sviluppo della
rivoluzione sia in Asia che in Europa" (32).
La linea era chiara. Il proletariato, dopo avere conquistato il potere in
Russia, sarebbe rimasto dapprima entro i limiti della rivoluzione
borghese, impiegando parole d'ordine democratiche - in Europa, per
screditare i governi borghesi i quali, a causa delle contraddizioni del
capitalismo ora completamente sviluppate, erano incapaci
ormai di realizzare anche una pace democratica borghese; in Asia, per
levare la bandiera della rivoluzione borghese fra nazioni che erano
ancora attardate nella fase pre-capitalistica e per condurle a
liberarsi del giogo delle potenze imperialistiche europee. Attraverso
queste due procedure, rafforzate se necessario con la guerra
rivoluzionaria, il proletariato russo avrebbe preparato la
via al trionfo della rivoluzione socialista in Europa, e così
nella Russia stessa.
Intanto,
parecchi tentativi erano stati fatti da
socialisti contrari alla guerra per
organizzare conferenze internazionali
sul territorio svizzero. Nel marzo
1915 Klara Zetkin organizzò una
conferenza di donne socialiste a Berna;
e il mese successivo Willi Munzenberg, segretario dell'Internazionale
giovanile socialista, convocò, sempre a Berna, una conferenza
della gioventù
socialista. Bolscevichi facenti parte del gruppo di Lenin parteciparono
ad
entrambe queste conferenze ma non ottennero alcun appoggio quando
presentarono la parola d'ordine della «trasformazione della guerra imperialistica
in guerra civile». Nel settembre 1915 si riuniva a Zimmerwald una
conferenza internazionale generale di socialisti contrari alla guerra.
La numerosa ma assai divisa delegazione russa comprendeva Lenin e
Zinov'ev, Martov e Aksel'rod, Trockij e il capo SR Cernov. Rakovskij rappresentava
i socialdemocratici romeni, Kolarov i bulgari. La maggior parte dei
tedeschi erano socialdemocratici di sinistra disposti ad astenersi dal
votare i crediti di guerra, ma non ad infrangere la disciplina di
partito votando
contro di essi. Il resto dei partecipanti erano francesi, italiani, svizzeri,
olandesi, scandinavi, lettoni e polacchi (tra questi Radek). Dei trenta o
più delegati, quasi venti costituivano l'ala destra della
conferenza; Lenin
ebbe l'appoggio più o meno condizionato di sei od otto delegati alla sua
politica della «guerra civile»; i rimanenti delegati, il
più eminente dei
quali era Trockij, assunsero una posizione intermedia e tentarono di
svolgere
opera di mediazione tra le due posizioni estreme. Il manifesto
approvato
all'unanimità dalla conferenza fu redatto da Trockij, e si
limitava a una generale denuncia della guerra. Sei delegati - Lenin, Zinov'ev
e Radek insieme con uno svedese, un norvegese e un lettone -firmarono
una
dichiarazione di protesta contro l'insufficienza del manifesto: questo
gruppo
formò quella che sarebbe stata conosciuta come la «sinistra
di Zimmerwald». La conferenza decise di costituire un comitato
socialista
internazionale permanente e una segreteria a Berna. Questi organismi
organizzarono una «seconda conferenza di Zimmerwald», che si tenne
a Kienthal nell'aprile 1916 con una partecipazione di delegati alquanto
più numerosa. Il mutamento più significativo rispetto
all'autunno precedente
era avvenuto nel movimento tedesco. Non soltanto l'ala sinistra
del Partito Socialdemocratico Tedesco si era rafforzata (essa si sarebbe
separata più tardi nel corso di quell'anno per costituire il
Partito Socialdemocratico
Indipendente Tedesco), ma era comparso un gruppo le cui
vedute si avvicinavano a quelle di Lenin: il cosiddetto Spartakus-bund.
L'appello redatto e approvato dalla conferenza di Kienthal segnò un certo
spostamento verso la sinistra rispetto a Zimmerwald, ma era ancora assai lontano dal programma
bolscevico. Durante tutto questo periodo i sostenitori di Lenin rimasero
un'insignificante minoranza nell'ala del movimento socialista
internazionale contraria alla guerra, e sulla vitale
questione della guerra civile e del disfattismo nazionale non poterono
contare sulla piena collaborazione nemmeno dei bolscevichi in Russia o
di altri gruppi bolscevichi all'estero.
Nell'intervallo tra la conferenza di Kienthal e la rivoluzione di
febbraio in Russia non vennero fatti altri tentativi per tenere una
conferenza socialista internazionale. I principali sforzi di Lenin
durante questo periodo furono dedicati a una controversia
nelle file bolsceviche sulla questione dell'autodeterminazione nazionale;
a un fallito tentativo di distogliere il Partito Socialista Svizzero
dal suo appoggio alla difesa nazionale; e alla stesura de
"L'imperialismo, fase suprema del capitalismo", che forniva
una base teorica al passaggio dall'originario punto di vista marxista,
secondo cui gli operai dovevano in caso di guerra appoggiare la parte la
cui vittoria era più suscettibile di far progredire la causa del
socialismo, alla presente posizione di Lenin. Il
capitalismo, secondo l'analisi di Lenin, aveva
ora raggiunto il suo stadio finale, o imperialistico, nel quale la guerra
fra le grandi potenze europee era semplicemente una lotta per territori
coloniali e mercati. In queste circostanze nessuno dei belligeranti
poteva essere ritenuto meritevole di appoggio da parte degli operai; e il
fatto che il capitalismo fosse ora nella sua fase finale dimostrava che era
maturo il momento per la transizione al socialismo e per l'azione da parte
degli operai di tutti i paesi per affrettarla. In tal modo il carattere imminente
della rivoluzione socialista giustificava l'abbandono
dell'atteggiamento «opportunistico» di Marx verso le guerre
tra potenze capitalistiche in favore di una posizione che considerava
come ugualmente desiderabile in linea di principio la sconfitta di
tutte le potenze capitalistiche. Attraverso stati d'animo alternativamente di
ottimismo e pessimismo, mentre la guerra si prolungava, Lenin non
perse mai questo filo conduttore. Quando scoppiò la rivoluzione
di febbraio, egli intonò una nota di trionfo
nella "Lettera d'addio agli operai svizzeri" scritta alla vigilia della sua
partenza per la Russia:
"Le condizioni oggettive della guerra
imperialistica valgono come garanzia che
la rivoluzione non si fermerà alla prima fase della rivoluzione
russa, che la rivoluzione non si fermerà alla
Russia. Il proletariato tedesco è il più fedele e sicuro
fidato alleato della rivoluzione proletaria russa e mondiale... La trasformazione
della guerra imperialistica in guerra civile sta divenendo un fatto.
Viva la
rivoluzione proletaria che sta cominciando
in Europa".
In questa duplice previsione del rapido passaggio della rivoluzione russa
dalla sua fase democratico-borghese a quella proletaria-socialista e dell'estensione
della rivoluzione agli altri paesi belligeranti, Lenin attendeva con
impazienza l'imminente realizzazione della sua parola d'ordine della
trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile del
proletariato contro la borghesia.
NOTE:
1
Un'analoga concezione della
guerra era implicita nella definizione di Clausewitz di essa come
«una
continuazione della politica con altri mezzi»; gli stessi criteri
di giudizio
erano applicabili alle guerre come agli altri atti di politica.
2 Il primo di
questi brani si trova in un articolo nella «Neue Rheinische
Zeitung» nel luglio
1848: «Soltanto la guerra con la Russia è una guerra della
Germania
rivoluzionaria, una guerra nella quale la Germania può
riscattare i peccati del
passato, acquistare virilità, vincere i propri autocrati, nella
quale può, come
si conviene a una nazione che sta scrollandosi le catene di una lunga,
inerte
schiavitù, condurre la propaganda della civiltà col
sangue dei suoi figli e
liberare se stessa liberando gli altri» (KARL MARX - FRIEDRICH
ENGELS,
Historisch-kritische Gesamtausgabe, parte I, VII, 181).
3
La migliore definizione del pacifismo nel senso marxista è data
in MAX BEER,
Kries und Internationale, Wien I924, p.8: "Quella tendenza politica la
quale considera la guerra come un male assoluto, e
che
suppone che sia possibile nella società borghese impedire la
guerra e
stabilire pace eterna mediante leghe delle nazioni, tribunali
d'arbitrato,
sante alleanze, libero scambio, democrazia, disarmo, ecc."
4
KARL MARX-FRIEDRICH ENGELS, Historisch-kritische Gesamtausgabe, parte
III, I,
385; II, 84.
5
MARX - ENGELS, Socinenija, VII,
108-9.
6
MARX-ENGELS, Socinenija, XXV, 262: il testo originale si trova in Der
Briefwechsel zwischen Lassalle und
Marx, a cura di G. Mayer, III (1922), 184-85.
7 KARL MARX-FRIEDRICH ENGELS, Historisch-kritische Gesamtausgabe,
parte III, III, 336.
8 Una traduzione dell'appello si trova in «Neue Zeit»
(Vienna) XXXIII (1914-15), II, 440-41; per il commento
di Marx vedi KARL MARX - FRIEDRICH ENGELS, Htstoisch-kritische Gesamtausgabe, parte III, III, 341.
9 «Neue Zeit» (Vienna), XXXIII (1914-15), II, 442.
10 Un riassunto di Marx del suo discorso
si trova in KARL MARX - FRIEDRICH ENGELS, Historisch-kritische
Gesamtausgabe, parte III, III, 417. La migliore narrazione
dell'atteggiamento della Prima Internazionale al congresso di
Ginevra è fornita da Rjazanov in «Neue Zeit» (Vienna),
XXXIII (1914-15), II, 463-69; Rjazanov, scrivendo nel 1915,
esagerò alquanto l'elemento pacifista nell'atteggiamento di Marx
allo scopo di invalidare il richiamo dei socialdemocratici tedeschi
alle sue dichiarazioni antirusse quale giustificazione per la loro
azione nel 1914.
11 Ibid., 466-68.
12 Annales du
Congrès de Genove, Genève 1868, p. 172
13 MARX - ENGELS, Socinenija,
XXV, 496.
14
Rjazanov, il quale ha riesaminato le testimonianze sulle discussioni
di Bruxelles («Neue Zeit»
[Vienna], XXXIII
[1914-15], II, 509-18) ha stabilito che il progetto originale fu
abbandonato
perché, equivalendo a un incitamento all'ammutinamento, poteva
esporre i suoi sostenitori ai
rigori della legge; raccomandare
semplicemente uno sciopero, d'altro canto, non era illegale
in alcun luogo.
15 KARL MARX - FRIEDRICH
ENGELS, Historisch-kritische Gesamtausgabe, parte III, iv, 366.
16 Marx, qualche giorno dopo, vide nella
guerra una ripresa della guerra di liberazione nazionale
del 1812 e delle aspirazioni soffocate nel 1848 e si scandalizzò
soltanto per il fatto che esse fossero incorporate da Bismarck:
«II filisteo tedesco sembra assolutamente incantato per il
fatto che egli può ora dare illimitato sfogo al suo innato
servilismo. Chi avrebbe pen-sato possibile che ventidue anni dopo il
1848 una guerra nazionale in Germania possedesse una tale
espressione teorica?» {ibid., 346). Più tardi ancora egli
rilevò che «tutte le macchinazioni dall'epoca
del Secondo Impero hanno alla fine condotto al raggiungimento degli
scopi del 1848 - Ungheria, Italia, Germania» (ibid.,
358).
17 Ibid., 354.
18 Ibid., 366.
19 Ibid., 365,
382. L'idea
appartiene al corrispondente di Marx, Kugelmann, che gli scriveva il 7
agosto
1870: «Attraverso l'unità politica (con parecchi secoli di
ritardo) tutto lo sviluppo
borghese sarà accelerato, e il
proletariato tedesco avrà per la prima volta un terreno su cui potere
organizzarsi su scala nazionale, e
certamente presto otterrà un posto eminente nel movimento
operaio generale» («Neue Zeit» [Vienna], XXXIII
[1914-15], II,
169).
20 KARL MARX -
FRIEDRICH ENGELS, Historisch-kritische Gcsamtausgabe, parte III, IV,
358.
21
MARX-ENGELS, Socinenija, XV, 278.
22 MARX-ENGELS, Socinenija, XVI li
745-47
23 Ibid., 249-50.
24 Ibid., 244.
25 La politica dello sciopero generale durante la guerra era stata
approvata dal Partito Socialista Francese al suo congresso di Nantes
nel 1894. Le delegazioni francesi la propugnarono ai
congressi della Seconda Internazionale, ma con scarso o nessun appoggio
(al congresso di Copenaghen del 1910 essa fu appoggiata
dall'ILP britannico); il Partito Socialista Francese al suo
congresso straordinario del 16 luglio 1914 propose ancora una volta, su
mozione di Jaurès, «uno sciopero generale degli operai
simultaneamente ed intemazionalmente organizzato nei paesi
interessati» come mezzo «per ostacolare e impedire la
guerra e imporre ai governi il ricorso ad arbitrato».
26 LENIN, Socinenija, VII, 45.
27 II carattere misto della delegazione era una conseguenza del IV
Congresso del partito del 1906 in cui fu ristabilita l'unità
formale tra bolscevichi e menscevichi (cfr. sopra, p. 51).
28 La
risoluzione si trova in Internationaler Sovalisten-Kongress zu
Stuttgart, 18. bis 24. August 1907
(1907) e in
molte traduzioni, non tutte esatte. Secondo una successiva
dichiarazione di
Lenin (Socinenija, XII, 380), Bebel si rifiutò di accettare una
formulazione
più forte originariamente
proposta
dai russi adducendo il motivo che essa poteva esporre il Partito
Socialdemocratico Tedesco a rappresaglie legali. I più completi
resoconti del
congresso si trovano nel volume
russo, Za
Rubezom: Meidunarodnyj Socialisticeskij Kongress v Stuttgarte (1907): il progetto
originale di Bebel si trova alle pp.
68-69, il progetto russo degli ultimi due paragrafi alle pp. 81-82, e
la
versione definitiva alle pp. 85-86, dove gli ultimi due paragrafi
mostrano
solo varianti secondarie rispetto al progetto russo. Quando l'ultimo
paragrafo
fu citato in una
risoluzione del I Congresso del Comintern
nel 1919, esso fu attribuito a Lenin e Rosa Luxemburg,
mentre Martov non fu menzionato - un anticipato caso di
falsificazione attraverso la
soppressione di un nome
sgradito (Kommunisticeskij Internacional v Dokumentach [1933], P. 73).
29
LENIN, Socinenija, XVIII, 209.
30
Secondo una narrazione menscevica delle
manifestazioni a Pietroburgo allo scoppio della guerra,
«i baccanali patriottici non furono senza influenza nemmeno
sugli operai; molti di quelli che
ieri erano in
sciopero furono visti oggi nelle file dei dimostranti patriottici
» (j.
MAR-TOV, Geschichte der Russischen Sozial-Demokratie [1926], p. 274).
31 La principale differenza tra
Lenin e il gruppo di Bucharin era che il secondo, pur ac-cettando la
trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile come
obiettivo finale oscillava sulla questione del disfattismo, e
non voleva del tutto escludere o condannare le parole
d ordine della pace democratica borghese come strumenti di propaganda;
il documento rappresentante i loro punti di vista si trova
in « Proletarskaja Revoijucija», 1925, n. 5 (40), pp.
170-72. È significativo che, mentre molti bolscevichi rimanevano
ancora sulle posizioni della democrazia borghese e della rivoluzione
borghese, Lenin procedeva rapidamente avanti, sotto
l'impulso della guerra e della situazione internazionale, verso la
posizione che egli avrebbe assunto nelle «tesi d'aprile» del
1917. Bucharin e Pjatakov, tuttavia, si distinguevano ancora da
Lenin nel 1916 sulla questione dell'autodeterminazione nazionale (cfr.
sopra pp 414-15)
32 LENIN, Socinenija, XVIII, 313. Poco tempo prima,
in un famoso passo in un articolo Sulla parola
d'ordine degli Stati Uniti d'Europa, che più tardi ebbe
importanza nella controversia sul «socialismo in un solo
paese», Lenin aveva
anticipato in termini generali la situazione che poteva sorgere nel
caso che
la rivoluzione proletaria avesse successo in un solo paese
capitalistico:
«L'inuguaglianza dello sviluppo economico e politico è una
legge assoluta del
capitalismo. Ne consegue che una vittoria del
socialismo è possibile all'inizio in pochi paesi capitalistici,
o anche in un solo paese capitalistico preso
separatamente. Il proletariato vitto-rioso di questo paese, espropriati
i
propri capitalisti ed organizzata nel proprio paese la produzione
socialista,
si solleverebbe contro il resto del mondo capitalistico, attirando a
sé le
classi oppresse degli
altri paesi,
spingendole ad insorgere contro i capitalisti, intervenendo se
necessario con
la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro stati»
(ibid., 232-33).