Il passato, il presente e il futuro.
Note su tradizione, gerarchia, tecnica, differenza e universalismo.


1. Questo è il terzo e ultimo contributo di una breve e concisa trilogia, che ha come scopo il disegno di un sommario repertorio per una discussione pubblica (ancora da fare) volta al superamento di pregiudizi ideologici radicati ed ancora fortissimi, sia pure di una forza sterile, passiva e inerziale. Si tratta in realtà di un unico discorso diviso in tre parti.
Nel primo contributo (cfr. Comunitarismo e comunismo, in “Comunitarismo”, ottobre 2002) ho cercato di dimostrare che il comunitarismo e il comunismo sono due nozioni che hanno la stessa radice semantica e concettuale (da greco antico koinonia), e che no ha dunque alcun senso farli diventare bandiere ideologiche per la dicotomia oppositiva Sinistra/Destra.
Nel secondo contributo (cfr. Utopia e libertà, in “Comunitarismo”, marzo 2003) ho cercato di dimostrare che l’idea di comunità (pacificata e solidale) sta alla base dei progetti utopici moderni, e che gli elementi autoritari e prescrittivi di questi progetti possono essere corretti (senza che si butti via il bambino della solidarietà con l’acqua sporca del conformismo prescrittivo) nell’orizzonte descritto dalla grande filosofia classica tedesca (1770-1830).
In questo terzo ed ultimo contributo tocco il problema forse più delicato, quello delle premesse teoriche (quasi sempre implicite ed inavvertite) con cui si pensa spesso oggi il passato, il presente ed il futuro.

2. In estrema sintesi, ed a lato del discorso di questo contributo, ritengo che le tradizioni culturali ed ideologiche di Destra e di Sinistra debbano “fare i conti” che non hanno ancora fatto. Elenco solo quattro temi, anche se so molto bene che ce ne sono anche altri.
Per quanto riguarda la tradizione di destra, ritengo che vi siano due punti delicati da discutere. Primo, il riferimento a quell’ideale di “ribellismo aristocratico” che ne segnala spesso il profilo, che ha spesso (ma non sempre) dietro i due concetti di Tradizione e di Gerarchia. Secondo, il ripensamento autonomo ed il bilancio storico sugli anni 1918-1945, e sul nazismo tedesco in particolare.
Per quanto riguarda la tradizione di sinistra, anche qui mi limiterò a due punti fondamentali. Primo, quello che io chiamo il Presupposto dell’Autosufficienza, per cui la sinistra ritiene di rappresentare a priori la totalità del progresso e dell’universalismo. Si tratta di una illusione ideologica infondata, ma sino a quando non se ne metteranno allo scoperto i presupposti impliciti sarà impossibile superare questa presuntuosa e spesso ridicola illusione. Secondo, il rapporto fra identità di sinistra e questione del marxismo teorico (filosofico e scientifico). Il secondo elemento viene spesso concepito come appendice sofisticata e colta del primo, laddove in realtà si tratta di qualcosa di fortemente distinto.

3. Il discorso sarebbe lungo, ma può essere compendiato in tre parti distinte anche se collegate.
In primo luogo, può essere utile una riflessione sui due concetti di Tradizione e di Gerarchia. Si tratta di nozioni che l’identità culturale di destra ha spesso rivendicato come costitutive del proprio profilo, ma che si prestano a metamorfosi curiose e talvolta inaspettate. Per brevità, mi limiterò a due sole fonti, e cioè René Guénon (1886-1951) e Julius Evola (1898-1974). Guénon e Evola appartengono a generazioni post-nicciane, in cui è già pienamente visibile quell’“ambiente tecnico” in cui si muove l’uomo contemporaneo. Senza fare i conti con le ambiguità non risolte delle loro concezioni è impossibile congedarsi dai fraintendimenti vitali cui esse danno luogo.
In secondo luogo, intendo esaminare almeno due punti del pensiero di Alain de Benoist che meritano di essere messi in rilievo. Il primo, che considero però il meno importante, è quello della legittimità del paragone storico fra comunismo e nazismo. Il secondo, che è poi quello più importanti, consiste nel rifiuto dell’universalismo in nome di un radicale diritto alla differenza, rifiuto che mi sembra problematico. In sintesi, mi sembra che de Benoist voglia combattere contro il “pensiero unico” del conformismo moderno, ed infatti lo fa in modo quasi sempre molto brillante, ma poi finisce di fatto con il recepirne due pilastri, e cioè la teoria del totalitarismo (comunismo-nazismo) e la teoria del relativismo.
In terzo luogo, per finire, intendo ritornare ancora una volta sui temi della sinistra e del marxismo, utilizzando stimoli provenienti da un classico lavoro di Augusto Del Noce e di un recente lavoro di Ermanno Bencivenga, per giungere però a conclusioni personali originali.

4. Iniziamo dall’Illuminismo. Si dirà che così prendiamo la rincorsa troppo lunga, ma non lo credo. Senza chiarire preliminarmente il nostro concetto di Illuminismo (non solo storico, ma anche e soprattutto teorico) ci si lascia sempre alle spalle delicate ambiguità non chiarite.
Vi sono due grandi immagini prevalenti di Illuminismo da cui a mio avviso è bene prendere subito le distanze. La prima immagine riduce l’Illuminismo a repertorio del pensiero borghese-capitalistico, relegando ai suoi margini ogni corrente che sembra “estemistica” e secondaria. In questo modo, ad esempio ( e l’ho già ampiamente ricordato) il pensiero utopico-comunitario è così marginalizzato e reso poco visibile, e diventa in questo modo invisibile anche la successiva “correzione” liberale (a mio avviso legittima) della filosofia classica tedesca, che mantiene l’orizzonte della comunità (contro l’individualismo inglese che invece l’espelle dalla statualità e la relega solo nella dimensione religiosa), ma integra questo orizzonte con una filosofia dell’autocoscienza libera, e cioè della libertà sostanziale, e non solo dell’arbitrio relativistico delle scelte.
La seconda immagine, speculare alla prima, è invece quella che vede nell’Illuminismo un processo di pericolosa scristianizzazione , e cioè di una malattia moderna da cui non ci siamo ancora ripresi, e non ci riprenderemo mai, finché il pensiero cosiddetto “laico” non verrà messo negli archivi della storia. In Italia resta esemplare il libro del prete cattolico Cornelio Fabro.
La doppia e speculare immagine dell’Illuminismo come pensiero del capitalismo e/o come pensiero della scristianizzazione non è a mio avviso per nulla soddisfacente. È bene invece averne un’immagine più dinamica e più dialettica.

5. L’Illuminismo è innanzitutto pensiero critico a 180 gradi. In quanto pensiero critico a 180 gradi copre un arco che va dal riformismo aristocratico di Montesquieu al codice comunista della natura di Morelly. È interessante che questi due estremi in un certo tempo si uniscano, perché Karl Marx ha imparato moltissimo da Montesquieu per l’edificazione della sua scienza della storia (come del resto a suo tempo Louis Althusser fece correttamente notare), e nello stesso tempo la sua nozione di comunismo trova radici anche in Morelly, anche se ovviamente la teoria dei bisogni naturali dedotti dalla natura viene sostituita da una teoria dei bisogni artificiali ma ricchi evocati dallo sviluppo delle forze produttive capitalistiche.
Ho qui citato volutamente i due “estremi” di Montesquieu e di Morelly come fonti lontane di Marx per “depoliticizzare” il tema delicato delle fonti filosofiche indirette. Non è un caso che l’elemento “scientifico” della teoria di Marx trovi le sue radici in un pensatore che non intendeva neppure appoggiare la presa di potere della borghesia, ma addirittura si limitava ad una sorta di “riformismo signorile”, mentre il suo elemento “utopistico” deriva invece, sia pure indirettamente, da pensatori comunitari, egualitari e pienamente “comunisti”.

6. In generale il cosiddetto “pensiero di destra” viene fatto iniziare con la meditata e consapevole reazione alla rivoluzione francese del 1789 (Burke, de Maistre, i romantici conservatori tedeschi, ecc.). In questo modo, il pensiero di destra è di fatto identificato con il pensiero della restaurazione, anche se le opere fondamentali di Burke e di de Maistre sono anteriori al 1815.
Oggi la tendenza storiografica è alla retrodatazione. Ricorderò nella nota bibliografica finale i lavori di Didier Nassau e di Darrin Mc Mahor, che retrodatano correttamente al periodo storico 1740-1780 la nascita dei temi principali del pensiero conservatore e tradizionalista. Ci fu un movimento di resistenza ai Lumi estremamente ampio, articolato e pienamente “ideologico”, che individuava i propri nemici (il razionalismo, l’individualismo, il materialismo, ecc.) con una certa chiarezza.
Certo, questo movimento era destinato alla sconfitta, perché di fatto difendeva una causa indifendibile, e cioè il mantenimento e la riproduzione di una società del privilegio signorile. Si trattava di una gerarchia indifendibile, che collocava in una tradizione eterna ciò che era palesemente e incontestabilmente frutto di un processo storico preciso.

7. Dal 1789 al 1848, e cioè nel corso del grande sessantennio pienamente “moderno”, il movimento culturale reazionario documentato da Massau e da Mac Mahon dà finalmente luogo ad una vera e propria cultura di destra, che prima c’era già ma era soltanto implicita. Si dice generalmente che questo avviene perché sono finalmente visibili ad occhio nudo le due grandi forze storiche e sociali antitradizionalistiche, e cioè la protoborghesia capitalistica ed il primo proletariato artigiano ed operaio. Si dice questo, ma dicendo questo non si dice però tutto, ed a mio avviso non si dice nemmeno l’essenziale.
E l’essenziale sta invece in ciò, che il pensiero della tradizione è costretto ad assumere, spesso contro voglia, un carattere tecnicamente reazionario, nel senso che è costretto a reagire , e chi reagisce è obbligato a pensare di riflesso, di rimbalzo ed in seconda battuta, ed in questo modo (come a suo tempo ha detto molto bene Martin Heidegger) è stato costretto a “definirsi” in modo derivato, secondario e non primario (come del resto gran parte dell’antifascismo dopo il 1945, che era costretto a pensare se stesso a partire dal suo nemico, e cioè da un fascismo nel frattempo storicamente tramontato).
Dal 1789 al 1848 il pensiero di destra, e cioè il pensiero della conservazione, dell’ordine, della tradizione, della gerarchia, ecc., non dice generalmente che ciò che afferma è bene, ma è il male minore rispetto agli sconvolgimenti cui darebbe luogo il pensiero rivoluzionario se fosse applicato e realizzato. Esemplare è in proposito de Maistre. De Maistre è costretto a difendere persino il boia feudale ed i processi dell’inquisizione, che sarebbero razionalmente indifendibili, con l’argomento per cui essi sono comunque meno peggio (ed il meno peggio è il meglio storicamente possibile) delle sanguinose guerre napoleoniche, dei processi terroristici dei giacobini, ecc..
Faccio notare, di passaggio, che l’atteggiamento di de Maistre verso il periodo 1789-1815 è analogo al modo in cui il pensiero politicamente corretto di oggi affronta il comunismo storico novecentesco (1917-1991). Così come da de Maistre dipendeva la società signorile ed aristocratica come il “meno peggio” rispetto al totalitarismo giacobino e rivoluzionario, nello stesso modo i cantori del mondo capitalistico di oggi (dalla Arendt a Furet, da Dahrendorf a Habermas, ecc.) lo difendono in nome del “meno peggio” rispetto al delirio utopistico dei rivoluzionari.
Può sembrare curioso dirlo, ma lo dirò lo stesso. È assurdo oggi andare in cerca con il lanternino di una “cultura di destra”, scomodando Sombart ed Evola, Tarchi e de Benoist, ecc.. Se la cultura di destra nasce come cultura del “meno peggio” e quindi come “apologetica indiretta” di difetti considerati però meno gravi di altri, allora la cultura di destra oggi è semplicemente la cultura maggioritaria di oggi, che si presenta falsamente come cultura laica di centro-sinistra. Il capitalismo come “meno peggio” di Habermas è assolutamente omogeneo al feudalesimo come “meno peggio” di de Maistre.

8. Il pensatore che rompe esplicitamente con il paradigma del “meno peggio” di de Maistre (per cui il feudalesimo deve essere preferito al mondo borghese moderno perché “meno peggio”) è Nietzsche. Si tratta di un aspetto di un aspetto del pensiero di Nietzsche su cui generalmente si riflette troppo poco. Nietzsche vuole certamente una Gerarchia, ma si rifiuta di dedurla e di legittimarla da una Tradizione. È questo il punto essenziale da comprendere.
È noto che oggi il termine nicciano Ubermensch viene generalmente tradotto non più come Superuomo ma come Oltreuomo. In questo modo si vuole sottolineare che Nietzsche deve essere interpretato non come profeta della diseguaglianza e della gerarchia, ma come anticipatore dell’ermeneutica e come sostenitore del superamento delle “grandi narrazioni” metafisiche prescrittive ed autoritarie sia di tipo religioso sia di tipo “marxista”. Non voglio entrare qui nel merito di questo nodo di problemi. Ma constato che qualunque approccio filologico serio a Nietzsche non può non constatare che Nietzsche ha una concezione strutturalmente gerarchica della società, e che gli Ubermenschen, comunque li vogliamo rendere in lingua italiana, devono dirigere politicamente la società.
Secondo il corretto approccio di Domenico Losurdo, questo è il punto di vista di un ribelle aristocratico (e non, aggiungo io, di un rivoluzionario democratico come Marx). Ma questo ribelle aristocratico non fa riferimento ad una Tradizione, ma tratta anzi ciò che generalmente è considerato tradizione come decadenza. La decadenza non è dunque l’abbandono di una tradizione (come in Evola) e neppure il momento finale di un ciclo temporale (come in Guénon), ma è il momento di accelerazione di un decorso dell’intera tradizione occidentale. Questa è una novità rispetto sia a chi è venuto prima di Nietzsche (Burke e de Maistre) sia a chi è venuto dopo (Evola e Guénon).
In estrema sintesi, la morte di Dio (da non confondersi con la materialistica e razionalistica inesistenza di Dio) produce la situazione storica e spirituale del nichilismo. A questo nichilismo occorre reagire, e la reazione contro il nichilismo è la sola rivoluzione possibile. L’identità fra reazione (al nichilismo) e rivoluzione (contro il nichilismo) connota il superuomo-oltreuomo e lo differenzia da altre risposte politico-antropologiche possibili (l’eremita, l’uomo superiore, l’ultimo uomo). La formula dell’identità nicciana fra reazione e rivoluzione è allora la seguente: accettare l’orizzonte dell’eterno ritorno del sempre uguale e vivere in questo orizzonte la volontà di potenza.

9. Ho ricordato intenzionalmente Nietzsche per sottolineare ancora una volta che questo grande profeta ateo respinge la soluzione abituale del pensiero di destra , e cioè l’apologetica indiretta ed il legame fra tradizione e gerarchia. La gerarchia è necessaria, ma deve fondarsi appunto sul rifiuto della tradizione (greco-socratica, cristiano-paolina, democratico-russoviana, ecc.). Tutto questo, di per sé, non è affatto “irrazionalistico”, come stabilisce frettolosamente un’etichettatura consolidata. Si tratta di una interpretazione possibile del “razionalismo” occidentale. Nietzsche porta argomenti, e robusti argomenti, contro tutti i sostenitori di un punto di vista contrario. Esattamente quello che smetterà di fare il pensiero reazionario post-nicciano, da Evola a Guénon. Costoro non porteranno più argomenti. La Tradizione di Evola ed il Kali Yuga indiano di Guénon non sono più argomenti. Una sommaria riflessione aiuterà il lettore a capire quello che voglio dire.
Tutte le tradizioni iniziano e si costituiscono progressivamente nel tempo storico, anche e soprattutto quando fingono di essere all’origine del tempo. L’origine è un mito irrazionalistico non difendibile con argomenti, mentre la tradizione è un robusto insieme di abitudini , costumi, leggi, ecc.. I pensatori tradizionalisti si trovano allora sempre di fronte ad un dilemma irrisolvibile. Da un lato brandiscono la tradizione contro i progetti rivoluzionari criticati (spesso giustamente) come astratti ed intellettualistici (tipica la critica di Burke alla rivoluzione francese). Dall’altro non sanno mai dove porre l’origine di questa tradizione, che quando nacque non era affatto “tradizionale”, ma anzi aveva già certamente rotto con qualcosa di precedente.
Da questa ambiguità non è possibile uscire senza riconoscerla come tale e senza farne oggetto di analisi genealogica. Ma è appunto questo che i pensatori “tradizionalisti” non possono e non vogliono fare.
Tutte le gerarchie rispondono sempre a problemi di riproduzione funzionale globale di una comunità e di una società. È certo possibile pensare una società perfettamente egualitaria, ma allora la sua riproduzione deve essere concepita come un “oggetto semplice”, alla portata di ognuno dei suoi possibili membri. Una comunità di raccoglitori, cacciatori e pescatori in effetti può essere pensata (e praticata) come comunità non gerarchica. La divisione sociale del lavoro (raddoppiata nel capitalismo da una successiva divisione tecnica del lavoro stesso) è il primo potente fattore genealogico della creazione di gerarchie. In origine esse sono funzionali, poi diventano strutturali e vengono “ricoperte” ideologicamente con teorie di tipo religioso e filosofico. Socrate e Protagora danno risposte opposte al tema del sapere politico che presiede alla riproduzione generale della società. Protagora sostiene che esso è alla portata di tutti i cittadini, e che non è dunque un sapere specialistico. Socrate (o almeno il Socrate filtrato da Platone) sostiene invece che il sapere politico non è di tutti, ma solo di pochi, e questi pochi debbono sottoporsi ad una specifica educazione (paideia) che poi Platone svilupperà nella sua nota Repubblica.
A mio avviso Protagora imposta correttamente la questione, ed è dunque lui ad avere ragione nell’essenziale, non Socrate. Ma Socrate ha ragione quando sostiene che solo una paideia politica può immunizzare la polis dalle tirannie, dalle oligarchie e dalle demagogie dispotiche. A più di duemila anni di distanza, possiamo attribuire a Protagora ed a Socrate un punteggio di parità, di cinquanta e cinquanta.

10. La diseguaglianza gerarchica di Platone è funzionale, ed è strutturata sulle tre funzioni dei governanti (i filosofi-re), dei custodi o guerrieri ed infine dei lavoratori. I pensatori disegualitari post-nicciani come Evola hanno difficoltà enormi a dare una fondazione razionalistica alla diseguaglianza, e per questo devono inventarsi una tradizione largamente arbitraria. Tuttavia, il loro interesse non sta tanto negli argomenti contro il socialismo ed il comunismo (che devono spesso ricalcare gli argomenti del liberalismo e del liberismo disegualitari), quanto nella tesi per cui lo stesso spirito del capitalismo e “egualitario”, in quanto deve egualizzare tutti livellandoli al solo parametro della merce e del denaro. Il denaro, infatti, dà vita ad una società fortemente inegualitaria, ma di per sé è un principio egualizzante e livellante. Ed infatti l’americanismo odierno, e cioè la religione imperiale americana attuale, compendia il massimo di diseguaglianza sociale e di eguagliamento livellatore nel solo parametro del denaro.
Questo la cosiddetta cultura di destra lo ha spesso capito più della tradizionale cultura di sinistra. Perché avere paura ad ammetterlo? Tuttavia, il problema principale non sta ancora qui.

11. Il problema principale, infatti, sta nella questione della Tecnica, e nel corretto modo di comprenderla. Qui sta il terreno comune in cui le tradizioni di destra e di sinistra sono costrette a incontrarsi. Il tema della tecnica, come del resto quello della morte e della felicità, non conosce ridicole appartenenze identitarie di “destra” e di “sinistra”.
Vi è un curioso libro di Michela Nacci che mescola correttamente assieme tutti i critici della tecnica capitalistica, dalla sinistra (Bloch, Benjamin, Marcuse) alla destra (Guénon, Evola, ecc.). La Nacci è probabilmente mossa da uno spirito modernizzante e favorevole alla tecnica moderna, e perciò ritiene di poter screditare e ridicolizzare il pensiero critico mostrando che in esso confluiscono tutti gli estremisti di destra e di sinistra. Il risultato che la Nacci ottiene è a mio avviso assolutamente opposto. Essa di fatto dimostra che questo terreno comune di critica, se è legittimo (la Nacci pensa probabilmente che non lo sia, ma io invece penso che lo sia, eccome!), fa saltare le differenziazioni identitarie ed i parametri idealtipici che vengono messi come (artificiali) barriere fra i due poli (Progresso/Conservazione, ecc.). Volendo mettere alla berlina una problematica, la Nacci ottiene appunto il risultato opposto, quella di legittimarla integralmente.

12. Cercherò di impostare qui nei suoi termini più elementari il problema filosofico della cosiddetta Tecnica. Come è noto, con questo termine non si intende la semplice applicazione tecnologica delle scoperte scientifiche, e neppure l’insieme merceologico degli strumenti inventati a partire dal Seicento in poi. Con questo termine si intende connotare un gigantesco apparato anonimo e impersonale, che si ritiene (a torto o a ragione, vedremo poi) sia sfuggito dal controllo delle intenzioni applicative dei suoi stessi creatori. Come Frankenstein, la Tecnica è sinonimo di Fuori Controllo. I filosofi professionali cercano di complicare inverosimilmente le cose, come fanno peraltro tutti i tecnici. Ma la questione è accessibile al senso comune di chi non è ancora del tutto rincoglionito. La Tecnica è come una bicicletta che prende velocità in una discesa, i cui freni esistono ma sono debolissimi, per cui le ganasce riescono ancora a stringere leggermente i tubolari quando si è in rettilineo, ma il terrorizzato ciclista non sa che cosa capiterà alla prima curva.
Questo è il problema della Tecnica. A questo punto, usando il linguaggio del medico Ippocrate, vediamo quale sia prima la diagnosi, poi la prognosi ed infine la terapia.
Si è visto come la diagnosi (Tecnica = Fuori controllo) sia comune ai pensatori di destra, di centro e di sinistra. E questo non è un caso, perché l’intelligenza è ben distribuita fra la gente, così come a suo tempo correttamente sostenne il greco Protagora. Vi sono ovviamente anche diagnosi diverse, ma a mio avviso tutte inferiori. Una prima diagnosi afferma che certamente lo sviluppo tecnologico comporta possibili pericoli, ma questi pericoli verranno fronteggiati dallo sviluppo tecnologico stesso. Si tratta di una “scommessa” al cui confronto quella di Pascal fa la sua bella figura. Una seconda diagnosi afferma che il mondo moderno non è metafisicamente caratterizzato dalla Tecnica, ma è sociologicamente contraddistinto dalla polarità oppositiva fra Borghesia e Proletariato, di cui un termine è il male e l’altro è il bene. Questa polarità, a cui viene ridotto dai superficiali l’intero marxismo, è però infinitamente più astratta della Tecnica stessa, anche se a prima vista sembra più concreta, perché è possibile quantificare i due gruppi, mettendo da una parte tutti i salariati del mondo (rigidi, flessibili, precari, ben pagati, mal pagati, specializzati e non, ecc.) e dall’altra tutti i cosiddetti proprietari privati dei mezzi di produzione. Gli uni sarebbero i proletari, gli altri sarebbero i borghesi. Chi non si è ancora reso conto che questo criterio dicotomico è come una rete dalle magli larghe che non riesce a prendere i pesci è a mio avviso al di là di ogni pacata argomentazione razionale, e soprattutto al di là di ogni bilancio storico sensato dei secoli Ottocento e Novecento.
La diagnosi tecnica è allora di fatto la meno peggio sul mercato, perché individua almeno il Fatto del Fuori Controllo (FFC), laddove il progressismo tecnologico e la riproposizione dell’eterno teatro Borghesi Contro Proletari (BCP) scorrono molto più a lato degli avvenimenti reali.
Alla diagnosi tecnica, una volta che la si sia capita bene e non la si sia frettolosamente rimossa (esemplare in questa rimozione il defunto Lucio Colletti), si possono fare diverse prognosi. La prognosi di Heidegger, per cui di fronte all’esito tecnico della lunga storia della metafisica occidentale (più esattamente, della consumazione della lunga storia della metafisica occidentale in tecnica planetaria, oggi diremmo “globalizzata”) solo un dio ormai potrebbe ancora salvarci, non è affatto una prognosi infausta come sembrerebbe. Il termine sapienzale “solo un dio può ancora salvarci” può infatti essere tradotto in linguaggio filosofico razionalistico in questo modo: “solo un radicale riorientamento gestaltico, che può avvenire solo sulla base di esperienze globali e non di argomentazioni colloquiali, può indurci a cambiare strada”. Come si vede, una possibilità all’umanità Heidegger la dà ancora.
Anche la diagnosi di Günther Anders lascia una piccola speranza. Anders ritiene infatti che l’antiquatezza umana e lo scarto rispetto alla tecnica sia una risorsa e non un difetto, per cui dovrebbe essere assunta e rivendicata come qualcosa di positivo e non essere oggetto di vergogna come un ritardo o una inadeguatezza. In estrema sintesi, sia la diagnosi di Heidegger sia quella di Anders convergono nell’“orientamento gestaltico”, e lasciano dunque un minimo di speranza.
Le prognosi che lasciano ancora un minimo di speranza implicano sempre una possibile terapia. La terapia, tuttavia, non potrà venire mai dai “tranquillizzatori professionali”, che apparentemente assumono l’orizzonte della diagnosi di Heidegger (quella di Anders non la assume fino ad ora quasi nessuno, perché non è abbastanza “politicamente corretta” per i tartufi futuristi di sinistra), per poi darne subito una versione tranquillizzante. Dio è morto, Marx è morto, ma ci si può sentire bene lo stesso con un buon reddito di professore universitario ed una sufficiente assicurazione medica. Fra questi heideggeriani tranquillizzanti e tranquillizzatori, in Italia, mi piace citare Gianni Vattimo ed Umberto Galimberti. La tecnica è indubbiamente inquietante, misteriosa e terribile, ma noi possiamo salvarci all’ombra dell’Inserto Donna di Repubblica e della chiacchiera del ceto medio acculturato (Umberto Galimberti) oppure all’ombra della civile conversazione di scettici liberali che si sono lasciati alle spalle ogni concezione veritativa del dialogo filosofico (Gianni Vattimo).

13. Chiudiamo su questo punto. Evola e Guénon non ci aiutano ad affrontare il problema (heideggeriano e andersiano) della Tecnica, perché fuggono indietro verso una mitica (ed in realtà inesistente) Tradizione, e perché la fede nel ciclo indiano del tempo è solo una curiosità esotica per salotti di illuminati con un buon conto in banca. Neppure il marxismo sociologistico ed economicistico, ovviamente, ci può aiutare. Ma da questo ne deriva che ci vuole proprio un nuovo pensiero. Anzi, un Nuovo Pensiero.

14. Se si pone il problema di un Nuovo Pensiero, è bene interrogare Alain de Benoist, che da decenni si impegna in questa direzione. Io ho molta stima per de Benoist, e sento nei suoi confronti anche una grande amicizia personale. So bene che in Italia delle Sentinelle dell’Antifascismo Eterno (SAE), come Guigo Caldiron e Francesco Germinario, lo hanno individuato come una sorta di demone dell’infiltrazione nel campo sacro della sinistra. Alcune cose che dicono Caldiron e Germinario sono certo degne di attenzione, ma nell’essenziale questa strategia di demonizzazione mi sembra ridicola, e si comporta come il cattivo cacciatore inesperto della doppietta, che anziché sparare sulla selvaggina spara sulle oche del contadino.
Chi è il cinico baffetto che nel 1999 ha legittimato in Italia una guerra illegale e criminale al di fuori dell’ONU?
Forse de Benoist? Ma neppure per sogno. È stato il pulcino togliattiano nichilista Massimo D’Alema. Chi ha sempre urlato in vario modo per i bombardamenti contro governi inermi? È stato forse de Benoist? No, è stata la variopinta feccia sessantottina internazionale, da André Glücksmann a Wolf Biermann, da Adriano Sofri ad Enrico Deaglio. Se Caldiron e Germinario prestassero un attimo attenzione a questa “anomalia”, anziché censurarla (opportunismo o distrazione? non lo so), porterebbero certamente un sano contributo all’individuazione del profilo di quella che è oggi (e non ieri) la Nuova Destra.
Ma non lo faranno mai. Tuttavia, non per questo de Benoist (che pure vale mille volte di più di questa feccia) ha ragione. Anzi, in molte cose ritengo che abbia torto. Qui, per brevità, mi limiterò soltanto a due punti principali.

15. Alain de Benoist vuole contrapporsi fortemente al pensiero unico imperiale di oggi. In effetti riesce a farlo. Ad esempio, individua correttamente il “nemico principale” di qualsiasi identità non solo europea ma genericamente umana. Questo nemico principale, ovviamente, non è l’Islam, la Cina o il neocomunismo (peraltro in stato comatoso), ma è l’americanismo. Non certo il popolo americano, la cultura americana, il romanzo americano, i bambini, le donne e gli uomini americani, ma l’americanismo, cioè l’ideologia imperiale della missione speciale e del destino manifesto, un’ideologia di tipo paranazista (il termine “nazista” è di Noam Chomsky, in “La Stampa”, 14.3.2003), un impasto culturale nutrito di protestantesimo fondamentalista e di sionismo espansionista e razzista.
Questo de Benoist lo capisce, mentre la feccia sessantottina si è arruolata nei corpi speciali dell’impero americano, di cui teorizza anche il carattere provvidenziale, come dei Polibio strafatti. Ma vi sono due punti su cui è necessario richiamare l’attenzione.

16. La prima questione è quella della cosiddetta comparabilità fra comunismo e nazismo, e cioè fra Hitler e Stalin, visti come i due grandi despoti mostruosi e “metastorici” del Novecento. Ho usato l’espressione “metastorici” perché la strategia culturale fondamentale dell’impero mondiale americano è la destoricizzazione e la conseguente demonizzazione destoricizzata e destoricizzante. L’impero americano si è dato una autolegittimazione religiosa (la Missione Speciale, il Destino Manifesto, l’Esportazione della Libertà, ecc.), una autolegittimazione che si sottrae volutamente a qualunque fondamento razionale e dialogico. Hitler e Stalin diventano così personaggi metastorici, incarnazione empirica di forze diaboliche e malefiche. Se però si scava con attenzione sotto a questo processo di destoricizzazione demonizzante, si finirà con l’individuare il nucleo non tanto e non solo ne comunismo e nel nazismo, ma nella pretesa della politica di determinare l’economia attraverso l’ideologia e la mobilitazione ideologica delle masse.
Il lettore non deve ovviamente fraintendermi, ma comprendere bene quanto sta leggendo. Chi scrive è un critico inesorabile sia di Hitler che di Stalin, non apprezza nessuna strategia di giustificazione per quanto indiretta e contorta, e sostiene un punto di vista di condanna inappellabile, sia pure ovviamente differenziata. Ma la condanna deve venire dopo un procedimento storiografico razionale, non dopo una sorta di demonizzazione metastorica e parareligiosa. Questa demonizzazione è invece un ingrediente del “pensiero unico” dell’impero americano, che è oggi l’avversario principale dei popoli del mondo.
Alain de Benoist non sembra pensarla così. Una sua opera recente (che segnalerò nella nota bibliografica in fondo a questo testo) è dedicata proprio alla legittimazione della comparabilità fra nazismo e comunismo.
Questo richiede un breve commento.

17. Vediamo prima i grandi argomenti di chi nega ogni comparabilità e si indigna se questo paragone viene fatto. Un primo argomento afferma che quanto ha fatto Hitler, e cioè Auschwitz e lo sterminio degli ebrei, è un unicum della storia che non può essere paragonato a nient’altro, e che dunque ogni comparazione finirebbe con il far perdere di vista questa unicità. Un secondo argomento sostiene che Stalin era mosso da una ideologia universalista, sia pure fraintesa e deviata, mentre Hitler era invece programmaticamente portatore di un programma razzista e particolarista. Vi sono molti altri argomenti, ma a mio avviso tutti girano intorno a questi due.
Entrambi gli argomenti sono abbastanza deboli. Auschwitz è certamente un unicum nelle modalità concrete ed irripetibili con cui è stato perseguito, e bisogna tenersi lontani dai negazionisti che si arrampicano sugli specchi per oscurare un insieme di eventi svoltisi fra il 1933 al 1945 che sono invece ormai abbastanza noti ed anche ricostruibili con esattezza. Il fatto che il sionismo utilizzi l’Olocausto ebraico (che è veramente avvenuto) per legittimare il suo progetto di genocidio del popolo palestinese è certamente sgradevole, ma non cambia di un grammo la realtà, e cioè che il genocidio degli ebrei è veramente avvenuto, ed Hitler ed i suoi alleati lo hanno consapevolmente perseguito. Ma Auschwitz non è un unicum metafisico e sovrastorico. Hiroshima è stata altrettanto sporca di Auschwitz, e finché non si avrà il coraggio di dirlo (coraggio che oggi manca in tutto il popolo di sinistra politicamente corretto del mondo) gli USA avranno sempre il passaporto simbolico per i loro bombardamenti imperiali assassini. Il genocidio degli ebrei è orribile, ingiustificabile ed imperdonabile, ma lo sono stati anche altri genocidi, dagli Armeni nel 1915 ai tutsi ruandesi nel 1994, fino ad altri che sono avvenuti e che avverranno.
In quanto al fatto che Stalin ha fatto stermini legittimati in modo universalistico mentre Hitler li ha fatti in nome di una legittimazione razzista e particolarista non si può dire che sia un argomento forte. Il torturato cui vengono strappate le dita dei piedi non fa distinzioni se le tenaglie vengono usate dagli inquisitori cattolici, che agiscono in nome dell’idea universalistica della vera religione correttamente interpretata, oppure da una banda di saccheggiatori che vogliono sapere dove nasconde i soldi ed i gioielli. In entrambi i casi, il sangue gli colerà dai piedi martoriati.
Il motivo per cui deve essere fortemente sconsigliata ogni strategia retorica ed argomentativa di comparazione fra stalinismo e nazismo e un altro, e deve essere correttamente inquadrato. Semplicemente, i termini minimi di paragone storico devono essere sempre tre, e solo tre, ed ogni limitazione a due è sempre una trappola apologetica. I tre termini sono allora il nazismo, lo stalinismo ed il capitalismo imperialistico detto erroneamente liberaldemocratico (laddove non è invece né liberale né democratico). Tutti e tre questi soggetti storici hanno fatto massacri imperdonabili, non solo uno o due di loro. In caso contrario si crede di opporsi all’ideologia imperiale, mentre se ne accetta proprio il presupposto massimo e principalissimo.
Alain de Benoist capisce questo? Sarebbe bene chiederglielo con chiarezza per saperlo.

18.Vi è però una seconda questione, a mio avviso ancora più importante , che è quella dell’universalismo. Alain de Benoist ne contesta il principio alla radice, mentre a mio avviso questa strategia culturale è cattiva, perché l’universalismo resta un concetto buono e positivo. Cercherò sommariamente di spiegarmi.
Da un punto di vista strettamente filosofico, la critica di de Benoist all’universalismo ha due fonti principali. In primo luogo, deriva dalla sua esplicita preferenza per il politeismo greco rispetto al monoteismo cristiano, che è effettivamente basato su di un universalismo monistico (Uno=Dio=Bene), che ha trovato la sua prima sistematizzazione teorica nel neoplatonismo cristiano, ebraico e musulmano (anche se curiosamente la genesi storica del neoplatonismo è legata ad una trascrizione filosofica del politeismo greco classico). In secondo luogo, deriva dalla critica differenzialistica alla dialettica ed alle su pretese “uniformatrici” e normalizzatrici,una critica che è rivolta sostanzialmente prima contro Hegel e poi contro Marx. Se uniamo i due tipi di critica (politeistica e differenzialistica) ne deriva che in de Benoist non c’è una teoria della verità. Senza teoria della verità si imbocca necessariamente una forma di relativismo, più esattamente una forma di relativismo nicciano, per cui viene chiamata “verità” l’insieme dei flussi energetici della volontà di potenza.
In de Benoist l’universalismo è di fatto interpretato come la copertura filosofica di un processo di uniformità (più esattamente, di uniformizzazione) conformistica da parte del potere imperiale capitalistico moderno. Una forma particolarmente ipocrita ed odiosa di questo presunto universalismo è il cosiddetto “imperialismo dei diritti umani”, in cui il diritto internazionale risalente a Westfalia 1648 viene distrutto ed al suo posto si instaura una sorta di “diritto superiore” ad abbattere i cosiddetti “dittatori” (Milosevic, Saddam, ecc.), diritto imposto non da un “terzo giudicante”, ma dalla parte coinvolta accidentalmente più forte sul piano militare.
Il 20 marzo 2003 gli assassini americani hanno ancora una volta fatto uso di questo arbitrio unilaterale contro un paese membro della comunità internazionale. Si noti che Westfalia 1648 veniva dopo un secolo e mezzo di guerre “ideologiche”, in cui cattolici e protestanti non riconoscevano un principio arbitrale superiore, ma si riservavano il diritto unilaterale di connotare l’altro come il Male e di connotare se stessi come il Bene. È evidente che di fronte agli assassini superarmati del 20 marzo 2003, che reinstaurano il principio ideologico unilaterale antecedente al 1648, de Benoist e quelli come lui sono cari amici ed alleati culturali. Ma non per questo è opportuno accettare la loro linea filosofica.

19. Di fronte al falso universalismo dell’impero americano superarmato, a mio avviso, la linea culturalmente giusta non sta nel sostenere un politeismo relativistico e differenzialistico-originario, ma sta nell’opporre a questo falso universalismo un altro universalismo alternativo migliore. Farò qui un esempio intenzionalmente semplice e forse “minore”, ma anche largamente comprensibile.
Prendiamo l’istituto del matrimonio. Noi siamo abituati in Occidente a considerare il matrimonio come valido solo se si basa sulla libera scelta dei coniugi e sul loro “amore” (comunque lo si voglia poi definire e determinare), e pertanto a condannare ogni forma di matrimonio combinato dalle famiglie, ecc.. Ebbene, questo tipo di matrimonio è in realtà nel mondo una vera eccezione, perché prevalgono (e prevalgono ancora, e non sono affatto in sparizione) forme di matrimonio combinate variamente dalla famiglia vera e propria o dalla famiglia clanica allargata.
Nell’ottica di de Benoist non esisterebbero argomenti per poter sostenere che il matrimonio “occidentale” è migliore di quello di altri contesti culturali, che avrebbero un diritto assoluto alla propria originarietà. Il massimo che si dovrebbe perseguire è una forma di “pluralismo tollerante”, che lascia convivere forme di vita diverse, come il sistema delle millyet (nazionalità linguistiche e/o religiose) del vecchio impero ottomano.
Il sistema delle millyet, che lascia convivere in modo relativamente pacifico ebrei, armeni e greci cristiani, arabi e turchi musulmani, ecc., era certo più civile e meno barbarico del razzismo sionista e di ogni altro tipo di fondamentalismo esclusivista, ma era pur sempre un espediente politico per gestire la convivenza non distruttiva fra comunità differenti, e lasciava aperto il problema filosofico dell’universalismo.

19. Si dice oggi che il mondo è “globale”, o in via di globalizzazione. Questa formulazione non è esatta, perché nasconde il feroce imperialismo americano, nemico ed assassino di tutti i popoli del mondo, ma è possibile utilizzare provvisoriamente perfino questa formulazione inesatta. In realtà, si è di fronte ad una sorta di simultanea pluralità di piani, di non-contemporaneità nel senso di Ernst Bloch, per cui il problema dell’argomentazione dialogica, pacifica e razionale, con cui si affrontano forme di vita diverse (ed ho fatto prima l’esempio del matrimonio libero e del matrimonio combinato) si pone comunque. Allora, credo che occorra cambiare la parola d’ordine filosofica di Alain de Benoist, che contro il falso universalismo imperiale americano sostiene il diritto radicale alla differenza comunitaria. A mio avviso occorre dire di sì senza alcun dubbio al diritto all’indipendenza nazionale ed alle costituzioni comunitarie, ma anche dire di sì ad un possibile nuovo terreno di dibattito universalistico, che è anche legato ad una concezione della conoscenza filosofica che le riconosce un carattere veritativo e non solo un insufficiente carattere di integrazione epistemologica e/o ideologica.

20. Passiamo ora al terzo ed ultimo punto di questa rassegna, e cioè ad alcune riflessioni sul marxismo contemporaneo. Per comprendere queste riflessioni, bisogna che il lettore accetti l’ipotesi per cui la guerra unilaterale ed assassina degli USA del 20 marzo 2003 chiude idealmente un periodo storico aperto nel maggio 1945 con la sconfitta definitiva ed irreversibile del nazifascismo europeo. Quanto dico qui infatti può sembrare strano ed eccessivo. Non lo credo. Si tratta solo di cominciare a tirare alcune conseguenze dell’apertura di un nuovo periodo storico.
Le resistenze inerziali ad accettare un cambio di mentalità saranno enormi, e non mi faccio assolutamente nessuna illusione sulla possibilità di fare passare questo cambio di mentalità a breve termine. Ma bisognerà pure cominciare. E se non ora, quando?

21. Il primo problema riguarda il lato politico-fattuale della questione, e cioè il problema del comunismo storico novecentesco (1917-1991). Dicendo “comunismo storico novecentesco” intendo connotare un fenomeno da tenere accuratamente distinto dal comunismo marxiano, o comunismo di Marx. A mio avviso, non bisogna neppure accettare il terreno comune di dialogo con chi intende “dedurre” da Marx il comunismo storico novecentesco, e questo non per scortesia o settarismo, ma perché sarebbe una pura perdita di tempo.
Il comunismo storico novecentesco inizia con la rivoluzione russa del 1917, e prima semplicemente non esisteva. A suo tempo Antonio Gramsci connotò con grande precisione la rivoluzione russa del 1917 come una “rivoluzione contro il Capitale” (di Marx), e non c’è proprio niente da aggiungervi. A mio avviso la rivoluzione russa del 1917 fu legittima ed ampiamente giustificata, ma non per ragioni scolastiche “marxiste”, quanto come risposta dei popoli alla “guerra civile europea” del 1914, che è primaria. Nolte sbaglia a far cominciare la guerra civile europea nel 1917. Essa cominciò nel 1914. Il problema teorico fondamentale del comunismo storico novecentesco sta nella sua dissoluzione entropica, frutto di una debolezza strategica di cui occorre comprendere bene le radici profonde. In proposito, mi limiterò a tre ordini di considerazioni.
In primo luogo, a mio avviso la ragione di fondo della debolezza storica del comunismo storico novecentesco sta in due analisi errate, che risalgono entrambe a Marx e che non furono corrette in tempo. La mancata correzione, assolutamente possibile e fisiologica, sta nel fatto che il livello scientifico fu sovradeterminato da quello ideologico, e che la sinergia fra capetti e base fanatica fu più forte dell’analisi oggettiva. Primo, non è vero che il capitalismo ad un certo punto è incapace di sviluppare le forze produttive. In realtà le sviluppa, eccome, anche se le sviluppa in modo distorto ed ecologicamente disastroso. L’errore nasce probabilmente da una scorretta analogia storica fra il capitalismo, da un lato, e lo schiavismo ed il feudalesimo, dall’altro, che a suo tempo furono veramente incapaci di sviluppare le forze produttive. È questo un tipico caso di errore fatto per “incantesimo della (falsa) analogia”. Secondo, non è affatto vero che la classe proletaria ed operaio-salariata di fabbrica sia una classe rivoluzionaria in senso storico e strutturale (in linguaggio marxiano “intermodale”). L’errore nasce probabilmente dall’averla prima confusa con il lavoratore collettivo cooperativo associato e con il general intellect, e poi dall’aver pensato che fosse l’avanguardia storica di tutti gli oppressi e gli sfruttati del mondo.
In secondo luogo, molti pensano (in particolare nei gruppetti eretici del marxismo di tipo trotzkista) che l’esplosione tragicomica e vergognosa del comunismo storico novecentesco sia dovuta al “tradimento della burocrazia”. A mio avviso, non è così, e si tratta di una confusione fra una conseguenza ed una causa. Il grottesco “tradimento” delle burocrazie comuniste (simbolicamente coronato dall’icona del cialtrone Gorbaciov che pubblicizza la pizza Hut) non è la causa, ma la conseguenza di un fenomeno strutturale sottostante, che resta la tragicomica incapacità rivoluzionaria (nel senso della lunga durata storica, non nel senso di insurrezioni sporadiche o di scioperi duri) della classe operaia e proletaria.
In terzo luogo, per concludere, penso che il filosofo italiano Augusto del Noce abbia colto (a mio avviso senza volerlo e senza neppure accorgersene) il punto essenziale della questione, sottolineando la strutturale incapacità dello storicismo e del progressismo “marxista” a resistere all’adesione alla cosiddetta “società radicale” della modernizzazione capitalistica. Si è trattato di una assimilazione progressiva largamente inconsapevole. Il marxismo ha contratto a partire dal 1945 un matrimonio con il cosiddetto “antifascismo” (e proprio nell’anno in cui ne venivano meno le ragioni storiche, prima di questa data invece a mio avviso pienamente giuste e legittime), ed a partire dal 1958 circa (almeno in Italia) con il cosiddetto progressismo modernizzatore. Lo ha fatto perché la ristretta base operaistica era effettivamente insufficiente ed indifendibile, ma sta di fatto che questo doppio matrimonio ha finito con l’ucciderlo. Ed infatti la guerra imperiale degli assassini americani e sionisti iniziata il 20 marzo 2003 contro l’eroico popolo fratello dell’Irak viene fatta in nome della modernizzazione (modernizzare l’Irak) e dell’antifascismo (contro il tiranno fascista Saddam).
Io non credo che Augusto del Noce avesse capito la profondità della sua stessa scoperta. Egli restava un democristiano di destra, ed infatti i suoi allievi (Buttiglione, ecc.) sono oggi dei politicanti di mestiere berlusconiani. Come Cristoforo Colombo, del Noce scopre una vera e propria America (ideologica) senza neppure accorgersene. Ma sta di fatto che anche se le sue caravelle si sono incagliate nelle coste rocciose del continente da lui scoperto, egli lo ha scoperto, e non bisogna perdere nessuna occasione per dirlo.

22. Il secondo problema riguarda invece il lato teorico e filosofico della questione, e cioè il marxismo. Il marxismo è oggi in stato comatoso, e questo non a causa dei conflitti fra le diverse “scuole” in cui è diviso (stalinisti, maoisti, togliattiani, bordighiani, trotzkisti, ecc.), ma per una ragione molto più strutturale e profonda, e cioè perché sta crollando davanti agli occhi di tutti il modello economicista originario edificato da Engels e da Kautsky fra il 1875 e il 1895, e ami più da allora veramente modificato e mutato. Questo modello economicista, incentrato sul primato tolemaico della cosiddetta teoria del valore, che a sua volta vorrebbe “scientificamente” fondare la rivoluzionarietà strutturale “in sé” della classe operaia e salariata di fabbrica / e la cui prova teologica massima è la trasformabilità matematicamente garantita dei valori in prezzi di produzione), dura da più di un secolo, e finché non verrà abbandonato a mio avviso non esiste possibilità alcuna di riforma del marxismo. Irrigidito in questa forma irriformabile, il marxismo sarà sempre condannato ad essere un modello rigido e deduttivo, in cui appunto si pretende di “dedurre” tutte le catene storiche diversificate di eventi interconnessi da un modello semplice di trasformazione dei valori in prezzi di produzione, da cui cade sempre “a cascata” una concezione della crisi economica capitalistica di tipo deterministico.
Questo marxismo, il cui paradigma risale al ventennio 1875-1895, è di fatto irriformabile. Ogni correzione che si limiti a qualche aspetto assomiglia alle teorie astronomiche degli epicicli che cercavano di “salvare” il modello geocentrico. Tuttavia, il punto principale non è neppure questo. Recentemente lo studioso Ermanno Bencivenga ha messo il dito nella piaga del difetto “strutturale” di ogni paradigma marxista, e cioè la tendenza a decretare la “fine della storia” dipingendo un punto finale del tempo in cui il marxismo (ovviamente il “vero” marxismo, non quelli falsi e diabolici) dovrebbe definitivamente realizzarsi, confluendo in un comunismo finale e definitivo che sarebbe anche la morte della politica. La politica, infatti, è per sua natura apertura la futuro ed alla sua infinita trasformazione, e non potrebbe ragionevolmente estinguersi in un perfetto punto finale in cui ciascuno darebbe secondo le sue possibilità e riceverebbe secondo i suoi bisogni. Questo ovviamente potrebbe sempre essere, in linguaggio kantiano, un ideale della ragion pura pratica, ma in ogni caso non una situazione storica terminale e perfetta che “esaurisse” il tempo della storia umana.

23. Con queste sommarie considerazioni, posso veramente chiudere, ricordando ancora una volta al lettore che questo breve saggio deve essere letto come la terza e ultima parte di un insieme unitario pubblicato in tre numeri successivi della rivista “Comunitarismo”.
Ciò che conta, invece, è capire come la guerra americana contro l’Irak iniziata il 20 marzo 2003 chiude un intero periodo storico e ne apre un altro per molti aspetti ancora inedito e inesplorato. Chiude il periodo aperto con i trattati di Westfalia del 1648, in cui lo jus publicum europaeun non prevedeva guerre ideologiche (nel linguaggio del tempo “religiose”), e questa esclusione delle guerre ideologiche (ed il modello americano di esportazione della democrazia è appunto una guerra ideologico-messianica) fa nascere il diritto internazionale moderno. Chiude il periodo aperto il 1795 con la Pace perpetua di Kant, in cui viene per la prima volta prefigurata con chiarezza un’organizzazione delle nazioni unite in cui ci sia un giudice “terzo” fra i contendenti che esamini oggettivamente le rispettive ragioni ed i rispettivi torti. Chiude il periodo del contrasto ideale fra fascismo ed antifascismo, perché ormai il cattivo è simbolicamente “hitlerizzato” (Milosevic-Hitler, Saddam-Hitler, ecc.), e questa hitlerizzazione destoricizza strutturalmente ogni evento politico determinato ripristinando un conflitto metafisico-religioso fra Bene e Male (o meglio fra cosiddetto bene e cosiddetto male), in modo che il vecchio apparato ideologico e simbolico dell’antifascismo “progressista” e “di sinistra” è integralmente messo al servizio della copertura ideologica dell’impero americano. Chiude persino il periodo del contrasto ideale fra comunismo ed anticomunismo, per il fatto che il comunismo storico novecentesco si è autodissolto, producendo mutanti antropologicamente mai visti nella storia mondiale, come i comunisti irakeni che sono a fianco degli americani contro il loro stesso popolo, Gorbaciov che pubblicizza con aria ebete la pizza Hut, d’Alema che sostiene ghignando che la guerra assassina del Kosovo del 1999 non era una vera guerra, e dunque non aveva neppure bisogno del permesso dell’ONU, perché era una semplice operazione di polizia della NATO (raramente ho visto un caso così sfacciato in cui si cerca di cambiare la realtà con una semplice manipolazione semantica, come se un omicidio venisse ribattezzato “anticipata sospensione della vita, che tanto finirebbe presto lo stesso”).
Queste chiusure di periodo storico, ed altre simili, non sono ancora percepite non solo a livello di massa, ma neppure a livello intellettuale e saggistico (che anzi è generalmente più indietro dello stesso senso comune di massa, a causa della particolare vischiosità, presunzione e supponenza del ceto intellettuale, cui mi onoro di non appartenere). In particolare, è venuta meno la dicotomia Destra/Sinistra, oggi artificialmente tenuta in vita come protesi per la riproduzione manipolata del sistema politico occidentale europeo. Di questa dicotomia si può dire in estrema sintesi che essa è ad un tempo esaurita e fallita. Posso allora chiudere chiarendo che cosa significa esattamente prima l’esaurimento e poi il fallimento.
Esaurimento significa che questa dicotomia, storicamente sorta per la prima volta nel 1791 in Francia (dal modo in cui si disponevano i deputati dall’assemblea legislativa nell’anfiteatro), sviluppatasi fortemente nel biennio 1848-49, consolidatasi alla fine dell’Ottocento (caso Dreyfus in Francia, socialdemocrazia tedesca, ecc.), e poi infine dominante per quasi tutto il Novecento, dove si è storicamente intrecciata con il conflitto fra comunismo ed anticomunismo, ha cominciato a declinare con la terza rivoluzione industriale (dal 1973 in poi) ed è infine precipitata a partire dal 1991, in cui è cominciato ad apparire chiaro che oggi il conflitto fondamentale non è più fra Destra e Sinistra, ma è fra chi è disposto ad appoggiare e ad accettare l’impero americano unilaterale e potentemente armato e chi invece in varie forme non è disposto ad accettarlo. Chi allora pensa che Blair è di sinistra e Chirac è di destra ragiona come quegli astronomi tolemaici che si ostinavano a difendere un modello cosmologico inesistente. Io credo, e sono assolutamente sicuro che verrà, che prima o poi un nuovo Galileo Galilei delle scienze sociali si manifesterà, e sono lieto di pormi e di autopercepirmi come uno dei suoi (già numerosissimi) annunciatori.
Oltre l’esaurimento però c’è anche il fallimento. E che cosa vuol dire esattamente fallimento? Per fallimento intendo due cose distinte, e cioè due distinti fallimenti della destra e della sinistra. Esaminiamoli separatamente, e poi chiudiamo.
Il fallimento della destra a mio avviso sta nel perseguimento di una società gerarchica e disegualitaria che rifiuta la democrazia vista come regno del disordine plebeo frutto di invidia e risentimento. Nella sua forma più pura questo modello rifiuta sia il capitalismo che il comunismo, il capitalismo perché livella attraverso il denaro (l’equivalente generale ed astratto, puramente quantitativo e senza qualità) ed il comunismo perché livella attraverso la politica (luogo dell’affermazione sociale di capetti burocratizzati rappresentanti di masse invidiose e nemiche di ogni merito individuale). All’atto pratico, però, questo modello di “terza via” non è mai stato applicato perché era strutturalmente inapplicabile, in quanto il semplice rifiuto del binomio denaro-politica (capitalismo e/o comunismo) dà luogo soltanto ad una astratta pars destruens, in quanto ogni pars costruens dovrebbe contrapporre un criterio alternativo credibile. Ma questo modello alternativo credibile non esiste, ed infatti non resiste a nessuna critica filosofica razionale e dialogica (che è il centro della tradizione occidentale greca). Non è un criterio ovviamente la razza (che semplicemente non esiste scientificamente), non lo è la tradizione (che non esiste, in quanto non vi sono che differenti tradizioni confliggenti storicamente sedimentate dalla lunga durata), non lo è l’onore guerriero (abolito dalle nuove armi anonime ed ipertecnologiche di distruzione di massa del tipo Hiroshima), ecc. ecc..
Da questo vicolo cieco in cui si è cacciata da più di un secolo, la destra può uscire con onore soltanto aderendo e promuovendo una concezione democratica del comunitarismo. Mi sembra la via di uscita più semplice, onesta e razionale. Ed è infatti quella che le sue componenti più intelligenti stanno percorrendo. Ma questa via, appunto, non è una via di “nuova destra”, ma è una via di superamento della dicotomia Sinistra/Destra. Chi si ostina a chiamare “neonazismo” questa onesta strada di uscita delle dicotomie insolubili della vecchia identità di destra, dimostratasi bloccata ed impercorribile, è un cialtrone che dovrebbe pulirsi la bocca, perché continua per inerzia ad insultare chi dovrebbe invece ringraziare. Personalmente, ho sempre preferito coloro che costruiscono ponti a coloro che distruggono i ponti. Coloro che costruiscono ponti devono essere ringraziati ed onorati, e chi gli sputa contro merita che il vento contrario gli ributti lo sputo sul suo viso svergognato.
Diversa è la fenomenologia del fallimento della sinistra. Ho già ricordato in un paragrafo precedente l’intelligente tesi di del Noce sul suicidio della modernità e sulla trasformazione dello storicismo in nichilismo. Non ha caso, ho scritto che del Noce scopre in questo modo le coste di un continente filosofico senza rendersi neppure conto dell’importanza della scoperta. Ora chiudo con alcune argomentazioni ulteriori su questo punto cruciale.
Il peccato originale della sinistra, esposto in estrema sintesi, sta nell’aver recepito l’eredità illuministica, che per sua natura era un’eredità dialettica (come Horkheimer e Adorno a suo tempo intuirono ma non seppero poi correttamente elaborare), in modo sfigurato ed unilaterale. Dall’Illuminismo la sinistra imparò che Dio non esiste, che bisogna essere laici, che bisogna disprezzare ed odiare la metafisica e tutta quella parte della filosofia che non è disposta a ridursi a epistemologia di servizio, ecc.. L’Illuminismo non è solo nichilismo, ovviamente, ma è anche razionalismo dialettico, ma questo la sinistra non lo ha imparato. Il razionalismo dialettico, infatti, consiste nell’accettazione e nella legittimazione dell’Altro, e cioè nel necessario interlocutore complementare. Ma la sinistra non ha mai legittimato nessun interlocutore, ed infatti per la sinistra la Destra non è mai stata un legittimo interlocutore complementare, e cioè la parte opposta di un Essere culturalmente unitario, ma un semplice Non-Essere, da annullare e da distruggere. In questo modo la sinistra si è identificata con il tutto e con l’universale, e questo le ha sempre impedito di relativizzarsi. In questo modo essa ha finito con il sostituire la sociologia alla filosofia, cioè il problema del soggetto sociale al problema della verità. In questo modo si è aperto un arco illusorio che va dal Quarto Stato di Pelizza da Volpedo alle Moltitudini Disubbidienti di Toni Negri.
La sociologizzazione della verità, ovviamente, è il cuore del nichilismo. È questo nichilismo che sta dietro al sorriso ebete di Gorbaciov che pubblicizza la pizza Hut, al concionare svergognato di Sofri di cui centinaia di persone sussurrano sfrontatamente essere stato il mandante del vile assassinio di Calabresi, senza neppure il coraggio di farlo personalmente delegandolo a due disperati come Marino e Bompressi (ma nessuno osa dirlo per non rompere l’allusivo silenzio mafioso della nuova classe dirigente giornalistica), ed infine al ghigno cinico con cui d’Alema rivendica le bombe assassine del 1999.
Dopo il 20 marzo 2003 alcune cose cominciano ad essere dette. Io so bene che è solo l’inizio. Una volta che il torrente si sarà messo in movimento sarà difficile fermarlo. Ma senza un lavacro di sincerità, veridicità e pulizia nulla potrà veramente essere messo in moto. Non resta che il principio della speranza.