Notizie dalla lotta di classe |
Maggio 2001 |
Unire quello che il capitalismo divide. |
Cinquanta feriti - di cui 29 ricoverati in ospedale - e novantadue persone fermate, e' il bilancio del primo maggio londinese iniziato con una manifestazione dei sindacati con biciclette e hamburger vegetariani, e finito a notte fonda con qualche vetrina rotta a Tottenham Court Road. I manifestanti erano 50.000, la metà di quelli attesi. Forse scoraggiati dal massiccio schieramento di forze dell'ordine: più di 6.000 poliziotti dopo che per l'occasione anche i permessi di riposo degli agenti della city erano sati annullati.
Scontri tra dimostranti e polizia hanno provocato cinque arresti e cinque feriti a Dyarbakir, la capitale del Kurdistan turco, dove le autorità avevano vietato le manifestazioni in occasione del primo maggio. Un centinaio di persone hanno chiesto di leggere un comunicato, ma la polizia ha fatto muro e disperso la folla a manganellate.
Scontri isolati in Autralia, durante una manifestazione a Sidney. I manifestanti, che si tenevano per mano, hanno cercato di circondare i palazzi della borsa, ma per sgombrare le strade è intervenuta la polizia: più di 30 gli arresti. A Melbourne i dimostranti hanno giocato a volleyball in strada per ostacolare il traffico e gettato vernice rossa sulle vetrine dei McDonalds.
Negli Stati uniti il primo maggio non è festa: la giornata del lavoro viene celebrata il primo lunedì di settembre. Ciò nonostante numerose manifestazioni si sono svolte in tutto il paese per sollecitare paghe migliori per i lavoratori e il rispetto dei diritti degli immigrati. In California la situazione si è surriscaldata: centinaia i feriti e decine gli arresti. La polizia ha usato pallottole di gomma contro la folla che ha risposto con lanci di martelli, sassi, tubi e bottiglie.
ATaipei oltre 15.000 dimostranti hanno manifestato contro il governo, chiedendo le dimissioni del premier e del ministro delle Finanze. La polizia ha impedito al corteo di raggiungere il palazzo presidenziale al centro della capitale di Taiwan.
Immancabile, a ogni incidente ferroviario, spunta la spiegazione aziendale: "si è trattato di un errore umano". Il deragliamento dell'intercity a Bordighera non è sfuggito alla regola. E mentre il macchinista del treno - rimasto ferito - solidarizza con il manovratore dello scambio "responsabile" dell'incidente ("non è colpa sua, è stato messo nelle condizioni di sbagliare"), i sindacati di base prendono posizione contro le ristrutturazioni delle Fs che hanno portato alla fuoriuscita di 120mila lavoratori e alla riduzione drastica di tutti gli standard di sicurezza sulla rete ferroviaria, che diminuiscono in modo inversamente proporzionale all'aumento dei carichi di lavoro e direttamente al numero degli addetti.
Diciotto ore di intensi negoziati non sono bastate a scongiurare lo sciopero di 24 ore della metropolitana di Londra. E non sono serviti neanche gli appelli del Trade Union Congress (Tuc, che raccoglie tutte le organizzazioni sindacali) che ieri pomeriggio (4 ore prima che la metro si fermasse) era intervenuto direttamente sul Rmt, il sindacato delle ferrovie, chiedendo ai suoi leader di annullare la protesta. Secondo il Tuc, infatti, la nuova protesta dei macchinisti potrebbe far saltare un altro accordo stipulato con i vertici della London Underground. La risposta del Rmt però è stata negativa: "Per diciotto ore abbiamo avuto una posizione conciliatoria e abbiamo cercato il compromesso con i leader di London Underground. Ogni sforzo è stato però inutile". E così, i treni della metropolitana della capitale si sono fermati per 24 ore. Quello iniziato ieri è il secondo sciopero totale proclamato dai sindacati che protestano contro i piani del governo di privatizzare parzialmente il servizio di underground. Secondo i lavoratori, privatizzazione equivale a mettere il profitto prima della sicurezza dei trasporti e potrebbe significare una drastica riduzione del personale. Il sindacato vuole che la gente sappia che i disagi attuali sono il prezzo da pagare per impedire che i piani di privatizzazione del governo vadano avanti: perchè altrimenti i disagi che il pubblico si troverà di fronte saranno decisamente maggiori di quelli creati dalla protesta. I vertici della metropolitana londinese hanno presentato il costo degli scioperi: il 29 marzo sono state perse almeno cento milioni di sterline tra lavoro, produzione e commercio perduto. Altri cento milioni di perdite sono previste per questo sciopero.
Nell'Assemblea nazionale del 1 maggio 2001 a Roma le organizzazioni "Cobas Confederazione dei Comitati di base" e "Sindacato intercategoriale dei Comitati di base [...] si sono unificate ed hanno dato vita all'associazione [...] denominata brevemente "Confederazione Cobas".
Il percorso di unificazione aperto con la grande manifestazione del 1 maggio dello scorso anno promossa dalla Confederazione e dal SinCobas rappresenta una concreta inversione di tendenza alla frammentazione delle attuali organizzazioni sindacali antagoniste. La Confederazione Cobas lavora alla costruzione di una nuova e più forte organizzazione di lavoratori e lavoratrici in grado di rilanciare il conflitto contro il padronato, contro l'offensiva liberista condotta in Italia sia dal centrodestra sia dal centrosinistra e che sappia costruire un'alternativa di massa ai sindacati di stato e concertativi. Un'organizzazione che si batta per sconfiggere la disoccupazione strutturale, la precarizzazione del lavoro, la distruzione del servizio pubblico e la privatizzazione/aziendalizzazione di scuola-sanità-energia-trasporti-telecomunicazioni, lo smantellamento delle pensioni, il furto delle liquidazioni. Puntiamo ad un nuovo soggetto anticapitalista che sappia unificare la lotta sindacale e quella politica, la vertenzialità sui luoghi di lavoro e sul territorio con un progetto di trasformazione della società, la battaglia dei diritti di chi lavora con quelli dei migranti, contro l'esclusione sociale, la devastazione ambientale e alimentare, la negazione dei diritto alla casa: una forza fondata sull'autorganizzazione, estranea alle pratiche burocratiche del sindacalismo di stato e di mestiere, che conquisti il pieno diritto di rappresentanza e di sciopero, strumenti essenziali per qualsiasi battaglia di classe.
La Confederazione Cobas, partendo dal conflitto nelle fabbriche, nelle scuole e in tutti i luoghi di lavoro e dalla realtà sociale di coloro che il lavoro non lo hanno o subiscono quello "al nero", il cosiddetto atipico, il lavoro totalmente precarizzato e flessibilizzato, si propone di ricomporre uno schieramento plurale capace di arrestare l'offensiva liberista, un blocco antagonista capace di reggere le sfide che il capitalismo globale pone all'intera umanità. [...]La Confederazione Cobas non nasce in contrapposizione ad altre esperienze; è anzi un'organizzazione aperta a tutte e tutti coloro che individualmente e collettivamente si riconoscono nei fondamenti di questo progetto. Un confronto è già avviato con altre realtà di lotta, a partire in primo luogo da quelle che operano nel settore dei trasporti, ma anche con organizzazioni del mondo agricolo, con associazioni e centri sociali con cui intende avviare una consulta permanente. [...]
Mozione conclusiva approvata all'unanimità
Il contratto nazionale dei 450 mila lavoratori delle pulizie è scaduto ormai da due anni. Il prossimo incontro con le parti datoriali è fissato per l'8 maggio. "La prossima sessione - scrivono i sindacati - dovrà essere risolutiva per determinare con chiarezza gli esiti del confronto e registrare, ove esista, una reale volontà di portare a termine il negoziato, sconfiggendo la pretesa di Confindustria e delle altre parti datoriali di proseguire sulla strada della penalizzazione dei lavoratori e della disattesa degli accordi del luglio '93". La preoccupazione dei sindacati è aumentata, invece di diminuire, dopo l'ultimo incontro a palazzo Chigi con il governo.
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Niente lavoro, niente voto". Continuano a protestare, con questo slogan, le dipendenti di tre ditte di pulizia di Taranto - Vega, Bolognini e Polignano - che danno lavoro a oltre 1000 persone in trenta scuole del territorio. Ieri, in 200, hanno bloccato per due ore il ponte girevole di Taranto. "Chiedono di uscire dalla precarietà - dice Margherita Calderazzi, Slai Cobas - di avere contratti a 30 ore, con appalti che durino almeno 5 anni. Attualmente lavorano solo 18-24 ore a settimana, senza retribuzione per i periodi estivi, pasquali e natalizi".Antonio Buttiglione, operaio della fabbrica di pannolini del Gruppo Angelini, a Pesacara, non faceva altro che segnalare la pericolosità di alcuni prodotti e macchine maneggiati con troppa leggerezza. Un'attività che lo ha portato a litigare due volte con lo stesso capo, ed è bastata per farlo fuori. Il gruppo Angelini, nato ad Ancona nel 1919, nel 2000 ha fatturato oltre 2600 miliardi di lire, grazie a un'attività articolata in tre divisioni: la produzione di farmaci, di beni di largo consumo alimentari e igienici, e di macchine per la fattura di prodotti igienici. Ha sedi in Italia, Spagna, Portogallo e Stati Uniti, oltre 5000 dipendenti e un giro d'affari complessivo che supera i 4.600 miliardi. Produce, per fare i nomi più famosi, l'antidolorifico Momendol e il disinfettante Amuchina, oltre ai pannolini Lines, Pampers e Linidor. I pannolini, in particolare, sono prodotti nella abruzzese Fater, che, in joint venture con la multinazionale americana Procter & Gamble, occupa oltre 1000 dipendenti. La Fameccanica - anch'essa in joint venture con la Procter & Gamble, e con un fatturato che supera i 130 miliardi di lire - dà lavoro a circa 400 persone e progetta e costruisce macchine per l'industria dei prodotti igienici.
Ma cosa ha fatto Buttiglione per meritare il licenziamento? Lo racconta lui stesso: "Il 20 marzo di quest'anno ho segnalato a uno dei capi che il carter di un mulino era aperto, e un ventilatore, di solito insonorizzato, era esposto e faceva molto rumore. Già altre volte in molti anni, nella veste di delegato sindacale, prima della Fiom Cgil e poi dello Slai Cobas, avevo denunciato i rumori assordanti di alcuni reparti, e il fatto che troppe volte, con troppa leggerezza, venisse maneggiata senza le dovute cautele una polvere superassorbente per il collaudo delle macchine dei pannolini. E' tossica, può provocare gravi irritazioni, mentre i capi ci fanno esporre come se fosse un normale detersivo".
Le denunce di Buttiglione forse perché provenienti direttamente dagli operai che stanno sulle macchine e mettono a rischio quotidianamente la propria salute per i profitti aziendali sono state accolte male dai vertici. Dalle segnalazioni dell'operaio è nata una lite con un capo e una lettera di richiamo.
Successivamente, quando Buttiglione ha rifiutato di parlare con i superiori in presenza del capo con cui aveva litigato, è partita una seconda lettera, questa volta di sospensione dal lavoro. Il 3 aprile è stata recapitata la lettera di licenziamento.
Il licenziamento di Antonio non è stato accettato dai colleghi, che hanno subito organizzato degli scioperi per difenderlo, raccogliendo anche la solidarietà "interregionale" dello Slai Cobas di Taranto, che sul caso ha condotto una campagna di sensibilizzazione tra i lavoratori pugliesi. La Fiom Cgil dice che "l'azienda non ha neppure convocato le Rsu per discutere le misure da prendere nei confronti di Buttiglione. Ci ha chiamato a cose già fatte, comunicandoci semplicemente che era stato deciso il licenziamento. A questo punto, chiunque potrebbe essere licenziato, senza possibilità di mediazione coi sindacati".
Inoltre, "questo licenziamento è molto grave perché è stato utilizzato come strumento di lotta politica. L'operaio non è mai stato violento, ha sempre fatto contestazioni verbali e pacifiche, nei limiti delle legittime relazioni sindacali. Quello che più temiamo è che potrebbero seguire altri licenziamenti intimidatori. Dei 400 dipendenti della Fameccanica, la maggior parte sono impiegati "all'americana", con orari flessibili, concordati con l'azienda. I circa 180 operai potrebbero essere pertanto i primi a pagare la ristrutturazione attualmente in corso, condotta attraverso un numero sempre crescente di esternalizzazioni".
Buttiglione, che è coordinatore provinciale dello Slai Cobas di Pescara, ha anche condotto, insieme alla Filcams Cgil, delle lotte in difesa delle operaie delle pulizie. Le ditte per cui lavoravano, in servizio presso gronde ditte del pescarese e del teatino, le obbligavano a trasferimenti coatti o all'iscrizione forzata in cooperative poco pulite, promettendo in cambio la riassunzione. Ma attività di questo tipo, evidentemente, sono scomode in Abruzzo.
Per il presidente di Confindustria Antonio D'Amato la "trattativa" sul diritto padronale al licenziamento è chiusa. Per la CGIL, che finora non ha partecipato - anche se non ha contrarietà di principio - non avendo essa firmato nessun accordo la partita è aperta. Se ne riparlerà dopo le elezioni. A D'Amato che pensa di aver preconfezionato il blocco sociale per sostenere la politica di un eventuale governo Berlusconi attraverso il documento siglato con Cisl e Uil, il segretario generale della Cgil risponde infatti con un indiretto ma preciso avvertimento: se questo è il clima, la Cgil è pronta ad aprire subito le danze contro il centrodestra. Dimentica, la CGIL, che questa manovra antioperaia è partita esattamente il giorno dopo la sconfitta del referendum radicale del maggio 2000, quando questa organizzazione si sedette al tavolo con confindustria per discutere proprio di ciò che il referendum aveva respinto?
Venerdì scorso dodici associazioni imprenditoriali guidate da Confindustria hanno inviato a palazzo Chigi il documento sottoscritto anche da Cisl, Uil, Cisal e Ugl per il recepimento della direttiva dell'Unione europea sui contratti a tempo determinato. Una proposta che in sostanza sancirebbe lo svincolo dei contratti a termine da quelli nazionali di categoria. La soluzione non è stata condivisa dalla Cgil, che da tempo aveva abbandonato il tavolo del confronto, ma anche da altre cinque associazioni imprenditoriali: Lega delle cooperative, Cna, Confcommercio, Confesercenti e Confservizi.
Raddoppia il numero di lavoratori interinali affittati da una delle più grosse società di reclutamento, la Adecco, alle aziende nel primo trimestre del 2001. I giovani "prestati" alle imprese sono stati in totale 27.900, l’80% in più rispetto allo stesso periodo del 2000. Non tutti torneranno a casa dopo il periodo di "affitto" pattuito. Adecco ricorda che di media il 47% degli impiegati interinali dopo un’esperienza di impiego temporaneo è stato assunto a tempo indeterminato.
Nel dettaglio, è ancora maschile la prevalenza dei lavoratori in affitto (57%) mentre l’età media resta bassa (28 anni). Il 53% delle reclute dell’interinale ha un diploma di scuola media superiore mentre il 7% ha la laurea. Le ore lavorate nel primo trimestre 2001 hanno superato quota 10,7 milioni a fronte delle 5.907.156 dello stesso periodo del 2000. E’ in Lombardia, inoltre, che si concentra il 30% dei rapporti instaurati mentre nel Triveneto e in Emilia Romagna è stato siglato il 23% dei contratti. Nel Centro sud sono stati avviati il 33% dei lavoratori.
Il numero delle aziende clienti di Adecco è più che raddoppiato (da 11.491 a 28.705) nell’ultimo anno. La missione del lavoratore "in affitto" dura in media 31 giorni. Circa la metà dei lavoratori, infine, viene impiegato nel settore metalmeccanico.
Il successo è stato ottenuto, in parte, anche grazie al fondo di formazione per i lavoratori interinali (Formatemp), alimentato dal contributo delle imprese con il 4% del monte salari e mirato alla promozione di percorsi di qualificazione e riqualificazione dei lavoratori temporanei.
Adecco - leader in Italia nel mercato del Lavoro Temporaneo - conta, in tutto, 160 mila lavoratori avviati nel 2000 e una media di 26mila lavoratori al giorno impiegati presso circa 15 mila aziende clienti.
La Fiom di Cassino non non condivide l'accordo siglato dalle organizzazioni sindacali perché non condivide l'intesa sulla "metrica" che si applicherà a Cassino per la produzione della "Stilo", e ha deciso di ricorrere all'articolo 28. "Tutti hanno riconosciuto - si legge in un comunicato Fiom - che ci sarà un peggioramento delle attuali condizioni di lavoro, ma le considerazioni politiche sono state tali da farli addivenire all'accordo". Così la Fiom di Cassino ha deciso di presentare alla magistratura il ricorso (articolo 28) contro la Fiat "per costringerla a consegnare gli elenchi dei dipendenti alla commissione elettorale per le opportune verifiche al fine di indire il referendum abrogativo non appena terminerà lo stillicidio della cassa integrazione".
Paseo de la Castellana, Madrid: lì vivono da circa tre mesi circa 1.500 dipendenti dell'impresa spagnola Sintel. Non negli eleganti palazzi di fine Ottocento e neppure negli avveniristici edifici di cristallo, bensì nelle strette aiuole alberate che separano la carreggiata centrale dai controviali, in tende da campo e baracche di legno prefabbricate. Protestano da novanta giorni, senza luce e acqua nel "Campamento de la Esperanza". Oltre allo sconforto e alla disperazione, tra gli operai di Sintel c'è infatti anche la speranza, autentica, di vincere il contenzioso che li contrappone agli attuali proprietari dell'impresa, la Telefonica e al governo spagnolo, responsabili di una situazione che li vede sull'orlo del licenziamento e senza stipendio da più di otto mesi. Cinque anni fa Telefónica, all'epoca unica operatrice nel campo delle telecomunicazioni, vende il 100% delle quote di un'affiliata - Sintel, appunto - a una famiglia di benestanti esuli cubani, i Mas Canosa. Costoro, forse avvalendosi del rapporto privilegiato che li lega a Juan Carlos e famiglia, comprano l'impresa con il placet del governo (il primo di Aznar) senza sborsare una peseta per la transazione. Anziché ricorrere ai tribunali per il mancato rimborso, quelli di Telefónica fanno finta di niente: a loro volta non pagano le commesse che Sintel continua a eseguire per loro conto e rimangono a guardare il progressivo sfascio di quello che era il pianeta più luminoso della galassia, quasi del tutto indifferenti ai destini di una compagnia della quale, probabilmente, era più utile sbarazzarsi, soprattutto vista la "sovrasindacalizzazione" di un organico in cui quasi il 100% dei lavoratori risultavano (e risultano tuttora) iscritti all'Unione generale dei lavoratori (Ugt) o alle Commissioni operaie (Cc.Oo.).
Mas Canosa, infatti, comincia a licenziare: 1.411 impiegati nel settembre del '97, 633 nel febbraio del 2000 e altri 899 nel giugno dell'anno scorso. A dicembre, infine, arriva un'ulteriore provvedimento da parte dell'azionista di maggioranza che dispone la sospensione dal lavoro di altri 1.201 dipendenti, i quali nel frattempo hanno smesso di ricevere lo stipendio e da mesi attendono invano buone notizie dai loro estratti conto.
Tutto quello che hanno nel "Campamento", i lavoratori di Sintel lo pagano di tasca loro o grazie ai contributi di partiti, sindacati, ONG e persino di qualche abitante del quartiere che magari gli porta un po' di minestra o di frutta. Per il resto, tutti fanno finta di niente, a cominciare dai mezzi d'informazione, che hanno in Telefónica il loro maggiore inserzionista pubblicitario. La speranza che per il momento si riduce ai tre punti del loro manifesto: reintegrazione nel posto di lavoro, devoluzione degli arretrati e intervento del governo.
"Non hanno più diritti", "il parlamento ha abrogato la gratuità delle cause di lavoro e previdenza". Sono le parole in testa all'appello del Comitato per l'abrogazione dell'articolo 23 della legge 134, che la camera ha approvato il 29 marzo con voto trasversale di tutte le forze politiche (368 sì su 372 votanti).
Grazie all'articolo 23, lavoratrici e lavoratori, invalidi, pensionati, per tentare una causa dovrebbero addossarsi spese di milioni. Per citare un tema d'attualità nello scontro elettorale fra Ulivo e Polo, la "libertà di licenziamento", con questa norma chi voglia chiedere giustizia per un licenziamento illecito, sarà più indifeso.
Su quel voto è calato il silenzio: Rifondazione, che ha votato a favore, ammette pubblicamente "l'errore in cui si è incorsi". Franco Giordano e Giovanni Russo Spena ripetono l'impegno di lavorare alla cancellazione di questa norma, se rieletti. Dall'Ulivo, silenzio.
L'appello diffuso dal Comitato nelle manifestazioni di questi giorni a Napoli ha questo obiettivo: "prima del 13 maggio, forze politiche e singoli candidati si assumano pubblicamente l'impegno di cancellare l'art.23". Per ora ha risposto solo il Prc.
Ad accorgersi per prima della "postilla" nella legge 134 (per altri versi positiva) e delle sue conseguenze, è stata l'Associazione giuristi democratici di Torino. La Camera doveva votare una proposta di legge di Giuliano Pisapia, deputato indipendente del Prc, per il patrocinio a spese dello Stato di cittadini non abbienti (entro i 18 milioni di reddito lordi) nel processo penale, nel diritto di famiglia, e minorile. E, insieme, una proposta dei Ds, prima firma Veltroni, per estendere il "gratuito patrocinio" a tutti i procedimenti civili, e a quelli amministrativi.
E' successo che l'ultimo articolo, il 23, contenente le leggi incompatibili o superate dalla nuova norma, comprende anche l'abrogazione della gratuità del processo di lavoro. "Che sia una svista, o parte di un progetto che mira scientemente a ridurre i diritti dei lavoratori, ovvero che sia il frutto di un bieco calcolo contabile per la copertura finanziaria della legge mediante la tassazione delle cause di lavoro e previdenza, l'art.23 va abrogato". Lo sottolinea il Comitato napoletano, che riunisce avvocati del lavoro - l'Associazione forense del lavoro per ovviare alla cappa di silenzio ha deciso di acquistare uno spazio sulle pagine di un "quotidiano nazionale" per pubblicare l'appello. Ma alla costituzione del Comitato ha partecipato anche Franco Maranta, capogruppo del Prc alla Regione campana, "amareggiato" per il voto del suo partito. E l'avvocata del lavoro Marina Paparo, a nome del Comitato, insiste sull'importanza di "far comprendere che attorno a questa norma ruotano i temi della democrazia e del diritto, troppo spesso merce di scambio tra governo, sindacati e forze politica". Il tempo c'è: l'abrogazione da art.23 scatterebbe nel 2002.
Il 9 maggio alla porta 5 della Fiat Mirafiori "crocevia della mobilitazione". Ci sono gli operai con il loro salario non ancora abbastanza aleatorio, come vuole Federmeccanica. Ci sono i cassintegrati con le loro 800 mila lire al mese di stipendio e il secondo lavoro in nero per tirare avanti. Non c'è il contratto che i metalmeccanici attendono da 11 mesi, nella speranza di non dover pagare due volte l'inflazione: prima dal benzinaio e poi in busta paga. Tre cortei: dalle presse (70% di adesione allo sciopero), dalle carrozzerie e dalle ex meccaniche, ora Powertrain, dove la produzione è rimasta bloccata per quattro ore. Ci sono i giovani con il contratto a termine che scade tra venti giorni. Lo sciopero, primo di una nuova serie fino all'agitazione nazionale in programma il 18 maggio, si è portato dietro un fardello particolare. Se non altro perché, per la prima volta dall'inizio delle trattative, i sindacati parlano apertamente di "un clima di scontro". Uno spartiacque che ha fatto da filo conduttore al discorso conclusivo del segretario nazionale della Fim-Cisl Cosmano Spagnolo: "La Confindustria e la Fiat vogliono riformare e risparmiare sulle pensioni, abbassare le tasse per aumentare i profitti delle aziende". Insomma, tre dei cinque obiettivi cardinali del programma berlusconiano, mentre a Torino l'occupazione sta subendo uno stillicidio: la cassa integrazione per 454 lavoratori delle meccaniche, le centinaia di esuberi agli uffici centrali. E poi ancora la cassa integrazione per migliaia a Mirafiori, comunicata dalla Fiat il giorno dopo l'annuncio sulle rosee prospettive di boom degli utili. Il contratto nazionale dei metalmeccanici e l'integrativo Fiat hanno ormai assunto una valenza che va ben al di là della semplice ridiscussione dei parametri salariali e normativi.
Un tassello dopo l'altro Confindustria e Federmeccanica smantellano le relazioni sindacali e si affidano ai rapporti di forza; convinti che siano a loro favorevoli e che per questa via si possa ridurre il lavoro a piena subordinata dell'impresa. La pratica dell'obiettivo ha più vie, quella del mercato del lavoro (contratti a termine), quella "contrattuale" (a partire dal contratto nazionale dei metalmeccanici), quella aziendale (già perseguita alla Zanussi, passata alla Marzotto e ancora in corso alla Fiat). Di fronte a questo quadro per i sindacati si pone la scelta tra gestione subalterna delle compatibilità di mercato e scontro per la difesa dei diritti e della condizione.
Per Claudio Sabattini dopo lo sciopero del prossimo 18 maggio, non resterà che andare a uno scontro di carattere più generale, prima unificando in un unico percorso di lotta tutte le categorie coinvolte nei rinnovi contrattuali e poi chiedendo la scesa in campo dell'intero movimento sindacale. E' l'annuncio di uno scontro a tutto campo, in altre parole la richiesta, seppure in prospettiva, di uno sciopero generale nazionale (cui Guidalberto Guidi di Confindustria ha risposto con un indifferente "facciano pure"). Come dire che i tanti conflitti che i metalmeccanici sono chiamati ad affrontare si collocano dentro uno scontro generale che mette a confronto due ipotesi di società. E, nel suo aspetto particolare, anche ciò che sta succedendo a Cassino rappresenta un paradigma e un annuncio per il futuro. Lì la Fiat ha introdotto, con un accordo firmato da Fim e Uilm, un aumento dei ritmi di lavoro (il Tmc2) che intensifica del 18-20% la fatica operaia. La Fiom quell'intesa non l'ha firmata e ha avviato la raccolta di firme per un referendum tra tutti i lavoratori; ma, raccolte le firme necessarie, la richiesta di consultazione si è scontrata con il rifiuto della Fiat di fornire alla commissione elettorale (composta anche da rappresentanti di Fim e Uilm) i tabulati con l'elenco degli aventi diritto al voto, cioè degli addetti dello stabilimento (un elenco indispensabile per svolgere qualunque tipo di consultazione sindacale di fabbrica, dalle elezioni delle Rsu ai referendum). La motivazione del rifiuto aziendale - risibile e mai addotta nelle precedenti consultazioni - è che in questo modo si violerebbe la legge sulla privacy. Per la Fiom quest'atteggiamento assume la valenza di comportamento antisindacale e per questo si è rivolta al pretore invocando l'articolo 28 della legge 300, chiedendo un giudizio d'urgenza per permettere lo svolgimento del referendum in tempi brevi. E' chiaro che la Fiat cerca di mantenere in vita l'accordo firmato, ma è altrettanto chiaro che l'iniziativa crea un precedente che mette in discussione tutte le regole delle relazioni sindacali, boicottando un'iniziativa di elementare democrazia dei lavoratori. Un altro tassello della demolizione che Confindustria e Federmeccanica stanno portando avanti.
I duemila di Mirafiori sono diventati quasi diecimila a Grugliasco. Cresce la protesta operaia a Torino. I metalmeccanici hanno scelto un altro luogo simbolo: l'ingresso della Pininfarina, la fabbrica del presidente di Federmeccanica, "la controparte che - ha ricordato Giorgio Airaudo, segretario della Fiom di Collegno - non si è mai seduta al tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, tranne una volta. Quella volta, mesi e mesi fa, lesse una dichiarazione ufficiale di netta chiusura di fronte alle richieste dei sindacati". Una chiusura che le organizzazioni dei lavoratori non vogliono più accettare. Una chiusura, nei rapporti che si è manifestata anche nella fabbrica del carrozziere per eccellenza con la sospensione - senza stipendio, neanche a dirlo - di un giovane lavoratore malato e quindi giudicato non idoneo. In quasi tre mesi, la dirigenza della Pininfarina non è riuscita trovargli una mansione, nonostante i dipendenti siano più di duemila. E i giovani compagni di lavoro, ieri, sono scesi in massa per le strade.
Con gli operai della Pininfarina hanno manifestato i lavoratori di tutte le fabbriche della zona, con i loro striscioni. Una presenza atipica, come i contratti "made in Taiwan" (così recitava uno dei numerosi cartelli) che piacciono tanto agli industriali, al governo che c'è stato e a quello che verrà.
Dalla Valsusa sono arrivati 13 pullman e centinaia di macchine private. Appuntamento di fronte alla Comau e poi il corteo che ha bloccato il traffico di ingresso a Torino per più di un'ora. Una striscia lunga quasi un chilometro, con decine di Rsu, comprese quelle delle piccole fabbriche. La protesta dei lavoratori coinvolge sia i giovani che le aziende di dimensioni più ridotte. La valsusina Tubiflex, con un terzo dei 160 lavoratori ieri a sfilare per le strade. E con loro i compagni di lavoro della Magneti-Marelli, della Comau, della Lear, dell'ex Altissimo, ora Borgonova. Tutti a gridare al capo degli industriali metalmeccanici e a tutta la categoria che non hanno nessuna intenzione di "essere assorbiti". Già, perché la Confindustria vuole disconoscere l'accordo del luglio del '93, non adeguando l'inflazione programmata, più bassa, a quella reale, quella che tutti toccano con il portafoglio, ovviamente più alta. Gli operai della zona Ovest di Torino lo hanno urlato a più riprese con in mano una spugnetta per lavare i piatti. L'unica cosa che deve e ha diritto di assorbire: acqua e altre sostanze liquide, non soldi e stipendi. "Non facciamo più sconti - ha spiegato dal palco il segretario nazionale della Fim, Giorgio Caprioli - o si sta ai patti e alle leggi oppure le 85mila lire non ci bastano più. Si torna alle 135 mila di partenza e se non basta e se l'inflazione programmata, all'1,7%, non viene adeguata al 3% reale, rilanciamo e andiamo anche oltre.
Le industrie metalmeccaniche della zona Ovest di Torino si sono fermate dalle 9 alle 13, grazie a un'adesione di massa che ha superato il 90%. Produzione bloccata, dopo quasi 300 assemblee in 160 fabbriche. Le ultime nella notte tra mercoledì e giovedì scorsi, per organizzare una grande manifestazione come da tempo non si vedeva da queste parti.
Le operaie delle mense dell'aeroporto militare di Centocelle, che avevano perso il posto per un appalto al massimo ribasso, sono rientrate nelle scorse settimane al lavoro. Altre 22 dell'aeroporto di Guidonia, invece, restano fuori. La ditta vincitrice - la Sagem di Toscano - non le ha riassunte.
Al posto loro lavorano operaie di una ditta di pulizie. Molte, lunedì scorso, erano ancora in nero e senza tessera sanitaria. L'azienda le ha fatte lavorare nella più assoluta mancanza di sicurezza e di igiene.
La Sagem, per l'assunzione delle ex dipendenti, aveva proposto un monte ore più basso di quasi 300 ore e l'azzeramento delle anzianità e dei livelli retributivi, provocando un rifiuto. "Io lavoravo qui da 8 anni - dice una operaia - e a casa riuscivo a portare 650.000 lire al mese. Adesso non ho più neppure quelle, ma ho anche un mutuo da pagare e due figli a carico".
La ditta arrivata seconda in gara dopo la Sagem, assicurava la riassunzione nelle precedenti condizioni. Perché deve essere mantenuto l'appalto alla Sagem, se per ora non garantisce adeguati livelli lavorativi e qualitativi della mensa?
L'Europa viene scossa ormai settimanalmente da annunci di licenziamenti di massa. Giovedì è toccato alla tedesca Siemens: eliminerà altri 2.000 impiegati, raggiungendo un totale di 8.100 da aprile ad oggi. Tagli soprattutto al settore delle telecomunicazioni come già annunciato dalla svedese Ericsson (30.000 in 5 anni); dall'olandese Philips (6-7.000); della spagnola Sintel (1.808); mentre la Nokia ha per ora solamente notificato di aver diminuito notevolmente il fatturato (comunque in attivo), primo passo per i licenziamenti.
A Bruxelles hanno manifestato i lavoratori della Lu contro la Danone che ha predisposto un piano di ristrutturazione da 2.597 licenziamenti, pur annotando benefici per 1.200 miliardi. Marks&Spencer ha invece deciso di chiudere tutti i negozi fuori dal Regno Unito, procedendo a 4.390 licenziamenti concentrati maggiormente in Francia. Il caso della M&S è differente da quello delle altre imprese perché la società, in attivo, vuole tagliare i rami esteri del suo esercizio, meno redditizi, dopo aver usufruito di aiuti europei nella politica di delocalizzazione.
Mastica amaro, Oreste Bonavitacola, giudice della corte d'appello di Roma. L'altro giorno il giudice monocratico di Perugia gli ha dato torto, assolvendo 15 lavoratrici e due sindacalisti che il giudice aveva denunciato. Nel 1995 il tribunale di Sulmona, dove Bonavitacola era presidente, aveva dichiarato il fallimento della "Termini confezioni", ascrivendo il fallimento al "sistematico ricorso allo sciopero delle maestranze". Le ragioni del fallimento, secondo lui, erano da ascriversi all'"assenteismo delle operaie più sindacalizzate". Dopo il deposito della sentenza le lavoratrici, a cassa integrazione straordinaria e prive del posto di lavoro, avevano in vari modi espresso la loro protesta. E un giorno, nel 1995, avevano tenuto una manifestazione proprio di fronte al tribunale di Sulmona, mentre era in corso una udienza penale tenuta da Bonavitacola.
Il giudice aveva ritenuto oltraggiosa la manifestazione delle lavoratrici, che erano guidate da Salvatore La Gatta, della Cisl, e da Romano Della Monica della Cgil, e denunciato le 15 lavoratrici e i due sindacalisti. Nel processo che si è tenuto a Perugia Bonavitacola si era costituito parte civile contro le lavoratrici e il sindacato. Ma il giudice monocratico di Perugia ha assolto le lavoratrici e i sindacalisti, il cui avvocato è Gabriele Tedeschi, "perché il fatto non sussiste". Non è un crimine manifestare pubblicamente di fronte al tribunale criticando una sentenza di fallimento che ha cancellato i posti di lavoro. Non trattandosi di una causa di lavoro in senso stretto, è evidente che il giudice che ha denunciato le lavoratrici e il sindacato dovrà pagare le spese.
Il lavoro sulle navi è sempre più a rischio. I dipendenti e gli stagionali della Tirrenia si preparano allo sciopero generale di 24 ore del prossimo 31 maggio, proclamato da Filt Cgil e Federmar Cisal. Chiedono certezza occupazionale, una più equa distribuzione di orari e salari, nonchè la possibilità di eleggere democraticamente le rappresentanze, fino a oggi vero e proprio tabù in azienda.
I guai della più grande compagnia di trasporto marittimo nazionale sono di vario tipo e intrecciati tra loro: oltre a quelli occupazionali, c'è l'incognita della prossima privatizzazione e il timore di un taglio improvviso da parte dell'Ue dei finanziamenti statali, contestati dagli armatori privati concorrenti. Gli ultimi aiuti che la compagnia ha ricevuto sono stati di circa 400 miliardi, 200 dei quali sono andati alle piccole compagnie di trasporto regionale controllate. Il resto è bastato a stento a ripianare il deficit. Il procedimento d'infrazione, poi, ha anche bloccato un recente piano di investimenti per 700 miliardi di lire, aggravando ulteriormente la situazione.
La maggior parte dei lavoratori si trova in una condizione di precariato selvaggio. La Tirrenia non ha le sacche di lavoro irregolare che riguardano molto questo settore. Però c'è un'assenza di trasparenza negli orari e nelle retribuzioni. I lavoratori sono circa 3.000. Ma soltanto 1200 sono "fissi", ossia con un rapporto continuativo. Altri 200 sono stagionali, e lavorano per circa quattro mesi all'anno. Il resto, ovvero oltre 1600, sono a chiamata, e lavorano senza alcun tipo di garanzia, per esempio senza un riconoscimento corretto delle ore straordinarie.
Mentre i "fissi", quindi, avendo un rapporto diretto e nominale con l'azienda, sono garantiti su molti fronti, i lavoratori a chiamata si riducono a dei veri e propri tappabuchi, essendo imbarcati a seconda del numero dei passeggeri. Se la nave è piena, possono salire più persone, se no restano a terra e non vengono pagati.
E infine, per permettere che piattaforme o accordi vengano votati come avviene in tutte le grandi aziende, i sindacati chiedono anche un meccanismo democratico di rappresentanza. Il codice di navigazione non prevede le rappresentanze sindacali unitarie.
Ammontano a 38 milioni 453 mila le ore di cassa integrazione pagate dall'Inps nel corso del primo trimestre 2001. L'andamento delle integrazioni - da sempre termometro fedele del buono o cattivo andamento della produzione - registra il 4,60% in più rispetto al numero delle ore pagate nel periodo gennaio/marzo dello scorso anno.
La lievitazione è da addebitare alla gestione edilizia che ha chiesto ed ottenuto il 50% di ore in più, "consumando " 9 milioni 621 mila ore. L'industria ha fatto da freno: ha chiesto il 5% di ore in meno e questo fatto ha riequilibrato i conti complessivi.
Nel settore industria, che ha ottenuto 28 milioni 832 mila ore, gli interventi si sono suddivisi: - quelli ordinari hanno avuto 12 milioni 985 mila ore ( l'1,34% in più dello scorso anno); - quelli straordinari - autorizzati dal ministero del Lavoro per crisi aziendali o di settore, per problemi di ristrutturazioni o riconversioni aziendali - hanno avuto 15 milioni 847 mila ore ( il 9,96% in meno dello scorso anno). Di tutte le ore assegnate all' industria solo 4 milioni 666 mila hanno finanziato la busta paga degli impiegati: tutto il resto sono state appannaggio degli operai. Nell'ambito dell'industria le imprese meccaniche hanno raggiunto il primo posto, con 10 milioni 602 mila ore. Seguono le industrie metallurgiche con 2 milioni 221 mila e quelle delle pelle e del cuoio con 2 milioni 93 mila.
Il fanalino di coda spetta alle imprese dell'energia elettrica e gas con sole 779 ore nel trimestre. Le imprese della carta e poligrafiche hanno raggiunto il tetto massimo degli aumenti : + 318% rispetto alle ore dello scorso anno.
Nell'edilizia le ore pagate dall' Inps sono state assegnate per 6 milioni 431 mila alle industrie , 2 milioni 861 mila alle aziende dell'artigianato e 329 mila al settore dei lapidei.
E' la Puglia la regione che nel settore dell'industria ha ottenuto il più alto numero di ore: 5 milioni 836 mila. Le altre regioni che sono ricorse in dosi massicce alla CIG sono Lombardia con 4 milioni 785 mila, Piemonte con 4 milioni 291 mila , Lazio con 3 milioni 85 mila, Campania con 1 milione 757 mila, Sicilia con 1 milione 618 mila e Toscana con 1 milione 570 mila ore.
Adesioni altissime allo sciopero nazionale dei metalmeccanici. Da anni, almeno dai tagli alle pensioni del '94, a Torino non si vedeva una manifestazione di lavoratori così imponente. Ieri oltre trentamila sono scesi in piazza per difendere il loro contratto che non c'è più da sei mesi. Per difendere il loro diritto ad avere un lavoro sicuro. Due lunghi cortei hanno sfilato attraverso le vie della città. Da nord e da ovest le fabbriche di Collegno, Grugliasco, della Val di Susa, di Biella, di Vercelli e della Valsesia. Da sud tutta la Fiat, i lavoratori di Moncalieri, Rivalta, Settimo. Cresce la partecipazione. Non solo a Torino, dove le ragioni dello sciopero erano doppie (il contratto integrativo della Fiat è bloccato da quasi due anni), ma anche nel resto del Piemonte. In diecimila si sono astenuti dal lavoro ad Asti, Alessandria e Verbania, dove sono stati organizzati comizi di fronte alle sedi delle Unioni industriali, a Novara, ad Alba e a Cuneo con volantinaggi e presidi di fronte agli stabilimenti.
Cresce soprattutto la partecipazione dei giovani operai. A Torino, come già avvenuto nella zona ovest la scorsa settimana di fronte alla Pinifarina del presidente di Federmeccanica, tanti under 30. Un gruppo delle meccaniche di Mirafiori ieri ha chiesto alla Fiom un camion per far notare una presenza amplificata. Per la prima volta c'erano i ragazzi dei call center, con i loro contratti a termine, atipici, figli di fusioni societarie continue che portano riorganizzazioni, razionalizzazioni e tagli. La maggior parte di questi ragazzi era al primo sciopero. Hanno sfidato pressioni neanche troppo velate. Adesione tra il 70 e l'80% nelle fabbriche, con punte massime alle meccaniche e alle carrozzerie di Mirafiori.
Sono almeno sei le categorie con il contratto scaduto che non riescono a chiudere le trattative. Stipendi ed emolumenti diversi, ma che sono il sintomo della stessa condizione di precarietà. Lo scontro sta assumendo dimensioni generali che vanno ben al di là delle richieste, senza risposte, sull'adeguamento dei salari all'inflazione reale.
La manifestazione dei metalmeccanici di Brescia e provincia ha avuto alte adesioni e al corteo hanno partecipato circa 10.000 operai, tra cui moltissimi i giovani.
Molto alta l'adesione allo sciopero dei metalmeccanici a Napoli in tutti i tipi di aziende e molto alta la partecipazione alla manifestazione e al comizio finale. Sempre in evidenza la partecipazione di molti giovani assunti da poco in vari gruppi, a partire da Omnitel, Infostrada, Ergom (la ex Fiat). Alla Fiat di Pomigliano è stato organizzato un picchettaggio per convincere anche gli incerti.
E'stata dell'85%, con punte del 100% in alcune aziende delle istallazioni telefoniche l'adesione allo sciopero dei metalmeccanici in Calabria.
Sono stati almeno 1500 gli operai metalmeccanici umbri che hanno partecipato alla manifestazione organizzata dai sindacati a Perugia. Lo sciopero in Umbria è stato di otto ore ed era dedicato al contratto e alla sicurezza sul lavoro dato che la regione vanta un record di incidenti.
Anche la partecipazione alla manifestazione di Bari è stata molto positiva, circa 3000 operai hanno partecipato alla manifestazione di piazza e l'adesione allo sciopero è stata pressoché totale. In piazza si sono visti operai e operaie di Magneti Marelli, Bosh, Diesel System, Isotta Fraschini, Sirti e Getrag.
Adesione quasi totale nelle aziende Appalto Arsenale e nelle piccole e medie imprese. Buona anche la partecipazione nell'Appalto Ilva, dove ha scioperato anche lo Slai cobas. Protagonisti in questo caso i giovani metalmeccanici e i cassintegrati slai/cobas che hanno bloccato la direzione Ilva.
Anche a Roma lo sciopero di 8 ore ha ottenuto un grosso successo. L'adesione è stata molto alta e un migliaio di lavoratori ha presidiato per tutta la mattinata la sede dell'Unione Industriali di Roma. Particolarmente visibile la partecipazione dei lavoratori delle aziende del settore informatico, delle istallazioni, delle telecomunicazioni e di varie aziende della zona di Pomezia.
Scioperano i "Centri per l'impiego" (gli ex uffici di collocamento) della provincia di Roma. Ma la protesta coinvolge anche la Regione, facendo toccare con mano i guasti prodotti dal mix micidiale tra "devolution" e gestione dei problemi da parte del centro-destra (alla guida della provincia di Roma c'è Silvano Moffa, alla Regione Francesco Storace; entrambi di Alleanza nazionale). Lo sciopero arriva a quattro giorni dalla straordinaria ressa verificatasi nell'ufficio di Cinecittà, a Roma, dove erano "in palio" una sessantina di posti da bidello. Si sono presentati in quasi ventimila, bloccando per oltre un chilometro le strade intorno alla palazzina del collocamento. Il personale dell'ufficio, in perenne carenza di organico - bel paradosso la mancanza di lavoratori nel posto che dovrebbe far trovare un lavoro! - ha fatto quel che ha potuto.
I giorni di sciopero dovevano infatti essere tre - 15, 16 e 17 maggio - ma la Provincia ha imposto al sindacato di ridurlo a uno, causa il periodo elettorale. Ma quello del "decentramento dei Centri per l'impiego" è ormai un problema nazionale. Alla fine del '99, infatti, la responsabilità del settore è stata spostata dal ministero del lavoro a regioni e provincie. Contemporaneamente è (in teoria) entrata in vigore una serie di norme per recepire le indicazioni dell'Unione europea in materia di politica dell'occupazione, con l'incentivo costituito dai fondi che la stessa Ue mette a disposizione. Ma il decentramento all'italiana comporta che il "modello gerarchico" garantito dal ruolo dello stato centrale sia stato sostituito da uno definito "concertativo", ma che implica l'assoluta variabilità di regole, priorità, comportamenti in base all'andazzo dei poteri localmente egemoni.
Il tutto viene complicato dalla legittimazione ad operare concessa a una serie pressoché infinita di soggetti che si occupano (o cercano di acchiappare una fetta della "torta") di "formazione", "orientamento" e via declinando le innumerevoli figure per cui occuparsi di disoccupati è ormai un business. Nel Lazio, dicono i lavoratori dei "centri", ci sono le due amministrazioni provinciali in mano alla destra che stanno spostando verso Italia Lavoro (ex Gepi) i servizi di "collocamento". In pratica viene finanziata - con soldi europei - la costruzione di una rete di uffici alternativi a quelli pubblici, sulla base di progetti annuali; in questi uffici saranno in vigore esclusivamente contratti a tempo determinato. In questo campo, insomma, si va creando una farsa di "concorrenza" tra uffici pubblici e privati (finanziati con soldi pubblici comunitari), che possono però sfruttare manodopera a costi inferiori e senza diritti. Il tutto, è bene ricordarlo, sotto l'egida della "lotta alla disoccupazione".
A Cadelbosco di Sopra, Reggio Emilia gli operai della Kerself, un'azienda nata due anni fa che produce elettropompe, si sono trovati in bacheca uno strano avviso: sciopero del legale rappresentante per la mancata fiducia accordatagli sull'attuazione della proposta del 17 maggio". Ovvero? Fabbrica chiusa per un giorno, salario decurtato.
Secondo una versione, era in corso una trattativa per fare un accordo di acconto sul contratto nazionale dei metalmeccanici, con lo scopo di evitare la chiusura della fabbrica il 18 giorno dello sciopero nazionale dei metalmeccanici, e nello stesso tempo a qualche decina di migliaia di lire di acconto nelle tasche dei dipendenti.
La versione dell'azienda è che le Rsu hanno voluto trattare sui soldi, che l'azienda è stata d'accordo. Che una delle due fabbriche (perché la Kerself ha anche uno stabilimento a Correggio) ha detto sì a 60mila lire di acconto e ha regolarmente lavorato. L'altra, quella di Cadelbosco ha detto "no". "Se hanno loro il diritto di sciiopero lo avrò ben anch'io - spiega Angelo Masselli, amministratore della fabbrica - Sono stati loro a chiedermi di trattare e io l'ho fatto. Ho proposto 60mila perché so che ne hanno chieste 120 (in verità l'aumento medio richiesto dai metalmeccanici è di 135mila lire contro le 85mila offerte da Federmeccanica). Ero in Germania, mi sono impegnato a firmare un accordo al mio rientro lunedì. A Correggio hanno detto sì e oggi abbiamo firmato. A Cadelbosco ci sono dei forsennati e mi hanno risposto che non si fidavano di me. Mi hanno delegittimato. Oggi hanno la mia risposta".
Quindi il direttore da solo decide con la sua forma di protesta di tagliare salario a decine di lavoratori, perchè si è sentito putno sul vivo!
Lui sostiene che se il lavoratore sciopera contro l'azienda, l'uomo dirigente potrà ben fare altrettanto. Dietro una presunta questione di fiducia, lo scontro è più chiaro: il dirigente infatti attacca lo Statuto dei Lavoratori, e se "... non posso licenziarlo senza giusta causa perché è la parte debole, no vorranno mica far diventare l'azienda impotente?".
Lla Fiom ha denunciato l'imprenditore per comportamento antisindacale e serrata, ma ammette: "No so se le Rsu avevano tentato un accordo. Io comunque sono contrario. La verità è che Masselli ha tentato di evitare lo sciopero, li ha intimiditi come fa da quando hanno aperto lo stabilimento, minacciando la chiusura. Questa volta non ce l'ha fatta e allora si è vendicato. Ce la vedremo in tribunale".
Nella busta paga di metà maggio non hanno trovato gli aumenti salariali conquistati due mesi fa con lo sciopero. Per questo ieri i 150 "soci" della cooperativa B.B. Service, in gran parte immigrati, sono tornati a scioperare, bloccando le attività al "Centro del Rondò" di Levate (Bergamo), uno dei poli logistici del gruppo Rinascente (51% Ifil-Fiat, 49% Auchan). "Se non arrivano i soldi, noi non lavoriamo", hanno replicato compatti i soci a Gianluca Barabino, il presidente della cooperativa che li invitava ad entrare, con la promessa che i soldi sarebbero arrivati "presto". La parola di Barabino a questo punto vale zero perché la B.B. Service ha perso l'appalto. Scade alla fine del mese e la Rinascente ha cambiato cavallo, ha già firmato con la cooperativa Zapping, con sede a Roma. Quest'ultima, a quanto pare, ha fatto un'offerta più bassa. Mezzo miliardo in meno all'anno per far funzionare il "Centro del Rondò". Un bruscolino rispetto ai 2,2 miliardi di euro capitalizzati in borsa dall'Ifil, la cassaforte della famiglia Agnelli. Ma, si sa, è con questi risparmi sulla pelle (nera) degli altri che prosperano i veri signori.
I lavoratori - la definizione "soci" come in quasi tutte le cooperative è abusiva - sono preoccupati. Temono di rimetterci, oltre che l'aumento pattuito della paga oraria, le liquidazioni e le festività pregresse che dovevano essere erogate in due tranches entro maggio e giugno. A quel punto di Barabino potrebbero essersi perse le tracce. Ammesso si faccia trovare, dove andrà a prendere i soldi uno che non è riuscito a trovare neppure 30 milioni per pagare l'aumento salariale? E la Zapping, con mezzo miliardo in meno a disposizione, come potrà onorare gli impegni assunti dalla B.B. Service? Quanti "soci" confermerà e a che condizioni?
I lavoratori sono arrabbiati, gli extracomunitari ancor più degli italiani e sono fermamente intenzionati a non mollare. Sanno per esperienza diretta che con la nuova cooperativa "gli inconvenienti" sono destinati a ripetersi e qualcuno comincia a capire che "la responsabilità principale" di questa situazione sta in alto, "è delle Rinascente". I metodi per tener basso il costo del lavoro sono sempre gli stessi: appaltare pezzi del ciclo produttivo a cooperative di comodo e poi "strangolarle" mettendole in concorrenza tra loro. Sulla figura del socio-lavoratore è stata approvata, poco prima dello scioglimento delle Camere, una legge. Impone alle cooperative di dichiarare a quale contrattato nazionale di categoria intendano aderire e di applicarlo. Però hanno ancora sei mesi di tempo per farlo. Nelle more, la Zapping non è tenuta a onorare gli impegni presi dalla B.B. Service. "Faremo di tutto per imporglielo con la lotta, nello stesso tempo dobbiamo convincere la Rinascente a bloccare i pagamenti alla B.B. Service. Quei soldi vanno usati per pagare il dovuto ai lavoratori".
La direzione nazionale dell'Upim, la catena più penalizzata dal blocco del "Centro del Rondò" ha risposto che a loro "non interessa" quel che fanno le cooperative, "noi paghiamo un servizio e vogliamo che sia svolto, se la vedano loro". Vorrà dire che invece di un giorno di sciopero ne faremo tre, dice Sormanni, segretario della Filcams che lega quel che sta succedendo al "Centro del Rondò" con la vertenza integrativa in corso per il gruppo Rinascente.
"In un giorno normale e senza scioperi gli aerei partivano strapieni e bisognava mettere la gente in lista d'attesa per posti a bordo che non ci sarebbero mai stati". E' finita in rissa, quel giorno, perché dopo le infinite "liberalizzazioni" apportate alla struttura societaria e organizzativa del trasporto aereo non c'è più una "testa" cui gli addetti ai lavori possano far capo se si verificano situazioni critiche.
Poi il 21, sette scioperi in un giorno solo. Dai piloti agli assistenti di volo, dal personale a terra fino agli addetti al catering. Una babele di tipologie di lavoro, sigle sindacali, società d'appartenenza, rivendicazioni. Un solo nemico: la ristrutturazione del trasporto aereo. Il "compattamento" è stato deciso dalla Commissione di garanzia, l'organismo che vigila sulle agitazioni nel settore, che ha preferito avere un solo giorno di quasi assoluta mancanza di voli, piuttosto che molte date dalla funzionalità improbabile. "In questo modo il passeggero ci guadagna - ammette il segretario nazionale del Sulta, Vincenzo Siniscalchi - ma scompaiono le ragioni degli scioperi". Non che i media siano particolarmente prodighi di particolari, in proposito; ma certo diventa dura anche per noi spiegare in poche righe i guai di così tante categorie unite dal lavoro dentro e intorno agli aerei. Nella generale ignoranza dei problemi arriva la "soluzione" proposta da Elia Valori, presidente dell'Unione industriali di Roma, "rivedere la legge sullo sciopero nei servizi pubblici con l'obiettivo di assicurare un livello di copertura adeguato durante gli scioperi". Insomma: svuotare di efficacia pratica lo sciopero, in modo che non influisca sulla circolazione di merci e passeggeri. La risposta arriva a stretto giro, ancora dal Sulta: "Questa è un pretesa che poteva avere un senso in regime di monopolio. Ma ora c'è la concorrenza, almeno tra i vettori. Perciò, se uno sciopero blocca Alitalia, ci sono altre compagnie in attività sulle stesse tratte".
La giungla del trasporto aereo ha una storia chiara. Prima c'era una compagnia di bandiera (o "vettore"), un gruppo di gestori degli aeroporti di fatto controllati dall'Iri, e un solo contratto nazionale per 30mila lavoratori. Con la "liberalizzazione" avviata nel '97, per recepire la solita "direttiva Ue", la gestione è finita nelle mani di "privati", che hanno preso a spezzettare attività, attribuendole a società diverse, moltiplicando assetti, contratti, sindacati, problemi. La società Aeroporti di Roma, per esempio, è stata acquistata dal Consorzio Leonardo (Romiti, Sensi, Falck, ecc). Di fatto, dicono tutti i delegati interpellati, l'AdR si mostra interessata esclusivamente al mantenimento della concessione governativa, da cui punta a trarre royalties (le attività di servizio vere e proprie vengono scorporate, aprendo le vie del subappalto all'infinito, fino alle cooperative fantasma).
In questa confusione qualcuno chiedeva: "Ma io posso scioperare?". I "vecchi" sono magari passati a nuove società (Az Airport, AdR Handling, e decine di altre), mantenendo però i precedenti contratti aeroportuali. E si trovano a lavorare fianco a fianco con giovani a tempo determinato, con salari inferiori del 30, 40 e anche 50%. I volantini parlano del recupero dell'inflazione, della diminuzione dell'orario di lavoro, di rifiuto dello scambio tra salario e diritti acquisiti; ma devono anche ricordare che "possono partecipare tutti, iscritti o no" a un sindacato, e che è un diritto anche per gli "stagionali".
L'ostacolo che sembrava insormontabile - e che ancora lo è in parte - è la sfera di applicazione del contratto. La McDonald's continua ad affermare che può firmarlo soltanto per i propri dipendenti, circa 1500, e che per gli oltre 12.000 dei concessionari del marchio, bisognerà vedersela volta per volta col singolo franchisee.
Il dialogo è ripreso quando i sindacati hanno proposto di discutere prima sulle questioni di merito, e soltanto successivamente sulla sfera di applicazione. La multinazionale ha detto sì, e, novità più importante, ha accettato che vengano avviate le trattative con i singoli concessionari, con tre possibili opportunità: definire un accordo aziendale; applicare l'integrativo nazionale stipulato dalla Company; applicare, fino alla definizione dei suddetti accordi, gli integrativi territoriali del commercio.
Tutto mostra che la McDonald's continua a comportarsi sempre come un unico sistema, con l'organizzazione del lavoro identica in tutti i locali, ma questa perfetta omogeneità cessa non appena si parla di contratto. Il rischio è che il mondo della ristorazione veloce resti frammentato, favorendo le parti datoriali. La stessa Fipe, che assiste la McDonald's nelle trattative, si è detta contraria a un contratto nazionale per i licenziatari e ancora di più a un accordo per tutte le imprese della ristorazione veloce.
23 maggio ’01
Nel 1990 i dipendenti del Gft erano 5.500, ora ne restano 1200, quasi 500 in cassa integrazione e 900 rischiano di perdere il posto di lavoro. Il Gruppo finanziario tessile fa capo all'Hdp, la holding guidata da Maurizio Romiti.
Il tessile da anni è in sofferenza. A luglio i sindacati avevano firmato un piano di rilancio con la proprietà che prevedeva nuove commesse. Ma i vari Armani e Calvin Klein sono rimasti chimere. Romiti il giovane fa capire che il settore moda non conviene più e che le strategie porteranno Hdp da un'altra parte: media e nuove tecnologie. Lo stabilimento uomo di Bosconero (200 addetti) è in agonia, la fabbrica di San Damiano, ceduta a un gruppo che fa capo a Carlo Patrucco, lavora solo per Armani, che doveva fare l'accordo con il Gft e invece ha sottoscritto una joint-venture con Zegna. Ha 60 su 100 dipendenti in cig. Ormai lavorano nei reparti produttivi solo 50 addetti a Bosconero e 50 al reparto donna di San Mauro. C'è poi lo stabilimento di Settimo con altri 500 dipendenti, che fa capo a Giorgio Armani.
Alla Ligabue Catering Air di Fiumicino poco più di 300 lavoratori sono in attesa di una sorte che si annuncia pessima . Erano 450, ma per capire come sia potuto accadere che "il quinto catering del mondo" - capace di produrre anche 26.000 pasti al giorno - sia arrivato a questo punto occorre fare un po' la storia di questo "capolavoro" delle privatizzazioni degli ultimi anni.
Fino a 10 ani fa i catering di Fiumicino erano due: l'Ovest (oggi Ligabue) e l'Est. Il primo dipendente dagli Aeroporti di Roma (AdR), l'altro dall'Alitalia. In realtà entrambi nella galassia Iri e regolati con i contratti di lavoro del settore aeroportuale. Anche il passaggio del catering Est all'AdR, col nome Sodecaer, non mutava la situazione.
Nel '97 partiva l'opera di privatizzazione. Il catering Ovest è finito nelle mani di Giancarlo Ligabue, parlamentare europeo di Forza Italia. Però, il passaggio non avveniva attraverso la Ligabue Gruppo (350 miliardi di fatturato), ma con la Ligabue Catering Air, appunto, con capitale sociale di soli 500 milioni (che però introitava, entrando, gli oltre 16 miliardi accantonati per le liquidazioni dei dipendenti).
Nel frattempo la De Montis, società romana, aveva aperto un suo catering a otto chilometri dall'aeroporto (in chiaro svantaggio competitivo, quindi), assumendo personale con un contratto più simile a quello degli alimentaristi. Tradotto: col 30% in meno di stipendio. Una ditta da cui vengono voci preoccupanti. Mancano persino gli spogliatoi (i cuochi si cambiano all'interno delle proprie automobili), e le condizioni di lavoro sono così "affascinanti" che ben 174 dipendenti si sono licenziati nel corso dell'ultimo anno.
La Ligabue non sembra preoccupata della concorrenza. Forse perché la professionalità dei suoi lavoratori è al top. Forse - sospettano i lavoratori - perché tutta l'operazione ha un significato solo a livello finanziario. Ligabue, infatti, non avrebbe investito in questi anni neppure una lira in attrezzature ("Non hanno comprato neanche un cacciavite nuovo!"), e ha assistito senza batter ciglio alla progressiva perdita di clienti tra le compagnie con scalo a Fiumicino.
Per alcuni delegati dei lavoratori è come se ci fosse un tacito patto per abbattere il costo del lavoro: man mano che le compagnie aeree rompono con Ligabue e vanno da De Montis o Abela (un altro nuovo catering aperto fuori dell'aeroporto) anche gruppi di lavoratori della Ligabue vanno via. E' l'effetto dell'art. 14 del decreto legislativo 18/99: il lavoratore segue il lavoro presso un'altra azienda, mantenendo i livelli contrattuali precedenti "a titolo individuale". Studiato e scritto come "clausola sociale" di salvaguardia, questo articolo viene spesso utilizzato dalle aziende come strumento per favorire le "uscite". E' così che alla Ligabue si sono ridotti a poco più di 300 e la loro prospettiva è "l'attesa di andar via". In teoria, per loro, non dovrebbe cambiar nulla: ma se vai in un posto dove tutti prendono il 30% in meno vieni subito messo in condizione di accettare lo stesso livello salariale e di diritti, oppure di andartene. Una finta "concorrenza" tra i vari catering, quindi, con l'effetto di "spalmare" verso il basso le differenze contrattuali tra l'uno e l'altro.
Il mestiere della sigaraia - perchè son quasi tutte donne - era uno dei più ambiti e meglio remunerati dall'Ottocento fino al secondo dopoguerra. Tra le professioni operaie, è anzi forse una delle pochissime creative rimaste - vicina, se non proprio all'arte, certamente all'alto artigianato - e permette di portare a casa fino a due milioni netti al mese per circa 36 ore settimanali di lavoro, con i sabati e le domeniche libere. Nel loro piccolo, le sigaraie sono decisamente delle "privilegiate" rispetto alle operaie dei call center o dei fast food, condannate ormai senza appello ai contratti atipici mordi e fuggi. Una solida posizione che conserveranno almeno fino a quando il loro contratto, a tempo pieno e indeterminato, resterà quello dei dipendenti pubblici: la privatizzazione dell'Ente tabacchi italiani è ormai alle porte, e i rapporti lavorativi, come l'organizzazione interna, sono probabilmente destinati a cambiare. Con l'arrivo degli azionisti privati, quando l'Eti verrà quotata in Borsa, e del contratto degli operai del commercio.
E in effetti l'Eti, figlio dei vecchi Monopoli di Stato, dalla nascita ('98) e dalla successiva costituzione (2000) in società per azioni di proprietà esclusiva del Tesoro, si è progressivamente trasformato in una vera e propria azienda, aumentando produttività e resa del marketing, e proponendosi obiettivi ambiziosi.
Entro il 2003, i 639 operai lasceranno lo storico edificio dentro le antiche mura di Lucca, un ex convento di suore che li ospita da oltre 150 anni. Andranno a lavorare in quella che sarà la più grande manifattura d'Europa - 100.000 mq, 50.000 al coperto - a 2-3 chilometri dal centro storico. Centocinquanta di loro saranno avviati verso il pensionamento, e sono già stati assunti 150 giovani, perlopiù donne, per sostituirli. Quaranta diventeranno vere e proprie sigaraie, destinate cioè al lavoro esclusivamente manuale. La produzione della maggior parte dei Toscani infatti, seppure al 100% con prodotti naturali e rispettando le procedure tradizionali, è fatta con le macchine. Tranne i "pregiati" - Toscano originale, Selected, Millennium - fatti completamente a mano. E, a dire il vero, c'è una sorta di "terza sigaraia" molto lontana da Lucca. Si trova nello Sri Lanka. Per aumentare la produttività e abbassare i costi, infatti, l'Eti ha affidato la fase del taglio delle foglie a delle ditte asiatiche. Un operaio costa 20 dollari al mese, e una foglia di tabacco viene a costare 18 lire, abbattendo le spese del 50% e aumentando la produttività del 30%.
Nel reparto delle sigaraie a mano, ci sono poco più di settanta lavoratrici. Solo donne, concentrate a stendere la foglia, spalmarla di colla d'amido, tagliarla, dosare il ripieno, arrotolare e tranciare gli estremi. In gruppo, sono raccolte le praticanti. A curare la loro istruzione è una sigaraia più grande.
A Porcia, in provincia di Pordenone, i sindacati metalmeccanici, Fim, Fiom, Uilm, hanno rotto le trattative con la Electrolux-Zanussi sul piano industriale. Tutti e tre i sindacati si sono trovati d'accordo nel bocciare le proposte aziendali. "Il motivo della rottura - si legge in un comunicato sindacale - riguarda la posizione dell'impresa che di fatto propone sempre un solo modo per aumentare i volumi (produttivi) quello di aumentare il gettito produttivo attraverso l'aumento dei ritmi di lavoro nelle linee di montaggio". La rottura era già avvenuta precedentemente negli stabilimenti di Mel (Belluno) e Rovigo.
Il 13 aprile gli oltre 1 milione e 300 mila lavoratori del commercio avevano scioperato e pra potrebbero scendere di nuovo in piazza, nel prossimo mese di giugno, se le trattative con la Confcommercio per il rinnovo del biennio economico non dovessero giungere a un accordo.
Le trattative non sono interrotte ma i sindacati stanno valutando le proposte di Confcommercio, perché alcune presentano degli elementi di novità non comprensibili chiaramente, come l'estensione della validità del contratto al 2003, anno che fa parte del prossimo biennio economico, e non di quello per il quale si sta trattando. E sono giudicati insoddisfacenti gli aumenti proposti. I sindacati chiedono 115 mila lire per il biennio 2001-2002, che inglobino anche il differenziale tra inflazione programmata e reale dello scorso biennio. Confcommercio offre 120.000 lire per il biennio 2001-2003, ma a regime. Una cifra quindi soltanto apparentemente più alta. Solo dal gennaio del 2002, i lavoratori vedrebbero in busta paga un aumento, di 55 mila lire. Dal luglio 2002 sarebbero aggiunte altre 35 mila lire, integrate da altre 30 mila nel 2003. Il 2001 sarebbe "recuperato" con una una-tantum di 500.000 lire. Così, gli aumenti sarebbero in realtà nettamente inferiori a quelli richiesti dai sindacati.
In attesa del rinnovo, sono anche i 50 mila dipendenti della distribuzione cooperativa. Le associazioni cooperative hanno fatto un'offerta diversa rispetto a Confcommercio: a fronte delle 115 mila richieste, loro hanno offerto 78 mila lire da subito, disposti anche a un rialzo. La trattativa si è fermata prima di quella del commercio-terziario
Sono iniziati gli scioperi alla Italtel di Carini (Palermo) a sostegno della vertenza sul riassetto dello stabilimento. La trattativa non si è ancora formalmente interrotta ma Fim Fiom e Uilm hanno già espresso la loro netta contrarietà al progetto presentato dall’azienda il 15 maggio scorso a Milano. In quell’occasione si è parlato soltanto dello stabilimento di Carini; la direzione ha reso noto che vuole creare quattro società così composte: Software, a maggioranza Italtel, Produzione, Sistemi di Energia e Servizi. Per queste ultime tre si cercheranno partner di maggioranza. Intanto la direzione richiede un accordo per diciotto settimane di cassa integrazione da qui a fine anno. Fim-Fiom e Uilm a quel punto hanno risposto "picche", sia perché considerano assurda la divisione in quattro dello stabilimento, ma soprattutto perché dietro a questa idea non appare in nessun modo un valido progetto di rilancio aziendale. Il giorno seguente, appena tornata a Palermo, la rappresentanza sindacale della Italtel di Carini viene chiamata dalla direzione dello stabilimento per essere informata che dal giorno 28 saranno aboliti i tre turni di lavoro e che tutti e 350 i lavoratori passeranno a un unico turno centrale (8.00-16.15). Decisione accolta in modo negativo dai dipendenti per diverse ragioni. A parte l’assurdità di far stare fisicamente il triplo delle persone sullo stesso posto di lavoro (in cui non c’è né ci può essere il numero sufficiente di attrezzi e postazioni per tutti), questo significa per i lavoratori una perdita secca di 300.000-400.000 lire nette al mese. Con il risultato di privare intere famiglie di quello che viene da esse considerato una sorta di "diritto acquisito", dopo una vita intera passata a fare i turni quando questo faceva comodo all’azienda.
25 maggio ’01
I tradizionali cilindri rossi disseminati lungo le vie londinesi e nei quali si imbucano le lettere, da due giorni ormai esibiscono vistosi nastri e adesivi che bloccano la buca. Sembrano i nastri usati dalla polizia per cordonare e chiudere al pubblico le scene di un crimine. Sopra ai nastri che ricoprono i cilindri rossi c'è scritto che quella buca postale è chiusa per sciopero. Gli adesivi chiedono solidarietà con i dipendenti delle poste. Migliaia di postini sono in sciopero e la protesta, spontanea e non appoggiata dai sindacati, si sta espandendo a macchia d'olio in tutto il paese. Tutto è cominciato la settimana scorsa a Watford: quasi 800 lavoratori hanno votato per lo sciopero contro i piani di riorganizzazione del lavoro (con cambi di ruoli) dell'azienda, la Royal Mail. Ogni giorno si sono riuniti in assemblea per decidere come portare avanti un'azione che in pochi credevano potesse espandersi così rapidamente. Ma da ieri decine di uffici postali si sono uniti ai compagni di Watford e hanno proclamato scioperi spontanei e a tempo indeterminato: i lavoratori hanno incrociato le braccia rifiutandosi di smistare la posta a Londra, nel Kent, a Newcastle, Carlisle, Milton Keynes, Liverpool. Assemblee affollatissime si stanno svolgendo in tutti gli uffici smistamento più importanti del paese.
Nel tentativo di isolare i lavoratori di Watford, che avevano avviato la protesta, Royal Mail aveva deciso di trasferire i pacchi di posta non consegnata in altri uffici. Ma i lavoratori si sono rifiutati, in segno di solidarietà con i colleghi in sciopero, di smistare la posta proveniente da Watford. Più Royal Mail insisteva nel trasferire i pacchi da un ufficio all'altro, da una città all'altra, più la solidarietà aumentava. I sindacati, che inizialmente avevano appoggiato la protesta dei dipendenti dell'ufficio di Watford, si sono rifiutati di sostenere gli altri scioperi, lasciando di fatto soli i lavoratori. "Non che ci aspettassimo un atteggiamento diverso dalle unions", commentavano ieri i dipendenti di un ufficio di un quartiere nord di Londra riuniti in assemblea. Dal canto loro, i sindacati continuano a dialogare con Royal Mail nella speranza di raggiungere un accordo che possa essere accettato dai lavoratori che hanno portato alla paralisi la distribuzione della posta in tutto il paese: in sciopero infatti sono ormai venti uffici centrali di smistamento, compresi i cinque londinesi.
La Turinauto ha firmato l'ipotesi di accordo contrattuale con i sindacati. Le assemblee dei lavoratori del mattino e del pomeriggio hanno approvato la bozza con un solo voto contrario.
I contenuti: garanzie sull'occupazione (rimpiazzo del turn over e nuove assunzioni in caso di investimenti, conferma dei benefit, verifiche congiunte su professionalità e fabbisogni formativi, ecc), miglioramenti salariali (205.000 lire mensili di premi, una tantum di 2 milioni per gli arretrati del 2000, ecc).
L'accordo ha un grande significato politico, comunque. Turinauto è un'impresa "terziarizzata" che ha acquistato le presse di Rivalta e, perciò, occupa i suoi 500 operai all'interno degli stabilimenti Fiat. Fianco a fianco con gli operai targati Fiat e quelli della Tnt. Che Turinauto si sia svincolata dall'atteggiamento Fiat di chiusura sui contratti, insomma, può avere un buon effetto-fiducia anche sui lavoratori delle altre due "società", che sono ancora lontani dalla meta.
Bisogna anche tener conto del fatto che la Turinauto ha in questo momento un mercato larghissimo e in espansione (produce parti stampate, ossia portiere, cofani, particolari vari delle auto). Oltre il 50% del suo fatturato non dipende più dagli ordinativi Fiat. Produce infatti per Peugeot, è in trattativa con la Bmw, ecc. Si trovava insomma nella situazione di dover scegliere tra perdere commesse a causa delle agitazioni per il rinnovo del contratto, oppure raggiungere subito un accordo che - per quanto "gravoso" possa apparire ai falchi di Confindustria - consente di far fronte agli ordinativi. E guadagnarci lo stesso, si presume.
Dopo tre giorni di sciopero, che hanno paralizzato il Centro del Rondò di Levate in provincia di Bergamo, i 150 "soci" della cooperativa BB Service hanno ripreso il lavoro. Una boccata d'ossigeno per il polo logistico del Gruppo Rinascente (51% Ifil e 49% Auchan). I lavoratori, quasi tutti immigrati, hanno attraversato i cancelli solo dopo aver avuto in mano un assegno, firmato dal presidente della cooperativa Gianluca Barabino. E' l'aumento, conquistato due mesi fa con un primo sciopero. Nell'ultima busta paga non l'avevano trovato e per questo avevano di nuovo scioperato.
In passato, ogni cambio d'appalto è stato un passo indietro per i soci-lavoratori. Una tradizione che gli immigrati del Rondo questa volta sono fermamente intenzionati a interrompere.
Ma il 25 il Centro del Rondò di Levate, il polo logistico del Gruppo Rinascente, sarà ancora bloccato dallo sciopero dei soci-lavoratori della cooperativa BB Service. Lo sciopero mirerà alto, direttamente alla Rinascente (Ifil-Auchan). La cooperativa Zapping, che a giugno doveva subentrare nell'appalto alla BB Service, è scappata. Ieri mattina l'incontro tra Zapping e Filcams Cgil è durato 10 minuti. La Zapping doveva dire a quali condizioni salariali e normative "rilevava" i soci della BB Service. E invece ha comunicato la "decisione irrevocabile" di mollare l'appalto appena sottoscritto con Rinascente. Dice la Zapping che "Il clima non è sereno, le iniziative del sindacato sono spropositate, non ce la sentiamo di prendere un appalto così importante a queste condizioni". Tra le condizioni ci sono ovviamente gli aumenti salariari conquistati due mesi fa dai 150 soci, quasi tutti immigrati, della BB Service.
I dirigenti del Centro hanno detto che cercheranno un'altra cooperativa a cui dare l'appalto. La cooperativa sarà vincolata a rispettare l'accordo sottoscritto a marzo da Filcams e BB Service? La Rinascente non può garantirlo, hanno risposto i dirigenti, al massimo ci impegniamo a informare il sindacato quando troveremo una nuova cooperativa. I padroni volevano che la Filcams firmasse una lettera in cui si dice che le "attività dopo il primo giugno proseguiranno regolarmente". Ma i sindacalisti hanno rifiutato: "ci rivediamo domani ai cancelli, in sciopero naturalmente".
I "soci" , che potrebbero temere di trovarsi senza cooperativa, sia vecchia che nuova, sono più che convinti a proseguire la lotta. Ormai hanno capito che lo sciopero è contro la Rinascente, "contro la Fiat, contro Agnelli", come dicono loro sbrigativamente.
I 450mila lavoratori delle pulizie attendevano ormai da oltre due anni il contratto, che è stato siglato dai sindacati - Filcams, Fisascat e Uiltrasporti - Confindustria e Lega Cooperative.
Un anno e mezzo di scontri accesi, soprattutto sulla figura del socio-lavoratore, spesso sfruttato da cooperative senza scrupoli, create ad hoc per aggirare gli obblighi dei contratti dipendenti, e gestite a volte da associazioni per delinquere che costringono gli operai a iscriversi come soci. Formalmente, questi ultimi risultano pari ai capi, ma in realtà sono sottoposti a orari e gerarchie, e pagati senza alcuna regolarità.
Secondo il sindacato con l'accordo siglato e con la recente riforma legislativa del lavoro cooperativo, questo rischio sarebbe superato, perché il contratto si applica anche al socio-lavoratore subordinato, che, a ogni cambio d'appalto, deve essere assunto come dipendente dalla cooperativa subentrante, e poi deciderà se iscriversi o no come socio. Le garanzie contrattuali dei dipendenti, insomma, coprono anche i soci-lavoratori.
Il nuovo contratto, che riguarderà oltre 40 mila aziende italiane, è esteso anche alle imprese che gestiscono i servizi integrati, come pulizia e catering. L'aumento previsto per il quinto livello è di 98 mila lire mensili, più 4 mila per la previdenza integrativa. Inoltre, il contratto nazionale prevede la possibilità della contrattazione integrativa, con un possibile aumento del 3% della retribuzione tabellare.
Uno dei problemi più grossi, resta comunque il sistema degli appalti selvaggi: al massimo ribasso e troppo brevi.
Non c'è accordo che tenga, neppure il più responsabile e conciliante, con l'Electrolux Zanussi, ed ecco di nuovo scioperi da uno stabilimento all'altro, e trattative rotte dall'azienda che non sopporta "ingerenze" sindacali nelle sue decisioni di usare a piacimento vita e tempo delle persone al lavoro, di spremerle oltre limite.
A Mel e a Rovigo la bestia nera del management Zanussi in Italia, il dottor Castro, ha provveduto a far arrivare nelle bacheche di fabbrica una lettera in cui annuncia, in barba a ogni accordo, un calendario "unilaterale" di flessibilità comandata ai lavoratori, comprese le loro ferie - decadute da diritto individuale a porzioni di tempo a disposizione dell'azienda.
Eppure a Mel, che produce compressori per frigoriferi, e a Rovigo - che vi è stata legata mani e piedi come reparto staccato a produrre motori per quei compressori, già l'accordo firmato dal sindacato a febbraio era di quelli brutti: il 30% di produttività in più, strizzata dalle pause di lavoro, e i 406 "esuberi" dichiarati complessivamente dall'azienda - che minacciava "vado in Ungheria" - trasformati, grazie all'accordo, in cassa integrazione straordinaria a rotazione per due anni. Alcuni delegati RSU non firmarono l'accordo: le nuove rsu, appena elette, a Mel hanno cercato di "gestire" quell'accordo, ma si sono scontrate con l'"insofferenza" dell'azienda. Le ore di lavoro in più, tre turni di 6 ore per 6 giorni, e addirittura 4 turni, nonostante di notte in 24 ore ce ne sia una sola, e poi da ultimo le ferie usate come flessibilità aziendale e giocate come scambio: "se accettate gli straordinari potrete farle, non più di due settimane, dopo il 20 ottobre".
Le rsu, in assemblea coi lavoratori, hanno deciso unitariamente per il no, e fissato sei ore di sciopero da martedì scorso: se ne è aggiunta un'altra, spontanea, di reazione rabbiosa, quando giovedì è apparsa in bacheca, nero su bianco, la lettera di Castro sul comando del tempo.
I volumi produttivi nello stabilimento bellunese di Mel sono di molto inferiori a quelli degli anni scorsi, e non giustificano neppure le richieste dell'accordo di febbraio. Ma molte donne e uomini se ne sono andati dalla fabbrica inospitale, e l'azienda oggi dice: voglio il vostro tempo perché mi manca gente. Ma ne ha messi 256 in cassa integrazione straordinaria per cui non può ovviamente fare nuove assunzioni, e perciò la trovata: la "gente" la prende sì dal bellunese, ma l'assume a Magnago del Friuli e poi la manda "in trasferta" a Mel.
Rovigo, considerata da Zanussi in tutto e per tutto pura dipendenza di Mel, dovrebbe non solo subire lo stesso salasso di tempo umano, ma anche "fornire lavoratori" da trasferire nella fabbrica bellunese. "Voi andate a Mel", ha ingiunto infatti l'azienda agli operai di Rovigo in cassa integrazione straordinaria. I delegati unitariamente anche qui hanno deciso lo sciopero: ci raccontano che ieri per 6 ore a ogni turno gli operai sono rimasti fuori dalla fabbrica vuota a presidiarla. E lunedì ci sarà uno sciopero di stabilimento per tutte le 24 ore: per "coprire" quelli fra gli operai "comandati a Mel".
A Susegana il problema è sempre il furto di tempo e l'aggravio del lavoro: qui l'accordo firmato solo da Fim e Uilm è stato approvato nel referendum dai lavoratori, ma ora si ripete la pretesa aziendale di decidere "unilateralmente" ferie, flessibilità, straordinari (notare che c'è anche la vertenza nazionale dei metalmeccanici a impedire l'uso straordinario). Per ora reagisce solo la Fiom: "dal 2 maggio, quando è iniziata la 'flessibilità', noi abbiamo dichiarato sciopero di tutte le ore aggiuntive, fino a'data da destinarsi'", spiega una delegata.
Il duemila è stato l'anno del part-time. Quasi un quarto dei nuovi occupati, infatti, è stato assunto con un contratto di lavoro a tempo parziale. Secondo i dati diffusi dall'Isfol, tra i neoassunti il 47% era in cerca d'occupazione, il 28% aveva un contratto full-time, il 9% un contratto a termine e il 16% un lavoro autonomo. L'indagine mette in evidenza come negli anni sia diventato più facile rimanere occupati con un lavoro part-time, mentre diminuisce la probabilità di passare dal tempo parziale a quello pieno. La tendenza è verso una maggiore flessibilità, cui il nostro paese si è allineato, recependo una direttiva comunitaria (n.81/1997) e inseguendo il trend generale alla deregulation. La nuova disciplina, secondo l'Isfol, è un compromesso tra le esigenze di flessibilità e la tutela dei lavoratori, mediazione necessaria in un paese come l'Italia in cui i lavoratori a tempo parziale sarebbero (sempre secondo l'Isfol) comunque pochi: l'8,4% dell'occupazione complessiva. Alta invece è la media delle ore lavorate: 30 a settimana, con punte di 36 per il 16% degli occupati a tempo parziale. Se il panorama, per l'Isfol, è nel complesso deludente, ci sono "isole di eccellenza": Ikea, Poste, Wind, Blu e Nestlé.
Il personale di terra del "Catullo" viene cosiderato ad altissimo coefficiente di funzionalità, ma una fetta consistente di lavoratori è assunta con contratti a termine. In ogni settore dei servizi aeroportuali dilaga senza freni l'uso del "lavoro interinale".
E' indubbiamente un modello che alla società di gestione piacerebbe esportare (del resto in linea con la new economy) e che ad altre società gemelle piacerebbe copiare. C'è un solo ostacolo: l'organizzazione delle lavoratrici (l'80 per cento degli operatori di terra) e dei lavoratori del Catullo. Da quattro mesi, infatti, i dipendenti hanno aperto il tavolo delle trattative con la società che gestisce lo scalo veronese, la SpA Valerio Catullo.
La vertenza - che ha come punti cruciali il doppio binario salariale (i nuovi assunti hanno salari e diritti radicalmente minori) e la questione della flessibilità - non è finora arrivata ad alcuna conclusione. Non è riuscito a far trovare un accordo tra le parti nemmeno il prefetto, che ha compiuto - l'8 maggio scorso - il tentativo di conciliazione previsto dalla normattiva antisciopero: "le posizioni di chiusura e rigidità assunte dalla Direzione dell'aeroporto rispetto alle richieste sindacali avanzate" - come si legge nel comunicato delle segreterie dei lavoratori dei trasporti Cgil-Cisl-Uil di Verona - "hanno impedito qualsiasi riscontro positivo".
Le rappresentanze sindacali hanno dichiarato quindi lo stato di agitazione. L'adesione allo sciopero unitario per il contratto collettivo nazionale del 21 maggio è stata del resto altissima, a dimostrazione della determinazione dei lavoratori. Altre quattro ore di sciopero sono state poi proclamate a sostegno della contrattazione aziendale. I lavoratori del Valerio Catullo si fermeranno dalle 12 alle 16 del 4 giugno prossimo. Vista l'interconnessione sistemica della rete aeroportuale l'agitazione dovrebbe avere qualche effetto parziale anche sul traffico nazionale. Ma le Rsa e le segreterie provinciali hanno già annunciato che - se la vertenza non si evolverà positivamente - saranno programmate ulteriori azioni di sciopero di 8 e 24 ore.
La polizia turca ha arrestato centinaia di persone - principalmente dipendenti pubblici - nel corso di una manifestazione non autorizzata contro la proposta di legge mirante a ridurre i diritti sindacali. Un'impresa quasi titanica, visto che la costituzione turca già impedisce lo sciopero ai lavoratori dei servizi pubblici (ospedalieri, militari e insegnanti). La tv ha mostrato le immagini dei pestaggi in piazza Kizilay, nel pieno centro della capitale, con decine e decine di lavoratori caricati a forza sui cellulari. I testimoni oculari riferiscono che migliaia di poliziotti avevano bloccato le strade principali nella capitale, impedendo anche l'ingresso a quanti arrivavano dalle altre città del paese per partecipare alla manifestazione. La polizia ha anche "ridotto" la portata della sua azione dichiarando di voler rilasciare gli arrestati dopo la fine delle proteste. Ma non ci sono notizie certe né sul numero degli arrestati (sembra almeno 500), né su tempi e modalità del rilascio. Il governo aveva annunciato durante la settimana di voler porre un tetto ai salari dei dipendenti pubblici, falcidiati da un tasso di inflazione intorno al 50%. La proposta, anche se leggermente differente dal "congelamento" inizialmente pianificato, comporta comunque una forte riduzione del potere d'acquisto. L'ultima crisi finanziaria turca risale a febbraio, e la moneta nazionale - pur riprendendosi da un abisso che sembrava senza fondo - ha perso da allora il 40% del valore. In seguito, il nuovo superministro dell'economia, Kemal Dervis, aveva ottenuto dal Fondo monetario internazionale 15,7 miliardi di dollari per avviare una drastica serie di misure "di risanamento".
Positivo il risultato conseguito dai 150 lavoratori del Centro del Rondò, polo logistico del Gruppo Rinascente di Levate (Bergamo). Con uno sciopero a raffica hanno trasformato due debolezze - l'essere soci-lavoratori di una cooperativa e l'essere quasi tutti immigrati - in un forza. Che ha piegato sia la Rinascente (51% Ifil, 49% Auchan) sia il Consorzio Intesa che dal primo giugno rileverà l'appalto al Centro del Rondò. Il Consorzio Intesa, che raggruppa un paio di cooperative, ieri ha firmato un accordo con la Filcams di Bergamo e della Lombardia. L'accordo, oltre a soddisfare tutte le richieste dei 150 "soci", contempla garanzie senza precedenti nel settore delle cooperative. Intesa rileverà tutti i "soci" della BB Service, la cooperativa che ha perso l'appalto. Rispetterà le condizioni salariali, normative e d'orario strappate lo scorso marzo, sempre con lo sciopero, dai "soci" alla BB Service. Il Tfr è esteso anche ai "soci" entrati da poco nella cooperativa. Il Consorzio Intesa riconosce come interlocutore sindacale la Filcams Cgil e -questa la novità d'assoluto rilievo - riconosce le agibilità sindacali previste dallo Statuto dei lavoratori e le Rsa già costituite nel polo logistico. Si impegna, da ultimo, ad applicare in tempi definiti la recente legge sulla figura del socio-lavoratore con il conseguente aggancio a un contratto nazionale di riferimento.
La lotta dei 150 immigrati rovescia un trend: ogni cambio d'appalto per i "soci" è un passo indietro, al Centro del Rondò il passo è stato fatto in avanti. Un passo notevole, se si pensa che l'intenzione della Zapping era di fare i contratti "individuali", tipo Berlusconi-Confidustria. Il primo no sul campo a questa nefandezza l'hanno detto dei lavoratori extracomunitari.
Il part-time cresce a ritmi sempre più veloci. E' uno dei mezzi più utilizzati per entrare nel mondo del lavoro: nel 2000, quasi un quarto dei nuovi dipendenti - il 22,4% - ha "debuttato" con un contratto part-time. In molti ormai - almeno il 35% dei lavoratori - lo "scelgono" come ripiego per l'impossibilità di trovare un posto a tempo pieno e, da "traghetto" verso un impiego full time, si è progressivamente trasformato in un modo stabile di lavorare. Inoltre, è prettamente femminile: il 72% dei part-timers italiani, quindi quasi i tre quarti, sono donne. I dati vengono dall'ultimo rapporto Isfol, La riforma del part-time.
In Italia sono in tutto circa 1 milione e ottocentomila e rappresentano l'8,4% del totale degli occupati. Negli ultimi otto anni sono cresciuti con un tasso medio del 6,7% annuo, mentre la crescita dei full time era negativa nel biennio '93-'95, e limitata tra lo 0,1% e l'1,3% negli anni successivi. Evidentemente, per buona parte sono stati proprio i part-time a trainare la crescita complessiva dell'occupazione nel nostro paese, che nel '99-2000 ha registrato un aumento dell'1,9%.
Secondo il decreto legislativo n. 61/2000, che ne ha regolato l'uso, il part-time è il rapporto in cui "l'orario di lavoro fissato dal contratto individuale risulti comunque inferiore alle 40 ore settimanali o inferiore all'eventuale minor orario normale fissato dai contratti collettivi applicati". Sotto le 40 ore, ma senza un minimo: quasi il 60% dei lavoratori, nel 2000, ha avuto un orario tra le 15 e le 27 ore settimanali, e l'11% addirittura sotto le 15 ore. Inoltre, la media delle ore settimanali lavorate è in continua discesa: è passata dalle 25,5 ore del '93 alle 24,1 del 2000.
A peggiorare il quadro, i dati sugli ingressi: oltre il 53% dei part-time stipulati nello scorso anno, proveniva da impieghi full time e soltanto il 47% dal settore dei non occupati. Per molti, quindi, un peggioramento del rapporto lavorativo, tanto più se si considera che, come si è già detto, il 35% dei part-timers lo è per necessità e non per scelta. Soltanto il 28% sono part-timers "volontari". Dal 1995 al 2000 sono diminuite le possibilità di trovare un'occupazione a tempo pieno, mentre si è incrementata, passando dal 53% al 59%, la percentuale dei lavoratori che, a un anno dal loro ingresso, permangono nel part-time senza riuscire a trasformarlo in full time.
Parallelamente alla crescita quantitativa, il panorama legislativo italiano è stato regolato, ma, nell'ultimo anno, sono intervenute delle modifiche che hanno peggiorato sensibilmente la qualità di questo tipo di contratto, rendendo il lavoratore maggiormente esposto al datore di lavoro.
Per l'ottavo giorno consecutivo, alla Arneg di Campo San Martino (Padova), i lavoratori sono entrati in fabbrica soltanto per riunirsi in assemblea e uscire subito dopo in corteo. Due le ragioni fondamentali di questo scontro frontale con l'azienda: il licenziamento di Carlo Basso, un operaio 50enne accusato di "troppe assenze per malattia" e il dirottamento di un gran numero di commesse verso la fabbrica portoghese del gruppo. La Arneg, che produce banchi frigoriferi, fattura oltre 1.600 miliardi di lire l'anno. Ai lavoratori in lotta, in questi giorni, si sono aggiunti gli aderenti al Soccorso popolare di Padova. (vedere sul sito del Centro Documentazione e Lotta per messaggi di solidarietà)
I lavoratori della Zanussi di Susegana hanno avviato una raccolta di soldi per un fondo in sostegno dello sciopero dei loro compagni di Rovigo. L'azienda, con una lettera firmata dal direttore delle Risorse umane, Maurizio Castro e dal presidente di Electrolux Component Companies, Ettore Gregorini, ha minacciato la chiusura dei due stabilimenti di Mel e Rovigo, con il relativo licenziamento di circa 1500 persone, se entro sette giorni non si dovesse arrivare a un accordo. Intanto proseguono gli scioperi che sono scattati dopo le decisioni unilaterali dell'azienda.
La Zanussi ha comunicato ai lavoratori che le ferie estive erano state cancellate e posticipate a fine ottobre-inizio di novembre. La decisione è stata motivata per "esigenze produttive". Risultato: lavorare in estate, andare in ferie a novembre, quando cala il lavoro. Poi l'azienda ha deciso - senza sentire le Rsu e i sindacati - di mandare in trasferta dalla fabbrica di Rovigo e quella di Mel (circa 250 km) un gruppo di lavoratori, con l'evidente scopo di spingerli al licenziamento. A Rovigo sono state già fatte 36 ore di sciopero e ci si appresta a farne altre. A Mel 6 ore. Nel frattempo anche per lo stabilimento di Porcìa si sono rotte le trattative.
L'atteggiamento di netta chiusura da parte della Zanussi è confermato anche dalla decisione di citare i sindacati per "danni" a causa degli scioperi. Come se lo sciopero non rientrasse più nei diritti costituzionali e nella sfera dei diritti dei singoli lavoratori. Il comportamento dell'azienda è però al tempo stesso contraddittorio.
Totalmente insoddisfatti". I sindacati della scuola - stavolta tutti uniti dai confederali, allo Snals, ai Cobas, alla Gilda - hanno intenzione di far pagar cara al ministero la decisione di sospendere l'assunzione di 15 mila precari. La richiesta è una sola: "ritirate la circolare".
Il capo del personale del ministero ha firmato il pezzo di carta che ha fatto piombare nel panico il mondo della scuola: i precari in attesa di una cattedra dovranno aspettare la decisione del Consiglio di stato in merito alla sentenza del Tar del Lazio, che considera "illegittima" la suddivisione in fasce della graduatoria permanente nazionale. Il Consiglio di stato si pronuncerà il 13 luglio, cioè quando la scuola va in vacanza, per tornare a fine agosto. E a fine agosto l'apertura dell'anno scolastico è alle porte: a settembre ci saranno centinaia di posti vacanti e quindi lezioni che di nuovo cominceranno in modo non regolare.
La sentenza del Tar del Lazio è stata emessa il 3 aprile accogliendo un ricorso presentato da un gruppo di insegnanti delle scuole private, i quali lamentavano la divisione in fasce della graduatoria nazionale. Secondo loro - e secondo il Tar - la legge che ha stabilito i criteri di attuazione della graduatoria (legge 124/99) non parlava affatto di "fasciazione". Stabiliva soltanto che dovevano essere tutelati i diritti degli insegnanti "storicamente" precari, cioè quelli presenti in "graduatorie di antica data". Il ministero, invece, attraverso due decreti ha ripartito la graduatoria in cinque fasce, tenendo conto della data in cui gli insegnanti hanno conseguito l'abilitazione. Questo particolare è indigesto a categorie particolari di precari, ad esempio quelli molto giovani, con titoli di specializzazione che non vogliono "stare in coda". D'altro canto i precari di lunga data (magari non proprio "storici", ma quasi) non accettano che i propri anni di insegnamento non vengano considerati, e si sentono tutelati dal metodo delle caste.
Finora sono già state decise 20 mila assunzioni, e la circolare incriminata ne congela altrettante. "Il Tar ha avuto porte aperte - ironizza Franco Coppoli del Cobas scuola - la fasciazione andava inserita direttamente nella legge, e non con un decreto. In questo modo si agisce di imperio, con una forzatura che passa per via giuridica. E che è tutta politica". Di certo è preoccupante la parte finale della sentenza del Tar del Lazio, in cui si esalta il metodo della "chiamata nominativa" utilizzata nelle scuole private perché: "induce all'arruolamento del personale migliore reperibile sul mercato". Intanto promettono mobilitazioni di piazza tutti i sindacati. Iniziano i Cobas, insieme ai Comitati insegnanti precari che sciopereranno il 1 giugno a Roma e Milano.
Il posto fisso rimarrà soltanto nel ricordo dei nonni, l'"atipico" avanza ormai senza ostacoli. Part-time, interinali, contrattisti a termine riempiono le aziende private e si fanno spazio anche negli enti pubblici: l'esperienza del precariato si può osservare nel quotidiano.
L'Unioncamere ha svolto una ricerca per conto della Regione Lombardia, rilevando che in Italia, nel 1999 il 58% delle assunzioni in occupazioni dipendenti sono state fatte in forma di contratti "non standard". E, più precisamente, il 53% di questi contratti "atipici" è stato a termine - il passato è opportuno, perché, nel frattempo, si saranno già esauriti - e il 20% part-time.
L'Isfol riferiva che nel 2000 quasi un quarto dei nuovi ingressi nel mondo del lavoro era avvenuto mediante contratti part-time (8,4% del totale delgi occupati). Il dato fornito da Unioncamere è superiore (10,35%), ma in ogni caso restiamo lontani dalla media europea, che è del 20,8%. La percentuale dei contratti a tempo determinato è a quota 8,6%, mentre in Europa, sempre "all'avanguardia" in quanto a flessibilità, è al 12,8%.
Il lavoro indipendente riguarderebbe il 25% dei lavoratori, ma si fa fatica a vedere come indipendenti - anche se ufficialmente sono tali - i cosiddetti "Cococo", collaboratori coordinati e continuativi: in pratica, dei dipendenti di cui le aziende non vogliono più farsi carico nei modi tradizionalmente garantiti, ma che comunque - lo dice la stessa definizione - sono sottoposti a capi e orari, e prestano la loro opera continuativamente. Secondo l'Inps, sono 1 milione e 900 mila in Italia, e i dati Unioncamere dicono che hanno raggiunto il 28,7% del totale dei lavoratori "indipendenti".
Infine la palma della flessibilità, che va alla Lombardia: da sola, ospita il 20% dei part-time italiani, ovvero circa 360 mila persone. E poi, la regione guidata da Formigoni ha il 29,2% degli interinali nazionali, ovvero quasi 20 mila lavoratori: nel 2000, secondo un rapporto Isfol, nel nostro paese gli occupati in affitto sono stati 50-60 mila. E, infine, ha il 23% delle collaborazioni, che corrispondono a circa 350 mila persone.
La giunta provinciale (di centrosinistra) di Trento ha deciso di privatizzare la Informatica Trentina nonostante la forte opposizione degli oltre 200 lavoratori. La società è al 51% dell'amministrazione, e al 40% di Finsiel, e cura i servizi informatici di tutti i comuni compresi nel territorio. Nonostante sia un'impresa in attivo di bilancio, il presidente della Provincia, Lorenzo Dellai (della Margherita), ha deciso che la quota pubblica debba essere dismessa. I giornali locali riportano senza tanti giri di parole che il principale candidato a subentrare in qualità di azionista di maggioranza è il concorrente storico, la Delta informatica, una cooperativa guidata da Schelfi (che le stesse fonti indicano come "amico" di Dellai e suo ex socio).
I dipendenti della Trentina sono in mobilitazione presenziando anche alla riunione del consiglio provinciale che doveva ratificare la decisione di Dellai. I lavoratori e i dirigenti dell'azienda pubblica erano arrivati a proporsi come acquirenti del pacchetto azionario pubblico, in modo da raggiungere un doppio risultata: mantenere la ragione di "servizio pubblico" e le garanzie contrattuali (sono inquadrati come metalmeccanici). Quando hanno visto che la giunta intendeva procedere senza ripensamenti hanno preso a rumoreggiare in aula, costringendo Dellai a chiudere precipitosamente la seduta.
La vicenda è esemplare sul piano politico-sociale. Mentre, infatti, i componenti di centrosinistra del consiglio uscivano dall'aula senza profferir parola, quelli del Polo andavano a solidarizzare con i lavoratori. Strumentalmente, certo. Come ha rilevato Giorgio Garbellini, delegato della Fiom-Cgil, "E' una situazione paradossale. Molti dei lavoratori che sono venuti in Consiglio erano, come me, davvero sorpresi: "Possibile - mi hanno detto - che nessuno della sinistra sia interessato alla nostra vertenza?"". Sembra proprio una delle domande-tipo da girare ai leader del centrosinistra alle prese con le prime riflessioni sulle ragioni della sconfitta.