Notizie dalla lotta di classe |
Dicembre ’99 |
La legge lo vieta, ma la Merloni (ex Indesit) di None (nei pressi di Torino) ha licenziato senza giusta causa un lavoratore "colpevole" di essere impegato in un'area produttiva in via di "razionalizzazione". La vicenda - che oggi verrà discussa tra sindacati e azienda - è, in apparenza, molto bizzarra; in realtà, rappresenta quella pratica dell'obiettivo che le imprese meccaniche inseguono verso la cosidetta "flessibilità in uscita". Alcune settimane fa il tecnico poi licenziato era stato convocato dalla direzione aziendale che gli aveva offerto 70 milioni in cambio delle sue dimissioni. Di fronte allo stupore del lavoratore, arrivato a quattro anni dalla pensione, i dirigenti gli offrivano di rimanere a casa per qualche giorno "per pensarci un po' su". Fatte le sue considerazioni, il tecnico della Merloni ha deciso di non accettare l'offerta aziendale e, dopo aver informato i sindacati, si è ripresentato al lavoro. Qui ha trovato una lettera per informarlo che il suo posto di lavoro non esisteva più "nel quadro della riorganizzazione produttiva in corso". A quel punto è scattato il ricorso sindacale e lo stabilimento à sceso in sciopero. Sabato lo straordinario è stato bloccato. Il licenziamento senza giusta causa ha contribuito a far crescere le tensioni in una fabbrica che da anni sta facendo largo ricorso al lavoro precario ben oltre i limiti contrattuali e di legge. Oggi la Merloni di None occupa 912 addetti, è in grande espansione "grazie" alla flessibilità del lavoro e dichiara di fondare le proprie relazioni con la mano d'opera sulla partecipazione. Poi, però, precarizza l'occupazione e viola la legge sulla giusta causa, cercando di ottenere nella pratica quello che non può avere - almeno per ora - per via ufficiale.
Gli accordi non portano soluzione positiva per i lavoratori che il processo ristrutturativo e repressivo introdotto da Emilio Riva all'ILVA di Taranto aveva confinato nella nota "Palazzina LAF".
Emilio Riva aveva imposto al più grande polo siderurgico d'Europa una riduzione di personale, con 1400 lavoratori in mobilità 700 in C.I. e 600 neo assunti con CFL.
La CI si è accompagnata ad un alto tasso di straordinari, ossia non a una situazione di crisi. In questa situazione, una settantina di lavoratori, con qualifiche di ottavo e settimo livello, tutti sindacalisti attivi e non disposti a collaborare con "padron Riva" oppure lavoratori con problemi fisici, "espulsi" dai reparti produttivi, sono stati messi in un reparto confino. L'accordo sui risvolti occupazionali della ristrutturazione prevedeva il loro rientro, dopo mesi di lotte e di ingiunzioni pretorili a Riva.
In realtà, quando i lavoratori si sono presentati in fabbrica, per essere riammessi avrebbero dovuto scegliere fra una riduzione consensuale di categoria oppure il licenziamento con preavviso e incentivo. I lavoratori si sono rifiutati e allora la direzione ha comunicato loro la CI.
Questa proposta è ovviamente giudicata peggiorativa dai lavoratori: inoltre, come spesso avviene, questo era l'obbiettivo da tempo preventivato da Riva, poichè è sicuramente meno oneroso per lui e espelle i lavoratori dalla fabbrica.
Il 1 dicembre i lavoratori hanno effettuato un presidio davanti alla portineria A. Lo Slai Cobas di Taranto ha presentato un esposto al ministro del lavoro, alla procura della repubblica e al prefetto.
In realtà, come insegna il peregrinare di questi lavoratori, non sono le denuncia che fermano un padrone che effettivamente ha in testa un processo ben preciso. Anche nell'assemblea romana del 27 febbraio scorso, partita proprio come momento di solidarietà verso i lavoratori della palazzina LAF, emerse che la forza delle lotte può risiedere solo in un percorso unitario, che faccia convergere diverse esperienze in una resistenza compatta a questi processi.
Allora, ribadendo solidarietà e militanza a fianco di chi lotta per i propri diritti attaccati dalla ristrutturazione capitalista, invitiamo a comunicare con i lavoratori di Taranto e a creare mobilitazioni solidali, soprattutto nella zona tarantina.
Cinque lavoratori della BOCOGE sono entrati in sciopero della fame, mentre si trovano da venerdì sulla gru del cantiere dell'università di Cosenza. 63 lavoratori sono stati messi in CI dall'impresa aggiudicatrice dell'appalto. Alcune istituzioni locali e l'Università stessa hanno offerto 16 miliardi per la prosecuzione dei lavori: i sindacati l'hanno ritenuta insufficiente.
Dopo aver ottenuto 1500 miliardi dal governo e aver acquisito la BAE inglese, l'ALENIA Marconi System ha proceduto a ristrutturare: aumenti salariali ai dirigenti e 600 operai in cassa integrazione. In particolare a Napoli sono stati tagliati 310 posti di lavoro e 299 a Roma. La risposta dei lavoratori non si è fatta attendere. A Napoli il 1° dicembre è stata occupata per alcune ore la Stazione centrale, mentre il giorno prima era toccato a quella dei Campi flegrei; a Roma hanno manifestato sotto il Campidoglio.
L'Alenia, con l'accordo con la BAE, si è assicurata una buona posizione nel mercato in espansione dei sistemi di difesa - un settore che tira in una fase in cui la guerra imperialista diventa una realtà -. La Finmeccanica, che controlla Alenia, ha attuato a fronte di questa situazione profittevole, un atteggiamento aggressivo nei confronti del personale, ma con ricadute diverse nella pratica. Infatti, ai dirigenti sollecitati ad andarsene (salvo poi rientarre dalla finestra come consulenti!) sono state promesse 30 mensilità di buonuscita (dai 500 a 1200 milioni ciascuno) mentre agli operai sono stati offerti sei milioni! Inoltre gli stipendi dei dirigenti Alenia rimasti sono stati equiparati a quelli, più alti, dei loro colleghi BAE. Poi sono arrivati i telegrammi di cassa integrazione.
Il "piano d'impresa delle ferrovie", tra scorpori aziendali e messa in liquidazione di buona parte del patrimonio edilizio, aveva subito diverse robuste revisioni. Ma un punto decisivo era rimasto inalterato lungo tutta la faticosa gestazione: il costo del risanamento dei conti Fs l'avrebbero pagato i lavoratori.
18.000 "esuberi" previsti dal piano rientrano nella "normale" ricetta di ogni imprenditore alle prese con le perdite d'esercizio della propria azienda. Ma la riduzione del salario di circa il 20%, in media, lo si vede proposto decisamente per la prima volta in Italia. I ferrovieri si trovano a far da cavia nell'esperimento politico-legislativo che mira a rendere puramente simbolico (se non proprio ad azzerare) il diritto di sciopero.
Una situazione che avrebbe potuto facilmente paralizzare i lavoratori, stretti tra la prospettiva di essere additati al pubblico disprezzo se scioperano e quella di essere azzerati come peso contrattuale (in termini di diritti, salari, occupazione) se non lo fanno. I sindacati confederali si sono divisi proprio sulla valutazione del "piano d'impresa" (con accuse unanimi di "collateralismo" col governo indirizzate alla Cgil) e il sindacalismo di base non riusciva a superare la soglia della rappresentatività per singole mansioni (macchinisti, capistazione, ecc). La gravita' della situazione ha pero' portato i diversi "sindacati di base", nel corso del '99, a federarsi nell'"Orsa", una formazione che ormai raccoglie consistenti gruppi di lavoratori dei trasporti (non solo ferrovieri).
Questo primo sciopero indetto dall'Orsa, quindi, e' stato anche il banco di prova della sua reale capacita' di raccogliere i consensi dei ferrovieri in generale e non solo nei nuclei "storici" (macchinisti e capistazione). "Abbiamo fatto numerose assemblee anche fuori dell'orario di lavoro - dice Savio Galvani, uno dei dirigenti storici del sindacato macchinisti - Assemblee molto partecipate, da cui e' uscita confermata la volonta'; dei lavoratori di non arrendersi, della necessita' di utilizzare il conflitto per difendere dei diritti, non dei "privilegi"".
E' caduta una roccaforte della Fiom-Cgil. E l'assalto e' arrivato da sinistra. Nel consiglio di fabbrica dello stabilimento anconetano della Fincantieri - 720 i dipendenti, 534 le tute blu - e' cambiata la maggioranza, almeno nelle urne. Il vincitore e' il Salfa, sindacato autonomo di base nato a luglio scorso nella fabbrica.
Ha ottenuto il 40% dei voti, 245 preferenze, ben oltre le 100 tessere finora conquistate. Primo sulle altre tre liste, Fiom, Fim e Uilm. Sconfitta, squarciata, e' soprattutto la Fiom che tra gli operai e' sempre stata in maggioranza, fino a due anni fa maggioranza assoluta, ancora oggi oltre 300 gli iscritti; stavolta non ha raggiunto i 200 voti, seconda tra gli operai (170), ultima tra gli impiegati (23), un iscritto su tre non l'ha votata. E nessuno ha potuto giustificare la sconfitta aggrappandosi alle scivolose pareti dell'astensionismo, perche' da anni non si contavano tanti lavoratori votanti. Increduli i confederali locali.
Il voto e' la fotografia del crescente disagio di una fabbrica dove oltre il 50% degli addetti ha meno di 30 anni e per i quali dunque nulla contano le tradizionali motivazioni ideologiche, le scelte di campo e di tessera. Il Salfa ha vinto perche' ha rappresentato quelle inquietudini del presente e le angosce del futuro. Perche' il Salfa si avvia all'incertissima privatizzazione della Fincantieri - data fissata giugno 2000 - con un bilancio economico e umano disastroso.
Da gennaio a oggi il buco di bilancio ha toccato 120 miliardi di lire a causa di contratti capestri firmati con i committenti da una direzione aziendale inetta secondo tutti, ma da troppo non contrastata efficacemente dai confederali secondo il Salfa.
Contratti capestri come quelli per le tre navi Thorline, ovvero ritmi di consegna impossibili e 63 milioni di penale per ogni giorno di ritardo.
Di tre navi due sono state costruite all'80% e terminate altrove, una e' stata consegnata un anno dopo la prevista consegna. La Thorline puo' ringraziare cosi' il Cantiere di Ancona: di tre navi due le ha avute gratis. Stessa storia per il contratto con 4 navi del gruppo Orsero: due consegnate fuori tempo massimo, 2 ancora in costruzione e, dopo mesi e mesi, chissa' quanto durera' ancora il pagamento della Fincantieri dorica di 43 milioni di penale al giorno.
Il Salfa e' nato quando e' esplosa la questione - salute scaturita dalla costruzione di due navi (che trasportavano materiali chimici) in acciaio inox duplex, che genera una molecola, la R45, classificata dalla legge 626 cancerogena e impossibile da eliminare. Nel luglio scorso gli operai hanno "processato" la vecchia Rsu perche' incapace di tutelarli di fronte a un'azienda spregiudicata. A 4 mesi dall'avvio delle lavorazioni, nonostante le rigide disposizioni della Asl, la situazione e' immutata. Nessuno degli operai addetti, per esempio, ha mai fatto le analisi delle urine, prescritte dai medici a ogni inizio e fine turno, ogni giorno. E ancora - spiega Luciano Marconi del Salfa - c'e' la questione morale degli appalti selvaggi, 140 ufficialmente le ditte appaltatrici, almeno 800 il numero ufficiale degli addetti, molti gli extracomunitari. Per troppi turni massacranti, troppi i senza diritti: 3 dollari al giorno se stranieri, salariati gran parte degli italiani, da 28.000 a 38.000 al giorno, pacchetto onnicomprensivo senza ferie e malattie, a casa nascosti fino al licenziamento se infortunati.
"I confederali avevano gli occhi chiusi, non piu' in grado di rappresentare i bisogni solidi, concreti di chi qui dentro lotta ogni giorno con i propri timori".
Cesare Salvi, ministro del Lavoro, ha convocato (accogliendo la richiesta di Fim, Fiom, Uilm) il sindacato e il management di Micron Technology per trovare una via di uscita dalla difficile situazione creata dai turni di 12 ore, che l'azienda ha voluto imporre dall'inizio del mese minacciando, in alternativa, la chiusura dello stabilimento di Avezzano nella cui sovranita' e' subentrata lo scorso anno a Texas Instruments, che ha abbandonato su scala mondiale il settore delle memorie. Da quando nello stabilimento di Micron Technology, ad Avezzano, e' sbarcato Brian Shields, attuale plant manager, lo stile e' cambiato. L'arco temporale dei nuovi turni e': 8-20, 20-8, con una organizzazione imperniata su quattro squadre. In un messaggio "confidenziale" ai dipendenti, Brian Shields ha scritto tempo addietro: "Vi sono molti luoghi in cui investire". Non poteva essere piu' chiaro, per comunicare che Micron puo' spostare investimenti e tecnologie in ogni parte del mondo. Di fronte a cio' i sindacati confederali ha imboccato strade diverse. La Uilm ha scelto la strada della trattativa separata, e ha firmato un accordo con i managers. La Fim ha prima indetto uno sciopero, ma poi s'e' pentita. Ha fatto intervenire il segretario abruzzese della Cisl, Gianni Tiburzi, per far rientrare l'agitazione. La Fiom non ha accettato di prender parte a trattative di sorta. Infine, in sindacato autonomo Fismic ha per lungo tempo osteggiato i turni di 12 ore. Nei giorni scorsi ha tenuto un referendum telematico tra gli iscritti (fino a due settimane fa 320, essendo la Fismic il primo sindacato in Micron) di cui non ha fatto conoscere ufficialmente il risultato. Si sa solo che la gran parte degli iscritti Fismic avrebbe detto si' ai nuovi turni chiedendo in cambio soldi. Nel giro di due settimane la Uilm ha ricevuto 30 disdette su 60 iscritti; la Fim ha perduto 50 iscritti su 110. La Fismic ha perso 200 adesioni. La Fiom e' stabile sui 100 iscritti che aveva dopo l'erosione prodottale dalla Fismic.
Con la consueta rudezza un po' western, Micron Technology ha fatto sapere che il modello di organizzazione del lavoro adottato nella fabbrica di Avezzano "risponde alle precise esigenze produttive dei Centri di Diffusione delle aziende che producono componenti elettronici a semiconduttore e, specificamente, memorie dinamiche, in tutti i paesi del mondo". Questa organizzazione del lavoro ha portato Micron "ad essere leader indiscusso nel mercato mondiale delle memorie dinamiche", ed e' la "condizione (sic!) sine qua non per accelerare il processo di integrazione dello stabilimento di Avezzano con gli altri stabilimenti Micron e renderlo competitivo". Poi l'affondo: la mancata realizzazione di un accordo con il sindacato "ha gia' fatto maturare la decisione della Casa Madre di cancellare l'espansione della capacita' produttiva dello stabilimento (circa 140 mld d'investimenti e oltre 130 posti di lavoro aggiuntivi)".
Per derogare alle 8 ore e' necessario un accordo tra azienda e sindacato. Dunque, lo scorso 5 dicembre Micron ha fatto decorrere i turni di 12 ore "in contrasto con il decreto". Questo e' lo stile dell'azienda. I nuovi turni "diventano un elemento strutturale", e che sono comunque - dice il segretario Fiom - "insopportabili". Il problema non e' degli impianti, o al contrario che senza turni di 12 ore si perda produttivita'. "Il problema e' che vogliono decidere da soli, per una questione di potere, chi comanda in fabbrica. L'obiettivo finale dell'azienda e' che il sindacato non esista". Il sistema delle 12 ore ad Avezzano e' illegale, e che esso va azzerato.
E' cominciato a Taranto il processo che vede alla sbarra l'imprenditore lombardo Emilio Riva, suo figlio Claudio e altri dieci dirigenti del piu' grande polo siderurgico d'Europa: l'Ilva di Taranto. Devono rispondere di tentata violenza privata in relazione allo scandalo della famigerata Palazzina Laf, reparto-confino in cui la direzione ha tenuto reclusi per anni una settantina di lavoratori in qualche modo indesiderati e sgraditi al management, che fin dal suo arrivo nel capoluogo ionico ha avviato un violento processo di ristrutturazione.
Per ora, dato assai significativo, solo la Uilm, la Uil regionale e provinciale si sono costituite parte civile insieme a tutti i lavoratori ex-reclusi. Gli imputati erano invece assenti. Alla richiesta del legale di Emilio Riva di prendere tempo, il titolare dell'inchiesta, Chiarello, ha subito tenuto a precisare che non intende offrire alcun appiglio per cavilli burocratici che possano frenare o ritardare l'avvio e lo svolgimento del processo. Un segnale, questo, che per i lavoratori della Palazzina Laf suona un po' come un augurio per dar corso ad un processo da cui sperano emergano le gravi responsabilita' del gruppo in materia di diritti e liberta' individuali e di associazione in fabbrica.
Il reparto-confino fu sequestrato l'8 novembre dell'anno scorso dal giudice Francesco Sebastio che, insieme ai colleghi Coccioli e Viesti, rappresenta il pool dei pubblici ministeri.
Un anno dopo un matrimonio da ottanta miliardi di dollari, la Exxon Mobil Corp. (la superazienda petrolifera nata dalla fusione tra Exxon e Mobil) ha annunciato il taglio di oltre 16mila dipendenti, resi superflui dalle sinergie tra i due gruppi uniti, entro il 2002. Quando avvenne la fusione vennero stimati novemila dipendenti in esubero, mentre ora rappresenta oltre il dieci per cento dell'intera forza lavoro dell'azienda (123mila dipendenti). Almeno duemila dipendenti sono gia' stati licenziati nel corso del '99, e almeno mille dei tagli in arrivo riguardano dirigenti. Un terzo delle posizioni esecutive dell'azienda saranno quindi soppresse. Al momento di stringere il patto di fusione, inoltre, Exxon e Mobil stimarono in 2,8 miliardi di dollari i risparmi realizzabili entro tre anni. Ora affermano che la cifra sara' di un miliardo di dollari piu' alta, esattamente il ricavo netto realizzato dalla superazienda texana quest'anno, e il prossimo anno (grazie ai tagli) i ricavi dovrebbero salire a due miliardi e mezzo di dollari.
La Exxon Mobil vendera'; anche 2.400 stazioni di servizio (ne possiede 45mila sparse in tutto il mondo), una raffineria e altri pezzi della propria organizzazione, ma manterra' tutte le proprie riserve di petrolio e di gas. La borsa americana ha naturalmente premiato sia la fusione che gli ulteriori tagli all'organico.
Con 313 voti favorevoli e 185 contrari la camera ha approvato la legge finanziaria. Analogo esito dovrebbe avere la discussione al senato. Contraddicendo una posizione espressa nei giorni scorsi, il governo ha accettato l'emendamento proposto sull'argomento da Cgil, Cisl e Uil e dalla stessa Confiterim, l'associazione padronale delle aziende che gestiscono il lavoro in affitto. L'emendamento introduce la possibilita' del lavoro interinale anche nei settori dell'edilizia e dell'agricoltura, quelli dove il ricorso al caporalato e', al tempo stesso, piu' rischioso e tradizionale. Proprio perche' la concessione del lavoro in affitto in settori come l'edilizia puo' comportare l'ulteriore abbassamento dei gia' scarsi livelli di sicurezza, l'emendamento presentato dal governo e approvato dall'aula affida "alla contrattazione collettiva" il compito di "individuare le mansioni per le quali vietare" il lavoro in affitto, con particolare riferimento a quelle "il cui svolgimento puo' presentare maggiore pericolo per la sicurezza del prestatore di lavoro o di soggetti terzi". Ma questo passaggio della legge non e' un vincolo, e' semplicemente un invito rivolto a sindacati e imprese. E rischia di essere, nei fatti, una foglia di fico dietro la quale si nasconde la completa liberalizzazione del lavoro interinale anche nei settori a rischio. A conferma di questa sensazione ci sono i commenti e le reazioni di parte sindacale e imprenditoriale all'approvazione del provvedimento. Cgil, Cisl e Uil e Confiterim avevano fatto fuoco e fiamme nei giorni scorsi quando pareva che l'emendamento non sarebbe stato presentato dal governo, parlando di "un gravissimo passo indietro sul terreno dei dialogo triangolare tra le parti sociali". Il testo ricalca infatti quello di un accordo tra le associazioni padronali e le strutture di Cgil, Cisl e Uil che rappresentano i dipendenti in affitto. L'intesa era stata siglata il 22 novembre scorso con l'esplicito obiettivo di favorire l'intervento legislativo per la deregulation del settore. Dopo l'approvazione l'associazione padronale ha parlato di "un successo" e ha elogiato "il sostegno dato dai sindacati confederali lungo tutto il delicato iter dell'emendamento". La Cisl ha gioito per aver messo in fuga "le tentazioni presenti nel governo di affossare una delle poche esperienze di concertazione". Il segretario confederale della Cgil, Giuseppe Casadio, ha plaudito al fatto che il provvedimento "rafforza il ruolo della contrattazione sull'individuazione delle mansioni da escludere e sull'attivazione del fondo per la formazione".
Oltre a liberalizzare il ricorso al lavoro interinale nei settori agricolo ed edilizio, il provvedimento abolisce anche il divieto all'utilizzo dei lavoratori in affitto per mansioni "di esiguo contenuto professionale", che sono poi quelle gia'ggi deboli sul mercato del lavoro. Infine si stabilisce che il fondo, oggi pubblico, destinato alla formazione dei lavoratori in affitto, diventi un fondo privato gestito da sindacati e imprenditori e che le imprese destinino allo stesso fondo il 4 e non il 5% del monte-retribuzioni.
S aggrappano alla speranza i 1850 metalmeccanici della ex-Belleli Off-Shore. L'azienda mantovana, lo scorso 8 maggio, e' passata a una cordata di societa' multinazionali, la "Boi - Belleli Off-Shore International", del gruppo Abb, Halter, Itainvest. Dopo un ennesimo incontro al ministero dell'industria col responsabile d Palazzo Chigi - Giampiero Borghini - e' stato prorogato di un altro anno quell'ammortizzatore sociale che i lavoratori vedono sempre piu' come l'ultimo gradino prima di finire in mobilita'.
La Belleli e' l'unica azienda italiana i cui tecnici vantano un know-how di alto profilo nella costruzione di piattaforme petrolifere per l'estrazione di petrolio e gas a grandi profondita' marine.
I lavoratori si chiedono "come" e "quando" riprendera' l'attivita' produttiva in fabbrica, ora bloccata con impianti e macchinari fermi, mentre le commesse volano via, soffiate dalla concorrenza grazie alle incertezze e alle lentezze della Boi di dar corso agli impegni sottoscritti. Quali? Il nuovo piano industriale per esempio, reso incerto dalla continua perdita di commesse o dal futuro assetto societario della nuova cordata multinazionale. Insomma, i lavoratori temono, a ragione, che i nuovi padroni subentrati alla Belleli, diano forfait a breve. Sarebbe un disimpegno complessivo su Taranto.Le 1.050 assunzioni preventivate dalla Boi non si sono piu' viste, salvo che per 50 unita'. E inoltre i mancati interventi su impianti e macchinari, sulla manutenzione straordinaria e i corsi di formazione professionale: tutti impegni assunti sette mesi fa, all'atto del passaggio della gestione del gruppo industriale. I lavoratori denunciano inoltre le palese discriminazione nell'attivazione della procedure per salvare gli stabilimenti pugliesi, rispetto a quanto gia' fatto con successo di fronte alla crisi di quelli mantovani. Il sindacato intanto si prepara alla mobilitazione generale, nell'ipotesi che l'intera vertenza imbocchi il malaugurato cammino della dismissione degli impianti. Il 16 dicembre piu' di 1.000 tute blu della Belleli e di altre aziende dell'area industriale di Taranto hanno sfilato per le vie della capitale, fin sotto gli uffici del ministero dell'Industria.
Una decina di dipendenti della Telecom srl, una societa' di appalti telefonici, sono saliti ieri sul campanile del Duomo di Messina per protestare contro il mancato pagamento degli stipendi, in arretrato da 5 mesi. Per la stessa ragione giovedi' hanno protestato sui tetti dei capannoni dell'impresa gli operai di Enna, ai quali peraltro sono stati notificati provvedimenti di mobilita'. La Telecom srl, di proprieta' di Giuseppe Cuminale, ha 600 dipendenti e, secondo le fonti sindacali, ha preso negli ultimi due anni appalti telefonici dalla Telecom Italia per 50 miliardi. "Ci chiediamo come un grande gruppo come la Telecom - accusa Salvo Giglio, segretario della Cgil di Messina - possa continuare ad appaltare lavori a un imprenditore irresponsabile e discusso come Cuminale che spesso negli ultimi anni e' stato all'attenzione degli inquirenti". Cuminale avrebbe anche denunciato a Messina 16 esuberi nel settore amministrativo, dove in realta' lavorano solo 8 persone.