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La morte di Eugenio Colorni

di Massimiliano Griner more >>

Roma, 28 maggio 1944. Una vittima della banda Koch

 Fino al bel libro di Sandro Gerbi, Tempi di malafede, appena edito per i tipi della Einaudi, la figura di Eugenio Colorni era rimasta velata dall'oblio di una morte prematura. Il coraggioso militante politico, il filosofo prestato alla resistenza per motivi di coscienza civile che, forse, se avesse desistito dall'idea di farsi da parte a guerra finita, sarebbe diventato uno dei leader della nuova Italia, oppure una delle figure di riferimento della cultura filosofica e scientifica del nostro paese, trovò infatti la morte per mano della sbirraglia fascista la mattina del 28 maggio 1944, una settimana prima che gli angloamericani del generale Clark entrassero, all'alba, in Roma.
La notte prima della sua morte, Colorni - ricorda un suo compagno di lotta, con il quale divideva anche l'alloggio - sembrava inquieto, depresso. Da tempo non gli riusciva di condividere l'entusiasmo generale che si stava diffondendo in Roma, nell'imminenza dell'arrivo degli angloamericani. Trentacinquenne, affermato leader socialista della resistenza romana, dopo mesi di lotta nella piena clandestinità, cominciava forse, suggerisce Gerbi, a sentire il peso di un'attività senza tregua. Riunioni segrete, azioni rischiose di sabotaggio, molte notti in alloggi di fortuna. In quanto ebreo, inoltre, il suo rischio era maggiore, perché se fosse stato catturato e identificato, sarebbe stato senz'altro deportato, indipendentemente dalla gravità delle accuse che avrebbero potuto muovere contro di lui.
Il mattino del 28, una domenica, Colorni e il suo coinquilino avevano in programma l'incontro con altri militanti, nelle vicinanze di piazza Bologna. Secondo Gerbi, il loro fine era la costituzione di un gruppo militare di ispirazione socialista, in contrapposizione alle "Brigate Garibaldi", legate al PCI. Fu su questo appiglio inconsistente, e la presenza, non dimostrata, di un ex gappista passato alla banda Koch, che una pretestuosa pubblicistica di destra - "un castello di paranoia", nelle parole di Alessandro Portelli -, indicò nella morte di Colorni la conseguenza di un complotto comunista, volto a decimare le file dei futuri avversari politici.
Anche volendo prendere sul serio l'ipotesi del complotto - che andrebbe esteso anche alla morte degli azionisti caduti alle fosse ardeatine, a alla morte di Bruno Buozzi alla Storta -, e ammettendo la presenza dell'ex gappista Blasi sul luogo dell'omicidio di Colorni, l'apparato dietrologico continuerebbe a fare acqua. Blasi, che pure tradì molti ex compagni, non conosceva Colorni, e non avrebbe avuto modo, con tutta la buona volontà, di segnalarlo ai suoi complici.
Guglielmo Blasi era un artigiano quarantunenne, e proveniva dal quartiere popolare della Suburra. Alle spalle aveva una forte condanna per reati comuni, e a carico una famiglia numerosissima alle soglie dell'indigenza.
Forse vedeva nella militanza nei GAP centrali, che gli veniva compensata con 700 lire alla settimana, la
sicurezza di un minimo garantito. Di sua iniziativa, aveva vendicato la morte di Teresa Gullace - la madre di famiglia resa celebre dall'interpretazione di Anna Magnani in Roma città aperta - uccidendo un milite.

Il 23 aprile 1944, probabilmente con la complicità di altri due gappisti, che gli fecero da palo, penetrò in una casa, e vi rubò 7.350 lire, grosso modo 750.000 lire di oggi. Quando sull'uscio incontrò i figli della proprietaria dell'alloggio, spianò la pistola per aprirsi la via. Suo malgrado, e nonostante i pali lasciati nelle vicinanze, che riuscirono a darsi alla fuga, venne arrestato dalla Polizia. Addosso gli trovarono, oltre alla pistola, una tessera originale delle SS germaniche. Consapevole di rischiare la condanna a morte, chiese di essere ricevuto dal questore Caruso, a cui rivelò di essere a conoscenza del piano con cui i GAP intendevano farlo fuori. Caruso gli prestò fiducia e lo assegnò a Pietro Koch, un giovane ex tenente dei granatieri che, dopo l'armistizio, aveva costituito, in accordo con il capo della polizia, un reparto di polizia speciale ai fini della repressione antipartigiana.
Caruso era convinto che Koch avrebbe saputo come gestire Blasi, e non si sbagliò. Come è scritto nella
sentenza, l'ex gappista venne dunque "a far parte al completo del reparto Koch senza essere stato percosso e dopo essere stato arrestato per reato comune (...)". Con le sue delazioni, portò al totale annientamento dei GAP centrali, che erano guidati da Franco Calamandrei, figlio di Piero, e da Carlo Salinari.
Non si limitò tra l'altro alla denuncia, ma trovandosi finalmente in un ambiente congeniale, divenne la guardia del corpo di Koch, e setacciò con diligenza quelle zone di Roma, come piazza Bologna, in cui sapeva transitare i suoi ex compagni.
Dopo l'episodio dell'assassinio di Colorni, che non lo vide direttamente coinvolto, ferì a colpi di arma da fuoco un partigiano comunista, nel quartiere Tiburtino III, confermando la prassi, comune a tutti gli scherani di Koch, di aprire il fuoco su chiunque osasse tentare, con la fuga, di sottrarsi all'arresto.
Ma non fu Blasi ad uccidere Eugenio Colorni, come venne sostenuto da alcuni quotidiani nel primo dopoguerra.
Nestore Santini e Francesco Belluomini, due uomini del reparto, stavano pattugliando la zona di piazza Bologna, quando - secondo la testimonianza di un uomo che, dopo la sparatoria, accorse in aiuto di Colorni, e insieme ai suoi assassini, lo condusse all'ospedale - "nei pressi di via Michele da Lando avevano visto tre uomini (tra cui il Tanzi [pseudonimo di Colorni]) camminare parlando fra loro di "iscrizioni", di "sezioni" e di altri argomenti congeneri; insospettiti, li avevano pedinati".
Colorni aveva con sé un documento falso, ma anche un pacco di volantini da cui non era riuscito a liberarsi. Esibì i documenti, ma alla domanda che cosa contenesse il pacco, si dette alla fuga. Uno degli uomini di Koch era Nestore Santini. Fiorentino, aveva all'epoca trentun'anni. Sergente del regio esercito, già informatore dell'OVRA e attivo oltralpe, dopo l'8 settembre era rientrato nei ranghi della 92a, una delle legioni della disciolta guardia di Mussolini che, in un secondo tempo, sarebbe confluita nell'esercito repubblicano. Ma in seno alla 92a, un altro personaggio affine a Koch, Mario Carità, aveva dato vita ad un cosiddetto Reparto Servizi Speciali, i cui fini erano la repressione dei partigiani, ma anche l'appropriazione pura e semplice dei beni di persone facoltose, preferibilmente ebrei, in modo da mettersi al riparo da eventuali "proteste".
Santini "prese parte a saccheggi e rapine in casa degli ebrei - depose una sua vicina di casa durante l'istruttoria del processo del 1946 -; con i miei stessi occhi ho potuto vedere gioielli, biancheria finissima, pellicce di valore, che portava alla madre e all'amante."
Nel dopoguerra la sentenza che lo condannò a morte, lo definì "pugilatore, violentissimo picchiatore e crudele seviziatore", ritenendolo anche l'inventore della torsione della colonna vertebrale delle vittime, uno dei metodi di tortura di cui il reparto Koch faceva ampio ricorso.
Con lui quel giorno c'era anche Belluomini. Di qualche anno più anziano di Santini, anch'egli fiorentino,
proveniva dalla squadra "Perotto", un sottogruppo operativo del Reparto di servizi speciali di Carità. Il suo
compito nel reparto di Koch, formalmente, era quello di autista, il che non gli impediva di partecipare a
numerosi arresti e all'esecuzione delle sevizie.
Non appena Colorni si dette alla fuga, Santini gli esplose contro un colpo di rivoltella, che presumibilmente lo attinse alla scapola destra. Poi lo raggiunse, ed esplose contro il ferito altri due colpi, uno all'altezza della clavicola sinistra, e uno all'addome, che si sarebbe rivelato fatale.

Esattamente un mese prima, il 28 aprile, in via Aosta, Santini ed altri avevano tentato di fermare quattro
individui. Quella volta però, anziché un uomo inerme e isolato, i banditi si trovarono circondati da una folla ostile, e i fermati riuscirono a darsi alla fuga. Ne seguì una richiesta di rinforzi, e quando arrivò un'autovettura carica di uomini armati, scoppiò una sparatoria furibonda. Incattiviti dalla reazione inaspettata, gli uomini della banda fecero una strage. Una donna di quarant'anni, che in quel momento stava attraversando la strada, venne colpita a morte. Un uomo giovane colpito per caso. E un ragazzino di undici anni, intento con i compagni di
gioco a riparare un pallone di cuoio presso il negozio di un "ciclista":

Vista sopraggiungere la macchina scoperta della polizia speciale proveniente da Piazza Re di Roma con gli
agenti del reparto che sparavano all'impazzata - racconta la sentenza del 1946 -, cercò scampo con i
compagni nel negozio del ciclista e ne abbassò la saracinesca. Una prima raffica sparata da uno degli
agenti perforò il riparo senza colpire alcuno; ma subito dopo lo stesso agente, sollevata dall'esterno la
saracinesca e attraverso il varco, diretta l'arma nell'interno della bottega, la scaricò ancora raggiungendo
in pieno il ragazzo che gridava, implorando aiuto.

Una delle molte stragi dimenticate del periodo dell'occupazione nazista, forse ancora più impressionante di
quelle meglio note, perché non attribuibile al "tedesco invasore". In quell'occasione Santini era rimasto
leggermente ferito ad un braccio, e altri uomini tra quelli accorsi in rinforzo erano stati anch'essi colpiti. Fu
forse per questo, che, con protervia, uno dei banditi sopraggiunti sul luogo del ferimento mortale di Colorni, con il braccio bendato, ebbe a dire al morente: "Una volta per uno!"
Durante il processo di Corte d'Assise Speciale contro i membri della banda Koch, che si tenne a Milano nel 1946, Santini e Belluomini (quest'ultimo, latitante, si sarebbe costituito solo a processo concluso), vennero condannati a morte. La pena di morte venne però abolita, e la loro condanna automaticamente commutata nell'ergastolo. Poi, tra amnistie e condoni, la loro permanenza nelle carceri, come quelle dei loro complici, si accorciò. Belluomini ricevette la grazia nel 1959. Nel frattempo Santini era già uscito: in prigione aveva scontato undici anni.
Quanto a Blasi, la Corte d'Assise Speciale l'aveva condannato a trent'anni di reclusione, di cui 10 condonati, a L. 6.000 di multa, meno di 300.000 lire attuali, e, riconoscendogli una parziale infermità mentale, a 3 anni di custodia presso "una casa di cura". Nel 1955 però aveva ricevuto la grazia ed era uscito di prigione. Fece ritorno a Roma, e trascorso qualche anno, incontrò casualmente uno dei partigiani che aveva fatto arrestare e seviziare, Luigi Moro, ed ebbe l'impudenza di rivolgergli la parola, in un patetico tentativo di captatio benevolentiae. Nel non comprendere l'ostilità e la profonda ripulsione di Moro - che era stato appeso per i polsi al serbatoio di uno sciacquone e lasciato così per un giorno intero -, Blasi parve stolidamente sincero. Gli disse anzi che l'aveva sempre tenuto per amico, in fondo, e che per lui era riuscito ad ottenere un trattamento di favore.

 Massimiliano Griner

http://www.liberliber.it/biblioteca/g/griner/

 

Le fonti utilizzate

Corte d'Assise Speciale di Milano, sentenza 313/1946 e collegate, "Sentenze Koch, Finizio, e altri"; Archivio di
stato di Milano, Documenti relativi al processo contro i superstiti del reparto Koch, su gentile concessione di
Marco Fini e Sandro Gerbi; G. Formìggini, Stella d'Italia stella di David, Milano, Mursia, 1998; S. Gerbi,
Tempi di malafede, Torino, Einaudi, 1999; A. Portelli, L'ordine è già stato eseguito, Roma, Donzelli, 1999.

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