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La notte dei detectives: appunti su thriller e nazismo

 di Daniele Cambiaso

Può uno spietato killer essere lo strumento del Bene? E può un poliziotto dotato di ottime capacità investigative e di straordinaria umanità svolgere la propria azione a favore del Male? Su questo apparente paradosso si fonda “Il giardino delle belve”, l’ultimo avvincente thriller di Jeffery Deaver, che abbandona il suo amato Lyncoln Rhyme per confrontarsi con la Storia, ambientando il suo romanzo nella Berlino dei Giochi olimpici del 1936.

Paul Schumann, killer di origine tedesca al soldo di Lucky Luciano, è destinatario di una strana proposta da parte dell’FBI che lo ha appena catturato: deve recarsi in Germania al seguito della squadra olimpica statunitense per eliminare, durante la cerimonia di apertura dei Giochi, Reinhard Ernst, massimo artefice del riarmo nazista. Inizia così una serrata avventura, costellata da infiniti colpi di scena e dal duello di Schumann con Willy Kohl, acuto e tenace detective della polizia berlinese. La vera protagonista del romanzo risulta essere, però, la Germania di Hitler, con la sua quotidianità scandita dalle prepotenze dei miliziani di partito, soffocata dal sospetto, dalla delazione e dagli intrighi degli alti gerarchi nazisti. Deaver traccia un efficace ritratto di uno dei totalitarismi più sanguinari del XX secolo, che è anche un atto di accusa per la miopia delle democrazie occidentali, incapaci, talvolta per cinici calcoli politico-economici, di intuire la pericolosità di un regime che maschera i propri aspetti più inconfessabili dietro coreografie seducenti. Ma non è il solo: già Philip Kerr, nella celebre “trilogia berlinese” pubblicata in Italia tra il 1997 e il 1999 da Passigli (Violette di marzo, Il criminale pallido, Un Requiem tedesco) si era interrogato sulla realtà nazista e sulle coscienze di quelli che uno storico definisce “i volenterosi carnefici di Hitler”, scandagliandole con l’occhio disincantato del detective privato Bernie Gunther. Nel primo romanzo della serie, le indagini sul rapimento della figlia di un industriale si scontrano con la “normalizzazione” imposta dalle Camicie Brune proprio in vista dei Giochi olimpici del 1936, mentre il cuore dell’Impero del Male viene svelato nell’opera successiva, imperniata su una torbida serie di intrighi interni al regime. L’ultimo romanzo ci porta, infine, tra le macerie morali e materiali del Reich millenario, vinto ma ancora popolato di inquietanti fantasmi. Spettri letali, dal momento che tramano tra le rovine della Germania, intenzionati a far detonare nuovamente lo scenario dell’incipiente Guerra Fredda, come ci racconta Christopher Reich nell’avvincente “Il velocista” (Mondadori, 2001), ma anche fuggitivi dal passato ingombrante e intriso di sangue, come possiamo leggere nell’intramontabile “Dossier Odessa” (1972) di Frederick Forsyth.

Tra le pagine di questi romanzi è facile incontrare personaggi ormai consegnati al giudizio della Storia, che, situandosi sullo sfondo di vicende inventate, chiamano a riflettere sulla realtà di ciò che è stato. Incontriamo un luciferino Goebbels, ad esempio, nell’ottimo “La donna sulla luna” (Mondadori, 2002) di Giulio Leoni, il quale, nella Weimar prossima al crollo, colloca un delitto sul set di un film di Lang (storicamente poi mai realizzato) che attira l’attenzione dei nazisti, prossimi a impadronirsi delle leve del potere e già attentissimi a studiare i mezzi di comunicazione di massa. Se intrighi, violenza, propaganda ossessiva sembrano originare la creazione di sadici mostri come il giovane membro della Hitlerjugend, protagonista del durissimo “L’uccisore” (Theoria, 1996) di Eraldo Baldini, è anche vero che non bastano ad obnubilare le coscienze di chi abbia radicato in sé solidi valori culturali e religiosi. Lo testimonia Martin Bora, tormentato soldato-detective creato dalla felice penna dell’americana (ma italiana di nascita) Ben Pastor (Lumen, Luna bugiarda, Kaputt Mundi, La canzone del cavaliere, pubblicati dalla milanese Hobby&Work). Solidità morale e desiderio di verità del singolo non bastano forse a riscattare le colpe collettive di un popolo, ma certo sembrano rappresentare l’unico baluardo possibile al dilagare della follia collettiva e individuale anche nel celeberrimo “La notte dei generali” (Garzanti, 2000) di Hans Helmut Kirst, così come nell’ottimo “L’assassino delle vedove” (Fazi, 2003) di Pavel Kohout, ambientato nella Praga ormai prossima alla liberazione. Per farvi fronte, anzi, talvolta si possono superare le differenze di appartenenza nel nome di un ideale di giustizia che travalica gli opposti schieramenti: è così che nascono alcune “strane coppie” di detectives, come quella che opera nei romanzi (inediti, per ora, in Italia) dello scrittore canadese J. Robert Janes, che chiama a far luce su alcuni casi scottanti Jean Louis St.Cyr, della Sureté e Hermann Kohler della Gestapo. Anche Leonardo Gori e Franco Cardini, ne Lo specchio nero (Hobby&Work, 2004), uniscono le forze del poco fascista capitano Bruno Arcieri dei Reali Carabinieri e del colonnello delle SS Dietrich von Altenburg, destinandoli a indagare su una serie di delitti connessi con alcuni misteriosi oggetti dal grande valore esoterico e portandoli a contatto con gli aspetti magico-misteriosofici del nazismo. Assimilabile a quella dei gialli è anche l’indagine compiuta dall’insegnante e dallo studente protagonisti (contemporanei) del recente Secoli di gioventù (Mondadori, 2004) di Eraldo Affinati: mossi dal desiderio di conoscere la storia di un soldato tedesco di cui hanno rinvenuto le spoglie durante una lezione “sul campo”, cercano di contattarne il nipote, un black-bloc naziskin, scomparso sulle rive del Gange. E’ emblematica, qui, la stessa necessità di continuare a studiare e capire il nazismo che anima anche gli altri autori, e se davvero, come molti sostengono, il giallo sta diventando il romanzo sociale del nuovo millennio, non è da sottovalutare, allora, il contributo offerto dalle avventure di questi nostri eroici detectives di carta.

Daniele Cambiaso

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