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I romeni della Transilvania e l’imperatore austriaco.

La metamorfosi del mito del “buon imperatore”

(fine '700-secondo '800)

 

 

Mirela  Andrei,

Università degli Studi “Babeº-Bolyai” di Cluj-Napoca

 

La storia delle mentalità collettive si propone di studiare quello che cambia più difficilmente nel corso del tempo, intende analizzare, capire e far capire certe reazioni, sentimenti, atteggiamenti comuni ad una collettività. Questo settore assai generoso della storia ha avviato un nuovo indirizzo storiografico che mette al centro dell’attenzione non l’individuo o l’avvenimento, ma il gruppo, la massa anonima, il volgo. Un argomento di studio stimolante per lo storico delle mentalità collettive è il mito – la mitologia – visto che esso è più impregnato di sentimento, si avvicina di più alla sensibilità ed è, quindi, in maggiore misura, l’appannaggio dell’irrazionale e dell’inconscio, che piuttosto quello della ragione e del conscio. Il contenuto del mito è fantasioso, perché crea un mondo diverso da quello dell’esperienza quotidiana, raccontando degli avvenimenti straordinari, i cui personaggi sono degli esseri con poteri ed attributi fuori dal comune. Questa tendenza di farneticare e di costruire un mondo illusorio migliore della realtà sorge proprio da quella particolarità, specifica della sensibilità umana, di sfuggire ad un presente deprimente per vivere nel passato, dal quale si conservano, solitamente, solo le impressioni favorevoli, oppure nel futuro, sperando che questo destini soltanto delle belle cose. Il mito resta tale soltanto nel periodo in cui viene riconosciuto il carattere sacro dell’evento o dell’eroe intorno al quale esso si sia coagulato.

Oltre alla sua sostanza immaginaria e fantastica, il mito contiene sempre un livello reale, visto che parte da un fatto e da un contenuto veridici. Il mito è “una riflessione ed una proiezione delle azioni della vita reale”[1] che “racconta una storia sacra” – cioè vera, narra un avvenimento accaduto, parla soltanto di “quello che è veramente successo, di ciò che è del tutto avvenuto”[2]. Il mito, “espressione per eccellenza del pensiero collettivo”[3], lo incontriamo particolarmente al livello delle società tradizionali, governate da una mentalità collettiva, in cui l’individuo non ha un proprio sistema per ragionare, per percepire il mondo circostante, non si è ancora costruito dei concetti coscienti e logici. In un ambito del genere, l’apparizione ossia l’“invenzione” di un mito è la cosa più naturale. Ciò non vuol dire che le società moderne non conoscono anche esse dei miti. Il mondo ha sempre bisogno di miti, è assettato di sogni collettivi, soltanto che la società moderna ha spinto assai lontano la desacralizzazione della vita e dell’universo, portando ad “un processo di scioglimento semantico e di estensione anormale delle accezioni della voce mito, la qualità di mito potendo accompagnare qualsiasi fatto di cultura”[4]. In questo senso, si parla del

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mito dell’automobile, del sapone, del calcio, della società dei consumi, il mito di Superman, il mito delle Bermuda ecc., ciò che non può esser altro che una ridicola esagerazione, visto che, ad esempio, tra la parola mito, che è un’astrazione, e l’automobile, cosa concreta, non può esistere alcuna filiazione reale. Possiamo solo affermare che “la novità del mondo moderno si traduce tramite la rivalorizzazione ad un livello profano degli antichi valori sacri”[5].

Nell’intento di definire il mito, potremmo partire dall’idea che tutti i specialisti nel settore ritengono che formulare una definizione unitaria e generalmente accettata del mito sia quasi impossibile[6], visto che abbiamo a che fare con una realtà complessa ed inoltre con una tipologia varia di miti, a cominciare dai miti dell’antichità fino a quelli del “nuovo mondo” oppure quelli medioevali, per arrivare a considerare quali miti certe opere letterarie come Faust, Hamleto, Don Giovanni o persino degli oggetti concreti. Tuttavia, una delle più pertinenti definizioni del mito ce la fornisce un eccellente specialista in mitologia, Mircea Eliade, il quale afferma che “il mito è una realtà culturale estremamente complessa, il cui approccio ed interpretazione si possono fare da prospettive molteplici e complementari”[7]; esso racconta una “storia sacra” e dei fatti esemplari, i cui protagonisti non possono essere che degli eroi dalle straordinarie qualità. La realtà mitica è un terreno estremamente scivoloso che non si lascia afferrare in un’analisi e, quindi, in definizioni rigorose, essa non può essere mai sorpresa in tutti i suoi aspetti. Soltanto chi vive il mito attraverso la propria sensibilità può cogliere la sua profonda realtà; visto da fuori, il mito è intento a svuotarsi dal suo contenuto emozionale. Nella storia europea dei tempi moderni esistono alcuni miti e mitologie politiche come la denuncia di una cospirazione malefica[8], la fiducia nell’esistenza di un’età d’oro andata perduta, la speranza in un paradiso futuro o in una rivoluzione liberatrice o restauratrice, il mito del progresso – molto di moda a fine Ottocento e all’inizio del Novecento – il mito del socialismo, il culto del leader carismatico oppure la fede in un eroe salvatore ecc. Uno dei più veicolati miti politici è quello dell’eroe salvatore[9], che si presenta nella mentalità collettiva come l’eroe chiamato a decongestionare ed a ripristinare una data situazione, nel suo stato legittimo precedente. Egli è quello che riesce ad allontanare le forze del male, essendo sempre associato al simbolo della luce, è quello chiamato a restaurare un ordine rovesciato, ad esaudire un desiderio collettivo di grande portata.

Per i romeni della Transilvania – come, d’altronde, per tutte le nazionalità della monarchia austriaca – all’imperatore fu talvolta attribuito questo statuto di salvatore, percepito ed invocato come possibile liberatore dei romeni dal misero stato politico e sociale

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in cui essi erano collocati, quello che avrebbe potuto inclinare la bilancia del potere a favore dei romeni. La fede stessa nel “buon imperatore” acquistò un valore salutare per il fatto che essa rappresentava la speranza dei romeni nel miglioramento della loro situazione, nel trionfo del bene sul male e della verità sulla menzogna; essa è la speranza che spesso dà loro la forza di vivere e di combattere contro le avversità del destino. Nell’intento di ricostruire la realtà storica della nascita del mito del “buon imperatore”, vanno prima chiariti certi problemi: i suoi limiti – quando e come nasce? quando e in che contesto sparisce? – e la maniera in cui si è manifestata durante la sua esistenza. Perifrasando G. Cocchiara – un grande folklorista di origine italiana – il quale diceva che “prima che la ferocia sia stata scoperta, è stata per forza inventata”[10] dalle genti che vissero tra il Cinquecento e il Settecento, obbedendo ai loro interessi morali, politici e sociali, potremmo affermare per analogia che il mito del “buon imperatore” – nel nostro caso – è stato inventato a fine Settecento e inizio Ottocento, come una risposta alle speranze ed alle imprese politiche dei romeni, allo scopo di ottenere alcuni diritti che spettavano loro, ma che, lungo il tempo, erano stati trasgrediti dalla nobiltà ungherese. Tuttavia i suoi limiti non si possono stabilire con certezza, proprio perché non si è mai potuto fissare il punto zero nella nascita di un mito, come, d’altronde, non si è potuto determinare neanche la data precisa della sua sparizione. Il mito non appare all’improvviso, la sua nascita è una trasformazione tramite cui i dati preesistenti sono rimodellati e risignificati a seconda delle tensioni sociali di una data epoca. Presso i romeni troviamo uno sfondo preesistente predisposto a far sorgere la fede in un buon sovrano, nel senso di eroe trovato “in un perpetuo stato di tensione creatrice di beni e di valori storico-culturali che toccano il sublime e procurano l’ammirazione della gente”[11].

Un tale sfondo esiste dai tempi più lontani, formatosi probabilmente una volta con l’apparizione dell’imperatore Traiano nella vita e nella storia del popolo della Dacia. Benché avesse invaso a due riprese la terra dacica, pacificando i daci tramite il miscuglio di sangue e trasformando la Dacia in provincia romana, egli è rimasto nella coscienza etnica dei daco-romani un eroe storico mitizzato per i suoi fatti di cultura, tramite i quali aveva promosso i nostri antenati nella schiera dei popoli antichi di alta cultura e civiltà[12]. Possiamo capire, in questo modo, che effetto faceva per i romeni sottomessi alla dominazione degli Asburgo la possibilità di servire un imperatore romano, anche se di origine tedesca. Questa tendenza verso sentimenti proimperiali non sparì lungo il tempo, poiché i romeni videro negli imperatori bizantini gli eredi di quelli romani e allo stesso tempo i rappresentanti sovrani del Cristianesimo ortodosso, nei confronti dei quali manifestavano grande venerazione, anche se da una certa distanza.

Al delinearsi della fede nella monarchia austriaca contribuisce, oltre a tutto questo, anche la concezione cristiana dei romeni sulla dominazione, sul potere, che per essi incarnava l’espressione della volontà divina – il suo titolare essendo il mandatario della grazia divina – in nome del quale l’imperatore emette ordini e leggi, e rende giustizia.

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Da questo punto di vista sorge quest’atteggiamento pacifico nei riguardi della monarchia, il ribellarsi contro la volontà e le leggi imperiali essendo considerato pericoloso e rischioso, nonché illegittimo, visto che la legittimità non può venire che dall’imperatore, il ministro di Dio sulla terra. Questa concezione è stata funzionale presso tutti i popoli dell’Europa centrale ed orientale, visto che tutti i moti di quest’area “non hanno un contenuto antimonarchico, anche se alcuni di essi presentano degli effetti solventi per il quadro politico-statale esistente”[13]. L’aura mistica che circonda il sovrano, il carattere carismatico, conferitogli dall’unzione con l’olio santo, fanno del monarca una persona sacra ed intangibile. Si è già accennato che ciascun mito contiene in sé un seme di verità, che parte da fatti ed eventi reali. Per illustrare quest’idea, si cercherà di dimostrare che il mito del buon sovrano austriaco parte da fatti storici concreti, sintetizzati nel riformismo terenziano-giuseppino. Ed ecco che sopra lo sfondo romeno preesistente e predisposto alla fede nella bontà e nei buoni intenti monarchici si sovrappone la politica “illuminata” dell’imperatrice Maria Teresa e del suo figlio Giuseppe II.

I metodi impiegati nella coltivazione del patriottismo dinastico nella coscienza dei romeni sono vari: scuola, chiesa, servizio militare, amministrazione, intento di regolare i rapporti tra i servi della gleba e la nobiltà[14]. Da notare nel processo di attivazione della fede nel “buon monarca” è anche il fatto che Giuseppe II, oltre all’interesse effettivo per il destino dei suoi sudditi, manifestato durante le tre visite in Banato e in Transilvania, aveva riconosciuto i romeni quali eredi degli antichi romani, appunto nel periodo in cui essi cominciavano a prendere coscienza della loro propria origine.

È ben noto il fatto che in quel periodo gli imperatori dell’Austria conservavano ancora il titolo di “imperatore romano”, mentre Giuseppe II ne accentuò la nobiltà, affermando che era fiero di avere dei sudditi romeni di origine latina, fatto provato soprattutto dalla lingua che essi parlano – il romeno – una lingua romanza, e inoltre grazie a loro si sentiva veramente un imperatore romano. L’atteggiamento dei suddetti imperatori, realmente vicini e sensibili ai problemi dei propri sudditi, nonché la politica austriaca di stimolazione dell’elemento romeno dell’impero, parallelamente alla strategia politica di limitazione del potere della nobiltà, la cui esistenza si giustificava soltanto in base ai diritti ereditari e di sangue, concorreranno alla nascita della fede nel “buon imperatore”, del patriottismo dinastico, tanto al livello della coscienza popolare, quanto a quello dell’élite laica ed ecclesiastica. D’altronde, le misure avviate miravano ad attirare e a collaborare con l’intelligenza romena, il potere essendo persuaso della necessità di conquistare la sua simpatia e la sua fiducia. Giuseppe II stesso ne era convinto, affermando in un suo ordine che nessuno può avvicinarsi ai romeni prima di aver guadagnato la fiducia dei loro bravi, ai quali essi si sottomettono ed obbediscono incondizionatamente[15].

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Certo è che lo scopo della politica imperiale è stato raggiunto. Il patriottismo dinastico non fu un’utopia, ma una realtà che nacque e agì in una prima fase al livello dell’élite. David Prodan parla della fedeltà degli intellettuali nei confronti della dinastia e dei meccanismi interni che fecero scattare un tale sentimento: “Di lui [dell’imperatore] l’intellettualità romena parla come se fosse il più grande benefattore della nazione romena. Egli soltanto conobbe le sue sofferenze e cercò di mitigarle, solo lui la inserì tra i cittadini della patria”[16]. Per di più, si deve considerare il fatto che quest’élite divenne nel corso del tempo il prodotto dell’istruzione viennese e che, in una certa misura, essa arrivò ad essere, anche se indirettamente, lo strumento della politica dello stato austriaco, soprattutto nel periodo anteriore alla contaminazione con le idee liberali dell’epoca, che avevano cominciato a diffondersi dalla Francia verso gli altri paesi europei.

Nell’intento di chiarire il problema della nascita del mito del “buon imperatore”, si potrebbe dire che esso prende forma durante la vita di Maria Teresa, si sviluppa sotto Giuseppe II, ma si manifesta prevalentemente solo dopo la morte dell’imperatore. Ci avvaliamo, nel fare quest’asserzione, del fatto che il mito nasce dal carattere di primordialità e di esemplarità di un avvenimento ed ha il significato di una rivincita sulla realtà contemporanea. Nel nostro caso il momento esemplare lo costituisce l’epoca gloriosa di Giuseppe II, mentre la realtà contemporanea è quella del periodo successivo al suo decesso, quando i suoi eredi non mostrarono di essere altro che gli imitatori di un archetipo – il modello offerto da Giuseppe II –, realtà tanto meno desiderata, anche a causa delle difficoltà accadute nel contesto delle guerre napoleoniche. Data questa situazione, l’intento di evadere dalla realtà per ritornare all’“età d’oro” che la nazione romena conobbe sotto Giuseppe II appare come naturale, mentre i soventi richiami dei benfatti ottenuti durante il regno di quest’imperatore faranno sorgere la nostalgia del periodo giuseppino, il che col tempo porterà nella coscienza romena alla creazione della fede nel “buon monarca”.

La nascita di questo mito è anche la conseguenza delle guerre napoleoniche, quando il contadino romeno – come, d’altronde, quello ceco, serbo, croato ecc. – ed il monarca combattono insieme contro un comune pericolo che sembrava minacciare ad un certo momento la loro esistenza: Napoleone Bonaparte. Il mito compare in tutto il suo splendore a partire da questo momento in cui sorge questa minaccia comune, di cui sono consapevoli entrambe le parti, il che determina un’unione ed una solidarietà tra contadino e imperatore, soprattutto sul piano militare, forte almeno quanto quella determinata dall’attuazione delle riforme. Il pericolo li concordanza creò una comunione d’interessi sincera, profonda e durevole. Da ricordare che nell’intento di stabilire, a titolo soggettivo e transitorio, il momento della nascita del mito degli Asburgo, Claudio Magris propone come data l’anno 1806, anno in cui Francesco II, imperatore del Sacro Impero Romano di nazione tedesca, diventò Francesco I di Austria[17]. Il mito del “buon imperatore” è una realtà storica per i romeni transilvani che continua lungo tutto l’Ottocento – con momenti di varia intensità; riteniamo, quindi, adatto il suo paragone ad una spirale che include periodi

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di manifestazione latente (1815-1847, 1866-1892) oppure di regresso (1849-1851), come anche dei periodi di piena manifestazione (come per esempio, quello delle guerre napoleoniche oppure il momento 1848-1849 e persino gli anni dell’assolutismo).

Ai metodi diversi e minuti usati dalla monarchia austriaca per costruire e mantenere viva la fede nel “buon sovrano”, che si sovrappone su uno sfondo mentale predisposto ad accoglierla, si aggiunge l’abilità e la saggezza degli austriaci nell’uso del concetto “divide et impera” come un principio politico la cui sostanza consiste nell’istigare le nazioni dell’impero una contro l’altra. Nel nostro caso, si tratta dell’ampliamento dell’importanza dell’elemento ungherese, pericolo imminente che minacciava lo status dell’elemento etnico romeno. Con questo metodo fu resa possibile la trasformazione del popolo romeno in un’“instrumento regni”, che essi impiegarono come elemento di contrappeso alle pretese o alle azioni “ribelli” degli ungheresi nei momenti di crisi per l’impero. Un episodio illuminante in questo senso è anche la guerra civile degli anni 1848-1849, – svoltasi ai confini della monarchia austriaca, quando i rivoltosi ungheresi misero seriamente in pericolo l’integrità della corona imperiale –, momento di riattivazione del mito del “buon imperatore” al livello della consapevolezza collettiva romena, della sua manifestazione plenaria[18]. Perché gli ungheresi, gli ultimi ribelli del 1848, avendo resistito eroicamente alle forze reazionarie, costituendo un serio pericolo, gli austriaci accolsero con gioia l’aiuto militare della “fedele” e “coraggiosa” nazione romena. D’altronde, i romeni, eccetto quelli del Banato, tramite la loro élite laica ed ecclesiastica, e malgrado la loro simpatia per il liberalismo economico e politico della rivoluzione democratica, promosso entro certi limiti dai rivoltosi ungheresi, scelsero la via del dialogo diplomatico e militare con la Casa d’Austria contro il comune nemico che, per alcuni, era una minaccia per l’integrità territoriale, mentre per altri, assumeva il ruolo di elemento basilare per preservare l’identità nazionale. La motivazione dei romeni fu rafforzata anche dalla speranza che, in seguito alle rinnovate prove di fedeltà nel confronto della dinastia, essa avrebbe ottenuto la soddisfazione delle aspirazioni di unione nazionale e di autonomia nell’ambito di un’Austria liberale e federalizzata su criteri etnici.

La realtà dimostrerà ai romeni, però, ancora una volta, che la monarchia, una volta raggiunti i propri fini, assicurata la pace e la tranquillità interna, dimenticò i loro sacrifici e le promesse fatte nei momenti di crisi. Anche se, da un lato, la rivoluzione rappresenta un esempio della funzionalità del patriottismo dinastico, dall’altro, nel contesto della coscientizzazione della propria identità, compare, almeno al livello del mentale dell’élite, sennon anche a quello collettivo romeno, verso la fine degli avvenimenti degli anni 1848-1849, un primo segnale d’allarme, di dubbio nei confronti dei buoni propositi monarchici. Se il modo di pensare e di sentire al livello della coscienza popolare è più difficile da inserire in certi archetipi e da definire con precisione, al contrario, quello dell’élite è accessibile grazie alle idee espresse negli scritti. Al livello dell’élite romena di Transilvania possiamo parlare, quindi, di un certo patriottismo dinastico distinguibile tanto nelle azioni svolte, quanto nelle dichiarazioni fatte, ma nella stessa misura, si può

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notare anche un certo pragmatismo politico, sorto dalla coscienza nazionale che d’ora in poi rimarrà una linea di condotta per essa.

Il pragmatismo politico determina tra i membri dell’élite romena una comprensione diversa nella maniera di abbordare i rapporti con il potere centrale. In questo senso, al livello dei vertici politici, si delineano due orientamenti: quello dei tradizionalisti[19], formato soprattutto da chierici, diretto da Andrei ªaguna, il quale preferisce le vie e le maniere più cerimoniose e che si pronuncia per una risoluzione legale, pacifica, anche se più lenta, dei problemi romeni, ed un altro, composto da giovani intellettuali di stampo laico, particolarmente dei giuristi, il cui leader Simion Bãrnuþiu si fa notare per la sua combattività e per il suo spirito militante accentuato.

Un primo momento che segna questa differenziazione è segnalato in occasione della redazione della seconda memoria indirizzata all’imperatore da parte della delegazione romena inviata a Vienna dal Consiglio Nazionale Romeno (CNR), nel giugno del 1848, per far conoscere al sovrano le richieste legittime dei romeni. Un altro momento di tensione nelle relazioni tra i rappresentanti romeni si presenta in occasione della consegna della memoria, il 25 febbraio 1849. Il vescovo Andrei ªaguna informa il CNR delle incomprensioni avvenute tra i membri della delegazione, mentre quest’istanza rappresentativa romena all’epoca, chiede al vescovo ortodosso di far uso della sua personalità influente allo scopo di conservare l’unità tra tutti gli “spiriti” ed i “lavori” verso una sola meta, quella dell’interesse nazionale, dinanzi al quale devono spegnersi “tutte le passioni, tutti gli interessi privati e tutte le opinioni” per “il trionfo della causa nazionale”[20]. I dirigenti romeni oltrepassarono i momenti di crisi e, mettendo prima di tutto l’interesse nazionale, riuscirono a far progredire la nazione ed a mantenere l’unità di azione nella lotta comune per i loro diritti nazionali, per via legale e petizionale, d’altronde, naturale e necessaria nelle condizioni della promulgazione della Costituzione democratica del 4 marzo 1849.

In grandi linee, il carattere petizionario di questo periodo rappresenta una continuazione ad un livello superiore di quello del Settecento[21]; alle richieste politiche si aggiunse il desiderato dell’unione di tutti i romeni sotto la corona imperiale, in un solo corpo politico autonomo, poiché le petizioni di questo periodo hanno una legittimazione popolare, un carattere nazionale vero e proprio, essendo sostenute moralmente e materialmente dall’intera nazione romena. La legittimità è rafforzata anche dal supporto argomentativo che si arricchisce con il leit-motiv della fedeltà romena – esagerato a volte allo scopo di determinare una decisione imperiale favorevole alla causa romena – fedeltà pienamente dimostrata negli avvenimenti svolti già all’epoca della monarchia. Analizzando il contenuto delle memorie appartenenti all’“epoca costituzionale”, possiamo osservare due atteggiamenti dell’élite romena: da un lato, l’attaccamento e la fiducia nella monarchia:

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“Maestà! La nazione romena del gran principato di Transilvania, di Banato, dei territori confini dell’Ungheria e di Bucovina […] ha da sempre mostrato la più profonda fedeltà e il più sincero attaccamento all’augusta casa austriaca, dai tempi in cui questi paesi hanno provato la gioia di sottomettersi alla mite dominazione dell’Austria”[22], da un altro lato, si può notare la manifestazione delle prime scontentezze, sorte a causa delle promesse sempre rinviate, promesse “predicate dall’alto trono di Sua Maestà”[23].

Un primo dubbio sulla sincerità dei buoni propositi dell’imperatore, dai quali pendeva il destino dei romeni transilvani, s’intravede in occasione della consegna della memoria del febbraio 1849, la quale doveva anticipare la legiferazione della Costituzione, appunto per ricordare ai vertici imperiali i bisogni e le richieste della nazione romena. Tuttavia, la Costituzione, pur contenendo provvedimenti speciali per i sassoni, per i serbi, non prende molto sul serio in discussione i problemi dei romeni, considerati risolti in seguito alle direttive costituzionali riguardanti lo statuto di eguaglianza di tutte le nazionalità della monarchia. È un momento di sentita delusione per le attese dei romeni e questo sentimento peggiorerà ulteriormente, quando le richieste rinnovate tramite una vera e propria campagna petizionaria (il 12 marzo, il 23 marzo, il 15 aprile, il 26 aprile, il 26 maggio ecc. del 1849) saranno ripetutamente ignorate.

In tutte le petizioni, l’accento cade sull’importanza che i romeni prestano alla parola imperiale, che per essi aveva realmente un valore sacro. Dalle diverse formule risulta che era inconcepibile che l’onesto e il giusto monarca non rispettasse l’impegno preso, mentre si suggerisce la delusione che produrrebbe il mancato mantenimento delle promesse: “non sarebbe niente di più triste e di più deludente per questa nazione duramente provata, che il rifiuto di esaudire i loro più profondi desideri, dei quali essa è convinta che sono giusti e corrispondono al tempo”[24]. Nella memoria consegnata all’imperatore il 12 marzo del 1849, la maniera di rivolgersi è onesta, cordiale e diretta, ma allo stesso tempo, mette sotto il segno interrogativo la giustezza della decisione imperiale espressa nella Costituzione: “Maestà! La Nazione Romena, nei suoi continui tentativi, è convinta che soltanto dai giusti imperatori dell’Austria può attendere il giusto e la giustizia […]. Tuttavia, la Costituzione che Sua Maestà ha dato, allo scopo di accontentare paternamente i milioni di cittadini austriaci, ha reso più difficile l’unione”[25], nel senso che la principale rivendicazione dei romeni, l’unione di tutti loro in un solo corpo politico, era stata ignorata.

La successione di memorie indirizzate all’imperatore continua con la “Petizione delle nazioni unite” (dei romeni, dei slovacchi, dei slavi del sud), che attira l’attenzione del monarca sul fatto che “le anime fedeli” dei popoli “fedeli all’Austria sono state sopraffatte dalla paura”[26], petizione seguita dalla memoria del 26 maggio degli abitanti di Banato (mediante Petru Mocioni, Petru Cermena e Ioan Dobran), che riprende i punti della petizione di febbraio, segnalando allo stesso tempo anche le omissioni della

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Costituzione di marzo, attinenti alla situazione dei romeni, atto in cui “nemmeno si accenna al loro nome, in seguito a quella Costituzione, essi continuano ad essere, anche da allora in poi, sottomessi agli ungheresi il cui odio hanno attirato nelle lotte per il trono di Sua Maestà”[27]. Finalmente, l’imperatore “si impietosisce” e “accontenta” i romeni con una risposta che sembra dire tutto, ma che infatti non dice niente. Il sovrano assicura il popolo romeno del ringraziamento per la sua fedeltà e la sua sottomissione, compiange il loro destino duramente provato nella difesa del trono, per la quale si merita “tutta la gratitudine” e assicura i deputati romeni ed i loro connazionali che la nuova Costituzione “garantisce ai romeni tali diritti e tale valore, come a tutti gli altri popoli del mio regno”[28].

Il 18 luglio 1849 una nuova delegazione romena, questa volta diretta da Simion Bãrnuþiu, mette ai piedi del trono austriaco una nuova memoria, chiamando in causa, per motivare la loro insistenza, l’importanza del tempo storico in cui essi vivono ed il diritto ottenuto dalla nazione romena – col prezzo di tante vittime durante la guerra civile – di raccogliere i frutti del cambiamento, volutamente democratici. Le rassicurazioni dei circoli aulici sono di nuovo ottimistiche, tanto l’imperatore, quanto i suoi ministri consigliano i romeni di fidarsi e di avere pazienza, facendo un’altra volta delle promesse vane ai romeni. Malgrado la delusione creata dall’atteggiamento del monarca, i romeni continuano le trattative per la loro situazione politica. Nel settembre del 1849 la delegazione romena ritorna da Vienna senza che le aspirazioni nazionali venissero esaudite. Tuttavia, nel periodo successivo la serie di memorie dei romeni viene ripresa con lo stesso ardore. Benché il linguaggio usato sia sempre cerimonioso, la maniera di abbordare il potere è ora più tagliente: “I romeni, facendo leva sulla loro fedeltà, provata attraverso numerosi sacrifici, nonché sulla grandissima grazia di Sua Maestà, si sono attesi a una migliore volontà, ad una risoluzione favorevole del loro destino, nel senso dell’unione in un solo corpo nazionale, non avendo mai pensato ad un più profondo scioglimento della nazione romena”[29]. I romeni della Transilvania e soprattutto l’élite, più sensibile alle sottilità politiche, fu provata allora dall’amaro sentimento del tradimento, dell’oblio, dell’inappagamento dei loro sacrifici al servizio della monarchia, ma fino al momento della rievocazione dell’atto legislativo del marzo 1849, essi si rifiutano di accettare quanto furono ingannati nelle loro attese e speranze dal preteso “buon monarca”. Possiamo spiegarci così la continuazione degli appelli rivolti all’imperatore, il cui contenuto lascia trasparire ancora una vana speranza nel miglioramento della situazione sociale e politica[30].

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Il rifiuto sistematico di Vienna di soddisfare le richieste legittime dei romeni, come anche l’applicazione della Costituzione nel piano dell’organizzazione amministrativa, che svantaggiava i romeni, determinò un cambiamento nell’atteggiamento dell’élite romena nei confronti di Vienna e della Casa d’Austria, atteggiamento concretizzato nell’azione di fronda dei leaders romeni, come ad esempio il rifiuto di Avram Iancu oppure di Alexandru Papiu–Ilarian di ricevere le insegne d’onorificenza concesse dall’imperatore per i loro meriti durante la guerra civile. Ecco come spiega il suo gesto il rivoluzionario Alexandru Papiu–Ilarian: “Noi abbiamo combattuto e abbiamo versato il nostro sangue per l’imperatore, e per i diritti della nazione, non per decorazioni e monete. Ora vediamo che il trono è stato rinforzato dal sangue di circa 40.000 romeni assassinati, nonché dalla distruzione di circa 300 villaggi, e malgrado tutto ciò, questa nazione giace ancora sotto l’antiqua tirannia e si trova ora in uno stato più pietoso che prima del 1848”[31]. Progressivamente, tra i vertici politici romeni comparse il sentimento di diffidenza verso l’imperatore è si fanno sempre di più sentite le voci che parlano dell’“ingratitudine monarchica”, concretizzata nella tergiversazione e, alla fine, nel mancato mantenimento delle promesse fatte, nella mancanza di riconoscenza verso la fedeltà e i sacrifici materiali ed umani dei romeni, i quali pur avendo messo anima e corpo nella causa imperiale furono ripagati con l’applicazione di un trattamento adatto ai ribelli. La promessa fatta da Francesco Giuseppe, una volta salito al trono, cioè che si sarebbe lasciato guidare dal principio dell’autodeterminazione dei popoli nella nuova costituzione della monarchia, promessa alla quale i romeni appesero in vano le loro speranze, rimase pura illusione, che li fece perdere, almeno per un certo tempo, la fiducia negli stranieri, fossero essi addirittura “imperiali”. Il comportamento degli austriaci scoraggiò non solo l’élite, ma anche il volgo, che cominciò a prendere atto del fatto che i loro sforzi andarono in fumo e che l’imperatore, per non aver mantenuto la parola data, si dimostrò un “bugiardo” ed un ingrato. Lo stato di delusione risentito al livello del mentale popolare, conosce diverse fonti: l’inappagamento delle imprese militari romene, il disarmo della popolazione subito dopo la cessazione delle ostilità militari, il duro trattamento, quasi nemico, mostrato da Klam–Gallas, l’erede di Puchner, l’inseguimento, l’inchiesta aperta e persino gli arresti dei leaders del 1848.

Il sentimento di diffidenza avvolge anche la gente comune, ed in questo senso si nota la reazione del popolo in occasione dell’incidente avvenuto il 15 dicembre 1848 al mercato di Halmegiu: “La verità è che mi hanno acchiappato i soldati a Halmegiu – confessa Avram Iancu – ma sono stato subito liberato. Sono stato portato dal comandante di quel posto, il quale, però, non sapeva niente dell’arresto e mi chiedeva di renderla nota al popolo. L’ho fatto. Allora fui pregato di acclamare Sua Maestà l’Imperatore. Io ho gridato con tutte le mie forze: Viva l’imperatore Francesco Giuseppe. Ma il popolo rimase muto. Nessuno ripeté il mio grido”[32].

Si può notare, soprattutto in seguito all’annullamento della Costituzione ed al ritorno ad un regime di tipo assolutista, un inizio che segnava l’allontanamento dei romeni

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dal “buon imperatore”, una certa diffidenza – sempre più visibile a tutti i livelli della società romena – nei suoi buoni propositi e nella giustezza delle sue azioni. La fiducia nel “buon imperatore” non sarà mai così forte, così incondizionata e sincera come nel 1848. Il mancato mantenimento delle promesse imperiali fu una delle premesse che segnarono l’inizio della destrutturazione del mito. Vi si aggiunge, non per ultimo, la presa di coscienza, durante la guerra civile dell’appartenenza e della solidarietà della nazione romena – il che porterà allo sorgere di altri miti nazionali, come per esempio quello dell’eroe Avram Iancu – miti che metteranno in ombra sempre di più, senza però farlo sparire del tutto, il mito del “buon monarca”.

 

 

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© ªerban Marin, October 2005, Bucharest, Romania

Last Updated: July 2006

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[1] C. I. Giulian, Mit si culturã, Bucarest 1968, p. 143.

[2] Mircea Eliade, Aspecte al mitului, Bucarest 1978, p. 6.

[3] Idem, Eseuri: Mituri, vise, mistere, Bucarest 1991, p. 122.

[4] Mihai Coman, Mitos ºi Epos, Bucarest 1985, p. 49.

[5] M. Eliade, Eseuri cit., p. 130.

[6] Esistono già circa 500 definizioni del mito, ma nessuna di esse non è stata in grado di definire il mito in una maniera unitaria e unanimemente accettata da tutti i specialisti del settore; si veda Victor Kernbach, Dicþionar de mitologie generalã, Bucarest 1989.

[7] M. Eliade, Aspecte cit., p. 14.

[8] È un’idea ricorrente quella del complotto universale, che genera un clima di sospetto e di paura.

[9] Raoul Girardet, Mytes et mythologies politiques, Parigi s. a., p. 15.

[10] M. Eliade, Eseuri cit., p. 140.

[11] Romulus Vulcãnescu, Mitologia românã, Bucarest 1985, p. 576.

[12] Ibidem, p. 587.

[13] Iosif Wolf, Rãscoala din Boemia (1775) ºi Rãscoala lui Horea. Studiu comparat, in Rãscoala lui Horea, 1784. Studii ºi interpretãri istorice, coordinatori: Nicolae Edroiu e Pompiliu Teodor, Cluj-Napoca 1989, p. 184.

[14] Toader Nicoarã, Transilvania la începuturile timpurilor moderne (1680-1800), Cluj-Napoca 1997; si veda il capitolo IX: Mitul “bunului împãrat” în sensibilitatea românescã, pp. 339-396.

[15] Ioan Slavici, Românii din Ardeal, Bucarest 1911, p. 71.

[16] David Prodan, Supplex Libellus Valachorum, Bucarest 1984, p. 244.

[17] Claudio Magris, Il mito habsburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino, 1982, passim.

[18] Mirela Andrei, Aspecte privind mitul “bunului împãrat” în sensibilitatea românescã din Ardeal la 1848, in Identitate ºi alteritate, Reºiþa 1996, pp. 79-89.

[19] Liviu Maior, Memorandul, filozofia politico-istoricã a petenþionalismului românesc, Cluj-Napoca 1987, p. 106.

[20] Nicolae Popea, Arhiepiscopul ºi mitropolitul Andrei, baron de ªaguna, vol. I, Sibiu 1889, p. 242.

[21] Keith Hitchins, Conºtiinþã naþionalã ºi acþiune politicã la românii din Transilvania (1700-1868), Cluj-Napoca 1992, passim.

[22] T. V. Pacãþianu, Cartea de aur, 2a edizione, vol. I, Sibiu 1904, p. 519.

[23] Ibidem, p. 522.

[24] Ibidem, p. 541.

[25] Ibidem.

[26] Ibidem, pp. 582-583.

[27] Ibidem, pp. 593-594.

[28] Ibidem, p. 595.

[29] Vasile Netea, Lupta românilor din Transilvania pentru libertatea naþionalã (1848-1881), Bucarest 1974, p.48; il 26 novembre del 1849 una nuova delegazione romena parte dal Banato, per consegnare una petizione contenente 600 firme che protesta contro la Patente Imperiale del 18 novembre, secondo la quale il Banato era diviso tra la Voivodina serba ed il Banato di Timiº, senza tener conto della posizione compatta e dominante dei romeni.

[30] Può trattarsi, ad esempio, della petizione comune degli abitanti di Oradea e di Arad, del 10 gennaio 1850, che rappresenta una sintesi delle memorie del 1848-1849.

[31] K. Hitchins, Ortodoxie ºi naþionalitate: Andrei ªaguna ºi românii din Transilvania, 1846-1873, Bucarest 1995, p. 110.

[32] Florian Dudaº, Avram Iancu în tradiþia poporului român, Timiºoara 1989, p. 189.