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Mircea Eliade e l’eterno ritorno … a Venezia

 

 

Corina  Gabriela  Bãdeliþã,

Università degli Studi “Al. I. Cuza” di Iaºi/

Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia

 

No ghé a sto mondo, no, città più bella!

(Riccardo Selvatico[1])

 

Ci siamo avvalsi di questo motto – che apre uno degli appunti[2] di viaggio del giovane Mircea Eliade, noto scrittore, orientalista e storico delle religioni romeno – per imbarcarci da subito, riprendendo un po’ della smisurata curiosità che lo caratterizza tanto, in un viaggio immaginario in compagnia di alcune sue pagine che testimoniano dei luoghi in cui fu portato dai “punti cardinali del cuore”[3].

Furono innumerevoli i luoghi che visitò, tanto da coprire tre continenti: l’Europa, l’Asia e l’America. Gli altri li conobbe bene, non dal vivo però, ma solo grazie alle sue appassionate esplorazioni come storico delle religioni. Rifacendoci ad un sintagma coniato da Cesare Pavese, possiamo asserire che, per Eliade, viaggiare fece parte del suo “mestiere di vivere”. Egli non si lascia mai sfuggire l’occasione di esaltare l’importanza del viaggiare: “Un viaggio è, sempre, un invito a pensare. Si pensa più vivamente, più intensamente e più spontaneamente viaggiando che non nelle più concentrate ore di biblioteca. Il viaggio fa scoprire nuove antenne allo spirito di osservazione, potenzia l’interesse per il mondo esteriore e nello stesso tempo facilita il raccoglimento, anima la vita interiore. […] Un viaggio stimola tutte quante le facoltà interiori: ti rende più attento alla vita che ti circonda, più generoso, più fiducioso nella gente”[4]. Per giunta, lo scrittore-studioso romeno vede

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nel viaggio lo strumento più sicuro per procurarsi la felicità: “In fondo – ci spiega – la gente si mette in viaggio per dimenticare se stessi. […] Dimenticare se stessi: ovvero sospendere la problematica di quel momento spirituale, rinunciare ai tropismi e agli automatismi di tutti i giorni, fuoriuscire da te stesso”[5]. Mircea Eliade fu un ottimo viaggiatore nel vero senso della parola, perché seppe viaggiare appassionatamente lasciandosi guidare dai suoi sensi ben affilati, dalla sua instancabile curiosità, dal suo spirito di acuta osservazione, dalla spontaneità dei sobbalzi di cuore, dal suo grande gusto per l’avventura. Dopo aver letto alcuni degli appunti di viaggio, il filosofo romeno, Constantin Noica, fece un’osservazione che a Mircea Eliade fu molto gradita: “Non credevo che fossi un così buon viaggiatore. In fondo, sei il primo viaggiatore romeno” (corsivo di Mircea Eliade)[6].

La “traiettoria vitale e culturale” di Mircea Eliade, quindi, è cosparsa d’innumerevoli località del mondo. Tra queste, un posto di particolare rilievo lo occupano le città italiane e fra loro, in special modo, la “sublime”[7] Venezia, alla quale rimase particolarmente affezionato e nella quale ritornò più volte poi, ma tuttavia sempre meno di quanto avesse desiderato. Dobbiamo essergli grati per aver rubato qualche ora alle sue camminate nel labirinto delle calli o lungo il reticolo dei canali per ritirarsi, “spossato dopo aver visitato tanti musei e dopo aver passeggiato per tutta la città”[8] in una stanza d’albergo o in un caffè bar e condividere con i lettori le sue impressioni di viaggio.

Quello che ci proponiamo è di raccogliere e di restituire alcuni scorci dei suoi incontri veneziani, a cominciare dalle freschissime e dettagliate descrizioni dei primi tre soggiorni lagunari fino alle occasionali ma affascinanti annotazioni disseminate nelle Memorie, nel Jurnal, nelle pagine di corrispondenza e altrove, per proporvi una Venezia così come essa fu recepita e immortalata da un perspicace, sensibile ed esperto viaggiatore, nonché per rivelarvi, come ha accortamente notato l’esegeta Zoe Dumitrescu–Buºulenga: “qualcosa del profilo di modernità dello spirito di Eliade, del suo non-conformismo di fondo, della ricerca insaziabile del nuovo nelle pieghe più nascoste del pensiero”[9] [trad. ns.].

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Ci accingiamo, or dunque, alla scoperta dei suoi primi tre, seppur brevi, intensi e ben documentati soggiorni veneziani, attraverso la lettura degli articoli di giornale[10] dedicati alla città della laguna: Evadãri pascale: Veneþia (I, II, III) / Evasioni pasquali: Venezia (I, II, III – aprile 1927)[11]; Toamnã veneþianã (Pagini dintr-un Jurnal sentimental) / Pagine da un diario sentimentale. Autunno veneziano (settembre 1927)[12] e Pe via Garibaldi / In via Garibaldi (5 aprile 1928)[13].

Ecco un piccolo assaggio del Diario italiano così come esso è stato sintetizzato da Sergiu Tofan[14]: “Il Diario italiano registra impressioni di ogni tipo. Questo diario è pieno di irritazione verso i visitatori frettolosi di molti musei e monumenti. Ironizza l’erudizione della Guide Bleu o del Baedeker, l’entusiasmo dei semidotti davanti alle opere solo dopo averne scoperto gli autori, le false emozioni. Lo affascina il passato e i misteri di Venezia […]” [trad. ns.]. Ora, però, cerchiamo di addentrarci nella lettura e lasciarci in balía delle immagini che sfileranno davanti ai nostri occhi grazie al talento descrittivo dello scrittore.

Il suo primo incontro con Venezia fu occasionato dal viaggio in Italia organizzato dal suo ex liceo “Spiru Haret” nella primavera del 1927. Ci si presenta un Mircea Eliade avido di avventurarsi nelle città dai nomi favolosi, di parlare per la prima volta l’italiano (lingua che imparò da solo per poter leggere i libri del suo amatissimo scrittore, Giovanni Papini), di frugare nelle librerie e negli antiquariati in cerca di libri inaccessibili a Bucarest e soprattutto di incontrare alcuni degli scrittori con i quali teneva corrispondenza.

Vissuto con tutto l’entusiasmo e la sete di conoscere dei suoi vent’anni, questo è il viaggio che lo fa innamorare per sempre dell’Italia e in particolar modo, di Venezia e che desterà in lui la voglia di ritornarci una volta, due, tre, ogniqualvolta gli sia possibile. “In verità, questo primo viaggio in Italia mi è rimasto nella mente quale il più lussuoso e il più perfetto viaggio della giovinezza”[15], “d’allora in poi non ho più dimenticato l’Italia”[16].

La prima cosa che ci conquista è l’intensità dell’emozione che riempie i cuori degli studenti romeni all’avvicinarsi a Venezia, il loro scrutare l’orizzonte per intravederla almeno, l’impazienza di arrivarci e la genuinità con la quale il giovane Eliade

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riesce a trasmettere tutto ciò: “Ognuno pensa a Venezia, alle gondole, alla laguna, ai mandolini, allo spuntar della luna … E adesso Venezia è vicina. Il mare ci circonda da tutte le parti. Onde torbide, gialle. Scorgiamo i primi edifici bui. La nostra carrozza è l’ultima”[17].

Arrivato a Venezia, il ritmo diventa incalzante, restringe il punto di vista: “La prima gondola… La seguo con gli occhi. Venezia, il sogno dei nostri sogni[18]. Sto pensando come possono vivere i veneziani accanto a tanti ricordi. Cerco con lo sguardo il gruppo. Incontro uomini che passano indifferenti. I facchini aspettano sul molo il vaporetto con passeggeri. Sole. Corro dietro gli altri” (p. 26). Con evidente bravura, in un solo colpo coglie grosso modo la realtà veneziana, inserendo anche, di sfuggita, due considerazioni di sfumatura esistenzialista che troviamo riprese più avanti nel testo quando dice: “Le nuove luci che la città diffonderà nella mia anima mi fanno paura. Ho la sensazione che sto per smarrirmi per ritrovarmi. Ma adesso sono un altro. Tristezza, sorrisi, infinito dolore, estasi. E la gente scorre per le vie verso Piazza San Marco. E nessuno sembra essere commosso” e rispettivamente: “Molti secoli fa, forse, lì sono capitate cose misteriose. Il sangue e i ricordi chiamano l’anima e la disfanno. Dalla vita del giorno sorge un’altra vita che pesa” (p. 27). Sono due spunti di non indifferente importanza sui quali riteniamo necessario soffermarci.

A un primo livello di lettura, nel primo caso si tratta della contrapposizione tra se stesso che vive ogni attimo nella città lagunare a massima intensità e la gente che scorre, affatto commossa, indifferente; nel secondo, invece, ci appare un Eliade colpito dall’opprimente quantità di storia che sta racchiusa entro le mura di orgogliosa nobiltà di Venezia nel tentativo di trovare una via di scampo. Già questo di per sé è molto affascinante. Se si è attenti, però, si possono cogliere alcuni spunti che si ritroveranno con una certa ricorrenza nella futura opera eliadiana. Prendiamo, per fare un esempio, la novella Dalle zingare (1969). Anche lì c’è il sole, c’è lo smarrimento, c’è tutto un susseguirsi di avvenimenti e sensazioni forti che dovrebbero portare ad una rinascita. Alla fine il protagonista è un altro. Questo è lo stato di cose che precede e accompagna un’iniziazione. Ogni viaggio può avere anche funzione iniziatica: “Un viaggio promuove l’interesse intimo per la gente e per la cultura, rinfresca lo spirito critico, potenzia l’attenzione alla vita circostante”[19] [trad. ns.]. Il giovane Eliade se ne rende subito conto e comincia già ad avvertire le trasformazioni che ne trarrà in seguito a questa catarsi di tristezza, sorrisi, infinito dolore, estasi. Ma è anche vero che non tutti sono capaci di percepire quelle che egli chiamerà poi “realtà epifaniche”, le realtà che per un attimo ti svelano il segreto per poi ritornare ad essere semplici realtà. Eliade ne è in grado, perché non si abbandona alle false emozioni come la stragrande maggioranza dei turisti che scorrono indifferenti fingendosi commossi solo davanti ad un capolavoro descritto nelle guide turistiche per fare bella figura. No, egli è attento ad ogni segno, potenzialmente

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rivelatore: un suono di campana, un mosaico, un gesto, un sorriso. Non si stanca mai di scoprire, di pensare, di interpretare: “Medito sulle mie impressioni con dolorosa premura. Mi sforzo di rendere frizzante il mio spirito critico” (p. 27). Ora, meditiamo a nostra volta sulle considerazioni del giovane Eliade sui ricordi, i misteri, la storia, il passato di Venezia e sul suo meravigliarsi della convivenza dei veneziani con tutto questo. Se ne sente attratto e nello stesso tempo sopraffatto. C’è storia dappertutto, una storia secolare, stracolma di misteri. La spiegazione che si dà può sembrare banale, ma non lo è: “I veneziani non avranno forse mai conosciuto la realtà. Non ci avrebbero potuto vivere” (p. 27). Nei suoi futuri libri di specialità, e non solo, lo ritroveremo spesso preoccupato del “terrore della storia”. Secondo lui, il passato è troppo ingombrante perché ci consenta di vivere il presente, di goderci l’attimo. Per questo svilupperà la teoria della rigenerazione dell’uomo attraverso l’abolizione del tempo ovvero dell’incipit vita nova. Il consiglio che dà all’uomo moderno è quello di trascendere la storia, di sbarazzarsi dei condizionamenti del passato, di sopprimere tutti i vincoli con sé o con gli altri, per poter riconquistare la genuinità che si aveva “nell’attimo aurorale, nell’illo tempore degli inizi”[20]. Quindi, in queste pagine giovanili, abbiamo un’anticipazione dell’insigne storico delle religioni e scrittore di prosa fantastica, Mircea Eliade.

Inoltrandoci nella lettura, ci imbattiamo in quelli che Zoe Dumitrescu–Buºulenga chiama “terribilismi giovanili” ossia “la paura di una reazione conformista”[21]: “Cosa scrivere ancora, senza ripetere i cliché fatti per fidanzate e adolescenti innamorati?” (p. 27). Egli è sempre in cerca di originalità, di autenticità. “A Venezia ci sono canali, gondole, musei. E Piazza San Marco. Su tutto questo è stato scritto in tutti gli appunti di viaggio. Da moltissimo tempo.” (p. 30) Allora, di che cosa scriverà? Ad esempio, Eliade sorprende con sensibilità ed eleganza, forse anche con un pizzico di birichineria, i sussulti di vita che animano l’intricatissima ma ammaliante topografia urbana. Nelle stradine buie “coppie sognano in pieno giorno i tempi quando il Doge si fidanzava con il Mare”, mentre “due giovani nordici […] si scordano attimo dopo attimo la luce elettrica... Per le vie più larghe, i venditori hanno esposto le loro merci sulle bancarelle di legno. Le donne si soffermano e iniziano i mercanteggiamenti con voci diventate rauche a causa del vento” (p. 27) Non vi è niente che gli sfugga. Altrove, nel suo Giornale, Eliade confesserà “di preferire i diari in cui abbondano le osservazioni insignificanti, la relazione di una visita banale, piccole seccature, sogni, illusioni, che mostrano come l’autore scriva il diario anche per sé stesso”[22]. Questi sopraelencati non sono gli unici attimi di vita in diretta. Eliade dedica sufficiente spazio al gruppo di ragazze veneziane che accolse gli studenti romeni alla stazione, accompagnandoli poi dappertutto. Ne è, a dir poco, piacevolmente impressionato. Dichiara che tra di loro c’è stata una simpatia immediata e comunicativa e che le ore passate nella

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loro compagnia sono state le più preziose: “Le veneziane tentano le anime e scatenano l’entusiasmo” (p. 30).

Un’altra cosa che lo colpisce è il suono delle campane veneziane. L’incantevole tocco di bronzo lo raggiunge nei momenti centrali di questo suo primo soggiorno veneziano aprendo le vie del suo spirito. La musica delle centenarie campane sembra essere in sintonia con i suoi stati d’animo. A volte la storia che suonano è festosa, come in questo caso, altre volte è malinconica e altre volte ancora è addirittura lugubre. “Campane cominciano a suonare. Le sento vicine, sempre più numerose, più sonore. Si sollevano dai cortili coperti di muschio verde e dondolano al di sopra dei palazzi con colonnati grigi” (p. 28).

Una così grandiosa ouverture annuncia un altrettanto grandioso spettacolo. Pur rischiando di cadere nel banale, non può trattenersi dal descrivere il tuffo al cuore che prova al suo primo incontro con la vastità della Piazza San Marco: “Vado per una stradina piena di vetrine. Qualche passo, alla ricerca di un’uscita”. Le frasi brevi, ellittiche anticipano il lungo fluire di emozioni che segue: “Eppoi, gli sguardi si dissipano di colpo, rabbrividendo. Piazza San Marco. Tutti gli album la illustrano, la si trova anche sui manuali di storia, di geografia. Però non l’ho riconosciuta”. È così bella nella realtà che ci si sente smarrito, inebriato di tanto splendore, se la gode a rilento. È del tutto assorto: “Ho fatto lentamente il giro, con lo sguardo, sulla Chiesa, sul Campanile, sui due palazzi. Mi urtavano veneziani bruni ed eleganti, senza arrabbiarsi. […] Quattro cavalli di bronzo vegliano sulla Basilica, su, all’ingresso. Mi sono reso conto che li stavo guardando […]” (p. 28).

Con il prossimo brano illustreremo la sua abile gestione dello spazio e del tempo, espediente a lui molto caro e molto sfruttato nella futura prosa fantastica. Il lettore segue le immagini registrate dallo sguardo ardito del ventenne Eliade, un giovane curioso e appassionato che non tralascia niente: guarda in alto, in basso, accelera e poi rallenta per cogliere dei primi piani stupendi, si guarda intorno e poi si ripiega su stesso per aggiungere ai commenti una sana dose d’ironia. È interessante seguire l’altalenare del punto di vista tra lui e gli altri. “Intorno a me i passanti compravano cartocci di granturco – una lira – e aspettavano che i colombi si sedessero sulle loro mani. Il sole faceva fiorire sorrisi oppure increspare sopracciglia. Le coppie consultavano la Guide Bleu, compravano biglietti per poter salire sul Campanile e si univano ai gruppi pronti per essere fotografati. Faccio il giro del Palazzo dei Dogi, in pietra grigia, con vari ornamenti e statue […]. Nella Guide vengono spiegati tutti gli stili e i secoli durante i quali fu costruito. La Guide è preziosa e precisa. È in grado di offrire in ogni momento un’erudizione sufficiente per «fare ottima figura»” (p. 28). Da queste ultime parole si evince la sua disapprovazione nei riguardi delle guide turistiche. Su questo argomento infierirà di più nelle righe che seguono: “Visitare Venezia con la Guide in tre giorni è stupido. Possono essere memorizzati molti ed interessanti nomi, titoli di quadri, dati. Però è stupido. Il museo per se stesso non può richiamare l’attenzione. Il Baedeker elimina anche l’ultimo residuo d’emozione estetica immediata che possono ancora suscitare le pinacoteche” (p. 28). Benché nella pagina precedente abbia affermato: “queste sono semplici note di viaggio. E non è permessa una troppo imbarazzante sincerità […]”, questa volta si concede un lampo di lodevole franchezza quando dichiara: “Senza la Guide faccio molta fatica a distinguere gli stili del Palazzo e ignoro ancora molti autori del Rinascimento veneziano. Perciò queste note di viaggio

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saranno così poco erudite” e conclude: “Preferisco le sensazioni immediate”[23] (p. 29). E infatti, questi suoi appunti di viaggio traboccano di emozioni, di sensibilità, di genuinità. Sono “le reazioni dell’anima giovane, della mente curiosa, irrequieta, avida di novità e di freschezza, all’incontro con l’Italia”[24] [trad. ns.].

La sua giovinezza si riflette anche nello stile dall’andamento energico, vivace. Per assicurarsi che le sue note di viaggio non siano affatto noiose e per dar loro un tocco in più di verosimiglianza, le condisce di dialoghi, fonte di umorismo e derisione, scorci di una Commedia Umana:

“Arriviamo nella sala della Madonna del Bellini. Tutti se n’erano informati la sera prima sulla Guide bleu.

— Ah … Bellini?! Lo conosco, senz’altro; il primo del Rinascimento veneziano …

— Guarda quanta tenerezza …

— Stupendo!!

Il moldavo ci raggiunge. Socchiude gli occhi, si avvicina alla tela, se ne allontana e fischietta per dispetto.

— Ohè, ma come sono brutte …”

Sulla visita all’Accademia delle Belle Arti, dalla quale abbiamo tratto il dialogo di sopra, non si sofferma molto. Nomina tre tele: Cristo in croce di Murano, Miracolo di San Marco – La liberazione dello schiavo di Tintoretto e La morte di Rachele di Cignaroli. Di quest’ultimo fa una bellissima descrizione nella quale i sentimenti prendono di nuovo il sopravvento: “Un bambino piange, con gli occhi socchiusi, appannati dalle lacrime. Il suo viso è rosso come il fuoco. Un’ombra dolce, calda gli scivola dalle palpebre” (p. 29).

In ogni modo anche la tela di Tintoretto deve essergli rimasta impressa nella mente o forse nel cuore poiché anni più tardi, nell’estate del 1937, diretto a Berna dove andava a trovare Lucian Blaga, si ferma a Venezia appunto[25] per visitare la mostra di Tintoretto[26]. In questa occasione fa un’analisi più dettagliata delle sue opere con molti rinvii anche alla letteratura. Palesa un interesse particolare al concetto di miracolo nella pittura di Tintoretto, all’“intervento diretto di una forza sovrannaturale che, tuttavia, non trasfigura il mondo reale circostante” (p. 93). Mircea Eliade aveva adoperato questo tipo di fantastico nella sua novella Domniºoara Christina, ma confessa con amarezza che i critici la valutarono non riuscita proprio per colpa del suo “realismo”, non essendo loro a conoscenza di questo antichissimo concetto popolare del miracoloso.

Chiudiamo questa parentesi, ma rimaniamo sempre nel mondo dell’arte per dare spazio al viaggiatore Eliade che osa finalmente sfogarsi con il suo diario e confessare il

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tumulto di emozioni che gli travolsero l’anima davanti alla Madonna del Sassoferrato, nella Chiesa di Santa Maria della Salute. “Un quadro piccolo, umile, sopraffatto dalla superficie di un quadro giovanile di Tintoretto. La Madonna china dolcemente la testa. Tutto qua. Mi sono fermato a lungo e forse mi sono passate per la mente molte cose che avevo dimenticato e forse la mia anima si è rammaricata e ha sorriso e ha radunato tutta la sua sofferenza e l’ha repressa nel profondo del cuore e ormai nessuno la conosce. Ho rimpianto un’unica cosa: che la Madonna del Sassoferrato fosse un quadro celebre. Perciò non mi sono mostrato commosso. Figurava in tutte le Guide” (p. 30). L’ultima testimonianza che abbiamo riportato ci fa sorridere perché possiamo indovinare i ragionamenti del nonconformista Eliade – terrorizzato dall’idea di essere inserito nella massa dei visitatori che esibiscono sentimenti finti, che “ammirano, sforzandosi di sembrare trasfigurati dall’emozione” (p. 29) – i quali devono averlo spinto a un’ostinata autocensura.

Nonostante il giovane Eliade voglia apparire maturo, dotato di un pungente e inconfondibile spirito critico, non ha ancora la sicurezza e la disinvoltura di cui farà prova pochi mesi dopo, durante il suo secondo e terzo viaggio a Venezia. Si nota una certa riservatezza nelle sue asserzioni: afferma mettendo in dubbio (sono abbastanza frequenti le frasi sotto il segno del ‘forse’; per esempio, si veda sopra il brano sulla Madonna di Sassoferrato), esclamando sottovoce (“Venezia, il sogno dei nostri sogni”) o domandandosi in maniera retorica (nella Piazza San Marco: “Come potrei sapere tutto ciò che provavo e pensavo in quei momenti?”), altre volte si rifugia nell’uso della prima persona plurale come se parlasse a nome della memoria collettiva (“Ricordiamo tutto questo navigando sul canale”). Secondo la pertinente osservazione di Zoe Dumitrescu–Buºulenga, tuttavia, nel giovane Mircea Eliade si nota un talento incipiente nel raccontare e nel descrivere: “la penna / il talento di scrittore si tradisce già da adesso, soprattutto nella registrazione delle particolarità del paesaggio veneziano”[27] [trad. ns.]. Ve ne proponiamo un breve saggio: “Da Rialto al Lido il vaporetto ci mette tre quarti d’ora. Usciamo in mare. Il Palazzo dei Dogi e il Campanile spiccano ancora grigi. […] Onde verdastre, calme si inseguono, avanzano, e scorrono stanche, setacciando sabbia. Aspettano. Al ritorno il sole tramonta accanto alla città. Nuvole ripiegate diventano violacee e rosse come il sangue. Si sente, sopra le acque, l’eco delle campane. Di fronte alla Riva degli Schiavoni galleggiano gondole. Ci avviciniamo. Cominciano a distinguersi dei passanti sulla riva. Saliamo sul Campanile. Con lo sguardo abbracciamo l’intera città” (p. 30).

Venezia è la città ideale, perché può accontentare tutti i gusti e tutti i bisogni. Ci si trova bene sia quando si è molto felici e si ha voglia di festeggiare, sia quando si è molto infelici e si ha voglia di ritirarsi in disparte. Finora Venezia gli ha generosamente svelato il suo lato solare, in tutta la sua inesauribile effervescenza: turisti, piccioni, sorrisi ammalianti, monumenti, musei, piazze, calli affollate. Adesso, però, prima che egli parta, la città lagunare scopre anche l’ultimo tesoro: il suo silenzio notturno che permette alle ombre del passato di riaffiorare dall’acqua, da dietro le mura, dall’anima. È l’ora della

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riflessione, dell’immancabile viaggio nell’intimo[28]. “Con la gondola sul Canal Grande verso San Marco. Notte tiepida, di luna. Combattiamo a fatica contro la malinconia. Un amico ha voglia di cantare. Riusciamo a impedirglielo. Non si vedono luci. I palazzi sfilano, uno dopo l’altro, silenziosi, le onde si alzano sui gradini di marmo. […] Preghiamo il gondoliere di passare per i canali laterali. Sensazioni sconosciute ci turbano. Stiamo zitti nel buio. […] Ognuno di noi è rimasto solo con se stesso. Nella mente di ciascuno si agitano altri pensieri” (pp. 30-31). Il passaggio sotto il Ponte dei Sospiri lo fa ritornare indietro nel tempo, alla visita delle prigioni del Palazzo Ducale. Sono righe di particolare bellezza perché colgono l’intensità con la quale i giovani vivono ogni momento, la loro capacità ancora inalterata di reagire subito a stimoli di qualsiasi natura e di trarne delle conclusioni (qualcuno ha detto che diventiamo quello che percepiamo), ma al tempo stesso esse sottolineano anche la loro capacità quasi istantanea di riprendersi e di andare avanti con ottimismo: “Eravamo usciti alla luce impalliditi. Avevamo guardato il sole con altri occhi. Avevamo il fiatone. E, dopo, ce ne siamo scordati” (p. 31).

A mezzanotte un ultimo sguardo alla Piazza. È arrivato il tempo di congedarsi. La tristezza che ognuno si porta addosso è troppo grande e non può essere superata neanche con un disperato sforzo di sembrare allegri. Dopo tanti giorni trascorsi nel grembo della città, ormai i giovani viaggiatori sanno ascoltare e comprendere le voci di Venezia, è nata un’intima complicità tra di loro: al rimprovero sonoro della campana si trattengono immediatamente. Sembra che anche la città soffra per la loro partenza. “Guardiamo a lungo la Basilica di San Marco, il Palazzo e il Campanile. Forse per l’ultima volta. Passerà forse molto tempo senza rivederle. Quando ci decidiamo a rientrare, evitiamo di guardarci. Proviamo a scherzare. Ma ce lo impedisce l’eco di una campana. E pensiamo che forse Eminescu non si è sbagliato[29]. Raccoglimento …” (p. 31).

Gli appunti di viaggio del suo secondo e terzo soggiorno veneziano – nell’autunno del 1927 e, rispettivamente, nella primavera del 1928 – rivelano una ovvia maturazione del suo stile, del suo sentimento estetico e anche di se stesso. Rispetto ai primi, che registravano con una certa discontinuità le percezioni spontanee di un giovane dallo sguardo vivace e dall’anima esaltata al primo contatto con il suo “sogno”, questi altri sono più raffinati, più sciolti, più scorrevoli, più arditi: “Cerco lo strano piacere delle sorprese. Non ho paura di esclamare, di sorridere apertamente, di congratularmi precipitosamente nel mio povero italiano fiorentino. Non penso a nulla; ammiro, mi esalto, corro” (p. 47).

Scartati i terribilismi giovanili, Eliade dà più spazio alla sua sensibilità accresciuta dall’esperienza. Incuriosito e affascinato egli stesso delle nuove e intense sensazioni che prova alla vista dell’inesauribile spettacolo veneziano, cerca di renderle quanto più

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espressive, avvalendosi del suo talento ormai sperimentato: “Come dirtelo? Dirti che Venezia è verde, verde e che gli occhi delle veneziane sono torbidi, torbidi e che il cielo e la mattina sono come una pace nella vigna dopo che i bambini si sono allontanati? E San Marco – oro colato su gradini di marmo freddo? Si alzano foglie da cortili ignoti e scivolano poi sul canale che le porta lungo il molo e con esse le tristezze, le tristezze …” (p. 47).

Vi sono associazioni d’immagini sorprendenti e ingegnose, queste pagine non sono più semplici note di viaggio, ma hanno una loro individualità e validità estetica. Il viaggiatore Mircea Eliade è immedesimato con lo scrittore, uno scrittore veramente abile: “Torno a Lido. Ho rivisto il cimitero con porte grigie e con cipressi numerosi, alti, addolorati perché le loro ombre non riparano il mare. E il mare è verde, la spiaggia è diventata fresca e vento salato soffia in una Venezia autunnale” (p. 48).

Zoe Dumitrescu–Buºulenga mette in risalto l’originalità e l’intuizione di Mircea Eliade nel descrivere il paesaggio veneziano: “Sembrava che Eliade penetrasse nel subconscio collettivo di quel mondo in cui si sbattono i ricordi di una grandiosità tramontata, ma la cui agonia genera una sensualità espurgata sia dalla violenza che dalla morbosità. […] è riuscito a dare un’immagine del tutto nuova all’estinzione della città lagunare”[30] [trad. ns.]. Aggiungiamo che è impressionante la delicatezza con la quale parla dell’agonia, quasi volesse proteggerla; richiamiamo l’attenzione sui due verbi che usa: ‘covare’, ‘vezzeggiare’. Ne parla come se si trattasse di una persona e ne ritrae in maniera magnifica la dualità: “La nostalgia veneziana non ha confronto; il sentimento tragico dell’agonia si ritrova dappertutto, nelle mura screpolate, lungo il canale, nelle cupole buie e riccamente dorate, nei vasi con fiori tristi ai balconi e alle finestre che il tramonto rinserra. L’agonia di Venezia la sentono tutti tranne i veneziani. Agonia sensuale e crudele, covata tra i vicoli stretti, turbata in Calle dei fabbri, vezzeggiata in piazza, tra le colonne ducali, sul molo, sommessa di fronte al mare. Gli stranieri la constatano e ne sopportano l’oppressione” (pp. 49-50). Per quanto riguarda Eliade, possiamo dire che è una dolce oppressione, perché, da quanto abbiamo letto, non si dimostra affatto disturbato. Egli intravede la poesia e il fascino che c’è in questa peculiare agonia alla volta sensuale e crudele. Starà appunto nell’agonia il carisma di Venezia? Vivendo con la consapevolezza dell’estinzione, seppur lontana, si tende a godere con avidità ogni attimo di vita. Anche la nostalgia[31] lagunare è per il viaggiatore Eliade un’esperienza speciale, quasi spirituale, perché lo invita a ripiegarsi su se stesso, a guardarsi nell’intimo dell’anima; ha una funzione rivelatrice, epifanica. Lo fa diventare più ricettivo a quello che c’è fuori e dentro di sé, sebbene a volte faccia male. La ricettività è quello che serve a Venezia, perché ci sono molte cose ancora impensabili da scoprire. Lo dice Eliade stesso: “Ognuno assaggia e apprezza soltanto uno squarcio della sua bellezza ampia, fervida, che affronta infaticabile il tempo. […] Ma Venezia – femminile e autunnale – è complessa. Quelli che si soffermano alla nostalgia e ai musei non la conoscono” (p. 50).

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La complicità tra Eliade e Venezia è tale che ormai lei assume per lui le sembianze e gli atteggiamenti di una donna. “Il sole, la luce dei canali, le mura e le donne offrono una moltitudine di sfumature. […] Venezia è diversa e capricciosa come una donna. La sua vita stessa, fatta di lotta virile contro le avversità della storia e di esaltazione femminile dei vizi, è una contraddizione …” (p. 51). Sì, è vero, “Venezia è sensuale per se stessa” (p. 50), il suo fascino può far innamorare persino il più indifferente degli indifferenti. È altrettanto vero, però, che la “capricciosa” Venezia scopre tutto di sé solo a chi la sa corteggiare con paziente insistenza. Mircea Eliade lo ha fatto e per questo, benché egli abbia detto che “la vita di Venezia – più di quella di ogni altra città italiana – non può essere spiegata attraverso i libri”, è meglio prendere nota dei suoi preziosi suggerimenti, perché parla da bravo intenditore e, soprattutto, da fedele innamorato: “Venezia si gusta in gondola, di sera, sui canali laterali, verso la piazza San Marco. Oppure al mattino, nel volteggiare di colombi sulla piazza, o sul Campanile, o di fronte al Ponte, o all’Accademia, o sui gradini della chiesa di Santa Maria della Salute. È qui Venezia, ma non tutta.” (p. 50). Così, forse, arriveremo a conoscere anche noi le “ebbrezze che le parole non proveranno mai a riprodurre” (p. 51). Sino a quel momento, assistiamo ad una commedia che non ha bisogno di un canovaccio. Si tratta di una scena di vita quotidiana che si svolge sul palcoscenico improvvisato di via Garibaldi “la via più larga e la più vivacemente veneziana” (p. 52). Ne riportiamo solo pochissime righe: “Qualcuno ha travolto un bambino. I bambini si ammassano e gridano. Giovani senza colletto e marinai dai berretti sfilacciati protestano in dialetto. Due signori della latteria sono intervenuti. Una vecchia dal doppio mento comunica i primi particolari a una donna che allatta un bambino, ad una finestra in un vicolo. […] I colombi, che si erano calmati per un attimo, ricominciano. Una coppia impossibile lecca un gelato. La commessa, felice, guarda il sole. Il sole riscalda la strada, facendo affrettare i passi e ringiovanire i volti” (pp. 52-53). Colpisce l’accuratezza e l’abilità con la quale registra anche i minimi dettagli: la scena prende vita davanti ai nostri stessi occhi.

Purtroppo è giunto, un’altra volta, il tempo di separarsi dalla seducente città lagunare. Anche questo incontro con Venezia si conclude con il suono delle campane. Ma che suono! Mircea Eliade rende l’atmosfera con un’intensità da far venire i brividi. È il suo incontestabile trionfo stilistico e sensoriale. È una vera e propria esplosione di emozioni irrompenti: “La chiesa dell’isola di San Giorgio ha annunciato l’inizio; San Marco ha diffuso il segnale con un lamento tenebroso e riservato. Centinaia di chiese hanno destato i vicoli, hanno impensierito i passanti. Le campane intrecciavano le braccia al di sopra della città, accoppiavano i loro suoni, componevano melodie di un attimo, si ribellavano, si esaltavano, si umiliavano. Un vero genio sinfonico prendeva forma tra i suoni delle centinaia di insospettibili campanari, animando Venezia” (p. 53).

 

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Negli anni seguenti Mircea Eliade ritorna più volte a Venezia; non può starsene lontano. Le poche volte che gli capita di assentarsi troppo a lungo, non esita a rendere

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manifesto il suo rimpianto. Questi altri viaggi, purtroppo, non sono documentati così bene come lo sono stati i primi. Cercheremo di ricostruire la restante odissea in terra veneziana secondo gli accenni e gli appunti di viaggio ricavati dalle memorie, dal diario o dalla corrispondenza.

Nel 1931, di ritorno dall’India, fa uno scalo a Venezia. Lo ritroviamo nella stanza di un misero albergo nei pressi della stazione, in attesa di soldi da casa che gli permettano di prendere il treno per Bucarest. Si difende dalla malinconia leggendo i più recenti libri di Papini, Gog e Sant’Agostino[32]. La sua fortuna cambia nel 1950 quando, a fine maggio, in occasione della partecipazione alla Riunione Costitutiva della Società Europea di Cultura[33], viene alloggiato presso l’ultralussuoso e famoso albergo Bauer-Grünwald il cui sfarzo lo fa sentire addirittura “un tantino a disagio”[34]. Qui, durante un attacco di tristezza al pensiero che l’ultima volta era passato per Venezia nel 1937[35] esclama: “Tutti questi anni vissuti lontano dall’Italia mi sembrano sterili, perduti …”. Piuttosto che all’Italia, osiamo pensare che egli si riferisca a Venezia, poiché sappiamo dal suo Giornale che in Italia era stato un anno prima, a Genova. Anche in quell’occasione aveva dato sfogo al suo rimpianto: “Ritrovo l’Italia e mi chiedo come ho potuto lasciar passare tanti anni senza rivederla”[36]. Quest’anno, il 1950, Eliade incontra Evel Gasparini, professore di slavistica molto appassionato di etnologia. Dev’esser stato un incontro-rivelazione visto che in una nota del 1957 dice: “Se continuo a venire a Venezia, è anche per incontrare Evel Gasparini”[37]. Leggendo altre annotazioni sparse nel Giornale, il 4 settembre 1960 lo incontriamo in un bar di Piazzale Roma mentre aspetta l’autobus per Padova[38]. La vista dell’“inevitabile juke-box” gli porta alla mente la gita a Door County e la cena nel ristorante di Ellison Bay, anch’esso provvisto di una simile macchinetta. Il 7 settembre 1961 invece, è il giorno in cui acquista presso una bancarella di libri usati della Piazza SS. Apostoli il libro L’altra metà di Giovanni Papini[39].

Non è un caso che le interferenze tra Venezia e Papini siano così frequenti. Eliade è in totale sintonia con Venezia, ci si trova benissimo, è uno spazio consono alla sua anima. Ed è in questo ambito che egli ama fare le cose che più gli stanno a cuore; tra queste dedicarsi a Papini. Sempre nel Jurnal Eliade dichiara: “Ogni contatto con l’opera di Papini rianima le acque sotterranee che mi collegano al passato – e al paese”[40]. Quindi, mettendo Venezia e Papini insieme, egli cerca di ricreare un ambiente familiare che sappia di casa.

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Il rito continua. Da una lettera del 10 gennaio 1968, sappiamo quanto segue: “Ho letto a Venezia – e Christinel la sta leggendo – Vita di Papini di R. Ridolfi”[41].

Per Mircea Eliade, quindi, Venezia è al contempo luogo di visite, di riposo, di divertimento (è straordinariamente impressionato dell’Otello di Verdi, rappresentato il 20 agosto 1962 nel Cortile del Palazzo Ducale) e di fervido lavoro: legge molto e scrive anche. Nella lettera del 12 settembre 1962 indirizzata a Buescu sta scritto: “Quest’estate, ad Abano e Venezia, ho continuato Amintirile[42]. Inoltre, Eliade deve aver scritto qui il saggio Papini ºi alte mãrturisiri, poiché la seguente asserzione la si trova all’interno: “Difficilmente dimentico, soprattutto a Venezia, che sono anch’io scrittore”[43]. Quale potrebbe esserne la spiegazione? Sarà perché Venezia è il luogo in cui egli può sognare[44]? Sappiamo dal Giornale che Mircea Eliade ne ha bisogno per fare letteratura: “Appena «faccio della letteratura» mi ritrovo in un altro universo, universo che io chiamo onirico, in quanto ha un’altra struttura temporale e in quanto i miei rapporti con i personaggi sono di natura immaginaria e non critica”[45].

Andando avanti negli anni, matura notevolmente il significato del viaggio per Mircea Eliade. Ormai è vissuto come vera e propria esperienza transtemporale, di arricchimento esistenziale. Quando Claude–Henri Rocquet cita lo scrittore, da Frammenti di un diario: “Il fascino del viaggio non è legato solo agli spazi, alle forme e ai colori – i luoghi in cui si va e che si percorrono – ma anche al numero di ‘tempi’ personali che si riattualizzano”, Eliade, per esemplificare, ricorre subito a Venezia: “Sì, il fatto che visitando Venezia, ad esempio, riviva il tempo dei miei primi viaggi in quella città … Si ritrova tutto il passato nello spazio: una strada, una chiesa, un albero … Allora, di colpo è il tempo ritrovato. È una delle cose che fanno del viaggio un tale arricchimento di sé, della propria esperienza. Ci si ritrova, si dialoga con colui che si era quindici o venti anni or sono. Lo si incontra, si torna ad incontrare se stessi, si incontra il proprio tempo, il proprio momento storico di vent’anni prima”[46]. Nel Giornale viene descritta una esperienza simile dell’agosto 1957 vissuta nella Basilica di San Marco, davanti allo stesso mosaico che lo stregò nel 1927: “Mi sono fermato davanti al Gesù monumentale, imberbe e luminoso come un arcangelo, e ho sentito che un ricordo venuto da molto lontano cercava di giungere sino a me quale sono oggi. Sono rimasto in attesa, affascinato da quel frammento di vita dimenticata che si dava tanto daffare per farsi riconoscere … e improvvisamente: ci siamo!”.

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Si tratta della prima visita alla Basilica di San Marco nel 1927. Allora si è distaccato dal gruppo e vi è entrato da solo in cerca di qualcosa. “Ero persuaso che dovevo andare a vedere da solo, senza i commenti della guida, che quello era per me il solo modo di scoprire … Scoprire che cosa? Non lo sapevo, né me lo chiedevo. Presentivo soltanto che mi sarebbe stato «rivelato» qualcosa. Ed ecco che fui accolto da quel Cristo in mosaico, un Cristo che lì per lì non riconobbi tanto somigliava a un arcangelo. Christos angelos. Uno dei primi misteri, che a quell’epoca non potevo sospettare e ancor meno comprendere. […] Di colpo mi sono ritrovato tale e quale nel 1927, ho ritrovato la stessa oscura attrazione, la stessa stupefazione, gli stessi gesti, quasi che il tempo si fosse fermato. Mi sono calcato energicamente gli occhiali sul naso per vedere meglio e ho sentito che quel gesto prolungava un tic della mia adolescenza, quando la vista mi calava a un ritmo troppo rapido perché potessi starle dietro con le lenti correttrici. E poi, un altro gesto perduto da tempo, ho incrociato le braccia dietro la schiena …”[47]. Un altro incontro con il passato avviene il 4 settembre 1967 quando durante una gita in motoscafo sulla laguna si scatena il temporale[48]. Nebbia. Fulmini. Eliade rivive la tempesta sul Mar Nero avvenuta durante uno dei suoi giovanili viaggi estivi in cui per poco non aveva perso la vita.

A questo punto bisogna dire che non siamo venuti a conoscenza di ulteriori note riguardanti Mircea Eliade a Venezia. Perciò concludiamo questo viaggio nella città lagunare in compagnia di Mircea Eliade, anche perché, secondo lui, se si viaggia troppo, senza sosta, si rischia di diventare dei vagabondi: “A questo momento di avventura e di evasione da se stessi [bisogna] che corrisponda assolutamente un lungo periodo di letargo, di lavoro sodo e continuo. Altrimenti rompiamo il ritmo, e arriviamo ad essere dei vagabondi …”[49] [trad. ns.]. Però, prima di finire l’avventura, diamo un’altra volta la parola a Mircea Eliade, senza aggiungere altro: “A Venezia ci si può andare per un giorno, o starci un anno; la stessa allegria sfrenata ti avvolge scendendo i gradini della stazione verso il Canal Grande, la stessa avvilente tristezza ti domina alla partenza” (p. 49).

 

p. 523

 

 

 

 

 

 

Text Box: Mircea Eliade e la moglie Christinel Cotescu a Venezia
(da Mircea Eliade e l’Italia, a cura di M. Mincu e R. Scagno, Jaca Book, Milano 1987)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Poeta e sindaco della città lagunare dal 1890 al 1895.

[2] Si tratta di Pe via Garibaldi (Venezia, 5 aprile 1928) in M. Eliade, Jurnal de vacanþã, a cura e premessa di Mircea Handoca, Garamond, Bucarest, pp. 55-60, pubblicato per la prima volta in “Cuvântul”, IV, no. 1068 (12 aprile 1928), pp. 1-2, ripreso in Idem, Contribuþii la filosofia Renaºterii. [Itinerar italian], supplemento del no. 1 della “Revista de istorie ºi teorie literarã”, a cura di Constantin Popescu–Cadem, prefazione di Zoe Dumitrescu–Buºulenga, Colecþia Capricorn, Bucarest 1984, pp. 116-122. È stato tradotto in italiano con il titolo Diario italiano (1927-1928), traduzione dal romeno di Doina Popa e Margherita Dorissa (Istituto Italiano di Cultura di Bucarest), revisione di Roberto Scagno e pubblicato in Mircea Eliade e l’Italia, a cura di Marin Mincu e R. Scagno, Jaca Book, Milano 1987, pp. 49-53.

[3] Claude–Henri Rocquet in Prefazione a M. Eliade, La prova del labirinto. Intervista con Claude–Henri Rocquet, 2a edizione, aggiornamento bio-bibliografico di I. P. Couliano, introduzione di Roberto Mussapi, traduzione italiana di Massimo Giacometti, Jaca Book, Milano 1990, p. 7.

[4] Traduzione nostra da Ce învãþãm cãlãtorind? / Che cosa s’impara viaggiando? (29 giugno 1933), in M. Eliade, Taina Indiei. Texte inedite, a cura e premessa di Mircea Handoca, posfazione di Horia Nicolescu, Icar, Bucarest 1991, p. 62.

[5] Navigare necesse est, in M. Eliade, Jurnal de vacanþã cit., p. 145; pubblicato per la prima volta in “Vremea”, VIII, no. 398 (28 luglio), 1935, p. 7, e riprodotto nel volume Fragmentarium, Vremea, Bucarest 1939, pp. 73-77, trad. ns.

[6] M. Eliade, Le messi del solstizio. Memorie 2. 1937-1960, a cura di R. Scagno, traduzione dal romeno di R. Scagno, Jaca Book, Milano 1995, p. 15.

[7] È così che il giovane Eliade definisce la città lagunare nella lettera inviata a sua sorella, Corina Eliade, in uno dei primi giorni del suo primo soggiorno nella Serenissima, il 21 aprile 1927, riprodotta in M. Eliade, Europa, Asia, America – Corespondenþã, a cura di M. Handoca, Humanitas, Bucarest 1999, p. 224: “Venezia è sublime. Ci restiamo ancora due giorni. […] La Piazza S[an] Marco, piccioni, sole, campanile ecc. […]” Siccome la corrispondenza non era destinata alla pubblicazione, è una fonte molto affidabile, possiamo essere più che certi della sincerità della sua prima impressione, la quale non cambierà mai.

[8] M. Eliade, Le promesse dell’equinozio. Memorie 1. 1907-1937, a cura di R. Scagno, traduzione dal romeno di R. Scagno, Jaca Book, Milano 1995, p. 134.

[9] Nella prefazione a Idem, Contribuþii la filosofia Renaºterii cit., p. 15.

[10] Questi articoli, insieme a quelli da Firenze, Napoli, Abbazia, Tarvisio, Roma, furono raccolti in M. Eliade, Contribuþii la filosofia Renaºterii cit., quindi a cura di M. Handoca in Idem, Jurnal de vacanþã cit. Le citazioni che adopereremo saranno ricavate dalla versione italiana: Diario italiano (1927-1928) cit., pp. 25-70.

[11] Pubblicati per la prima volta in “Cuvântul”, III, la prima parte nel no. 746 del 29 aprile 1927, p. 1, e la seconda parte nel no. 748 del 1 maggio 1927, p. 11 e la terza parte nel no. 750 del 4 maggio 1927, pp. 1-2.

[12] Pubblicato per la prima volta in “Sinteze”, nos. 10-11 (gennaio-febbraio), 1928, p. 5.

[13] Si veda nota 2.

[14] Sergiu Tofan, Mircea Eliade – Destinul unei profeþii, Editura Alter Ego Cristian/Algoritm, Galaþi 1996, p. 72.

[15] M. Eliade, Le promesse cit., p. 134.

[16] Ibidem, p. 140.

[17] M. Eliade, Diario italiano cit., p. 26; per le seguenti citazioni che ne abbiamo ricavato riporteremo solo la pagina all’interno del testo.

[18] Le parole in corsivo sono in italiano anche nell’originale romeno.

[19] Cfr. Ce învãþãm cãlãtorind? / Che cosa s’impara viaggiando? cit., p. 63.

[20] Cfr. M. Eliade, Jurnal, vol. I, (1941-1969), a cura di M. Handoca, Humanitas, Bucarest 1993, p. 28.

[21] Z. Dumitrescu–Buºulenga nella prefazione a M. Eliade, Contribuþii la filosofia Renaºterii cit., p. 7.

[22] M. Eliade, Giornale, traduzione secondo Fragments d’un journal (Gallimard, Parigi 1973) di Liana Aurigemma, Boringhieri, Torino 1976, pp. 7-8.

[23] Nel saggio già citato, Navigare necesse est, viene ribadita questa idea con una bellissima sentenza: “Il fascino e il valore del viaggio sta nella sua spontaneità” (p. 147).

[24] Z. Dumitrescu–Buºulenga nella prefazione a M. Eliade, Contribuþii la filosofia Renaºterii cit., p. 6.

[25] Si veda M. Eliade, Le messi del solstizio cit., p. 15.

[26] Cfr. Tintoretto in M. Eliade, Jurnal de vacanþã cit., pp. 91-94; pubblicato per la prima volta in “Vremea”, X, no. 500 (15 agosto), 1937, p. 5.

[27] Z. Dumitrescu–Buºulenga nella prefazione a M. Eliade, Contribuþii la filosofia Renaºterii cit., p. 7.

[28] “Non dobbiamo dimenticare che esista anche un preziosissimo viaggio: quello verso la nostra anima, verso noi stessi. Il viaggio che facciamo nella solitudine” [trad. ns.], in Ce învãþãm cãlãtorind? cit., p. 64.

[29] Quivi M. Eliade fa riferimento a un verso del sonetto Venezia di Mihai Eminescu, il poeta romeno per eccellenza: “San Marco, orrendo, mezzanotte fende” (traduzione italiana di Geo Vasile in Mihai Eminescu, Luceafãrul / Espero, edizione bilingue, Editura “Viaþa Medicalã Româneascã”, Bucarest 2000); sembra che anche la città soffra per la loro partenza.

[30] Z. Dumitrescu–Buºulenga nella prefazione a M. Eliade, Contribuþii la filosofia Renaºterii cit., pp. 7-8.

[31] Che sia così lo dice proprio Eliade nella sua Intervista con Claude–Henri Rocquet, La prova del labirinto cit., p. 95: “Tramite la nostalgia ritrovo delle cose preziose. Ho quindi il sentimento che non perdo niente, che niente va perduto”.

[32] Cfr. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio cit., p. 220.

[33] Tutt’oggi possiamo leggere sul sito della Società il nome di M. Eliade tra i soci fondatori.

[34] Cfr. M. Eliade, Le messi del solstizio cit., p. 116 e Idem, Giornale cit., p. 88.

[35] Di quell’anno abbiamo già ricordato la sua visita alla mostra di Tintoretto.

[36] M. Eliade, Giornale cit., p. 82.

[37] Ibidem, p. 179.

[38] Ibidem, p. 259.

[39] Ibidem, pp. 282-283.

[40] Traduzione nostra da M. Eliade, Jurnal cit., vol. I, p. 328.

[41] M. Eliade, Europa, Asia, America – Corespondenþã cit., p. 478 (“Cãtre Domnul Gheorghe Bulgãr”).

[42] Ibidem, p. 119.

[43] Papini ºi alte mãrturisiri, in M. Eliade, Jurnal de vacanþã cit., p. 95; pubblicato per la prima volta in “Vremea”, IX, no. 504 1 (2 settembre), 1937, p. 4.

[44] “Come al solito, partiamo a Parigi intorno al 15 di giugno e ci restiamo fino al 25 di luglio, quando seguono la Svizzera e l’Italia (Abano) per i bagni di fango – l’artrite non mi risparmia – a Venezia per sognare” in una lettera del 26 maggio 1962 a Victor Buescu pubblicata in Idem, Europa, Asia, America – Corespondenþã cit., p. 117.

[45] M. Eliade, Giornale cit., p. 85.

[46] Idem, La prova del labirinto cit., pp. 94-95.

[47] Idem, Giornale cit., pp. 177-178.

[48] Ibidem, p. 409.

[49] M. Eliade, Navigare necesse est cit., p. 145.