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Back to Homepage Annuario 2003

 

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La città mitteleuropea.

Timiºoara e Trieste – un possibile paragone

 

Afrodita  Carmen  Cionchin,

Università di Timiºoara,

Istituto Romeno di Cultura e

Ricerca Umanistica, Venezia

 

La presente trattazione nacque da alcuni pensieri cristallizzati nel tempo, in stretto collegamento tra loro. Il primo, a partire dalla terra nativa, tentava di avvicinare due città dalla stessa iniziale, entrambe appartenenti allo spazio mitteleuropeo: Timiºoara e Trieste. Più il pensiero andava avanti, più le somiglianze si accumulavano latentemente, dietro le differenze, sotto il segno di multi- e inter-: multietnico, multilingue, multiculturale, multiconfessionale e poi, come incontro e, a volte, come contrasto o perfino come scontro – interetnico, interlinguistico, interculturale, interconfessionale. Tanti risvolti per esprimere la parola-chiave – convivenza, per intendere, con le dovute precauzioni, un possibile modello di civismo nelle società plurali, ossia un’autentica terapia delle patologie dell’identità di gruppo. Ciò premesso, c’era da farsi una domanda: quale sarebbe stata la ragione di tale impostazione? La risposta riguarda la Storia con le sue due coordinate: il tempo e lo spazio. Intendiamo qui sia la storia propriamente detta («storia dell’umanità e come tale soggetta alle leggi dello spirito»[1], entro le quali si svolgono i vari aspetti economici, morali, culturali), sia la storia naturale (cioè i fattori geografici). In questa accezione, la geografia, altrettanto importante per i topoi in questione, risulta una forma della storia, più precisamente la forma concreta che lo spazio assume nel momento in cui si colloca nella storia[2].

Nel caso di Timiºoara, città dell’ovest della Romania, la più influente nella regione del Banato e capoluogo del distretto di Timiº, la storia è costituita dalla successione di vicende socio-politiche e dalla sovrapposizione di strati culturali e dei loro significati. Una storia complessa e tormentata che si perde nel paleolitico, per ritrovarsi come provincia romana della Dacia ripensis[3], nel castro di Zurobara[4] (Zambara[5]). A testimoniare quest’antica origine sono i nomi geto-dacici dei principali fiumi che circondano o percorrono il territorio del Banato: Danubio (Donaris), Mureº (Maris), Timiº (Tibisis). Poi il feudalesimo porta, nella prima metà del secolo X, al voivodato del Banato, con fortezze e una numerosa popolazione autoctona romena che cercava di opporsi all’incursione dei magiari, insediati nella pianura pannonica. Ma, nel secolo XI, il Banato fu conquistato dallo stato feudale magiaro e poi organizzato in comitati. Così, nel secolo XII, ne sono menzionati documentariamente tre: Timiº (1177), Cenad (1197) e Caraº

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(1200). Il comitato di Timiº aveva come centro militare e amministrativo la fortezza di Timiºoara. Il nome di Timiºoara, come quello del comitato, conserva l’antica denominazione del fiume Timiº, trasmessa dagli autoctoni che, nonostante le varie dominazioni presenti nel territorio, hanno imposto negli atti di cancelleria dei conquistatori l’appellativo “Tymes” oppure «comitatu Tymisiensi», mantenuto tale quale in tutti i documenti redatti in latino nella seconda metà del secolo XIII (il primo risale al 1266, ai tempi di Stefano, re d’Ungheria e duca di Transilvania) e nei primi decenni del XIV. La collocazione su un terreno vallivo, solcato da più bracci irregolari dei fiumi Bega[6] e Timiº, era dovuta ad una posizione strategica naturale poco favorevole. Cosicché le cartine registravano la fortezza di Timiºoara come una piccola superficie rettangolare, fiancheggiata su tre lati da bracci d’acqua, e sul quarto da un canale artificiale; era, dunque, isolata, anche dal piccolo sito rurale che si trovava nelle immediate vicinanze. Di conseguenza, la fortezza svolse piuttosto un ruolo militare e amministrativo, in quanto abitata da soldati e funzionari, mentre la zona rurale accanto, popolata da contadini, era prevalentemente agraria.

A partire dal secolo XIV, la popolazione aumenta, nuovi elementi vi si stabiliscono come artigiani e negozianti, conferendo alla città un carattere sempre più commerciale, oltre a quello militare e amministrativo dovuto allo statuto di capoluogo di comitato. L’attivazione del mercato cittadino è confermata anche dal numero alto di monete straniere, scoperte in questa zona: accanto alle monete magiare dell’epoca di Andrea II o di Béla III, tutta una serie di monete di Colonia, Bavaria, Boemia, Strasburgo, Trier, Metz, Aquileia ecc. Ciò dimostra che, già all’epoca, esistevano forti legami commerciali tra Timiºoara e l’Europa Centrale. Tra il 1315 e il 1323, la città, conosciuta anche sotto il nome ungherese di Temesvar, diventa la residenza regale di Carlo Roberto d’Angiò, che temeva la corte di Buda. Prima però, nel periodo 1307-1315, il re vi fece costruire il “Castello”, all’infuori della fortezza, in un quartiere che si chiamerà Palanca Mica. Vale a dire che, in qualità di centro politico di resistenza contro l’anarchia nobiliare, Timiºoara arriva facilmente ad ospitare la corte regale, come accadde anche sotto Sigismondo di Lussemburgo.

Si deve sottolineare lo stesso che la storia incise sullo sviluppo urbano di aree con una specificità ben definita, riflettente la struttura delle comunità etniche, identificate in principio come comunità confessionali. Nel 1342, Timiºoara ottenne la qualità di «civitas», quale riconoscimento della sua strutturazione oramai più complessa, nello spazio abitato da una popolazione cattolica, per lo più ungherese. Il vecchio sito rurale diventò la «città» propriamente detta, con una notevole densità di abitanti. Le cartine del tempo provarono poi la comparsa di un nuovo quartiere, Palanca Mare, collocato eccentricamente rispetto alla «città». I due quartieri col nome di Palanca erano abitati da una popolazione romena

Una volta che Giovanni Hunyadi (Iancu de Hunedoara), governatore del comitato di Timiº e voivoda di Transilvania (dal 1441), poi reggente d’Ungheria (1446-1453), vi stabilì la sua residenza, l’urbe divenne un punto strategico importante sul piano militare nella lotta antiottomana. Egli combatté valorosamente contro i turchi; la più clamorosa nell’ambito europeo fu la vittoria di Belgrado nel 1456, quando aveva respinto l’attacco di Maometto II. Sempre in

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questo periodo, al posto del vecchio Castello, distrutto da un terremoto, fu costruito un nuovo Castello, più grande, secondo la tecnica del tempo e con l’aiuto di architetti italiani. Sul piano demografico, il regno del Hunyadi, seguito da quello di Pavel Chinezul, nominato governatore del comitato di Timiº e del Banato di Severino nel 1478, vide, fino alla fine del secolo XV, l’aumento della popolazione ortodossa (romena e serba), che si era rifugiata in questa zona per fuggire all’invasione ottomana ed era stata poi colonizzata nei quartieri Palanca Mare e Palanca Micã.

Il secolo XVI portò instabilità politica e sociale in tutta la regione, un vero e proprio periodo di anarchia che culminò nell’assedio della fortezza di Timiºoara da parte dell’esercito rivoluzionario di Gheorghe Doja, durante quel movimento conosciuto nella storia come la guerra dei contadini romeni del 1514 contro la tirannia della nobiltà. Poi, la caduta di Belgrado in mano ottomana (1521) e la sconfitta di Mohacs (29 agosto 1526) condussero al crollo del Regno d’Ungheria e all’instaurazione della dominazione turca. Di conseguenza, il Banato e la Transilvania formarono un principato autonomo sotto la sovranità turca. Timiºoara fu ripetutamente assediata e, nel 1552, conquistata. La dominazione turca durò 164 anni, fino al 1716, e portò notevoli cambiamenti all’assetto della popolazione: la comunità mussulmana, sempre più numerosa, venne privilegiata. I sudditi furono organizzati in comunità confessionali, tra cui si distinsero quella cattolica di lingua ungherese e quella ortodossa (romena e serba).

Al periodo ottomano risale la cosiddetta “città dei Rascieni”, nel quartiere Palanca Mare. Di fatti la popolazione ortodossa del Banato era chiamata col termine di “rascian”. Proveniente dal tedesco, la voce indicava l’origine serba, ma poiché l’ordinamento della chiesa ortodossa nella regione era sotto l’autorità serba, essa finisce per significare “ortodosso”, compresa la popolazione romena. Nella stessa epoca ebbe inizio un’altra comunità – quella ebrea, formata da due gruppi: ebrei spagnoli ed ebrei tedeschi. Nel 1716, la conquista del Banato dalle truppe imperiali austriache capeggiate da Eugenio di Savoia, dopo una serie di battaglie soprattutto nelle regioni di confine, aprì una nuova epoca nella storia della città, sotto il segno della prosperità. La provincia, sotto il nome di “Banato Timiºan”, fu dichiarata dominio della corona e affidata ad un’amministrazione militare (Landes Administration des Temeser Banats), subordinata al Consiglio di guerra della Camera aulica. Il governatore, che era anche comandante militare, aveva la sua residenza a Timiºoara. Il Banato è rimasto sotto l’amministrazione militare fino al 29 settembre 1751, quando essa fu sostituita dall’amministrazione camerale (civile-provinciale), rappresentata da Administraþia cezaro-regeascã a Þãrii Banatului (Regia Amministrazione del Paese di Banato), diretta da un presidente aiutato da sei consiglieri. Questa è durata fino al 1778, quando il Banato fu incorporato all’amministrazione dell’Ungheria.

È importante notare, come punto di incontro tra il destino di Timiºoara e quello di Trieste, che dall’iniziativa del primo presidente dell’autorità soprammenzionata, il conte Villana Perlas Francesco, marchese di Rialpo, nacque la Compagnia di Commercio Timiºoara–Trieste, che svolse la sua attività tra il 1759 e il 1775, con lo scopo di commercializzare i prodotti del Banato: bovini, sego, miele, cera, tabacco, grano e cereali in generale. Il 21 dicembre 1781, Timiºoara ottenne da parte dell’imperatore Giuseppe II il diploma di municipio (città regale libera), che fu poi rinnovato da Leopoldo II e, nel 1790, inserito nelle leggi del paese. A sua volta, Francesco I confermerà, con l’atto n. 1687 del 1824, il diploma conferito da Giuseppe II.

Uno dei testimoni più autorevoli di quei tempi è Francesco Griselini, nato a Venezia il 12 agosto 1717, riputato scienziato che trascorse due anni e mezzo (settembre 1774-febbraio 1777) nel Banato, dove accompagnava il barone Giuseppe de Brigido, nominato, nel maggio del

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1774, presidente dell’Amministrazione del Banato. Il 24 agosto Griselini si recò in questa regione, passando per Monfalcone, Trieste – qui lo raggiunse il barone de Brigido – Lubiana, Varazdin, Kanjiza, Pécs, Osijek, Petrovaradin, Novi Sad, Becej e Kikinda. La notte tra il 21 e il 22 settembre, i due viaggiatori entrarono nella fortezza di Timiºoara. Apprezzato dal barone, Griselini godette nel Banato di tutte le facilità per svolgere le sue ricerche, subito concretizzate in vari studi, consacrati specialmente all’antichità romana e ad alcuni aspetti di storia naturale, pubblicati tra il 1776 e il 1779 nel “Giornale d’Italia” e nel “Nuovo Giornale d’Italia”. Ma la più importante opera redatta durante il suo soggiorno a Timiºoara fu una monografia del Banato, che fece stampare, in un primo volume, presso la tipografia del milanese Gaetano Motta, nel 1780: Francesco Griselini, Lettere odeporiche ove i suoi viaggi e le di lui osservazioni spettanti all’istoria naturale, ai costumi di vari popoli e sopra più altri interessanti oggetti si descrivono, giuntevi parecchie memorie dello stesso autore, che riguardano le scienze e le arti utili, tomo I, Milano, 1780. Con i 400 fiorini ricevuti dall’imperatrice Maria Teresa, alla quale dedicò questo primo volume, e con la promessa di un nuovo appoggio finanziario, Griselini volle far pubblicare un secondo volume, che avrebbe dovuto comprendere anche numerosi disegni, ma che, per motivi sconosciuti, non uscì più. Però, quasi contemporaneamente alla pubblicazione del testo italiano nella forma che abbiamo visto, fu stampata la traduzione tedesca, nella variante integrale del manoscritto[7]. Essa costituì poi la base della traduzione romena e serba.

Come testimoniato anche dall’opera di Griselini, la rinascita della città avvenuta in 60 anni, tra il 1716 e il 1776, è dovuta all’«immortale» Carlo VI e alla sua “gloriosa” figlia, Maria Teresa. Il progetto imperiale fu affidato al primo governatore del Banato (1716-1733), il feldmaresciallo Claudius Florimund Mercy, il quale era dotato di tutte le qualità necessarie per tale impresa. Per ciò che riguarda Timiºoara, egli si impegnò a farla diventare una delle più belle ed eleganti città della monarchia; per il Banato, provvide all’aumento del numero dei villaggi e dei loro abitanti, favorendo l’arrivo di coloni tedeschi, italiani e spagnoli. Così erano nuovi villaggi Sînpetru, Zãdãrlac, Beºenova Nouã, Peciul Nou, Deta, Kudric, Piºchia e Guttenbrunn (oggi Zãbrani), occupati da suebi e altri abitanti dell’Impero. Mercydorf (Merþiºoara, oggi Carani) prese il nome dal suo fondatore e fu popolato da italiani. A Aradul Nou, sul fiume Mureº, ed a Giarmata furono portati molti tedeschi, ma separati dai romeni. A Becicherecul Mare, Mercy fece venire spagnoli di Biscaya, che chiamarono la località Barcelona Nouã. Però questo nome si perse, come gli stranieri che, a differenza dei serbi del posto, non poterono sopportare l’aria contaminata delle paludi accanto e morirono quasi tutti.

Un’altra figura ragguardevole di questo periodo è proprio il soprammentovato barone Giuseppe de Brigido, presidente dell’Amministrazione del Banato per due anni e sei mesi (tra la metà del 1774 e l’inizio del 1777), al quale succedette suo fratello, Pompeo de Brigido. Il nuovo regime portò un notevolissimo cambiamento all’assetto della popolazione, cambiamento determinato per primo dalla ritirata dei cittadini mussulmani. Benché il dominio ottomano a Timiºoara fosse durato centocinquant’anni, non è rimasta di questo periodo che un’iscrizione in turco. Fino al 1730, la maggior parte della popolazione dei suburbi – Palanca Mare e Palanca Mica – era “rasciana” (romena e serba). Nel museo di Timiºoara si conserva il sigillo della comunità ortodossa: “Sigillum Gentis Rascianorum Greci Ritus, Sigillum Cittis Temesvariensis

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G. R. Rascianorum, Sigillum Suburbii Temesvariensis Rascianorum Greci ritus[8]. Con il consolidamento del potere e la nuova organizzazione amministrativa del territorio annesso all’Impero austriaco, sotto forma di provincia imperiale (Kronland), cominciarono le colonizzazioni di popolazioni tedesche di confessione cattolica, fatto che provocò trasformazioni urbanistiche importanti. La città del periodo ottomano fu interamente smantellata, come pure le sue impronte, cancellate dalla memoria collettiva. Il principe Eugenio di Savoia decise di espellere “i Rascieni, gli Ebrei e gli altri infedeli”. Mentre i “Rascieni” vennero però effettivamente espulsi all’infuori della fortezza, gli ebrei furono tollerati e rimasero nel cosiddetto «quadrilatero», conosciuto all’inizio come «Judenhof». Entrambe le collettività ebree si trovavano in questo perimetro, la spagnola da un lato della porta, la tedesca dall’altro. Dopo il 1776, ebbero un solo caporabbino, divenuto anche giudice, che esercitava l’autorità su tutti gli ebrei della regione del Banato. Questa doppia comunità, la quale contava circa 370 persone nella seconda metà del secolo XVIII, ottenne nel 1760 il diritto di costruire nella città la sua prima sinagoga, sia per il rito sefardita, sia per l’askenazita. Piano piano gli ebrei arrivarono ad essere segnalati anche nei due principali suburbi, Iosefin e Fabric, dove abitavano in un piccolo quadrilatero riconoscibile dalla presenza di un tempio israelita.

Oramai nel 1744, la struttura dei quartieri rispecchiava la collocazione delle più importanti comunità confessionali. La fortezza, il suburbio tedesco (ted. Meierhof, rom. Maierele germane, poi, dal 1773, Iosefin, dopo il nome dell’imperatore Giuseppe II) e la zona sud del suburbio Fabric (con questo nome a partire dal 1744) comprendevano la maggior parte della popolazione cattolica (tedesca ed ungherese) e si trovavano sotto l’autorità di un magistrato tedesco. Gran parte del suburbio Fabric, invece, presente nelle cartine quale “suburbio illirico”, accanto al “rasciano”/”Raatzen Dorf” (il quartiere romeno che più tardi sarà chiamato Mehala), era sotto l’autorità di un magistrato rasciano. Significativi per tale disposizione delle comunità confessionali, identificate con singole comunità etniche, sono i luoghi di culto. Nella prima metà del secolo XVIII, nella città esistevano quattro chiese romano-cattoliche: la Chiesa di Santa Ecaterina, una delle più antiche, risalente al secolo XV, trasformata ulteriormente dai turchi in moschea e demolita nell’«epoca austriaca», durante i lavori di costruzione delle nuove fortificazioni. Sempre al periodo anteriore alla conquista turca risale la Chiesa di San Giorgio (Sfântul Gheorghe), divenuta, nel 1552, la principale moschea della città e collocata nella piazzetta che ne prenderà il nome. Una volta allontanati i turchi, dopo l’instaurazione della monarchia absburgica, la chiesa fu rinnovata e cominciò ad appartenere ai frati gesuiti i quali, però, costruirono qui una chiesa nuova, a cui aggiunsero, nel 1726, anche un seminario di teologia, che funzionò fino al 1778.

C’era poi la Chiesa di San Nepomuceno (Sfântul Nepomuk), accanto ad un monastero francescano, eretti entrambi tra il 1733 e il 1736. All’interno del monastero ha funzionato anche la prima scuola elementare di Timiºoara. Dopo l’abolizione dell’ordine francescano in seguito alla disposizione del 31 luglio 1788 data dall’imperatore Giuseppe II, l’ordine dei frati piaristi[9], trasferitosi da Sântana a Timiºoara, viene ad appropriarsi il monastero e la chiesa ed inizia qui un

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ginnasio greco non unito (“das Griechisch nichtunirte Seminarium”), mettendo così le basi di un insegnamento confessionale di lunga tradizione a Timiºoara: nel 1841 la scuola ottenne il rango di liceo (ginnasio superiore), che funzionerà ininterrottamente fino all’instaurazione del regime comunista. Il più rilevante edificio romano-cattolico della città, destinato a riflettere l’importanza di tale culto, appartenente all’etnia dominante, è, però, il Duomo, costruito tra il 1736 e il 1754 e collocato nella Piazza dell’Unità, proprio in mezzo alla fortezza. L’edificio, realizzato in stile barocco tardo provinciale è sintomatico per questo genere architettonico e l’intera composizione plastica della piazza è modellata secondo questo monumento referenziale per la storia locale. Le chiese ortodosse, invece, servivano le comunità romena e serba, organizzate in un episcopio comune, capeggiato da un vescovo serbo. Di conseguenza, le messe vi erano celebrate alternativamente in serbo e romeno, fino al 1864 quando, dopo forti pressioni, la comunità romena riuscì a separarsi da quella serba, creandosi il proprio episcopio. Anche se all’inizio gli ortodossi furono poco graditi all’interno della città, la continuità della loro esistenza in questo spazio è attestata da una chiesa considerevole, risalente alla metà del secolo XVIII e conosciuta come cattedrale ortodossa. Accanto ad essa venne eretta la sede dell’episcopio serbo. Col passare del tempo però, la basilica diventò proprietà della comunità serba.

Due dei più antichi luoghi di culto ortodossi ebbero lo stesso destino, anche se costruiti con contributi comuni. La chiesa di San Giorgio, fondata nel 1746 e collocata nella piazza centrale del quartiere Fabric, dimostra chiaramente che la maggior parte della popolazione ivi residente era “rasciana”. Questa comunità romena vi fece innalzare un nuovo edificio religioso, ultimato nel 1826 e dedicato a San Ilie. La seconda chiesa ortodossa rimasta del patrimonio serbo era quella di San Niccolò, eretta alla fine del XVIII secolo, nel suburbio Mehala; qui ne sorgerà un’altra solo nel primo dopoguerra. A testimoniare però l’esistenza di tale comunità di antica tradizione si aggiunse un’altra basilica romena, sempre alla fine del secolo XVIII, ma in un quartiere diverso, abbastanza popolato già nel 1718 – Maierele vechi (oppure Maierele române e, dal 1896, Elisabetin, attualmente Bãlcescu).

Sopraggiunse poi la rivoluzione liberale ungherese del 1848, capeggiata da Lajos Kossuth. L’esercito del generale Bem Jozsef assediò la città nel 1849, per 107 giorni, senza però riuscire a conquistarla. All’assedio partecipò, in qualità di maggiore, anche il grande poeta ungherese Petöfi Sandor, il quale animò i moti del ‘48 con il Canto nazionale e morì combattendo contro i russi. La sconfitta dei rivoluzionari ungheresi dalle truppe imperiali austriache fu interpretata come una vittoria dello Stato contro il disordine politico e sociale. Il 4 marzo 1849, Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria (1848-1916) e re d’Ungheria (1867-1916), promulgò una nuova Costituzione, dividendo l’impero austriaco in 16 “paesi della Corona”. Per impedire l’unità dei romeni all’interno dell’impero, fu creata un’unità amministrativa: “la Vojvodina serba e il Banato Timiºan”. Nonostante il nome, il nuovo paese era amministrato da un generale austriaco e aveva come lingua ufficiale il tedesco. L’intero territorio della Vojvodina sarà diviso all’inizio in tre distretti amministrativi, secondo le tre popolazioni, e poi in cinque distretti. Timiºoara era il capoluogo della nuova unità amministrativa, fatto che porterà a un rapido sviluppo della città. C’è da notare che la Vojvodina rimarrà unità austriaca fino al 1860. Nello stesso anno, il 27 dicembre 1860, Francesco Giuseppe decreta l’annessione del Banato all’Ungheria.

Per finire la rievocazione, aggiungiamo che, dopo la dissoluzione dell’Impero absburgico nel 1918, Timiºoara venne, finalmente, assegnata alla Romania il 28 luglio 1919. È

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così che, a partire dal 1919, si parla del “periodo romeno”, il cui principale monumento è la «Lupa capitolina», ricevuta in dono dalla città eterna e inaugurata nel 1926 dalle autorità romene; montata su una colonna alta cinque metri e raffigurante la lupa leggendaria che allattò Romolo e Remo, i fondatori dell’antica Roma, essa è considerata un simbolo della latinità. La sua collocazione nel cuore della città dimostra chiaramente la necessità di esibire in maniera esemplare quell’identità che avrebbe dovuto creare la sua vera e propria immagine.

Sarebbe ora utile fare una digressione riguardante la storia da un punto di vista diverso. “Tutto quello che oggi chiamiamo memoria non è affatto memoria, ma – già – storia”[10], scriveva Pierre Nora, distinguendo tra la memoria immediata, conservata nei gesti e costumi, e la memoria indiretta, trasformata col passare degli anni in storia. In questo modo, la memoria di un posto viene costituita dall’accumularsi nel tempo e dal sovrapporsi nello spazio delle vicende diventate significative e rappresentative per una data comunità; e la sua espressione più eloquente non è altro che il monumento pubblico che appare, di conseguenza, come “luogo della memoria” (“lieu de mémoire”), contemporaneamente materiale e simbolico. Ogni epoca ha i suoi simboli e, per qualsiasi etnia o nazione, esiste una forma della memoria collettiva raffigurata dai monumenti pubblici che portano i fatti storici nella coscienza presente. In tale contesto, si potrebbe affermare che le principali tappe nella storia cittadina furono segnate dalla costruzione di tre chiese, legate ognuna alla comunità locale specifica. Così, la cattedrale cattolica della Piazza dell’Unità è l’emblema della comunità cattolica tedesca, la quale ha vissuto il momento di massima fioritura nella seconda metà del secolo XVIII. La chiesa cattolica del quartiere Fabric, invece, chiamata anche “Millenium” e fondata nel 1896, per celebrare l’anniversario di mille anni dalla fondazione del Regno ungherese, è il monumento rappresentativo dell’amministrazione ungherese (1867-1918). Infine, al “periodo romeno” risale la Cattedrale ortodossa, eretta nel 1940 nella piazza centrale. Con la sua presenza insolita (alta 83,7 m) e lo stile eclettico con elementi bucovineni (cioè della regione storica della Bucovina), essa esprime il forte desiderio di affermazione della comunità romena.

Nel caso di Trieste, la storia ha avuto un percorso ancor più sinuoso e, per chi la conosce, non sarebbe difficile capire, rispetto a quanto sopra, quali possano essere gli approcci fra le due città, poiché il loro passato riverbera un complesso di situazioni risultante precisamente dal carattere multietnico che crea una specificità esemplare per l’Europa Centrale. E dal momento che il riflesso più fedele di tale etnicità plurale è rappresentato, come visto, dai luoghi di culto, il nostro pensiero ha voluto soffermarsi sui simboli delle confessioni religiose presenti nel centro adriatico, che venne abitato, in particolare nel XVIII e nel XIX secolo, da varie popolazioni che portarono con sé la propria cultura e la propria tradizione. Sul Colle di San Giusto, la Cattedrale cattolica, dedicata al protomartire e patrono della città, custodisce le origini del culto cristiano e la storia del passato romano e medioevale di Trieste. L’aspetto attuale è dato dalla trasformazione, attuata nel 1300, di due preesistenti basiliche parallele risalenti all’alto medioevo. La possente torre campanaria (1337) racchiude un precedente campanile romanico a sua volta costruito sulle strutture di un edificio romano, su cui nel V secolo si è impostata una basilica cristiana. Aggiungiamo che la parte a sinistra della nave centrale era la prima chiesa cattedrale, edificata attorno al 1030. Poi, nel borgo teresiano, in felice posizione, sorge la più vasta chiesa di

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confessione cattolica, costruita in stile neoclassico, a partire dal 1828 sino al 1849: Sant’Antonio Nuovo; essa si impone per la sua monumentalità alla fine del Canal Grande, che oggi è interrato nella parte antistante il portico, ma inizialmente si affacciava sull’acqua. Nei nuovi borghi, accanto al tempio sovrammenzionato, si innalzano i luoghi di culto non cattolici, posti nel cuore della città. Le comunità serbo-ortodossa e greco-orientale esercitarono il loro culto a Trieste, dalla metà del XVIII secolo circa, nella medesima chiesa, quella di San Spiridone, eretta nel 1753 sul Canal Grande, a poca distanza dalla futura Sant’Antonio Nuovo. Interessante è il fatto che la prima costruzione risale al 1736, ma, a seguito di dissidi, i greci si staccarono dai serbi nel 1786 e costruirono un loro tempio sulle Rive, conosciuto come San Nicolò dei Greci. La comunità illirica, invece, demolì nel 1861 la chiesa precedente ed eresse un edificio di dimensioni più vaste, in stile neobizantino, secondo la tradizione artistica orientale. Altrettanto notevole è la storia della basilica di San Silvestro, che sorge sulle pendici del Colle di San Giusto, non lontana dalle mura. La tradizione attribuisce lontane radici, risalenti addirittura al cristianesimo primitivo, al medioevale edificio in seguito riportato a forme romaniche. Nel XVIII secolo, con la soppressione dei gesuiti, la chiesa venne messa in vendita al pubblico incanto; così nel 1785 fu acquistata da otto membri della comunità elvetica, che era formata soprattutto da famiglie di commercianti, divenendo la sede di culto della comunità evangelica di confessione elvetica, unita attualmente a Trieste con la comunità valdese.

La comunità ebraica, sorta nella città adriatica forse già nel XIV secolo e cresciuta di molto dopo la proclamazione del portofranco, abitò nel ghetto fino al 1785, quando esso venne abolito da Giuseppe II. Il suo tempio rappresentativo e nello stesso tempo uno dei luoghi di culto ebraico più importanti e vasti d’Europa, risale però agli albori del Novecento, essendo cominciato a edificare nel 1908 e inaugurato il 27 giugno 1912. La comunità anglicana, costituitasi a Trieste grazie all’imperatore Francesco I nel 1821, fece erigere nella città vecchia un suo tempio per l’esercizio del culto.

Con queste riflessioni di “memoria storica” prese spunto, in senso inverso, un ulteriore pensiero, quello di portare Trieste, spiritualmente, un po’ a Timiºoara, un po’ in tutto lo spazio culturale romeno, visto che meno conosciuta in paragone ad altre città italiane. Mentre il pensiero era in statu nascendi, ci siamo trovati, forse non per caso, di fronte alla seguente osservazione di Fulvio Tomizza, scritta né più né meno che nel 1991: “Trieste risulta essere la città meno visitata dagli italiani. Ovviamente è anche la meno conosciuta, al punto che non pochi connazionali ignorano se, da quanto tempo e in quale misura essa faccia parte della Penisola e dello Stato italiano”[11].

        Per integrare la prospettiva bisognava, a questo punto, ripercorrere la storia del topos adriatico. È così che, all’inizio castelliere, la troviamo poi come colonia romana, probabilmente una delle più antiche, col nome di Tergeste, Tergesteum o Tergestum. Ricordiamo, rispetto al possibile paragone tra le due città, che la storia di Timiºoara si perde anch’essa nel paleolitico, per ritrovarsi come provincia romana della Dacia, nel castro di Zurobara. In ciò che riguarda Trieste, l’aspetto di colonia si manterrà, rendendosi più evidente, nel periodo successivo, l’età bizantina, quando a Roma si sostituisce, nell’Istria, Venezia, rappresentante della nuova nazione italiana. D’altro canto, come «numerus» militare bizantino, la città adriatica sembrò per la prima volta assolvere una funzione che si potrebbe chiamare di mediazione fra Occidente e Oriente. Il

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Medioevo apre, nel secolo XIII, coll’assurgere a comune indipendente, una nuova epoca della sua evoluzione. Nel caso di Timiºoara, la fortezza medioevale si afferma nello stesso periodo. Nel Trecento, troviamo il comune triestino compiutamente costituito, del tutto indipendente nel regime interno e tributario di Venezia e Aquileia nei rapporti internazionali. Con l’osservazione, parallelamente, che, sempre nel secolo XIV, Timiºoara ricevette la qualità di “civitas”, quale riconoscimento della sua più complessa conformazione. Nell’ambito dell’Impero absburgico, il Settecento segnò la storia moderna di Trieste, con la proclamazione del “portofranco”, il 18 marzo 1719, mentre Timiºoara venne a far parte della monarchia austriaca nel 1716, dopo la conquista del Banato, compiuta dalle truppe capeggiate da Eugenio di Savoia. In seguito all’istituzione del portofranco, sotto Carlo VI, la città cambiò statuto ed assurse al principale sbocco al mare dell’Impero e ad emporio cosmopolitico, ossia “a centro dove si sarebbe radunato tutto il traffico dell’Adriatico, una specie di mercato permanente, dove, per la quantità delle merci poste a disposizione e per la forte concorrenza, tutti gli abitanti dell’interno avrebbero trovato da rifornirsi a buon mercato, arricchendo d’altra parte un largo ceto di mercanti e mediatori”[12].

Un destino parallelo per Timiºoara, la quale cominciò a diventare una delle più belle ed eleganti città della monarchia austriaca sotto Carlo VI. Ed anche molto attiva sul piano commerciale, in quanto vennero poste le basi per un’intensa esportazione di cereali sul canale Bega[13], in vaporetti che sarebbero andati fino a Vienna. Ciò ha fatto sì che il grano del Banato fosse quotato alla borsa viennese, segno chiaro della ricchezza del centro urbano. Non a caso una delle tre porte cittadine – Poarta Arãdanã (oppure Poarta Vienei, Mehalei) – conserva la seguente iscrizione, del 1732: “Carolus VI Caesar augustus Banatu elapsis sub iugo Turcae CLXIV annis liberato atque religioni et sceptro Austriae gloriose restituto ista quae erexit propugnacula posteritati relinquit Constantia et fortitudine insignita[14]. Un ulteriore incremento allo sviluppo commerciale viene dall’Imperatrice Maria Teresa, figlia di Carlo VI, che, continuando la politica di sostegno della città e del suo porto, fa della nuova Trieste una palestra per gli architetti e gli urbanisti dell’Impero. Nuovi borghi si innestano intorno al nucleo originario arroccato sul Colle di San Giusto. Mutano così, in relazione a questo nuovo ruolo economico assunto dalla città, la natura stessa e il volto secolare di Trieste. Come notò Alberto Spaini, “Trieste non si sarebbe mai sognata di voler rappresentare un centro di cultura internazionale ma, senza volerlo essere programmaticamente, lo era di fatto”[15]. L’arrivo di sempre più cittadini di nazioni diverse fa sì che accanto al vecchio borgo sorge la città nuova. Il comune latino, che aveva conservato il suo carattere originario attraverso secoli di stasi, si scioglie così anche amministrativamente nella città più grande, che ingloba accanto ai vecchi abitanti i nuovi insediamenti, inserendosi nelle correnti più vivaci del tempo, nello stesso frangente in cui perde la caratteristica originaria di autonoma individualità politica. Praticamente, il nuovo volto storico ed etnico della città viene a essere un fenomeno coincidente con il manifestarsi di un differente legame con il territorio che la circonda e con tutta la monarchia absburgica. E la conseguenza di tale fenomeno è che nasce, con l’arrivo di gente straniera, accorsa a Trieste in cerca di lavoro e di

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fortuna, la realtà e insieme il mito della città cosmopolita[16]. Le popolazioni immigrate dagli altri paesi, per conservare e usare la propria lingua d’origine, le proprie tradizioni culturali e i propri credo religiosi si riuniscono in comunità. Contemporaneamente sorgono numerose chiese dedicate ai vari culti, che fanno di Trieste un esempio di felice convivenza religiosa, aspetto valido anche nel caso di Timiºoara. Accanto, però, a questa configurazione etnica più composita rispetto a quella che l’aveva contraddistinta per secoli, la città adriatica è esposta, come tutto l’impero – e in particolare il suo corpo centrale, i domini ereditari – a una pressione che mira a rafforzare le posizioni tedesche. Con la dovuta menzione che non si tratta di un’azione germanizzatrice e snazionalizzatrice, ma di un tentativo di utilizzare le potenzialità unificatrici del germanesimo, inteso non come fattore nazionale, ma come forza statale[17].

Per ciò che riguarda l’urbe romena, fino al 1730, la maggior parte della popolazione era ortodossa (cosiddetta “rasciana”, cioè romena e serba). La nuova organizzazione amministrativa invece, come territorio annesso all’Impero austriaco, sotto forma di provincia imperiale (Kronland), promosse le colonizzazioni con popolazione tedesca di confessione cattolica, fatto che portò, come si è potuto notare, importanti trasformazioni ed arricchimenti all’assetto urbanistico. Per passare di nuovo alla storia triestina, diremmo che un breve iato nell’ascesa della città è rappresentato dalle tre occupazioni napoleoniche (1797, 1805-1807, 1809-1813), ma la regione, rioccupata dall’impero austriaco, vide l’aggiunta delle province ex venete e Trieste ne diviene la capitale morale. Il rapporto con l’Austria multinazionale si sviluppa continuamente fino al 1918, quando la dissoluzione dell’Impero absburgico, che ne segnò il distacco da un mondo al quale aveva appartenuto per secoli, trasforma in maniera radicale e irreversibile la posizione e il ruolo storico della città adriatica. Mutatis mutandis, anche Timiºoara ha risentito il distacco dal mondo imperiale, proprio lei, che fu chiamata all’epoca mica Vienã (“la piccola Vienna”), i cui suburbi avevano nomi viennesi, non ufficialmente, ma per la gente del posto, che diceva Domplatz invece di Piaþa Unirii (Piazza Unità), oppure Küttl per ªtefan Furtunã.

Nello sviluppo storico che stiamo descrivendo, l’incrociarsi di etnie e le appartenenze geopolitiche fluttuanti si sono mostrate come una chance della diversità culturale ma, in uguale misura, anche quale fonte di emergenze nazionalistiche. Di conseguenza, alla fine della prima guerra mondiale, nell’ambito della polemica italo-jugoslava e del contrasto italo-slavo nella regione Venezia Giulia, di cui centro è Trieste, la città diventa un centro periferico, situato all’estremo confine orientale d’Italia, si trasforma in una città di provincia italiana: “inizia quella frattura, psicologica e reale nello stesso tempo, fra l’aspirazione di grandezza, che è anche un richiamo a un passato scomparso e irripetibile, e la realtà di un presente più prosaico e più angusto”[18]. Quanto allo statuto di Timiºoara dopo la “redenzione” avvenuta nel 1919, non mancarono le effervescenze nazionalistiche alle quali abbiamo accennato prima con riferimento alla realtà triestina. A questo proposito riportiamo, nella traduzione italiana, un frammento (redatto nel 1931) del Diario dello scrittore romeno Liviu Rebreanu: “Timiºoara ha l’allure di città europea. Quartieri di fabbriche, grandi industrie, costruite in un grande stile, fa una buona impressione. Peccato che sia ancora tanto estranea! Piazza monumentale, in mezzo alla quale la «Lupa» è un po’ spaesata. Lì ci vorrebbe un monumento imponente che mostri il governare

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romeno. Perché, se no, tutti quei palazzi sono stranieri, proprietà straniera. Si dice, infatti, che nemmeno dieci case romene si trovino in tutta Timiºoara! Poche. Ci arrendiamo sempre e siamo sempre in svantaggio, perfino morale. Il Comune, estraniato. Gli interessi romeni non si possono difendere dalla persistenza minoritaria. Credo sia stato un grande errore del governo l’eccesso di libertà accordato alle minoranze. Si è trasformato in libertinaggio, come del resto in tutto il paese”[19]. Tono perentorio che vitupera l’atmosfera dell’epoca.

L’ultima parte della presente trattazione viene ad inquadrare l’immagine dei due topoi in discussione nella prospettiva più estesa della città mitteleuropea, a partire dalla seguente affermazione di Jacques Rupnik: “La città mitteleuropea come ponte o incrocio può essere oramai incontrata solo nella letteratura”[20]. A questo proposito, lo scrittore presenta l’esempio di due città: Gdansk-Danzica e Praga. Alla prima viene oggi associata la “Solidarietà” (Solidarnosæ) e pochissimi dei suoi attuali cittadini sanno che lì c’era un tempo il luogo d’incontro di tedeschi, polacchi, caèubzi – una delle più antiche e più strane minoranze mitteleuropee. Ciò viene descritto nei romanzi di Günter Grass, soprattutto in Il tamburo di latta (1959). La seconda – Praga – è anch’essa luogo d’incontro di tre culture: ceca, tedesca ed ebrea, l’ultima agendo spesso come ponte tra le altre due. È la città di Franz Kafka e di Jaroslav Hašek: “Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná (Zeltnergasse) a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hašek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria”[21]. La lingua materna del padre di Kafka era il ceco, ma lo scrittore stese la sua opera in tedesco. E per complicare ancor di più le cose, i cechi avevano spesso nomi tedeschi e viceversa. “Io sono hinternazionale – sosteneva Johannes Urzidil, lo scrittore praghese di lingua tedesca – hinter, cioè dietro, le nazioni, non sopra né sotto”[22], alludendo alla sua Praga, “spazio insieme reale ed immaginario in cui, come egli scrive ricordando la sua infanzia, il ragazzo poteva vagabondare per vicoli e cortili senza badare a sé, giocando, la sua palla sfondava il vetro di una finestra cèca, tedesca, ebrea o austro-nobiliare”[23]. Da tale riferimento alle città mitteleuropee non può, ovviamente, mancare il Centro in assoluto, Vienna, di cui hanno scritto non solo gli austriaci. Presentiamo in proposito una testimonianza firmata dal serbo Božidar S. Nikolajeviè, che per un periodo fu anche addetto culturale nella capitale austriaca. Si tratta di una pagina del suo diario rimasto incompiuto ed intitolato Iz minulih dana: “Dopo due anni e mezzo passati a Monaco, sono arrivato a Vienna proprio alla vigilia del nuovo anno 1931. [...] Così bianca, interamente coperta dalla neve fresca, Vienna mi sembrava tanto bella, accogliente ed intima come quella in cui avevo trascorso i primi due semestri scolastici (1895-1896). Mi è rimasta piacevolmente nella memoria, anche se nei quattro anni e

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mezzo in questa città ho avuto parecchi problemi, stavo proprio per essere espulso dall’Austria per ragioni politiche. Nonostante ciò, ho sempre cercato di capire questa strana attrazione che Vienna esercitò su di me, anche dopo la caduta dell’Impero absburgico”[24].

A partire da queste premesse, lo scrittore viene a decifrare i motivi del fascino viennese: “Che cos’è Vienna? [...] La città sublime, colorata in tonalità serene, costruita sul «bel Danubio blu». In realtà, il Danubio non è né bello, né blu, però è un fiume cosmopolita: esso unisce i popoli, come il valzer di Strauss unisce le coppie in ondulanti ed esaltati accordi. Questa è Vienna: una cultura antica, di ognuno e di nessuno – né slava, né latina, un po’ tedesca – un mélange in cui ognuno potrebbe ritrovarsi. Capitale del mosaico variopinto, le cui pietrine dai tanti colori sono state impiantate nei secoli dai popoli narcotizzati dall’hascisc e dal muschio delle tradizioni absburgiche. [...] Il mosaico culturale imperiale si è disperso, ma è rimasta la sua parte centrale, la più screziata e la più bella. È rimasto il secolare testimone delle vicende storiche, delle antiche e grandi tradizioni culturali-politiche – Vienna, dove hanno suonato Mozart e Haydn e dove sono nate le sinfonie di Beethoven […] Gli uomini sono fatti di carne e ossa, ma a Vienna la musica li addomestica. La musica li riempie di dimenticanza e di perdono. Non è forse questa una delle cause per le quali i peccati storici dell’Austria absburgica sono facilmente e subito dimenticati? Vienna aveva, per così dire, la proprietà di persuadere. Gli italiani la qualificavano nobile e ospidale. Vienna suscitava anche l’entusiasmo dei francesi”[25]. Come si può notare benissimo, il pensiero di Božidar Nikolajeviè focalizza il modello culturale viennese con la sua peculiarità, in quanto “la spiritualità e la cultura di Vienna sono in gran parte improntate alla componente slava e latina. Queste interferenze o – meglio dire – l’internazionalismo culturale hanno fatto sì che Vienna avesse un significato del tutto speciale tra i centri culturali dell’Europa. Essa ha una marca peculiarissima. Il modello viennese segna un fenomeno distinto nella poesia e nelle arti, e soprattutto nella musica (Schubert, Lanner, Marschner)”[26].

Accanto a Vienna, Praga e Danzica, potremmo aggiungere la città di Czeslaw Milosz, con i suoi tre nomi – Wilno, Vilnius, Vilna – capitale della Lituania. Eccola nella descrizione dello scrittore: “Ci sono molte città sul cui nome non esista un accordo? I polacchi dicono Wilno, i lituani Vilnius, i tedeschi e i bielorussi Vilna. Anche il fiume locale ha due nomi: Wilia, oppure uno più sonoro, Neris, che evoca lo spirito di una qualche nereide”[27]. Gli abitanti della città parlavano o il polacco o lo yiddish; le altre lingue – il lituano, il bielorusso e il russo – erano scarsamente diffuse. “Se comunque si fosse presa per base la loro lingua madre, sarebbe bastato un territorio uguale al cantone di Ginevra, non di più. Tiriamo una linea verticale e tracciamo su di essa un cerchio: indicherà la città di Vilna e il suo distretto; la linea verticale, sopra e sotto il cerchio, raffigurerà il confine etnico tra lituani e bielorussi. Un’enclave, dunque, come ce ne sono tante in Europa, testimonianza che il principio dello Stato-nazione è buono dove, come in Francia, i bretoni e i provenzali si considerano francesi, il che non risulta affatto dalla natura delle cose, perché sarebbe potuto essere altrimenti”[28].

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Ci soffermiamo poi a Leopoli (in russo Llov, ted. Lemberg, polacco Lwów), capitale della regione storica Galizia (politicamente divisa tra Polonia e Ucraina), raffigurata da Joseph Roth, nato a Brody, sempre in Galizia. Llov, una città nella quale si poteva sentir parlare il polacco, il tedesco, il ruteno e lo yiddish. Con l’osservazione che “contro questo plurilinguismo, oggi, prende ingiustamente posizione la coscienza nazionale polacca, legittimata dal corso storico degli ultimi anni. Le nazioni piccole e giovani sono sensibili. Anche quelle più grandi lo sono talvolta. La monocromia nazionale e linguistica può consolidare uno stato, la pluralità però lo farà sempre. In questo senso, Llov rappresenta una ricchezza dello stato polacco. Un elemento che dà colore all’Est Europa. La città è tutta colori: rosso-bianco, giallo-azzurro, un po’ giallo-nero. E non so a chi potrebbe far male. Tale policromia non irrita, non abbaglia e non esiste per la sua propria volontà, come il variopinto delle città balcanico-orientali”[29]. Lo scrittore conclude: “Città democratica, più semplice, più umanizzata – pare che questi tratti, con la loro connotazione cosmopolita, si appartengano uno all’altro. La tendenza dello sguardo a distanza corrisponde sempre al desiderio di una normale obiettività. Non si può essere solenne se non si è multilaterale. Il sacro stesso qui è popolare. [...] La forma severa qui diventa più lassa, più a misura d’uomo. Le chiese, le grandi e antiche chiese, escono dalla riservatezza della loro mansione e si aprono al popolo”[30].

Dall’opera autobiografica di Elias Canetti, veniamo a recuperare l’immagine della sua terra nativa, Rustschuk: “Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo, era per un bambino una città meravigliosa, e quando dico che si trova in Bulgaria ne do un’immagine insufficiente, perché nella stessa Rustschuk vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari, che spesso venivano dalla campagna, c’erano molti turchi, che abitavano in un quartiere tutto per loro, che confinava col quartiere degli «spagnoli», dove stavamo noi. C’erano greci, albanesi, armeni, zingari. Dalla riva opposta del fiume venivano i rumeni, e la mia balia, di cui però non mi ricordo, era una rumena. C’era anche qualche russo, ma erano casi isolati”[31]. Il quadro descrittivo viene in seguito arricchito da altri interessanti particolari: “Rustschuk era un’antica città portuale sul Danubio e come tale aveva avuto la sua importanza. A causa del porto aveva attirato persone da ogni parte, e del fiume si faceva un gran parlare. Si raccontava degli anni eccezionali in cui il Danubio era gelato; delle corse in slitta sul ghiaccio fino in Romania; dei lupi famelici che inseguivano i cavalli che trainavano le slitte”[32]. Si aggiungono poi gli elementi di storia: “Laggiù il resto del mondo si chiamava Europa e, quando qualcuno risaliva il Danubio fino a Vienna, si diceva che andava in Europa. L’Europa cominciava là dove un tempo finiva l’impero ottomano. La maggior parte degli «spagnoli» erano ancora cittadini turchi. Sotto i turchi si erano sempre trovati bene, meglio che gli schiavi cristiani dei Balcani. Ma poiché molti fra gli «spagnoli» erano agiati commercianti,

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anche il nuovo regime bulgaro intratteneva con loro buone relazioni, e Ferdinando, il re dal lungo regno, era considerato un amico degli ebrei”[33].

Subito dopo aver sentito nominare i romeni nei ricordi del Canetti, oltrepassando il Danubio, arriviamo a Timiºoara dove, nello spirito del paragone fra la città del Banato e Trieste, che abbiamo ideato, faremo una sosta letteraria più lunga. E la iniziamo con uno scrittore la cui vita conobbe un percorso interessante. Si tratta di Miloš Crnjanski (1893-1977), il più importante rappresentante del modernismo serbo, nato a Csongrád, in Ungheria, poi, nel 1896, trasferitosi con la famiglia a Timiºoara dove conseguì il diploma presso il Liceo Piarista. A questo periodo risalgono i suoi primi scritti, un dramma ed un romanzo, andati persi. Dopo aver compiuto gli studi liceali, egli lasciò la città banatense e cominciò un lungo pellegrinaggio per tutti i paesi d’Europa. Intervalli più lunghi trascorse a Vienna, dove studiò filosofia, a Fiume, Zagabria, Belgrado, Berlino, Roma, Parigi, Lisbona. Nel suo libro autobiografico uscito nel 1919 ed intitolato Lirika Itake i komentari, troviamo un bel quadro di Timiºoara del primo Novecento, del quale presentiamo, nella traduzione italiana, alcuni frammenti: “Ai miei tempi (1892-1912), Timiºoara era un’urbe sontuosa, con viali larghi, con vasti parchi, club di canottaggio, ma anche con periferie industriali. Aveva enormi terreni d’istruzione e cimiteri. Era soprannominata «la piccola Vienna». Nel cuore della città c’erano molti palazzi in stile barocco: la grande cattedrale cattolica, nota per i concerti di Bach che vi erano organizzati, i monasteri dei frati cattolici, tra le quali una, quella dei piaristi, fu la mia scuola. Di fronte alla cattedrale cattolica si trovava la Chiesa serba, il palazzo vescovile, tutto placcato in marmo”[34]. Più avanti, veniamo a sapere che i piaristi facevano stampare all’epoca due riviste letterarie: una in ungherese, che si chiamava “Zászlónk” (“La Nostra Bandiera”) e l’altra in latino, col nome di “Juventus” (“Gioventù”)[35]. Per completare l’immagine lo scrittore rivela che “accanto a questa Timiºoara della nobiltà ungherese e dei proletari, ce n’era un’altra alla quale, in quei tempi, la mia famiglia apparteneva con tutto il cuore. Era la Timiºoara serba, le poche rimanenze, la città vecchia, moribonda, religiosa fino al fanatismo. Diaspora che somigliava a quella degli ebrei di Timiºoara. Ed era identica alla città degli stranieri, come due fratelli siamesi, uniti per le spalle. In questa Timiºoara, ogni casa serba doveva essere difesa, come una barricata. E, a suo modo, tale lotta non risparmiava le implicazioni sociali. In ogni caso, in quei tempi tutti gli abitanti di origine serba erano devoti alla nostra causa, lottavano per il riconoscimento del nostro statuto come nazione e per i diritti che ne conseguivano. Rinnegati si ritrovavano solo tra i benestanti. Ubi bene, ibi patria! La mia Timiºoara fu una specie di Alsazia a Lorena, tutta una follia”[36].

Nel profilare il volto della città, proseguiamo con la scrittrice Cora Irineu (1888-1924), collaboratrice della rivista “Ideea Europeanã”, uscita a Bucarest nel 1919. Anche lei viaggiò molto ed arrivò nella regione del Banato, alla quale dedicò le sue migliori pagine, comprese nel volume Scrisori bãnãþene (Lettere del Banato): “Timiºoara, sosta di diletto e di riposo, teatro dei drammi della Corona, splendente residenza regale, riparo colpito da sanguinose urgie, scambiato per sede dell’immundizia orientale, quando, per più di cent’anni, l’Islam chiamò dai minareti i suoi fedeli che annegarono le pianure del Banato, quella Timiºoara di tutti i ricordi la rincontri

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passando per le strade tranquille che portano dal castello del Hunyadi, con le antiche case in pietra dintorno, verso le rovine, verso le porte distrutte della fortezza. La casa che ospitò Eugenio di Savoia, che liberò Timiºoara dagli ottomani, si può ancora vedere”[37].

Uno sguardo più obiettivo viene da parte dello storico Nicolae Iorga: “È una grande città solenne, nata per volontà imperiale, secondo chiare norme amministrative. La più artificiale, la più absburgica fra le città che ho conosciuto finora, ma nello stesso tempo la più equilibrata, la più sottomessa ai regolamenti edilizi”[38]. Si può intravedere qui un altro punto d’incontro con il destino di Trieste: “La Trieste moderna, la città nuova, era nata – o almeno aveva trovato le condizioni necessarie per la sua genesi e per il suo sviluppo – prima nel 1717, quando l’imperatore Carlo VI aveva proclamato «sicura e libera la navigazione del mare Adriatico» e poi, a pochi anni di distanza, nel 1719, quando un diploma imperiale aveva proclamato Trieste, insieme con Fiume, portofranco. [...] La volontà sovrana sta alla base della grandezza futura di Trieste”[39]. La decisione di Carlo VI venne così a rappresentare per Trieste “il punto saliente della sua evoluzione storica”[40].

Continuiamo la nostra rievocazione con scrittori originari di Timiºoara, tra i quali si distingue Cornel Ungureanu: “Vivo in una città che cinquecento anni fa era la capitale di un regno; permettetemi di dire: la capitale di un impero. Le sue leggende stanno ancora ai piedi dei vecchi abitanti, di quelli che, in pensione, hanno tempo di contemplare i palazzi dove, centinaia d’anni fa, ferveva la storia d’Europa. Raramente due città, quella di ieri e quella d’oggi, coesistono come le due Timiºoara, oppure le numerose città chiamate Timiºoara. La seconda in Romania per il numero di abitanti e la città che ha il primato in Europa per tanti aspetti [...] Stavo parlando con uno dei vecchi architetti della città – era da molto tempo in pensione – nella sua casa al centro, mi aveva detto: quando ero bambino, intorno a questa casa non c’era niente e, se il cielo era sereno, si poteva vedere lontano, fino in Serbia”[41]. In seguito, la scrittura acquisisce un tono sempre più implicato, più affettuoso: “Insieme ad Adriana Babeþi, ho finito da poco un libro su Timiºoara, stiamo lavorando ad un altro, non è facile, ma la città è magnifica; è la più bella città che ho visto. Al mattino, il mio cammino verso la redazione è, come sempre, un passare attonito tra palazzi, vie e parchi che mi sembra di vedere per la prima volta; sempre attonito, attonito, felice che questa città esiste, che posso ancora ed ancora passare per queste vie, per questi parchi, per tutti questi luoghi; la giornata può cominciare, mi dico, tutto può cominciare; felice di essere qui, in questa città che è da lontano la più bella della Romania. Mi siano concessi questi piccoli eccessi, ma se qualcuno tentasse, con domande alquanto imprudenti, alla mia esistenza privata, gli direi: signore, questa città è stata la capitale di un impero! E i vecchi «timiºoreni» sono stati, ai loro tempi, al centro dell’Europa, luogo d’incontro per i destini del mondo cinquecento anni fa”[42].

Un altro scrittore di Timiºoara, Eugen Bunaru, confessa l’affezione per la sua città avvolta da un’aura mitteleuropea di cultura e civiltà: “Se, per varie ragioni quotidiane, si viene a

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peregrinare per le vie «arcaiche» della città antica e se, all’improvviso, lo sguardo si abbandona allo spettacolo – affascinante di per sé – che può offrire all’occhio (alquanto iniziato) il vetusto e raffinato ricamo in pietra che decora, con una particolare «grafia», frontoni e tetti di altri tempi, imperiali, in tal caso si può rimanere sorpresi dall’insinuarsi del sentimento, se non della rivelazione che, ecco, si vive, quasi ignorando questa verità, in uno spazio-tempo il cui blasone nobiliare si rivela, si rivendica all’appartenenza stessa di questo topos a quello che si potrebbe chiamare il suo spirito culturale o, piuttosto, la sua aura di cultura e di civiltà. Uno spirito, un’aura, una tradizione di un topos una volta appartenente ad un’area storica multietnica nota col nome di Mitteleuropa. Tale impostazione ha fatto, certamente, sì che Timiºoara diventasse una città cosmopolita, una città aperta alle influenze e alle assimilazioni e che l’elemento romeno del posto guadagnasse, in questo modo, una certa permeabilità al tono occidentale, al tono europeo del divenire storico. Non è tanto meno vero che, a sua volta, l’elemento allogeno di questo spazio abbia prestato da quello romeno sfumature e accenti specifici. E proprio perciò, oltre la metafora sopra, quella delle mura “parlanti”, mi sembra conseguenza naturale che si fosse perpetuato uno spirito elevato di questa città diventata famosa per il momento «Dicembre ’89», cioè per la sua vocazione – imprevvedibile per molti – d’insurrezione, di libertà, di assumere un’apertura drammatica verso i valori umani universali”[43]. Eugen Bunaru allude poi ad un aspetto che si costituisce in un altro punto d’incontro tra il destino delle due città, Timiºoara e Trieste: “Perciò credo che la variante «classica» di Timiºoara percepita come una città «borghese», prevalentemente commerciale, tanto indifferente, perfino ostile, allo spirito, all’arte e ai suoi ideali, quanto perseverente nel coltivare pragmaticamente aspirazioni e tradizioni di prosperità economica, credo, quindi, che una prospettiva del genere non è più valida, è un pregiudizio che paga tributo ad una tendenza di gerarchizzazione stabilita al «centro». Esiste, oggi, a Timiºoara (e per «oggi» intendo tutto un arco di tempo, di decenni) un polso palpabile, un polso sintomatico – con un ritmo più lento o più energico, da un momento storico ad un altro – di quello che chiamiamo (certamente il sintagma è ultrautilizzato, ma [...]) vita culturale, ambiente culturale. Che cosa da legittimità alla rivendicazione di un tale statuto attribuito a Timiºoara? Non mi propongo di inventariare o di analizzare gli argomenti. Fatto è che, dalle personalità eloquenti, scrittori, artisti, scienziati, fino alle istituzioni che hanno confermato nel tempo la loro professionalità (Filarmonica, Opera, Teatro, Università, rivista “Orizont” ecc.), tutto fa configurare e autenticare una fisionomia culturale –di portata nazionale– propria a Timiºoara”[44]. Un breve accenno al rapporto tra Apollo e Mercurio nella città adriatica: “Già i letterati ottocenteschi avevano intuito l’anima borghese e commerciale della città, quella sua pretesa indifferenza alle lettere, quella prevalenza di Mercurio su Apollo che è un leitmotiv della polemica morale che anima la letteratura triestina. Essa è, e sa di essere, la letteratura di una città borghese forse più d’ogni altra, che vive l’essere borghese come un destino, come l’essere tout court[45]. Da questa città borghese nasce un’arte figurativa della “desolazione fantastica”[46], una pittura immaginosa ed inquieta, la vocazione all’analisi; e “la città mercantile e impoetica, della

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quale i viaggiatori ottocenteschi denunciavano l’assenza di spiritualità, diviene la fonte della poesia”[47]. Lo scrittore Eugen Bunaru conclude mettendo in rilievo le caratteristiche peculiari degli uomini di cultura della zona: “Come note distintive, che accompagnano spesso la biografia e l’opera di non pochi uomini di cultura rappresentativi della «zona», ricorderei una specie di «aristocrat-ismo» e proprio di «donquijot-ismo» dell’espressione intelettuale-civica, che contrasta, paradossalmente, con lo spirito pragmatico del quale è sempre fatto «colpevole» il «timiºorean»; più concretamente, si tratta di un riflesso di rifiuto del momento glorioso o, se volete, di un certo allontanarsi, utopico, forse, o solo orgoglioso, dalla febbre delle gerarchie stabilite e parafate al «centro». Tali attributi possono, certamente, essere perdenti in una prospettiva immediata, ma essi sembrano definire uno spirito «timiºorean», non solo nella sua accezione culturale, ma in una prospettiva molto più generosa: quella storica”[48].

A testimoniare il pluralismo, il multiculturalismo della città e della sua cultura sono gli scrittori di lingua tedesca, ungherese e serba, rappresentanti delle principali comunità etniche. L’esponente dello spirito tedesco è Adam Müller-Guttenbrunn, dei cui scritti presentiamo il seguente brano nella traduzione italiana: “Il quartiere «Fabric» ha sempre accolto un quadro variopinto di gente. Potevi trovarci operai di tutte le nazioni dell’impero, in nessun’altra parte si trovava un tale incrocio di razze e di lingue. Serbi e valacchi, bulgari e slovacchi, zingari e perfino ungheresi vivevano tra i borghesi tedeschi che dirigevano le fabbriche. Italiani, francesi ed olandesi vi furono una volta chiamati per contribuire allo sviluppo industriale nella zona”[49].

Un portavoce della comunità ungherese è Majtényi Erik, nelle cui pagine troviamo bei riferimenti al fiume che percorre la città – Bega: “Mi son innamorato di questo fiume, Bega. So da quello che mi avevano raccontato che, nel momento in cui lo vidi per la prima volta, chiesi tutto stupito: «Chi ha potuto versarci tant’acqua?» – in una parlata sveva piena di musicalità. E così, vi dico, fui colto dal fascino di questo fiume, cioè di questo canale, come lo chiamano ufficialmente. Mi ha colpito la malia dei salici che si chinano inarcandosi verso l’acqua ed i pescatori, che hanno la medesima costanza degli stessi salici, stanno a volte ingobbiti ore per ore sulla riva, per alcun pesciolino dorato”[50]. A proposito dell’importanza del fiume Bega (già Beghei) per la città appunto soprannominata “la città sul Bega”, presentiamo – in un piccolo intermezzo – la caratterizzazione plastica del critico d’arte Coriolan Babeþi: “Vista nel suo rapporto con la natura e con la storia, Timiºoara si fa prestare, nel suo divenire, qualcosa dal paesaggio della Genesi. Per questo sito millenario, la città-fortezza si è strappata, con la sua terra, dalle acque. Zona di paludi, ridotta naturale, Timiºoara aveva deciso la sua esistenza nel rapporto con la natura attraverso la «sistemazione» di questi due elementi: terra e acqua. Come tutte le grandi località, anche Timiºoara è accompagnata dalla storia di un corso d’acqua: Beghei. I suoi miti meandri attraversano, come una colonna vertebrale, la città. Il nostro Beghei è oggi una meravigliosa arteria, con una natura intelligentemente modellata”[51].

        In nome della comunità serba si esprime Slavomir Gvozdenovici, il quale, in uno dei suoi libri, evoca la presenza di Miloš Crnjanski a Timiºoara: “Ho visto di recente Crnjanski

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avvolto nel suo manto di pietra, passava, accompagnato da un giovane discepolo, per la Piazza della Città. [...] L’antiquariato, la chiesa, gli alberi con buone intenzioni, l’alto mistero della biblioteca pubblica e quanto altro che c’era ci ha sgridato in serbo nella rivista locale; ma non hanno forse sgridato anche Giura e Laza e tantri altri figli prodigi? E la piazza aveva quattro angoli”[52].

Concludiamo l’incursione letteraria nella città di Timiºoara con i cenni autobiografici di Coleta de Sabata, discendente di italiani ivi insediati nel tardo Ottocento: “Nell’estate del 1950, un’adolescente disorientata dai cambiamenti che avvenivano in tutto il paese, cambiamenti che del resto le rovinarono tutti i progetti per il futuro, camminava lentamente per il Corso più lungo della città più importante che aveva visto fino a quel momento, la capitale del Banato, Timiºoara. A mezzogiorno, la gente, modestamente vestita, impensierita e avvolta da una struggente sensazione d’insicurezza, passava in fretta per il viale ampio, fiancheggiato da palazzi costruiti nel tanto amato stile «Secession», importato all’inizio del secolo da Vienna, limitato ad un’estremità dall’edificio ibrido del teatro e all’altra dalla grandiosa cattedrale ortodossa appena ultimata, che riusciva ad accordare elegantemente lo stile umile delle chiesette romene con la fiera verticalità delle anime dei «bãnãþeni», noti per il loro orgoglio ancestrale”[53]. Coleta de Sabata, con la sua ascendenza italiana, ci fa da tramite nel passare allo spazio italiano, quindi a Trieste. In ciò che segue, cercheremo di ricuperare l’immagine della Trieste mitteleuropea nelle coordinate letterarie che risultano dai testi in prosa degli scrittori rappresentativi del posto. La coordinata più notevole riguarda il cosmopolitismo spiccato, al quale vanno immediatamente associate la molteplicità, la varietà e la ricchezza di una città «profondamente diversa dalle altre città italiane”[54], come la definiva Eugenio Montale, “la città più cosmopolita dell’Europa, all’incrocio delle lingue romanze, germaniche e slave”[55]. Trieste si dimostra così “diversa per apertura intellettuale, tipica per problemi suoi e soltanto suoi”[56].

 Città “astratta e premeditata”, come la Pietroburgo descritta da Dostoevskij, Trieste “è stata e rimane ricca di contrasti, ma soprattutto ha cercato e cerca la propria ragione d’essere in quei contrasti e nella loro insolubilità”[57]. Il porto adriatico rappresenta un topos inconfondibile per lo statuto che gli viene conferito dalla sua particolare condizione storico-geografica, alla quale abbiamo fatto riferimento, mettendo in risalto l’appartenenza a una grande monarchia multinazionale e la collocazione nell’area di confine linguistico italo-slavo-tedesco. Ed è proprio questa secolare posizione sullo spartiacque etnico-linguistico ad accentuare, nella fase di espansione della città – nel periodo cioè in cui essa è meta di un’intensa corrente migratoria – il significato della presenza slovena e tedesca. Sono due problemi che diventano, a diverso livello e con differente durata, dei problemi vitali per la fisionomia etnica e per il futuro nazionale e politico di Trieste[58]. La multinazionalità qui è, quindi, determinata dall’influsso della geografia e

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della storia, ma nello stesso tempo un fenomeno legato alla vocazione mercantile e commerciale della città. A questo proposito, abbiamo già evidenziato il fatto che, in seguito all’istituzione del portofranco, sotto Carlo VI, Trieste assurse al principale sbocco al mare dell’Impero absburgico e ad emporio cosmopolitico. Vi furono attirati i mercanti stranieri con importanti privilegi che li sottraevano alle magistrature cittadine e agli obblighi civili, come pure ai procedimenti giudiziari per debiti e delitti comuni commessi altrove. Di conseguenza, l’arrivo di sempre più cittadini di nazioni diverse, da ogni parte dell’area mediterranea e del centro-est europei, fece nascere la realtà e insieme il mito della città cosmopolita.

Siccome la letteratura offre vari registri d’espressione, presentiamo di seguito il modo esaltato-parodico con il quale Carolus Cergoly celebra la grande impresa imperiale e la nascita della Trieste moderna, della città nuova che si affaccia con prorompente vitalità sulla scena mercantile europea: “Carlo VI vedeva lungo e vedeva largo e proclamò Trieste porto franco e lo proclamo a cavallo del suo lipizzano di nome Maestoso e fu tutto un batter di mani illiriche, italiane, greche, turche, alemanne, ebraiche, armene, francesi, inglesi, olandesi per non parlare delle mani fredde del nord. Tutti avanti e sotto a lavorar col commercio, con l’industria, con l’armamento navale, con le proviande di bordo, con i cantieri, coi fondachi in odori di spezie e di coloniali e brigantini e golette e velieri in trionfo di vele a sbarcare e imbarcare merci e merci per tutti i porti del mondo. Le allegre bandiere in carneval di colori sventolano su Trieste ma la bandiera più allegra è quella che sventola in allegria d’affari sul Porto Franco di Trieste”[59]. In prospettiva storica, fu poi Maria Teresa, successa al padre nel 1740, a continuarne l’opera con criteri innovatori. Prese una serie di misure giuridiche, alcune delle quali si rivelarono di straordinaria efficacia: la proclamazione della libertà di commercio, l’estensione delle immunità doganali a tutta la città sobborghi compresi, l’abolizione di quasi tutti i dazi, la protezione accordata agli immigrati stranieri con la concessione della libertà di culto ai greci e agli ebrei. Con le franchigie concesse a queste nazioni, l’imperatrice favorì il formarsi di un nuovo ceto mercantile libero da vincoli tradizionali e locali.

In merito alla sua «edificazione» triestina, Ferruccio Fölkel si esprime in questi termini: “Impossibile rifiutare a Maria Teresa l’appellativo di fondatrice di Trieste, pur se oggi tale definizione può far sorridere. Vogliamo chiamarla rifondatrice? Chiamiamola come meglio ci piace. I tempi erano maturi, l’Europa camminava con passo diverso, la rivoluzione francese non era lontana. Grandi inoppugnabili verità. Ma Trieste non sarebbe stata Trieste senza la nuova sovrana”[60]. Un ulteriore impulso allo sviluppo della città, con la sua opera accentratrice, lo diede Giuseppe II, succeduto alla madre nel 1780. I seimila abitanti che Trieste aveva ancora alla morte di Carlo VI, erano già diventati diciassettemila alla morte di Maria Teresa e trentamila alla fine del secolo, mentre il traffico portuale rappresentava ormai un quarto di tutto il commercio austriaco. Sull’opera di Carlo VI, di Maria Teresa e di Giuseppe II, nonché sul peso che essa ebbe nello sviluppo di Trieste si è a lungo discusso, attribuendo in generale ai tre sovrani illuminati il potere taumaturgico di aver creato dal nulla la fortuna di Trieste. Presentiamo in proposito le considerazioni di Enzo Bettiza: “La Trieste moderna, la Trieste che comincia a contare nella metà del Settecento per profilarsi in tutto il suo splendore emporiale nell’Ottocento, nasce, come Pietroburgo, per decreto imperiale. L’atto di volontà teresiano e giuseppineo, che trasforma un

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borgo oppresso dalla bora e dal Carso in metropoli marinara, è simile alla creativa follia visionaria di Pietro il Grande che farà sorgere dal nulla, dalla palude, una delle più stupende città d’Europa. L’intera successiva storia di Trieste correrà sul filo di quell’originario artificio illuministico, ideato da un impero in cerca di un porto. Il battesimo di Trieste non conosce che il rito della volontà. E il volontarismo, con le sue tensioni e le sue contraddizioni, ne segnerà in profondità la storia tumultuosa”[61].

Dopo l’intermezzo napoleonico del 1809-1813, Trieste ritornò all’Austria e, ripristinato il portofranco, il traffico portuale conobbe un nuovo slancio. Nel 1805, la popolazione era risalita a trentaseimila abitanti, per toccare i cinquantamila nel 1835 e gli ottantamila nel 1846, dei quali quarantaseimila si erano dichiarati italiani, venticinquemila sloveni, ottomila tedeschi e mille greci. Praticamente il flusso migratorio nella città adriatica si è dimostrato una delle costanti della storia triestina sino allo scoppio della prima conflagrazione mondiale. Infatti, alla vigilia della guerra la popolazione aveva superato i duecentotrentamila abitanti, ponendo Trieste al terzo posto, dopo Vienna e Praga, tra le città dell’Austria e al quarto di tutto l’impero, considerata anche Budapest[62]. Si deve però notare che il fenomeno dell’immigrazione presenta due forme distinte, per quanto riguarda sia la provenienza e l’origine sociale dei nuovi abitanti, sia la loro incidenza sulla fisionomia della città. Si tratta, da una parte, della soprammenzionata immigrazione mercantile e, dall’altra parte, dell’assorbimento nella città di una manodopera che ha origini molto più vicine e modeste: all’inizio sono i cittadini più umili che passano dal lavoro agricolo extra-murale all’impiego nelle prime attività portuali e sono sostituiti nelle campagne da contadini sloveni. In questo modo si vengono precisando i lineamenti del moderno rapporto nazionale e sociale tra italiani e sloveni nell’area triestina, caratterizzato dalla divisione tra mondo urbano e mondo rurale[63]. Ma poi le accresciute esigenze della città in espansione portano all’inurbamento di lavoratori che vivono nel territorio circostante, i quali sono in un primo tempo quasi soltanto sloveni e successivamente sloveni e italiani. Tale processo si intensifica quando la fine della repubblica di Venezia e il definitivo assestamento territoriale dopo la terza occupazione napoleonica pongono Trieste a diretto contatto non solo con le aree slovene, ma anche con un più esteso retroterra italiano. Cosicché tanto il ceto dirigente quanto le classi umili sono soggetti a un processo di profonda trasformazione e di rimescolamento etnico, sotto la pressione demografica dell’immigrazione. Nell’ambito di tale fenomeno, si impone un aspetto importantissimo: l’eterogeneità del flusso migratorio trova un denominatore comune nella tradizione italiana della città. La cultura del vecchio comune offre agli immigrati – che in molti casi, provenendo dall’area costiera mediterranea e adriatica o dal vicino retroterra sloveno, conoscono già la lingua italiana – lo strumento di comunicazione e di unione. L’incontro con un mondo nuovo, eterogeneo e multiforme finisce con il dimostrarsi non un elemento di rottura, ma un fattore di continuità rispetto alle radici culturali e soprattutto linguistiche del vecchio comune latino e italiano, che vengono sì integrate dai nuovi apporti culturali, ma che rimangono il tratto fondamentale e distintivo del volto della città, e soprattutto l’unico e costante patrimonio comune a tutte le sue componenti[64].

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La “rivoluzione” etnica e demografica che accompagnò l’ascesa dei traffici triestini si trasforma quindi in un elemento, come notava Angelo Vivante, di conservazione e di irradiazione dell’italianità, intesa sino alla metà dell’Ottocento nella sua dimensione linguistica e culturale, e successivamente anche in quella nazionale: “Trieste sarebbe rimasta la cittadina di tremila abitanti, sperduti nella campagna slava soverchiante, privi di ogni energia assimilatrice sopra di quella e di irradiazione sugli altri ceti urbani minori, se il flusso rigeneratore dei traffici non le avesse permesso di assorbire e di italianificare via via le decine di migliaia di stranieri accorrenti da ogni parte e specialmente le masse rurali divenute automaticamente il nerbo dell’italianità attuale tergestina e giuliana”[65].

Nel trattare la suggestiva problematica dell’integrazione e dell’assorbimento non si deve però perdere di vista l’altra realtà, altrettanto affascinante, della tenace e stimolante sopravvivenza delle culture originarie, particolarmente – a prescindere dal più complesso e, come diffusione del fenomeno, più tardo problema sloveno – nel caso di comunità caratterizzate da un’identità che è nello stesso tempo culturale e religiosa. Come notava Alberto Spaini nel suo Autoritratto triestino, “questa gente che veniva da tutte le parti del mondo non portava a Trieste solo l’aspetto avventuroso dei loro costumi, l’arte di commerciante, l’aspra volontà di arricchire. Portavano colle loro canzoni, la loro anima, la loro cultura, ed infine anche la volontà di conservarle. Le varie comunità straniere di Trieste hanno avuto (ed hanno tuttora) una grande attività. Il primo scopo di unirsi fu quello di poter esercitare il loro culto religioso”[66]. È un fenomeno questo che riguarda la comunità greca-orientale, fondata nel 1752 accanto a quella serbo-ortodossa, che all’inizio esercitarono il loro culto nella medesima chiesa. Ma a seguito di insanabili contrasti, i greci decisero, nel 1786, di staccarsi e di erigere un loro proprio tempio. La comunità serba rimase più chiusa e isolata rispetto al corpo della città, quasi arroccata nella sua tradizione, ma più ancora quella greca, profondamente inserita invece nel tessuto cittadino con le sue molteplici attività, però anche orgogliosa custode del suo patrimonio culturale e religioso. Si tratta poi della comunità armena creata nel 1775 e di quella evangelica (elvetica) costituita nel 1835 in un altro ambiente ed in un altro momento nello sviluppo della città. La comunità tedesco-protestante, seguendo la storia di tutto l’elemento germanico nella città adriatica, vede invece la sua individualità disperdersi e dissolversi in misura molto più marcata nell’ambiente circostante. In generale, il ricco apporto di tutti questi filoni culturali alla realtà triestina sembra essersi risolto più nello sviluppo di culture parallele, che affiancano e integrano quella prevalente, che non in un’organica sintesi mediatrice. Il problema fondamentale per la fisionomia etnica e per il futuro nazionale e politico della città è legato alla presenza slovena. A Trieste, come nel resto del litorale adriatico, in Stiria, in Carinzia e nella stessa Carniola, gli sloveni hanno rappresentato per secoli una nazione contadina, priva di una propria classe dirigente. Nel corso dell’Ottocento cresce e si estende, anche ad aree slovene più lontane, l’attrazione che l’emporio esercita. Cosicché una notevole popolazione slovena accorre verso la città e la sua immediata periferia e, fatto particolare all’interno della monarchia absburgica, si amalgama all’inizio al resto della popolazione cittadina, cioè si italianizza. Come notarono Angelo Ara e Claudio Magris, si assiste, prima ancora che a una assimilazione, che avrebbe richiesto una più sviluppata e matura coscienza nazionale nella maggioranza italiana, a una fusione tra la popolazione originaria e i nuovi venuti, che si integrano

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– nella quasi totalità dei casi – nel tessuto italiano della città[67]. Di conseguenza, l’elemento di origine slovena perde in questo suo primo impatto con la città la propria identità. L’obiettivo della promozione sociale e dell’accettazione da parte dell’ambiente circostante rendono questa perdita d’identità non tanto un gravoso tributo da pagare, quanto un’eredità scomoda, dalla quale ci si vuole liberare al più presto. Il processo di amalgamazione del gruppo sloveno nel tessuto cittadino prosegue anche dopo il 1848, che segna però l’affermazione delle prime forze cittadine slovene, per attenuarsi successivamente sino a cessare negli ultimi anni del secolo XIX. In questo periodo la nazione slovena è ormai caratterizzata da una propria classe dirigente, pienamente articolata sotto il profilo sociale. D’altra parte, l’immigrazione stessa è tale da non poter essere assorbita, tanto più che – a differenza delle altre nazioni che si sono dirette verso Trieste – gli sloveni non recidono il cordone ombelicale che li lega al territorio di origine, ma ne sono direttamente a contatto e proprio inseriti in uno hinterland prevalentemente slavo. Cosicché, alla fine del XIX secolo, è ormai ben chiaro il carattere, e insieme il destino e il dramma, della Trieste contemporanea, città reclamata da due popoli.

Una situazione particolare presenta l’immigrazione tedesca, estremamente composita, sia sotto il profilo dell’origine geografico-territoriale, in quanto proviene dalla Germania e dalle diverse province dell’impero austriaco, sia sotto il profilo della fede religiosa – protestante, cattolica ed ebraica. C’è però da notare che questo elemento, che rappresenta la cultura “franca”, la cultura statale per eccellenza dell’Austria multinazionale, non riesce a imporsi e ad avere solide radici nell’ambiente triestino. Infatti, la grandissima maggioranza dei tedeschi inseriti stabilmente, in successive fasi, nella società triestina, si integra – in genere nell’arco di solo due generazioni – nell’ambiente circostante, arricchendolo di nuovi stimoli culturali, ma perdendo, se non sempre e non subito la cultura d’origine, di sicuro l’identità nazionale tedesca. “Questo fenomeno è tanto più suggestivo, in quanto esso con il tempo acquista spesso i contorni di una scelta di valori e di vita, di un’adesione a una civiltà ritenuta più consona allo spirito dei tempi”[68]. Altrettanto notevole è il fatto che la presenza tedesca a Trieste non riguarda solo questo insediamento umano in città, alquanto marginale, ma anche la diffusione della lingua franca della monarchia absburgica, conosciuta negli ambienti mercantili, finanziari e professionali, e, accanto ad essa, la cultura stessa. Si può, quindi, concludere che proprio la sensibilità per la cultura tedesca – diffusa in ambienti italiani, sloveni e tedeschi italianizzati – sia l’aspetto della presenza tedesca destinato a incidere maggiormente nella realtà cittadina, mentre gli aspetti più legati alla cornice statale absburgica avranno un rilievo più limitato e saranno destinati a dissolversi dopo il crollo dell’Austria. Un posto del tutto particolare nella città che si espande, che si arricchisce di gente diversa e varie attività e insieme conosce nuovi problemi, occupa l’elemento ebraico, un elemento integratore ed unificatore. Si tratta di ciò che Claudio Magris chiamava “il ruolo sovranazionale della cultura ebraica”, aggiungendo, in un’altra parte: “Fra i molti altri volti di Trieste spicca quello ebraico. Decisivi nello sviluppo culturale, economico e politico della città, gli ebrei si erano identificati con essa e con la sua scelta italiana pur recandole, e dandole, l’impronta della cultura, della civiltà mitteleuropea, impensabile senza la componente ebraica. Trieste – che finisce in questo senso nel ’38, con le leggi razziali – è uno dei grandi luoghi dell’ebraismo”[69].

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Giorgio Voghera parlava dell’“ebraismo umanitario”, esplicitando: “Sentivamo [noi, ebrei, n. n.] che pur c’era qualche cosa di universale, di comune a tutte le vere culture ed a tutte le vere civiltà, e che solo questo aveva importanza; che le particolarità dei singoli popoli non erano, no, da combattere, anzi, erano da apprezzare per il contributo che potevano dare alla civiltà comune: ma avevano comunque un’importanza secondaria e non dovevano essere messe in prima linea”[70]. Sempre sull’importanza dell’elemento ebraico a Trieste si potrebbe rilevare la seguente considerazione: “La cultura triestina veramente diversa è, in genere, non soltanto ma soprattutto ebraica, perché l’ebreo riassume in sé sia la dispersione della totalità sociale e la crisi dell’identità, sia la concentrazione dell’individualità su se stessa, l’irriducibile resistenza del transfuga e del naufrago”[71].

Nell’allargare l’area di osservazione all’intero spazio dell’Europa Centrale, si deve notare che la presenza e il funzionamento dell’elemento ebraico come “liant” dello spirito mitteleuropeo, come polo agglutinante, fattore che genera e mantiene l’atteggiamento cosmopolitico, sono rilevati da quasi tutti gli specialisti del campo. Citiamo per primo Milan Kundera: “Infatti, nessun’altra parte del mondo è stata segnata così profondamente dall’influenza del genio ebraico. Stranieri dappertutto e dappertutto a casa, trovandosi sopra le dispute nazionali, gli ebrei del secolo XX furono il principale elemento cosmopolitico integratore dell’Europa Centrale, il suo «liant» intellettuale, una versione concentrata del suo spirito, i creatori della sua unità spirituale. È questo il motivo per cui amo l’eredità ebraica e mi attacco a essa con tanta passione e nostalgia come se fosse la mia propria eredità. Ce n’è poi un’altra cosa che realizza il popolo ebreo tanto caro a me: sembra abbia concentrato e riflesso nel suo destino, sembra abbia trovato la sua immagine simbolica il destino stesso dell’Europa Centrale[72]. A sua volta, Jacques Le Rider sottolinea, sempre con riguardo agli ebrei, l’idea di “sovranazionalità”, che abbiamo incontrato prima in Claudio Magris: “In mezzo a quel campo di battaglia delle nazionalità, gli ebrei, Volk considerato privo di storia nazionale, si trovavano nella posizione migliore per concepire l’idea, in verità un tantino surreale, della sovranazionalità”[73]. Alla complessa condizione storico-geografica della loro città, che abbiamo cercato di configurare finora, si sono rapportati invariabilmente gli scrittori triestini. In questo senso, sono suggestive le parole di profondo carattere autobiografico di Claudio Magris, con le quali afferma che, per spiegare i propri sentimenti, è importante il fatto di essere nato e vissuto, sino ai diciott’anni, a Trieste –una città italiana che porta l’impronta della lunga appartenenza all’impero absburgico, della presenza di diverse componenti nazionali e culturali, da quella slovena a quella greca, nonché della forte influenza della cultura ebraica. Trieste è stata allo stesso tempo un crogiuolo ed un arcipelago, uno spazio in cui le culture si sono incontrate e si sono separate, come su qualsiasi frontiera, che può essere un ponte, ma anche una barriera[74].

Abbiamo sottolineato nel contesto sopra la metafora del “crogiuolo” utilizzata dallo scrittore con riferimento a Trieste, in quanto essa si è rivelata, come si potrà vedere in seguito,

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emblematica per la città. Trieste si affaccia in piena forza artistica al Novecento grazie al contributo del tutto ragguardevole di tre grandi scrittori – Italo Svevo, Umberto Saba e Scipio Slataper – che hanno nella loro formazione quella componente triestina di cultura e apertura europea che li distingue, nell’ambito della letteratura italiana, dall’opera dei loro contemporanei. Essi vengono a configurare la natura letteraria del celebre mito di Trieste, in cui convergono e si sublimano elementi tanto diversi appartenenti, culturalmente, ad uno spazio plurale fertile.

Ettore Schmitz, diventato lo scrittore Italo Svevo, vide spiritualmente la sua città attraverso il proprio pseudonimo, esplicitandolo ampiamente: “Per capire la ragione di uno pseudonimo che vuole unire la stirpe italiana a quella tedesca, si deve pensare al ruolo che Trieste compie, da quasi due secoli, alla Porta orientale dell’Italia: ruolo di crogiuolo, che assimila gli elementi eterogenei che il commercio e la dominazione straniera hanno attirato nell’antica città latina. [...] Situato all’incrocio di più popoli, l’ambiente triestino era impregnato delle culture più diverse”[75]. Sottolineiamo, nel testo di Svevo, la metafora del «crogiuolo» che definisce in maniera suggestivo-sintetica il cosmopolitismo triestino.

Umberto Saba evoca la città sotto il segno della stessa immagine simbolica: “Trieste è sempre stata un crogiuolo di razze. La città fu popolata da genti diverse: Italiani nativi della città, Slavi nativi del territorio, Tedeschi, Ebrei, Greci, Levantini, Turchi col fez rosso in testa e non so quante altre. Nacque, come città moderna, dall’istituzione del portofranco, sugli scorci del secolo XVIII. Favorito da questa e da altre contingenze, il suo sviluppo fu, agli inizi, così rapido che si può paragonarlo a quello di cui sofferse, circa negli stessi anni, Nuova York. Poi – non avendo dietro di sé l’immensa America – rallento e si arrestò”[76]. L’autore evidenzia in seguito un aspetto che abbiamo già preso in considerazione: “Su questo trafficante amalgama di persone così etnicamente diverse (vi sono, oggi ancora, triestini che hanno nel sangue dieci o dodici sangui diversi) la lingua e la cultura italiana fecero da cemento; s’imposero per un processo affatto spontaneo. Nessuno poteva, né può oggi, vivere e commerciare a Trieste senza conoscere l’italiano”[77]. Dopo aver messo in risalto questo aspetto caratteristico alla realtà triestina, conclude: “Ma lingua e cultura a parte, Trieste fu sempre, per ragioni di “storia naturale” dalle quali le città come gli individui non possono evadere, una città cosmopolita. Era questo il suo pericolo, ma anche il suo fascino”[78].

Scipio Slataper, a sua volta, considera che “il compito storico di Trieste è di essere crogiolo e propagatore di civiltà, di tre civiltà”[79]. In sostanza, la sua funzione deve corrispondere alla posizione assegnatale dalla geografia e alla vocazione affidatale dalla storia; la sua missione è quella di una mediazione e di una conciliazione culturale tra i popoli latini, germanici e slavi[80]. Allo stesso tempo Trieste è per lo scrittore “posto di transizione, geografica, storica, di cultura, di commercio – cioè di lotta. Ogni cosa è duplice o triplice a Trieste, cominciando dalla flora e

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finendo con l’etnicità”[81], mentre in un’immagine di più grande intensità esclama: “Trieste [...] Ma dove la vita è uno strazio così terribile di forze opposte e aneliti fiaccantisi e crudeli lotte e abbandoni? […] Questa è Trieste. Composta di tragedia. Qualche cosa che ottiene col sacrificio della vita limpida una sua originalità d’affanno”[82]. Il mio Carso evoca l’immagine del porto adriatico in tutta la sua varietà, descritta nei più minuti particolari: “Io vado per le strade di Trieste e sono contento che essa sia ricca, rido dei carri frastornanti che passano, dei tesi sacchi di caffè, delle cassette quasi elastiche dove fra trina e veli di carta stanno stivati i popputi aranci, dei sacchi di riso sfilanti dalla punzonatura doganale, una sottile rotaia di bianca neve, dei barilotti semisfasciati d’ambrato calofonio, delle balle sgravitanti di lana greggia, delle botti morchiose d’olio, di tutte le belle, le buone merci che passano per mano nostra dall’Oriente, dall’America e dall’Italia verso i tedeschi e i boemi. [...] La storia di Trieste è nei suoi porti”[83], quattro in tutto.

Giulio Caprin, in Reviviscenze, si dimostra decisamente convinto del fatto che Trieste intorno al 1885 “era una città inconfrontabile: la sua, e basta», una città «che il destino vuole, purtroppo, irregolare”[84]. L’avverbio purtroppo implica la drammaticità del destino storico sinuoso di Trieste, che andremo a esaminare nei capitoli seguenti della presente trattazione. Alberto Spaini, in Autoritratto triestino, mette in risalto il carattere composito di Trieste – “città mistilingue”, ma in un modo del tutto particolare. “Popoli vi arrivavano da tutti i punti della rosa dei venti, e in breve volgere di tempo diventavano tutti italiani, fieri e feroci italiani. Ecco i triestini, i volontari caduti nella prima guerra mondiale; metà hanno nomi slavi, tedeschi, greci, persino inglesi ed armeni. Ma erano tutti italiani e parlavano italiano”[85].

Giorgio Voghera, nel volume con una spiccato tocco autobiografico intitolato Anni di Trieste, capitolo Trieste: un bilancio di più di mezzo secolo, evidenzia il fatto che “fra le città italiane che abbiano un numero di abitanti di poco inferiore o pari o superiore al suo, Trieste, come è noto, rappresenta un unicum per almeno quattro aspetti: è l’unica che negli ultimi sessant’anni abbia avuto un aumento di popolazione modestissimo (se il comune è passato dai circa 245.000 abitanti del 1914 ai circa 290.000 di oggi, ciò è dovuto in parte all’aggregazione di alcuni centri rurali); è l’unica che non appartenga allo Stato italiano da almeno cent’anni; è l’unica che abbia una minoranza alloglotta di un certo peso; è l’unica che abbia dovuto impegnarsi a cercare nuove fonti di lavoro e di guadagno non in aggiunta, ma in sostituzione di quelle tradizionali più importanti”[86]. A partire da tale premessa, l’autore afferma che “non può quindi fare meraviglia se i triestini cercano di rendersi conto dei motivi di questa unicità; se dimostrano più dei torinesi o dei palermitani la tendenza a fare di continuo un bilancio di questi ultimi decenni della loro storia, a cercare cause e rimedi (questi ultimi troppo spesso soltanto teorici) della loro non lieta situazione”[87].

Carolus Cergoly evoca la Trieste absburgica quale “città veramente e genuinamente sovranazionale con forti influssi di civiltà mitteleuropea”, dove “italiani, tedeschi, slavi, greci, turchi, ebrei, inglesi, francesi e americani lavorano per l’interesse personale e per quello

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dell’Impero”[88]. Con il suo volto variopinto, essa piace a tutti, perché “era e deve essere una città ponte una città d’incontri delle tre grandi culture: italiana, slava e tedesca”[89]. Nella stessa cornice, Ferruccio Fölkel dipinge il quadro della “capitale finanziaria dell’impero absburgico, uno dei centri più ricchi d’Europa, una delle città più disinvolte d’Europa, un intrico di razze, un punto di incontro e di scontro”[90]. Pier Antonio Quarantotti Gambini mostra che Trieste “è fatta così, come un essere vivo; i suoi umori e i suoi slanci, le sue avversioni e i suoi affetti la fanno tramutare da un istante all’altro, le fanno mutar volto come una creatura”; cosìcché la città si rivela “esuberante e gaia in superficie, ma grave, aspra, agitata nel fondo”[91]. Enzo Bettiza descrive “un grande emporio in balia del denaro, delle razze, dell’inquietudine. [...] Trieste era una città storicamente eccitante e insopportabile: da un lato, in fatti, stuzzicava lo studioso presentandosi sempre così nuova, così vergine all’indagine, ma dall’altro lo deprimeva, inducendolo proprio con la sua stessa e sconcertante novità alla confusione dei giudizi”[92].

Per quanto riguarda la fisionomia degli abitanti, lo scrittore ritiene che a Trieste “il miscuglio di stirpi troppo diverse aveva prodotto una fisionomia neutra e sfuggente: una specie di limbo, al di qua dell’espressione somatica vera e propria, dal quale, a volta a volta, in un’alternativa simultanea, velocissima, balenavano lampi misti d’astuzia e di timore, d’intelligenza e di fatuità, di sensualità e di freddezza”[93]. Fulvio Tomizza considera che Trieste, “in quanto città di frontiera, è una città in progress, in sviluppo, in formazione. È stata fatta dai triestini, ma molto anche dalla gente venuta da fuori, da armatori, da industriali, da mercanti, da uomini d’affari. Erano ebrei, boemi, greci, levantini in genere, perfino turchi. Italiani, poi, dal Regno d’Italia. Ma anche l’umile gente dell’immediata periferia”[94]. In prospettiva storica, secondo l’autore, “tale sua molteplicità sincronica, che avrebbe avuto ragione almeno di mitigarsi durante l’impero sovrannazionale austroungarico, del quale la città adriatica costituiva l’emporio marittimo privilegiato che l’aveva formata, si è necessariamente esasperata nelle fasi storiche successive in cui si è sempre mirato a una sua univocità impossibile a meno di non rivelarsi riduttiva”[95]. Lo scrittore insiste sulla varietà della città, la quale “rafforza il sentimento della frontiera” in un mondo “in fondo precario, provvisorio, all’incrocio tra nord e sud, est ed ovest”; ma, nello spirito dell’ambivalenza che caratterizza la triestinità, “questo significa anche ricchezza, ricchezza di umori: porta odori, profumi di altre parti. Il profumo delle resine e delle bacche del Carso si mescola con quello del mare, la campagna con la città”[96]. Per questi motivi, “vivendo a Trieste, uno scrittore ha spesso l’impressione di trovarsi in un osservatorio ideale dal quale guarda al mondo e, insieme, alla vita”[97]. Guardando al futuro del porto adriatico, lo scrittore affermava, nel saggio del 1991 intitolato Trieste, città di contrasti, che “la città italiana più lontana dall’Italia

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ha oggi tutte le prerogative per riprendere il ruolo a cui la designano la storia e più ancora la sua posizione geografica. In essa sopravvive gran parte delle strutture del vecchio emporio che le aveva assicurato un assetto urbanistico relativamente moderno, di gustoso stampo ottocentesco, al di fuori del ristretto centro storico romano e medievale che rinserra il castello di San Giusto. La città offre inoltre una rilevante rete di istituiti di credito e assicurativi i quali si sono rinnovati e anche potenziati, una dotazione di centri culturali addirittura sproporzionata ai suoi duecentocinquantamila abitanti, luoghi di culto per gli aderenti alle fedi religiose più diffuse nel continente”[98].

Concludiamo il quadro della città centroeuropea sottolineando il fatto che il suo volto letterario, in cui convergono e si sublimano tutte le componenti che costituiscono un tessuto storico così complesso e variegato, rappresenta il riflesso di un fenomeno ben definito per opera dei poeti, romanzieri e saggisti che hanno dato al loro discorso artistico una dimensione di ampio respiro, inserendolo in un’area culturalmente “promiscua, fertile, meticcia, unica in Europa per la sua ricca trama pluripsicologica”, l’area di quella categoria sovranazionale, quella “strana massoneria dello spirito”[99], che è la cultura mitteleuropea.

 

 

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[1] Fabio Cusin, Appunti alla storia di Trieste (con saggio introduttivo di Giulio Cervani), Udine: Del Bianco, 1983: 60.

[2] Cfr. Letteratura italiana. Storia e geografia, vol. III, L’età contemporanea, Torino: Einaudi, 1989: 6.

[3] Il Banato Timiºan era quella parte dell’antica Dacia chiamata dopo la conquista romana riparia oppure ripensis, dato che le rive dei due grandi fiumi – il Tibisco (rom. Tisa) a ovest ed il Danubio (rom. Dunãre) a sud – costituivano i suoi confini.

[4] Località presente nella mappa del geografo Claudius Ptolemaios di Alessandria (cca 150 d. C.).

[5] Nella Tabula Peutingeriana, la località Zambara si trova un po’ più a nord rispetto all’attuale Timiºoara.

[6] L’attuale fiume Bega (o Beghei), che attraversa la città, era chiamato, fino alla metà del XVIII secolo, Timiºel o Timiºul Mic (Piccolo Timiº). Evlia Celebi, il viaggiatore turco che descrive Timiºoara tra gli anni 1660-1664, afferma che la città si trova sul fiume Timiºoara, fatto che permette di presupporre che il nome della città sia stato identico a quello del fiume che lo attraversa (che, a sua volta, è un diminutivo del fiume più grande, Timiº).

[7] Franz Griselini, Versuch einer politischen und natürlichen Geschichte des temeswarer Bnats in Briefen an Standespersonen und Gelehrte, I-II, Vienna, 1780.

[8] Citato nel volume del dottor Nicolae Ilieºiu, Timiºoara. Monografie istoricã, Timiºoara: G. Matheiu, 1943: 76.

[9] I piaristi sono un ordine delle sette nate dopo la Riforma, fondato in Spagna da Calasans, nel XVI secolo. La loro presenza a Timiºoara risale al 1750 circa. Sono esclusivamente educatori e hanno formato un grande numero di universitari.

[10] Pierre Nora, “La mémoire de papier”, in Idem, Les Trésors de la Mnémosyne. Recueil de textes sur la théorie de la mémoire de Platon à Derrida, Dresda: der Kunst, 1998: 125.

[11] Fulvio Tomizza, Alle spalle di Trieste (Scritti 1969-1994), Milano: Bompiani, 1995: 35.

[12] Cusin, op. cit.: 193.

[13] La canalizzazione del fiume Bega, cominciata nel 1728, ebbe un ruolo importante nello sviluppo della città.

[14] Iscrizione citata nel volume di Ilieºiu, op. cit.: 47.

[15] Alberto Spaini, Autoritratto triestino, Milano: Giordano, 1963: 33.

[16] Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino: Einaudi, 1987: 21.

[17] Ibidem: 22.

[18] Ibidem: 114.

[19] Liviu Rebreanu, Jurnal (testo scelto da Puia Florica Rebreanu, addenda, note e commenti a cura di Niculai Gheran), Bucarest: Minerva, 1984: 135.

[20] Jacques Rupnik, “Europa Centralã sau Mitteleuropa?”, Europa Centralã. Nevroze, dileme, utopii (coordinato da Adriana Babeþi e Cornel Ungureanu), Iaºi: Polirom, 1997: 45.

[21] Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Torino: Einaudi, 1991: 5.

[22] Johannes Urzidil, Trittico praghese (traduzione e note di Elisabetta DellAnna Ciancia), Milano: Adelphi, 1993: 17.

[23] Magris, “Fortune e sfortune di un trittico. Una storia quasi praghese”, Urzidil, op. cit.: 224.

[24] Božidar S. Nikolajeviè, “Viaþa e vis”, Europa Centralã, cit.: 73.

[25] Ibidem: 75.

[26] Ibidem: 76.

[27] Czeslaw Milosz, “La città della giovinezza”, Idem, La mia Europa (traduzione italiana a cura di F. Bovoli), Milano: Adelphi, 1985: 72.

[28] Ibidem: 73.

[29] Joseph Roth, “Llov”, Idem, Vermittlungen. Texte und Kontexte Österreichischer Literatur, Vienna: Residenz, 1990 (testo ripreso, nella traduzione romena, nel volume Europa Centralã, cit.: 120).

[30] Ibidem: 121.

[31] Elias Canetti, La lingua salvata. Storia di una giovinezza (traduzione italiana a cura di Amina Pandolfi e Renata Colorni), Milano: Adelphi, 2001: 14.

[32] Ibidem: 15.

[33] Ibidem.

[34] Miloš Crnjanski, Lirika Itake i komentari, Novi Sad: Svetovi, 1993 (testo ripreso frammentariamente, nella traduzione romena, nel volume Europa Centralã, cit.: 159).

[35] Ibidem: 160.

[36] Ibidem: 162.

[37] Testo presente nel volume Europa Centralã, cit.: 184.

[38] Nicolae Iorga, “Timiºoara”, Idem, Paginin alese din însemnãrile de cãlãtorie prin Ardeal ºi Banat, Bucarest: Minerva, 1977: 34.

[39] Ara, Magris, op. cit.: 19.

[40] Cusin, op. cit.: 179.

[41] Ungureanu, “Timpul îndreaptã erorile” (intervista realizzata da Vasile Sãlãjan), Tribuna 15 (settembre 1977).

[42] Ibidem.

[43] Eugen Bunaru, “Aura unui oraº”, AA. VV., Timiºoara între paradigmã ºi parabolã, Timiºoara: Excelsior, 2000: 134.

[44] Ibidem.

[45] Ara, Magris, op. cit.: 71.

[46] G. Montenero, “Nella città del realismo borghese il fiore della desolazione fantastica”, Idem, Quassù Trieste (a cura di L. Mazzi), Bologna, 1968: 145.

[47] Ara, Magris, op. cit.: 74.

[48] Bunaru, op. cit.: 134.

[49] Adam Müller-Guttenbrunn, Der kleine Schwab, Bucarest: Kriterion, 1973: 45.

[50] Majtényi Erik, Hajóharang a hold utcában, Bucarest: Kriterion, 1976: 28.

[51] Apud Vasile Bogdan, “Pãmânt ºi apã, destinul oraºului”, Idem, Miracolul Timiºoara, Reºiþa: Timpul, 2000: 32.

[52] Slavomir Gvozdenovici, “Crnjanski u Temisvaru”, Idem, Manual despre casa vraciului, Bucarest: Kriterion, 1980: 35.

[53] Coleta de Sabata, “Timiºoara între universitãþi”, Timiºoara între paradigmã ºi parabolã, cit.: 56.

[54] Eugenio Montale, Lettere (con gli scritti di Montale su Svevo), Bari: De Donato, 1966: 133.

[55] Guy Scarpetta, Eloge du cosmopolitisme, Parigi: Grasset & Fasquelle, 1981: 98.

[56] Montale, op. cit.: 134.

[57] Ara, Magris, op. cit.: 4.

[58] Ibidem: 28.

[59] Carolus Cergoly, “Il pianeta Trieste”, Idem, Ferruccio Fölkel, Trieste provincia imperiale–splendore e tramonto del porto degli Asburgo, Milano: Bompiani, 1983: 282.

[60] Fölkel, “Giallo e nero era il mio impero”, Trieste provincia imperiale, cit.: 30.

[61] Enzo Bettiza, Mito e realtà di Trieste, Milano: All’Insegna del Pesce d’Oro, 1966: 23.

[62] Cfr. Glauco Arneri, Breve storia della città di Trieste, Trieste: LINT, 1998: 42, 51.

[63] C. Schiffrer, Le origini dell’irredentismo (1813-1860) (a cura di E. Apih), Udine, 1978: 44-46.

[64] Ara, Magris, op. cit.: 26.

[65] A. Vivante, Irredentismo adriatico, Firenze, 1954: 248.

[66] Spaini, op. cit.: 31.

[67] Ara, Magris, op. cit.: 29.

[68] Ibidem: 33.

[69] Magris, Dall’altra parte. Considerazioni di frontiera, Idem, Utopia e disincanto (Saggi 1974-1998), Milano: Garzanti, 2001: 55.

[70] Giorgio Voghera, Anni di Trieste, Gorizia: Goriziana, 1989: 214, 216.

[71] Ara, Magris, op. cit.: 135.

[72] Milan Kundera, “Tragedia Europei Centrale”, Europa Centralã, cit.: 230.

[73] Jacques Le Rider, Mitteleuropa. Storia di un mito (traduzione italiana di Maria Cristina Marinelli), Bologna: Il Mulino, 1995: 80.

[74] Magris, “Postfazione”, Idem, Danubius (traduzione romena, note e capitolo post-ultimo a cura di Adrian Niculescu), Bucarest: Univers, 1994: 424.

[75] Italo Svevo, “Pagine di diario e sparse”, Idem, Opera omnia (a cura di B. Maier), vol. III, Milano: Dall’Oglio, 1964: 76.

[76] Umberto Saba, Inferno e paradiso di Trieste, Idem, Prose (a cura di Linuccia Saba, prefazione di G. Piovene, nota critica di A. Marcovecchio), Milano: Mondadori, 1964: 818.

[77] Ibidem: 819.

[78] Ibidem.

[79] Scipio Slataper, Scritti politici (a cura di G. Stuparich), Milano: Mondadori, 1954: 119.

[80] Cfr. Ara, Magris, op. cit.: 62.

[81] Slataper, L’avvenire nazionale e politico di Trieste, Idem, Scritti politici, cit.: 134.

[82] Idem., Lettere triestine–La vita dello spirito, Idem, Scritti politici, cit.: 45.

[83] Idem., Il mio Carso, Milano: Mondadori, 1996: 42.

[84] Giulio Caprin, Reviviscenze, Bologna: Cappelli, 1957: 42, 55.

[85] Spaini, op. cit.: 25.

[86] Voghera, op. cit.: 13.

[87] Ibidem.

[88] Cergoly, op. cit.: 283.

[89] Ibidem: 285.

[90] Fölkel, op. cit.: 30.

[91] Pier Antonio Quarantotti Gambini, “Il cuore di Trieste”, Idem, Primavera a Trieste e altri scritti, Trieste: Italo Svevo/Dedolibri, 1985: 345, 348.

[92] Bettiza, Il fantasma di Trieste, Milano: Mondadori, 1985: 41.

[93] Ibidem: 132.

[94] Tomizza, Destino di frontiera. Dialogo con Riccardo Ferrante, Genova: Marietti, 1992: 131.

[95] Idem, Alle spalle di Trieste, cit.: 36.

[96] Idem, Destino di frontiera, cit.: 23.

[97] Ibidem: 34.

[98] Idem, Alle spalle di Trieste, cit.: 37.

[99] Bettiza, Mito e realtà di Trieste, cit.: 43.