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p. 177

Note extravaganti sulla “svolta” deel XV secolo

 

 

Gianfranco  Giraudo,

Università degli Studi Ca’ Foscari di Venezia

 

Franz Babinger, nella sin troppo celebrata monografia su Maometto II il Conquistatore[1], parla di una “grande paura” che scoppia negli anni che precedono immediatamente e seguono la conquista di Costantinopoli da parte delle apparentemente inarrestabili armate ottomane. Oggi come allora, la Turchia, erede in una indiscutibile linea di continuità dell’Impero ottomano, fa paura, si teme il suo ingresso in Europa, mentre dal 1453 né l’una né l’altro hanno mai smesso di essere parte rilevante del sistema geopolitico europeo.

La paura genera rimozione, rimozione che coinvolge quelle terre e quelle figure che, sin dallo scorcio del XIV secolo, si sono per necessità dovute confrontare con il Drang nach Westen delle “verdi bandiere di Allah”, in uno scontro che – dovremmo finalmente convincercene – non è mai stato scontro di religioni o culture, come, da allora sino ad oggi, si è insistentemente ribadito in Occidente. Si è trattato e si tratta di uno scontro di Potenze, centrali in prospettiva geopolitica nel XV secolo, periferiche oggi. Tre personaggi, grosso modo coetanei tra di loro e con Maometto II, incarnano, in un dato momento e in maniera sotto certi aspetti simile, questo scontro: il Moldavo Stefano il Grande (ªtefan cel Mare), il Valacco Vlad l’Impalatore (Dracula, Vlad Þepeº) ed il Moscovita Ivan III il Terribile (Ioann Vasil’eviè), Gran Principe di Vladimir, poi di Mosca e di tutta la Rus’. Un episodio, invero alquanto macabro, accomuna i tre personaggi, un episodio che, al di là delle diverse incrostazioni di motivi folclorici che si sono venute aggiungendo a ciascuno, ha una forte rilevanza politica.

Nella Povest’ o Drakule si racconta che Vlad Þepeº fece inchiodare alle teste degli ambasciatori ottomani i turbanti che, secondo il proprio costume, si erano rifiutati di togliersi di fronte a lui:

 

“Vennero una volta da lui ambasciatori del Turco e, giunti davanti a lui, si inchinarono secondo il proprio costume, ma non tolsero dalla testa il berretto. Ed egli chiese loro: ‘Perché fate ciò? Siete venuti da un grande sovrano, e mi fate questo disonore. Ed essi risposero:

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“Questo è il nostro costume, Signore, e tale ha la nostra terra’. Ed egli disse loro: ‘Ed io voglio fissare la vostra legge, affinché per salda la teniate’. E ordinò che i loro berretti fossero fissati alle loro teste con piccoli chiodi di ferro; li congedò e disse loro: ‘Andate e dite al vostro sovrano: egli è avvezzo a sopportare da voi tale disonore, ma noi non siamo avvezzi; non mandi il proprio costume ad altri sovrani che non vogliono averlo, ma lo tenga presso di sé”[2].

 

Analogo episodio si trova nelle narrazioni tedesche[3], con la sola differenza, riguardo al soggetto, che gli ambasciatori non sono “turchi”, bensì walhen[4]. Una differenza più sostanziale discende dalla diversa impostazione, stilistica ed ideologica insieme, dei due gruppi di narrazioni. Nel testo russo il principe valacco, nella cui figura è adombrato Ivan III[5], interviene per lo più in prima persona a dare una spiegazione “convincente” del proprio operato, mentre nel testo tedesco le azioni di Dracole Wayda sono “raccontate” dall’autore, che talvolta ne sottolinea l’atrocità con gli aggettivi unkristenlich e unmenschlich.

Ancora, ha un rilievo non soltanto stilistico la diversa ampiezza e la differente collocazione dell’episodio nei due contesti, che pure hanno una struttura in larga parte comune: gli episodi di informazione storica sono riuniti in gruppi ben distinti, isolati in posizione di rilievo tra la massa di quelli di carattere novellistico. Nelle redazioni tedesche l’episodio in esame rientra nella seconda categoria, mentre nella povest’ russa esso, pur ripetendo lo stesso macabro calembour (il verbo tedesco bestetigen ha un perfetto pendant nel russo potverditi), non soltanto viene portato tra quelli “storici”, ma addirittura collocato all’inizio stesso della narrazione: esso serve ad introdurre il personaggio, permette a questi di esprimere, subito ed inequivocabilmente, la coscienza della propria legittimità a governare. In entrambi i casi si tratta di letteratura politica, seppure a livelli diversi di elaborazione ideologica: i testi tedeschi appartengono a quel filone che individua nei vicini orientali (Ortodossi o Musulmani che siano) la minaccia, che deve essere demonizzata prima per essere esorcizzata poi; la Povest’ o Drakule presenta una figura complessa di principe adatta alla complessità della congiuntura storica del crepuscolo del feudalesimo e delle prime, incerte affermazioni degli Stati centralizzati, la cui identità non è etnica, bensì confessionale. Non casualmente Dracole Wayda, dopo la conversione al

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Cattolicesimo, compie vil guter sach, mentre Drakula smette di essere un modello di virtus dopo aver abiurato l’Ortodossia.

L’episodio in esame è stato in seguito attribuito al Terribile: secondo il racconto di S. Collins, medico dello Car’ Aleksej Michajloviè, Ivan IV avrebbe fatto inchiodare alla testa d’un ambasciatore, questa volta francese, il cappello che questi s’era rifiutato di togliersi[6]. A noi pare che l’elemento più significativo di un tale “motivo vagante”[7] non sia tanto il dettaglio, per così dire “tecnico”, dei cappelli inchiodati alle teste degli ambasciatori (immagine peraltro di forte impatto visivo, come dimostrano la sua diffusione e l’attribuzione a personaggi diversi di diversi luoghi ed epoche), quanto il dénouement. Facile è l’accostamento con il comportamento di Stefano il Grande, come riferito dal cronista polacco Miechowski (Maciej z Miechowa): quando dal voivoda moldavo, nel 1469, giunsero ambasciatori del Khan tartaro Maniak a pretendere la liberazione del figlio di quest’ultimo, Stefano fece prima giustiziare novantanove di questi e rimandò il centesimo, le orecchie ed il naso mozzati, a portare al Khan la “risposta” dei Moldavi[8], molto simile a quella dei Valacchi al Sultano.

Occorre osservare che tutte le varianti dell’episodio sopra indicate hanno un modello comune nel racconto biblico della “sentenza” di Nabucodonosor contro Sedecia:

 

“E quelli, preso il re, lo condussero dinanzi al re di Babilonia, dove questi pronunciò sentenza contro di lui. E uccise alla presenza di Sedecia i suoi figliuoli, e a lui fece cavare gli occhi, e lo mise alla catena, e menollo in Babilonia”[9].

 

L’ammonimento contenuto nella figura del superstite mutilato della strage era stato ben compreso, seppure a suo modo, da Mons. Martini:

 

“Con innanzi lo spettacolo di un padre che dopo aver veduto trucidarsi al fianco i figli, gli son cavati gli occhi, è menato schiavo; con innanzi lo spettacolo di un gran popolo da Dio guardato già come la pupilla del suo occhio, e che è trascinato schiavo in terra straniera […]; con sotto gli occhi di simili spettacoli, mi si dica se torni all’uomo conto abbandonare la religione del vero Dio, e non obbedire alla sue leggi”[10].

 

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Il problema non è evidentemente quello del rispetto della legge di un Dio trascendente e minaccioso, bensì quello del rispetto di un sovrano immanente e dalle prerogative divine, che, per affermare, di fronte ai nemici tanto interni quanto esterni, una legittimità ancora tutta da dimostrare, non può non ricorrere a mezzi estremi di persuasione. Anche Ivan III non esitò a ricorrervi: allorché, nel 1476, giunsero a Mosca da Kazan’ ambasciatori del Khan Ahmet per esigere il versamento dei tributi che il Principe di Mosca per consolidata consuetudine riscuoteva per conto del Khan[11], egli scagliò a terra e calpestò il sigillo con cui gli inviati tartari si accreditavano, li fece mettere a morte tutti meno uno, perché portasse al proprio sovrano la “risposta” di Mosca[12].

Non si tratta, come ingenuamente scrive il Picot, di una “ferocité” che “était malheureusement dans les moeurs du temps”[13]. I grandi centralizzatori hanno bisogno di gesti che restino impressi nella memoria collettiva, affinché in essa si fissi anche l’idea del loro diritto a regnare entro confini certi e a governare sudditi che li riconoscano come legittimi sovrani. L’esempio era stato dato da Filippo il Bello con lo schiaffo di Anagni e con l’eliminazione dei Templari: con il primo atto aveva negato le pretese imperiali di un Papa, con il secondo si era liberato di un gruppo di potere che rischiava di diventare uno Stato nello Stato.

Nel secolo successivo i tre Sovrani di cui trattiamo si erano opposti all’avanzata di un Sultano che riuniva nella propria persona l’idea imperiale romano-costantinopolitana e quella turco-mongola gengis-khanide. D’altro canto, come ha cercato con qualche successo di dimostrare D. Nãstase l’idea imperiale si manifesta, in forma appena mascherata, nell’araldica già nel XIV secolo e sino a tutto il XVIII[14]. Sul piano interno i tre si erano comportati in modo simile tra loro , fatte ovviamente le debite proporzioni. Nella riscrittura della storia della Rus’ compiuta a Mosca tra la fine del XV secolo e l’inizio del successivo, l’annessione di Novgorod e Tver’ e la lotta contro i privilegi delle aristocrazie di sangue sono dettate da superiori ideali di unità e giustizia; analogamente sia Vlad che ªtefan devono lottare contro le spinte centrifughe di una riottosa casta di boiari.

Il fatto che anche ªtefan abbia utilizzato metodi draconiani – o draculiani – nei confronti dei nemici esterni ed interni, non ha impedito che, nella tradizione popolare gli venisse attribuito, oltre all’abituale titolo di cel mare, anche quello di cel bun[15].

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Analogamente, per Philippe de Commynes, Luigi XI, che ha l’abitudine di riposare in una radura di un boschetto, da ogni albero del quale pende un impiccato, è e resta optimus princeps.

Certo, l’Europa della fine del XV secolo assomiglia ormai molto poco a quella dell’inizio. In tempi rapidissimi, dopo l’apparente immobilità medievale, avviene un totale ricambio delle istituzioni: aboliti o svuotati di contenuto i privilegi feudali, si affermano forme di statualità che privilegiano la centralizzazione degli apparati, da quello giudiziario a quello finanziario e militare, a guida del quale sta una nobiltà di servizio che risponde direttamente ad una suprema autorità: può essere un Imperatore nel caso di Costantinopoli / Qonstantiniyye o di Mosca, la cui vocazione imperiale si sarebbe manifestata in modo esplicito solo nel secolo successivo; può trattarsi di Principi nel caso di formazioni politiche “minori”, quali Moldavia e Valacchia; può trattarsi addirittura di una Repubblica oligarchica, quale la Serenissima, unico esempio, a nostra conoscenza, di prevalenza di rapporti politico-sociali orizzontali in un mondo dominato da rapporti rigorosamente verticali.

Un altro elemento importante è quello dell’affermarsi anche in Occidente, mentre nell’Oriente ortodosso era stato raramente messo in dubbio, del primato dell’imperium sul sacerdotium. In questo senso l’episodio di Vlad Þepeº e dei due monaci ungheresi, nonostante il suo carattere di facezia macabra, è paradigmatico:

 

“Un giorno vennero da lui dalla terra Ungara due monaci latini in cerca di elemosina. Egli ordinò di separarli e chiamò a sé il primo, e gli mostrò il cortile con un’innumerevole quantità di cadaveri su pali e ruote e lo interrogò: ‘Ho io fatto bene, e che cosa sono quegli impalati?’ E quegli disse: ‘No, mio Sovrano, fai il male, senza pietà punisci; ma al Sovrano conviene essere misericordioso, e quegli impalati sono martiri’. Fece dunque chiamare il secondo e lo interrogò allo stesso modo. E quegli rispose: ‘Tu, mio sovrano, sei stato posto da Dio a punire i malvagi e a premiare chi fa il bene. E quelli hanno fatto il male ed hanno ricevuto quanto loro spetta’. Egli dunque richiamò il primo e gli disse: ‘Perché sei uscito dal monastero e dalla tua cella vai da grandi Sovrani, senza sapere nulla? E mi hai detto che quelli sono martiri, ed io voglio rendere te martire, affinché tu sia martire con loro’. E ordinò fosse impalato per l’orifizio posteriore, ed all’altro ordinò di dare 50 ducati d’oro, dicendo: ‘Tu sei un uomo ragionevole’. E ordinò di rimandarlo nella Terra Ungara con grande onore”[16].

 

Non dimentichiamo che nel 1492 viene scoperta l’America, con il che l’asse geopolitico del mondo si sposta dal Mediterraneo all’Atlantico. E l’anno 1492 corrisponde al 7000 del millenarismo russo ortodosso, quello della fine del mondo; ed è certo stata la fine se non del mondo, di un intero continente, ovvero l’inizio di quella che è forse la pagina più buia nella storia dell’Occidente, quella del colonialismo, Né si deve dimenticare che il 1492 è anche l’anno del Gerush, dell’espulsione degli Ebrei dagli unificati Regni di Castiglia ed Aragona. E delle conseguenze degli eventi del 1492 stiamo tuttora pagando un prezzo molto elevato.

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Vogliamo, per finire, fare un’altra considerazione: ora si parla in molti Paesi di ingresso in Europa come di un miraggio più che, a nostro avviso, di una speranza di palingenesi sociale. Ma l’Europa Centro-Orientale e Balcanica, ivi compresa la Turchia, ha da sempre fatto parte dello stesso sistema geopolitico, dei cui valori, nonché del proprio utile, l’Occidente si è considerato depositario unico ed autorizzato.

 

 

 

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[1] Abbiamo potuto consultare soltanto la traduzione francese (Mahomet II le Conquérant et son temps (1432-1481). La grande peur au tournant de l’histoire, trad. de E. H. Del Medico, revue par l’auteur, préface par P. Lemerle, Paris 1954), salutata de resto come “incontestabilmente superiore” all’opera originale; si veda la recensione di R. Guilland, in “Byzantinoslavica”, XVI, no. 2, 1955, p. 361. Sulle perplessità suscitate dai debiti non dichiarati di Babinger nei confronti della storiografia precedente, da Hammer–Purgstall a Zinkeisen e Iorga, si veda G. Giraudo, Hammer–Purgstall, Iorga, Babinger. Un piccolo divertissement, in “Quaderni della Casa Romena di Venezia”, no. 1, 2001, pp. 128–134.

[2] Traduzione nostra da Povest’ o Drakule, issledovanie i podgotovka teksta Ja. S. Lur’e, Moskva–Leningrad 1964, p. 117.

[3] G. Conduratu, Michael Beheims Gedicht über den Woiwoden Wlad III. Dracul, Bucarest 1903, p. 105, p. 113, p. 117; si veda anche L’edizione di Lipsia del 1493 della ‘History von Dracola Wayda’, in “Annali di Ca’ Foscari”, XII, no. 1, 1973, pp. 165-177.

[4] Il termine, di origine celtica, indica nelle lingue germaniche, talvolta con una connotazione vagamente spregiativa, i popoli neo-latini o, più genericamente, gli stranieri, i non Germani.

[5] La Povest’ o Drakule e la vocazione centralizzatrice e anti-ottomana della politica moscovita nel secolo XV, in “Annali dell’Istituto Orientale di Napoli”, nuova serie, XIX, no. 4, 1969, pp. 467-486.

[6] Povest’ o Drakule … cit., p. 66, n. 20; A. A. Morozov, Nacional’noe svoeobrazie i problema stilej (k izuèeniju drenerusskoj literatury i literatury XVIII veka), in “Russkaja literatura”, X, no. 3, 1967, p. 118, n. 19. Un episodio analogo è citato dal viaggiatore olandese Jan Danckaert, che ha soggiornato in Russia dal 1609 al 1611; in questo caso si tratta di un ambasciatore italiano: si veda Beschryvinge van Moscovien ofte Ruslant: gestelt in twee deelen. Waer van het eerste tracteert van den stant des rijcks … Het tweede van der Moscoviten oft Russen religie …, by Broer Jansz, Amsterdam 1615, p. 21.

[7] Brodjaèij motiv, secondo la definizione data da A A. Morozov, op. cit., p. 118.

[8] Si cita da B. P. Haºdeu, Archiva istoricã a României, Bucarest 1866, p. 36.

[9] IV Re, 25, 6-7; si cita da: La Sacra Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, I, traduzione secondo la Vulgata di Mons. A. Martini, Milano 1906, p. 523.

[10] Ibidem, n. 1.

[11] Già all’inizio del XIV secolo Ivan Kalita, Principe di Vladimir, residente a Mosca, aveva ottenuto il forse poco onorevole privilegio di riscuoter tutti i tributi dovuti al Khan dalla terra di Rus’, dando così inizio all’irresistibile ascesa di Mosca; si veda M. N. Pokrovskij, Storia della Russia, traduzione di A. Marchi e D. Bernardini, prefazione di E. Ragionieri, Roma 1970, p. 38.

[12] M. Le Clerc, Histoire physique, morale, civile et politique de la Russie Ancienne, II, Paris 1783, p. 242.

[13] G. Ureche, Chronique de Moldavie depuis le milieu du XIVe siècle jusqu’à l’an 1594, texte roumain avec traduction, notes historiques et commentaires, tableaux généalogiques, glossaire et table par E. Picot, Paris1878, pp. 108-109.

[14] D. Nãstase, L’héritage impérial byzantin dans l’art et l’histoire des pays roumains, Milano 1976; Eiusdem, L’aigle bicéphale dissimulée dans les armoiries des pays roumains, vers une cryptohéraldique, in Roma, Costantinopoli, Mosca, Napoli 1983, pp. 357–374.

[15] P. Ispirescu, ªtefan cel Mare ºi Bun, Bucureºti 1908.

[16] Nostra traduzione da Povest’ on Drakule … cit., p. 119.