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RECENSIONI

 

Le mele dell’immmortalità. Fiabe armene, a cura di Sonya  Orfalian, Editori Guerini ed Associati (“Carte Armene”, collana diretta da Boghos Levon Zekiyan), Milano 2000, pp. 156.

 

Il libro di Sonya Orfalian, armena della Diaspora, ci accompagna nel fantastico mondo delle favole armene, intrise di saggezza popolare. La raccolta assume il titolo dalla prima delle diciotto favole, accompagnate da una serie di indispensabili note. Il libro attinge da un’opera più vasta Fiabe popolari armene, edite ad Erevan, nel 1956, frutto del lavoro del compianto Artashes Nazinian. Questa pubblicazione arricchisce lo studioso italiano di favolistica e di armenistica e lo pone a contatto con antiche creazioni popolari che sembrano, almeno per i non iniziati, portare con loro vetusti echi, creazioni popolari, caratterizzate da personaggi semplici, descritti con cura, in un armeno popolare e frizzante, spesso infarcito di termini ed espressioni di lingue con cui la lingua dei figli di Haig era venuta a contatto.

Le favole armene, come quelle di altre nazioni, del resto, sono qualcosa di più di racconti che le madri e le nonne narravano per far addormentare i bambini. Spesso esse hanno un valore morale, per gli adulti stessi, perché è il bene che vince il male. Sono creazioni d’altri tempi che riflettono un mondo reale intrecciato con un mondo fantastico, abitato da animali parlanti che talora dimostrano un amore tale per i padroncini che sa oltrepassare la morte, accettata con saggezza e rassegnazione (La Mucca Rossa, ad esempio). Il bene trionfa sempre sul male, si diceva, si osservi ad esempio il protagonista della prima favola che, nonostante sia stato tradito dai fratelli maggiori, intercede presso il genitore per ottenere che la loro vita sia salva. Numerosi sono gli intrecci, che affascinano il lettore come le creature fantastiche che popolano il mondo di queste favole, quali, ad esempio le Hurí, creature stupende, una sorta di fate presenti anche nelle favole del mondo islamico. In queste creazioni popolari si insegnano le vie dell’ascesa, del coraggio, dimostrato sempre dal protagonista, dall’eroe, persona positiva, che mozza i 7 capi ai mostri che gli intralciano il cammino.

A volte si riscontrano altri elementi favolistici, ad esempio l’idea secondo la quale se il mostro fosse colpito più di una volta egli sarebbe rinato, altre volte non è sottaciuto il mito della nascita, altre, infine, per sottolineare la differenza tra il mondo della realtà e quello della fantasia, si ricorre a formule quali “camminarono molto o poco”. Molto spesso viene premiata la destrezza e l’abilità, come nella favola Il saggio tessitore. Non mancano in queste favole apprezzamenti per il valore dell’arte, del lavoro. La figlia di un contadino, invece d’accettare subito la corte del nobile rampollo, che di lei si era innamorato, gli chiede che arte conoscesse. Solo quando questi apprese quella di tessere i tappeti l’avrebbe accettato quale sposo. L’esercizio dell’arte sarebbe servito al principe per comunicare, con messaggi scritti sui tappeti, il luogo in cui era stato rapito dai banditi e gli avrebbe permesso di farsi liberare e ritornare al focolare.

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Aram Kalantarian e Sargis Harutiunian, rispettivamente direttore dell’Istituto di Archeologia ed Etnografia dell’Accademia Nazionale delle Scienze della Repubblica Armena e vicedirettore dell’Istituto di Archeologia e Etnografia dell’Accademia Nazionale delle Scienze della stessa Repubblica, salutano così questo lavoro: «La presente antologia italiana di fiabe armene è un piccolo florilegio tratto da quel [popolare armeno] ricco patrimonio. Siamo comunque sicuri che, al di là delle sue dimensioni, questa raccolta potrà offrire ai lettori italiani almeno un’idea generale delle fiabe armene e dar loro la possibilità di gustarne il tipico sapore e l’antico profumo» (S. Orfalian, op. cit., p. 10). Grazie alla Casa Editrice Guerini e Associati di Milano, specializzata nel presentarci, nella Collana diretta dal professor Boghos Levon Zekiyan, tanti aspetti di storia e di cultura amena, il lettore può avvicinarsi a questo fantastico mondo armeno, per meglio conoscere un’altra dimensione culturale di questo antico popolo cristiano.

 

Giuseppe Munarini

 

 

Simpozionul Istooric «Trei sute de ani de la Unirea Bisericii Româneºti din Transilvania cu Biserica Romei», Lugoj 16 decembrie 2000 [Simposio Storico «Trecento anni dall’Unione della Chiesa Romena di Transilvania con la Chiesa di Roma», Lugoj 16 dicembre 2000], Universitatea Europeanã Drãgan, Editura Dacia – Editura Europa Nova, Lugoj 2001, pp. 257+14 illustrazioni fuori testo.

 

L’importante Simposio di cui presento gli Atti si tenne a Lugoj, una delle sedi eparchiali della Chiesa Greco-Cattolica romena. L’eparchia fu fondata il 26 novembre 1853 ed estende la sua giurisdizione sul Banato romeno, la cui città più importante è Timiºoara, ove risiede l’Arcivescovo Metropolita ortodosso, attualmente Nicolae Corneanu, teologo insigne e, soprattutto, ecumenista aperto e lungimirante. Al Simposio, oltre all’Arcivescovo Metropolita greco-cattolico, Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Lucian Mureºan, erano presenti l’eparca greco-cattolico di Lugoj, Monsignor Alexandru Mesian, l’Arcivescovo di Cluj-Napoca – Gherla, Monsignor Gheorghe Guþiu, l’eparca ausiliare della stessa Diocesi, Monsignor Florentin Crihãlmeanu, ed altri vescovi greco-cattolici. Il simposio ha avuto come momento centrale la Liturgia solenne di S. Giovanni Crisostomo. Graditissima fu la presenza di Sua Eminenza, Monsignor Nicolae Corneanu del Banato che, con il metropolita greco-cattolico Lucian Mureºan, i vescovi Florentin, Gheorghe, Alexandru, Martin, ed i sacerdoti Ioan Cerbu, Pál Támasko, Marius–Petru Pop ad un Trisaghion (Parastas) per i testimoni della Fede e le vittime della Rivoluzione del 1989 che liberò la Romania dal giogo comunista. Significativo è il fatto che il Simposio si sia tenuto nel 2000, Anno Santo per la Chiesa Cattolica, che coincide con il 300 anniversario della fondazione della Chiesa Greco-Cattolica di Romania, libera dal 1989 di svolgere la sua missione fuori dalle catacombe cui era stata costretta dopo l’iniquo decreto del 1948. Alla celebrazione eucaristica erano presenti pure i rappresentanti dei fratelli romano-cattolici, il protopope ucraino ortodosso, il protopope romeno ortodosso, il vicario delle parrocchie di rito latino. Il vescovo latino di Timiºoara, Martin Roos,

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concelebròe; con i presuli ed i sacerdoti greco-cattolici. Presenti pure i rappresentanti delle Chiese riformate e della Comunità Israelitica. Significative sono state le parole pronunziate da Sua Eminenza Nicolae Corneanu: «I Romeni si sono avviati per una nuova strada 300 anni fa ed hanno fatto grandi passi nel campo sociale e culturale, e i greco-cattolici hanno costituito un esempio dimostrando che più forte della prigione è il potere di Dio. Siamo riconoscenti a questa Chiesa per lo spirito di fraternità nei confronti delle altre confessioni» (Trei sute de ani cit., p. 7). Sua Eccellenza il Nunzio Apostolico Monsignor Jean–Claude Périsset ha pure inviato un messaggio, letto dal vescovo di Lugoj Alexandru Mesian; il Nunzio ha, tra l’altro, sottolineato la sua gioia, perché, durante la manifestazione era presente il Metropolita Nicolae Corneanu ed alcuni membri della Sua Chiesa, dimostrando così una vera fraternità.

I lavori del Convegno iniziarono nel pomeriggio del 16 dicembre. Tra gli intervenuti, oltre all’organizzatore Monsignor Alexandru Mesian, il professor Emil Poenaru, rettore dell’Università che sottolineò l’importanza della “Scuola di Transilvania” per la rinascita della coscienza nazionale, iniziata dal vescovo Ioan Inochentie Micu–Klein, spentosi a Roma nel 1768. Fu letto un messaggio del professor Josif Constantin Drãgan che elogiò i benefici addotti alla Romania dall’Unione con Roma ed espresse la sua soddisfazione che i lavori si svolgessero nell’Aula Magna dell’Università da lui fondata. Dopo l’intervento del Sindaco, l’ingegnere Marius Martinescu, presero la parola la dottoranda di ricerca Luminiþa Wallnner–Bãrbulescu, direttrice del Museo di Storia ed Etnografia di Lugoj, con una comunicazione dal titolo La storiografia dell’Eparchia Greco-cattolica di Lugoj, il professor p. Ioan Mitrofan, invece tenne una comunicazione sulla storia dell’Unione, soffermandosi particolarmente sulla Diocesi ospite. Il professor Cristian Barta, della Facoltà greco-cattolica, collegata all’Università “Babeº-Bolyai” di Cluj-Napoca tenne una comunicazione dal titolo L’unione di Roma nella visione di Augustin Bunea. Il professor Simion Mesaroº, di Baia Mare, parlò Sul mistero delle sofferenze e della Risurrezione del Signore riflesso nella vita della Chiesa Romena Unita con Roma greco-cattolica, mentre il padre Horia Ovidiu Pop, già studente del Pontificio Collegio greco di Roma, su L’Ermeneutica dell’Unione del 1700. Il professor Gheorghe Gorun, della Facoltà greco-cattolica, Dipartimento di Oradea, si soffermò sull’interessante aspetto dell’Unione con Roma e la formazione della nazione romena. Lo Jeromonaco dr. Silvestru Augustin Prunduº, basiliano trattenne l’uditorio sull’Anniversario del primo Sinodo dell’Unione con Roma, fatto a Lugoj da S. E. Ioan Bãlan (†1959) e il p. Ioan M. Bota sottolineò il ruolo della Diocesi di Lugoj nella storia del popolo romeno. Il volume comprende oltre ai contributi menzionati, altri studi o discorsi significativi sulla Chiesa Greco-Cattolica e la sua importanza per la vita della nazione romena. Si possono anche leggere il messaggio di Sua Eminenza Achille Silvestrini, allora Prefetto della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali, in occasione del 300 anniversario della fondazione della Chiesa Greco-Cattolica, l’omelia del Santo Padre, della Liturgia del 9 maggio del 2000, il contributo del metropolita Lucian Mureºan ed alcune profonde considerazioni di S. E. Monsignor Florentin Crihãlmeanu sulla Lettera apostolica del Santo Padre Giovanni Paolo II. Il volume è quindi una raccolta di preziose testimonianze che

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ci invitano a riileggere la storia dell’Unione in una prospettiva d’apertura e di riconciliazione per una doviziosa e feconda collaborazione fraterna.

 

Giuseppe Munarini

 

 

Marco  Impagliazzo, Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), Editori Guerini e Associati, Milano 2000, pp. 254+3 foto nel testo.

 

L’autore è docente di storia contemporanea presso la Pontificia Università Urbaniana. Tra le sue pubblicazioni, vanno ricordate Duval d’Algeria. Una Chiesa tra Europa e Mondo Arabo, Roma 1944; Algeria in ostaggio, risalente al 1997 (con Mario Giro) e, nello stesso anno, Leggi razziali e occupazione nazista nella storia memoria degli ebrei di Roma, per i tipi delle edizioni Guerini e Associati. Il professor Marco Impagliazzo, autore anche di numerosi saggi sui rapporti tra Cristianesimo ed Islam, presenta il manoscritto, in 21 capitoli, del padre domenicano Jacques Rhétoré, «Les Chrétiens aux bêtes!» Souvenirs de la Guerre Sainte proclamée par les Turcs contre les Chrétiens, en 1915, una testimonianza sul massacro dei Cristiani armeni e di altri riti nel Medio Oriente. Un lungo capitolo introduttivo (pp. 12-93) lumeggia la situazione delle comunità cristiane alla vigilia della I Guerra Mondiale. Da pagina 93 a pagina 250 è presentato un manoscritto del padre domenicano Jacques Rhétoré. Questi svolse il suo apostolato a Mardin, a Konia, ed infine a Costantinopoli, ove risiedette sino all’armistizio del 1918. Quando scrisse queste memorie, pubblicate ora in Italia dal professor Impagliazzo, padre Jacques Rhétoré, nato a Bruges in Francia, era ormai settantatreenne. Profonde erano le sue conoscenze linguistiche, egli conosceva, infatti, non solo l’armeno, ma anche il caldeo ed era stato insegnante presso la celeberrima Scuola Biblica di Gerusalemme. Dal 1874, fu a Mossul, per cinque anni, ove ebbe modo di conoscere la comunità dei cristiani siro-orientali, ossia di quei cristiani che sono più conosciuti con il nome di “nestoriani”. Deportato con i confratelli M. D. Berré e Hyacinthe Simon a Diyarbakir, nella provincia orientale dell’Anatolia, fece tappa a Mardin, ove dovette risiedere per due anni. Poté così venire a contatto con le comunità cattoliche di rito siro ed armeno. Lì fu costretto ad assistere al triste spettacolo del passaggio di migliaia di cristiani verso la loro ultima meta terrena, il loro Golgota. Il 10 giugno 1915, l’arcivescovo armeno – cattolico, il Servo di Dio Ignace Maloyan (1869-1915) – veniva trascinato in catene con numerosi dei suoi fedeli verso il luogo del martirio. «La notte era chiara – si può leggere nelle memorie del padre domenicano –, si poté dunque percepire, dalle finestre delle terrazze, il corteo dei prigionieri» (M. Impagliazzo, op. cit., p. 20). Lo studio introduttivo presenta in modo chiaro e preciso la situazione delle comunità cristiane che vivevano in una società musulmana, avendo però uno spazio proprio, come pure lo avevano gli Ebrei che costituivano il 10% della popolazione dell’Impero Ottomano. Alla guida di queste comunità etnico-religiose, vegliavano i Patriarchi che adempivano pure funzioni civili, accanto al loro alto ruolo spirituale. A Costantinopoli ne risiedevano due per gli Armeni, quello apostolico o gregoriano e quello cattolico, ovviamente oltre al Patriarca Ecumenico. Il Catholicos della Grande Casa di Cilicia, risiedeva pure in territorio Ottomano. Il “millet” (la natio) armeno

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era stato riconoosciuto nel lontano 1461, meno di dieci anni dopo la conquista ottomana di ciò che restava dell’Impero bizantino. Si passa poi a presentare le altre grandi comunità o Chiese – come quella siriaca, con sede a Mardin, quella dei Maroniti, dei greco-melchiti, ortodossi e greco-cattolici, dei Latini ecc. Il patriarca armeno apostolico, Zaven, si prodigò presso i ministri ottomani al fine di fermare il massacro, il Genocidio che cominciò nel 1915. I cristiani, una volta iniziata la guerra, nel 1914, non si trovarono più sotto la protezione dell’Intesa, della Francia in special modo, e venivano accusati di connivenza con le potenze appartenenti a quest’Alleanza, essendo la Turchia, legata invece alla Triplice Alleanza, con gli Imperi Centrali.

In Turchia, ove il sultano Habdul Amid fu spodestato, nel 1908, avevano preso il potere i “Giovani Turchi” del “Comitato Unione e Progresso”. Talaat, uno di essi, si sarebbe distinto nell’ordinare di sterminare tutti gli Armeni, compresi donne e bambini. Si temeva il separatismo e che i “giauri”, come spregiativamente venivano chiamati i cristiani, fossero spie dell’Intesa. La Francia aveva il diritto di proteggere i cristiani in Medio Oriente, ma questo Paese era in guerra con la Turchia. Mentre il sultano Mehmet V, califfo dell’Islam, seguitava a sedere al trono, de facto i nuovi padroni, il triunvirato dei Giovani Turchi, rappresentato da Talaat, Enver e Djemal, consolidarono il loro potere. Il primo di essi aveva dichiarato: “Voi sapete che, secondo la costituzione, l’uguaglianza tra musulmani e giaur è assicurata, ma comprendete molto bene che questo ideale è irrealizzabile. La sharia, la nostra storia e i sentimenti di centinaia di migliaia di musulmani, così come quelli degli stessi giaur, alzano una barriera insuperabile contro lo stabilirsi di una reale uguaglianza […]. Dunque non potrà esistere uguaglianza finché non avremo realizzato l’ottomanizzazione dell’Impero” (M. Impagliazzo, op. cit., p. 24). Il Patriarca armeno Zaven si rivolse anche all’ambasciatore tedesco Hans Freiherr von Wangenheim, ma invano. Non si disinteressò della sorte degli Armeni e dei cristiani, invece la Santa Sede. Sia il Santo Padre Benedetto XV, sia altri eminenti personaggi della diplomazia vaticana quali il cardinale Gasparri, Segretario di Stato, monsignor Angelo Dolci, delegato pontificio ed Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII, non rimasero insensibili ed inattivi. Si deve ad Andrea Riccardi, presidente della Comunità di Sant’Egidio, la pubblicazione della documentazione proveniente dall’Archivio della Congregazione per gli affari Ecclesiastici Straordinari della Santa Sede. Il Santo Padre intervenne di persona scrivendo una lettera a Mehmet V, da questa missiva traspare che il Romano Pontefice si impegnò a fermare i massacri presso il menzionato sultano.

Il manoscritto di padre Jacques Rhéthoré, ora pubblicato, consta di 21 capitoli in cui possiamo leggere le testimonianze del religioso sui massacri di Diyarbakir, Urfa, Mardin, le deportazioni di Ras-el Ain, Derzor e Mossul, i massacri di Seer. Fu dalla città di Mardin che fu trascinato l’arcivescovo degli Armeni cattolici per nascere al cielo come martire di Cristo. Anche cristiani di altri riti, non solo Armeni, furono trascinati, sradicati dalle loro dimore, invitati ad apostatare la Fede di Cristo. Le donne venivano strappate agli uomini, molte di esse dettero dimostrazione di coraggio e di nobiltà, davanti agli aguzzini. «Alcune donne osarono dare lezioni vigorose ai loro aguzzini. Così, ad esempio, fece la signora Chammé Djinandji. Quando i soldati la vollero spogliare dei suoi vestiti, disse loro energicamente: “I vostri ordini sono di farmi morire e non di denudarmi. Uccidetemi, ma mai mi lascerò togliere da voi i vestiti. Siete miserabili! Vorreste che noi accettassimo la vostra religione che vi permette di compiere simili crimini. No, la nostra

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religione &egravve; pura: è meglio morire per la nostra che vivere per la vostra”. La nobile cristiana non ottenne niente da quei mascalzoni che si gettarono su di lei, le tagliarono i seni e la sgozzarono» (M. Impagliazzo, op. cit., p. 74). Anche vittime “fredde” davanti alla pratica religiosa, si dimostrarono coraggiosi sino al martirio e non apostatarono il Salvatore. 287 furono le famiglie che accettarono la fede islamica, anche se, talora, solo il capofamiglia cedette, tuttavia donne e bambini furono iscritti all’Islam. Impressionanti sono le cifre dei deportati, dei massacrati: interi distretti furono, in poco tempo, svuotati dalla millenaria presenza cristiana. L’Anatolia fu impoverita, con ciò, per sempre. Il manoscritto ci offre anche esempi di solidarietà tra islamici e cristiani o gruppi di curdi detti “adoratori del diavolo”. L’ultimo capitolo è dedicato a quello che il padre domenicano chiama: La punizione del crimine, molti aguzzini di cristiani finirono falciati dal tifo ad esempio nella zona di Mardin, proprio quando credevano di potersi godere i beni dei cristiani che avevano senza pietà sterminato (Cfr. M. Impagliazzo, op. cit., pp. 237-250).

La pubblicazione che ho presentato si affianca accanto ad altre che concernono il Genocidio del popolo armeno, ed è indispensabile per conoscere meglio la storia di quel terribile e triste periodo, in quanto offre un’ulteriore testimonianza e ci dà la possibilità, grazie all’inquadramento storico del professor Marco Impagliazzo ed all’apparato di note, di conoscere anche la sorte di altre comunità cristiane, vittime, come gli Armeni di questa pulizia etnica anatolica.

 

Giuseppe Munarini

 

 

Cornel  Sigmirean, Istoria formãrii intelectualitãþii româneºti din Transilvania ºi Banat în epoca modernã [Storia della formazione dell’intellettualità romena della Transilvania e del Banato nell’epoca moderna], Presa Universitarã Clujeanã, Cluj-Napoca 2000, pp. 808.

 

Questo monumentale volume, che ha ottenuto il premio “George Bariþiu” dell’Accademia Romena, è articolato in otto capitoli e si apre con la prefazione del professore universitario Nicolae Bocºan; «La ricerca della storia della formazione dell’intellettualità romena in epoca moderna – si sottolinea – rappresenta uno dei più generosi e ragguardevoli soggetti per la conoscenza del processo d’affermazione della cultura e della civiltà romena moderna. Parafrasando lo storico francese G. Chaussinand–Nogaret, potremmo dire che la storia della formazione dell’intellettualità romena è la stessa storia della nazione romena, perché in essa si riflette la grande storia sociale e politica, che è, nello stesso tempo, storia di rappresentazioni e di simboli, “luogo della memoria” ove si riflette la nazione; fenomeno generale romeno, più evidente nel caso della società romena di Transilvania, cui si deve, in gran parte, la rinascita nazionale delle generazioni d’intellettuali, formati, nel secolo XVIII e XIX, nelle università dell’Europa centrale e ed Occidentale» (p. 5).

Gli otto capitoli del volume s’intitolano, in traduzione italiana: Prime generazioni di intellettuali romeni di Transilvania; Trattative politiche per l’acquisizione di un insegnamento superiore in lingua romena; Formazione dell’intellettualità romena di Transilvania nel periodo 1867-1919; Formazione pre-universitaria dell’intellettualità romena di Transilvania: ginnasi, cronistoria, programmi, professori; Origine geografica

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dell’intellettualità romena; Origine sociale dell’intellettualità romena; Fondi, fondazioni ad altre fonti d’aiuto degli studenti romeni; Clima quotidiano, culturale e politico in cui si formò l’intellettualità romena della Transilvania e del Banato.

L’apertura alla cultura internazionale della Transilvania propriamente detta avvenne, appunto, nel XVIII secolo, con l’annessione di questo territorio detto “Principato” all’Imperio Austriaco, ai tempi dell’imperatore Leopoldo I. Fece poi parte, dopo il 1867, dell’Impero Austro-Ungarico sino al 1918, data in cui la Transilvania, il Banato ed altri territori limitrofi, quali la Criºana, vennero a far parte della Romania. Soprattutto nel XVIII secolo, la Transilvania, grazie alla sua Scuola ardeleanã (ªcoala ardeleanã) si abbeverò alle fonti classiche, anche se è vero che si possono trovare numerosi studiosi e cultori del mondo classico prima di tale data, basterebbe ricordare Gheorghe Bona, Gheorghe Buitul, Mihai Halici che affrontarono viaggi e soggiorni in Occidente, per affrontare lo studio e per vivere esperienze culturali importanti, ma solo il secolo XVIII segna un’importante svolta culturale.

L’autore dell’opera, docente nell’Università degli Studi “Petru Maior” di Târgu Mureº, ci accompagna sin dai primi momenti dell’apertura della Transilvania alla cultura occidentale, avvenuta anche grazie all’Unione dei Romeni con la Chiesa Romano- Cattolica, ai tempi dei vescovi Teofil ed Atanasie Anghel, lungo un percorso che arriva all’inizio del XX secolo. Senza soffermarsi sulle lotte fratricide, che sconvolsero il paesaggio transilvano nel secolo XVIII, il professor Cornel Sigmirean, presenta gli aspetti positivi dell’Unione, soprattutto ai tempi del vescovo greco-cattolico Ioan Inochentie Micu–Klein (1700-1768), che dischiuse la via dei seminaristi greco-cattolici, verso la Città Eterna, ossia Roma. Grazie alle borse di studio, gli studenti, anche figli di persone di condizioni economiche modeste, raggiunsero Roma, ma anche le altre città dell’Impero, quali Budapest, Vienna, Leopoli, Bratislava ecc., ove ebbero modo di studiare, con la guida di insegnanti religiosi (gesuiti o basiliani) o laici e di venire a conoscere correnti letterarie nonché movimenti politici che aspiravano al rinnovamento in Austria, Ungheria, Italia e nell’Europa in generale.

Vengono percorsi i vari itinerari culturali, che videro giovani romeni figli di contadini o di piccoli nobili di campagna nelle varie città europee per apprendere, a contatto con gli studenti stranieri, la cultura classica e contemporanea, per acquisire metodologie nuove e rafforzare così il senso della propria fede ed identità etnica. Non si dimentica che, grazie al ruolo di Blaj, si dette vita al movimento politico-nazionale dei Romeni che, grazie ai memoriali indirizzati alla corte viennese, rese possibile un ‘48 romeno. L’Impero con il suo paternalismo, specialmente prima della sua trasformazione in Impero Austro-Ungarico, nel 1867, favoriva la cultura e contribuì, nonostante lo stato di soggezione cui erano sottoposti i Romeni, popolazione maggioritaria in Transilvania e nei territori circostanti, alla formazione di un ceto intellettuale, composto da sacerdoti sposati o celibi, ma anche da maestri e professori. Centro di questo movimento fu Blaj, cittadina fondata dal vescovo Ioan Inochentie Micu–Klein e rafforzata dal suo immediato successore Petru Pavel Aron (o Aaron), nel secolo XVIII.

Data fondamentale per l’apertura di queste scuole fu il 1764, sotto l’episcopato di quest’ultimo. Esse sorgevano non lungi dalla cattedrale di rito bizantino, frutto del lavoro

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architettonico ee di alta ingegneria di un oriundo italiano: Giovanni Martinelli. Ambedue i vescovi erano alieni alla latinizzazione della propria Chiesa, rispettosi del rito bizantino e della “Lege” ossia delle tradizioni, in cui si comprendeva anche il rigoroso digiuno. Alle scuole greco-cattoliche si affiancarono anche quelle della Chiesa Ortodossa quali il celebre Istituto Teologico Pedagogico Ortodosso di Sibiu. Gli studenti residenti all’estero (Leopoli, Vienna, Budapest ecc.) si organizzavano in associazioni nazionali romene, che permettevano una comunione d’intenti ed uno scambio d’opinioni sui problemi principali dell’epoca. Ecco allora apparire numerose di siffatte associazioni quali, la “Petru Maior”, che prese il nome del protopope (1756-1821) di Reghin, uno dei maggiori “corifei” della “Scuola di Transilvania”, la “Societatea Salba”, che dovette continuare, le sua attività in modo clandestino, l’“Astra” o la società “Patria”. Sarebbe nel loro seno nata e si sarebbe sviluppata una dialettica politica che avrebbe portato alla creazione di partiti politici e di giornali che difendevano e promuovevano la “romenità” ed affrettarono l’unità politica.

Importante fu pure la cura e salvaguardia della lingua romena, unica lingua neolatina sopravvissuta nella Romània orientale. Nell’Università degli Studi di Budapest funzionava una cattedra di romeno, da cui s’irradiava pure l’amore per la storia e per la nazione romena vilipesa o minacciata. Naturalmente, nell’opera del professor Corneliu Sigmirean non mancano ampi riferimenti alle facoltà ed agli istituti superiori in sé, ai programmi di insegnamento ed alle riforme di essi. Vengono esaminate le disposizioni, le norme che concernevano la vita di tali istituzioni scolastiche e lo statuto del personale docente, il numero degli studenti, dei quali si rammentano anche la confessione religiosa ed il rito di appartenenza.

L’opera non si sofferma solamente sulle istituzioni scolastiche delle città situate nel territorio austriaco o Austro-Ungarico, ma anche sulla presenza di studenti e di professori in Prussia, nei Paesi tedeschi ed addirittura nelle città occidentali quali Montpelier, Bruxelles, Parigi ecc. Molto positivi, in quest’opera, che contribuirà a far conoscere in modo organico ed approfondito la mentalità della Romania dell’epoca moderna, sono i riferimenti precisi alle città in cui i giovani romeni erano stati inviati a studiare, città che stavano rapidamente cambiando il loro tessuto urbano, anche perché attiravano molti abitanti dalle zone rurali. In esse convivevano differenti gruppi etnici che, sovente, si conoscevano e quindi le città potevano a buon diritto chiamarsi cosmopolite. Con il passare del tempo, andò ad aumentare il numero dei laureati nelle diverse discipline: non solo si distinsero teologi e filosofi, ma anche studenti di diritto, ingegneri, medici, che dovevano preparare la Nazione ad essere più consapevole del suo ruolo e conscia delle sue peculiarità.

Al termine degli otto capitoli, dopo la bibliografia, frutto di lunghe ricerche su testi e documenti romeni, ungheresi tedeschi e pontifici, seguono gli elenchi degli studenti che frequentarono le diverse istituzioni scolastiche superiori, in cui si trova la confessione religiosa professata, la data di nascita e il periodo di studi. È quindi la volta di due indici analitici, uno con i nomi di località e l’altro con i nomi di persona che permettono una facile ricerca. L’opera del professor Cornel Sigmirean comprende pure riassunti in inglese, francese, tedesco ed ungherese.

 

Giuseppe Munarini

 

 

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Franca  Feslikenian, La roccia e il Melograno, Mursia, Milano 2000, pp. 262+33 foto fuori testo.

 

Come palesa il suo cognome, l’autrice è un’armena. Figlia della Diaspora, è nata a Milano, da padre armeno, il dottor Aram e da madre italiana, Luisa Marzoli, oriunda di un paesino tra i monti della Lombardia, Penasca. Ora Franca Feslikenian esercita la professione di giornalista in Lombardia. La storia di due famiglie, quelle del padre e della madre, rivive in queste pagine di piacevole lettura: quella dei Feslikenian, appunto, e quella dei Marzoli. Le vicende della prima parte del libro, articolato in otto capitoli, rivivono grazie ai racconti dei suoi cari, altre parti sono frutto di ricordi, di vicende vissute all’interno di una famiglia ragguardevole che aveva due radici: una armena, l’altra italiana. L’autrice ricostruisce la storia delle due famiglie, cominciando da quella del padre, discendente da un antico casato dell’Armenia Orientale, fiero ed intelligente. Uno dei suoi antenati, Aram, raggiunse San Pietroburgo, stringendo amicizia con lo zar Alessandro II, passato alla storia soprattutto per aver abolito la servitù della gleba ed aver favorito l’inizio del ceto dei kulakì, i piccoli proprietari terrieri, eliminati poi brutalmente dai sovietici. Giacomo, invece fu il capostipite della famiglia paterna, distintasi per aver costruito sia in Lombardia, sia nella vicina Svizzera, ma anche nella lontana Parigi, nei momenti di maggior fortuna, nel periodo napoleonico, persino in Inghilterra, in Polonia, in Tirolo, numerose opere pubbliche. Ovviamente più dettagliata e ricca di aneddoti e di dialoghi è la storia che illustra la vita della nonna paterna. Il matrimonio dei nonni avvenne a Brussa e fu celebrato, secondo il rito armeno, tra i fasti che si addicevano ad una famiglia ragguardevole. La famiglia del nonno si trasferisce in Anatolia.

L’impresa dei nonni materni provvede ad arricchire la città ambrosiana con nuove costruzioni, quali il villaggio dei giornalisti, il tribunale e la Banca Commerciale ecc. La famiglia del nonno paterno, intanto, è sorpresa dal genocidio contro gli Armeni, scatenato dai “Giovani Turchi”, a Trebisonda, ove il padre dell’autrice, Aram, completava gli studi di medicina. Seguono l’avventurosa fuga della nonna Nevrig e di zia Herminé. Nonno Agop, invece, viene fermato e condotto in una prigione di fortuna: «Attese a lungo, poi nel locale entrarono numerosi giovanotti, armati e dall’aria fanatica. Uno di loro gettò un Crocifisso per terra e urlò a mio nonno:

– Armeno, se vuoi salvarti la pelle sputaci sopra! –

Mio nonno guardò con coraggio il giovane fanatico e ribatté:

– Io ho sempre rispettato la vostra religione. Voi dovete rispettare la mia. Non potete mai costringermi a fare un simile gesto. A quel momento iniziò il massacro» ( p. 71).

Il padre dell’autrice si sposò a Milano con Luisa, dopo aver riaffrontato tutti gli studi di medicina – aveva lasciato il certificato di laurea a casa prima della fuga nell’Anno del “Grande Male”, il Genocidio del 1915. Il matrimonio tra la madre ed il padre di Franca, avvenne a Milano. Erano con i giovani sposi anche la nonna e la zia Herminé che avrebbe sposato un grande armenista francese, Frederic Feydit, autore di numerosi studi e di grammatiche di armeno classico e moderno, allievo dei Padri Mechitaristi armeni di S. Lazzaro (Venezia). Rivivono, nel libro i momenti spensierati della fanciullezza, i discorsi assennati della nonna, la bontà dei genitori, l’attività patriottica del Padre Aram, il buon dottor Aram, che era Console della Repubblica Armena. Sono tratteggiate simpaticamente

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le figure dei coollaboratori domestici che vivono in casa Feslikenian, e non meno vivaci ed efficaci appaiono le descrizioni dei parenti. Non mancano le pagine soffuse di malinconia: la morte della nonna, che porta con sé un po’ della sua armenità. A lei è da ascriversi il merito di aver infuso alla nipote l’attaccamento per la patria e la cultura avita, ricambiato da quest’ultima non solo da tanto amore, ma anche dal tentativo di conversare un po’ in lingua armena. Toccante ed efficace è il ricordo della dipartita del padre, colpito da un male incurabile, lucido e consapevole della sua imminente fine, manifestandosi medico, generoso sino all’ultimo. Se ne andò quando l’autrice non aveva che poco più di dieci anni. Appaiono anche i difficili giorni della guerra, i giorni grigi delle morti, alternati con quelli azzurri della serenità in cui fede e ricordi si mescolano in un tutt’uno che avvince il lettore. Ogni tanto, la piccola storia, le piccole storie, nella loro quotidianità, si intrecciano con la grande storia, in cui anche i grandi scompaiono, si dissolvono, sembrano sparire nel nulla. Rimangono i risultati delle loro azioni, buone e cattive, come quelle dei piccoli uomini. Altri amici si avvicendano ed appaiono nelle scene del racconto, condotto con serietà. Il lettore impara ad avvicinarsi ai personaggi ed a cogliere, dai loro dialoghi, mentalità ed esempi di vita che arricchiscono. Senza dubbio l’autrice ha contribuito, grazie al suo lavoro, a farci amare e meglio conoscere la vita di una famiglia borghese per metà armena e con essa i luoghi d’origine, lontani geograficamente, ma sempre vivi nella narrazione. Le digressioni, presenti, per esempio quelle della famiglia degli zii in Normandia, lungi dall’appesantire, conferiscono al libro un maggior interesse, e ci ricordano le terribili vicende della Seconda Guerra Mondiale. Si auspica che, nella seconda edizione, qualche errore concernente la storia e la cultura armena venga corretto. Anche con essi, nulla del suo valore si toglie a questa biografia, a questi momenti personali narrati dalla penna di una lombarda, figlia anche della Diaspora armena.

 

Giuseppe Munarini

 

 

Dan  Nicolae  Busuioc  von  Hasselbach, Þara Fãgãraºului în secolul al XIII-lea. Mãnãstirea cistercianã Cârþa [La Terra di Fãgãraº nel secolo XIII. Il monastero cistercense di Cârþa], vol. I-II, Editura Fundaþiei Culturale Române – Centrul de Studii Transilvane, Cluj-Napoca 2000, pp. 363+39 immagini e due carte fuori testo.

 

Lo studio che presento è il frutto di decennali ricerche fatte da parte dello storico Dan Nicolae Busuioc von Hasselbach, dottore di ricerca dell’Università degli Studi “Babeº-Bolyai” di Cluj-Napoca, autore di numerosi studi apparsi in Romania ed all’estero. Esso ha come oggetto l’Abbazia di Cârta, di cui oggi non rimangono che le rovine, abbazia che si trova in Transilvania, sulla riva sinistra del fiume Olt, sul territorio delimitato dal fiume omonimo all’abbazia ed all’Arpaºu.

Il primo capitolo, di vasto respiro, dell’opera si sofferma sulla storia degli ordini monastici ed il particolare su quello cistercense, cui apparteneva questa abbazia i cui ruderi, ancora visibili, danno l’idea dell’ampiezza del monumento gotico. È ovvio che i ruderi, tra i quali sembra di sentir riecheggiare il canto gregoriano e il salmodiare latino, abbiano attirato l’attenzione degli studiosi che hanno compiuto degli studi archeologici

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ragguardevoli. LLa presente opera invece si prefigge di studiare, grazie alla toponimia, ai documenti rinvenuti, più aspetti che hanno accompagnato la vita dell’istituzione sacra che decadde, ma che ebbe un ruolo importante in un secolo in cui l’Ortodossia fu attaccata dal cattolicesimo latino. Ogni abbazia cistercense possedeva delle abbazie «figlie» con un abate padre, quello del monastero d’origine ed un abate figlio, a capo del monastero originato da un’emigrazione di monaci.

Il secondo capitolo si sofferma sulla fondazione del monastero di Cârþa, monastero di rito latino in una zona completamente ortodossa della Transilvania, se si prescinde da minoranze cattoliche di Sassoni, Ungheresi e di Secui (chiamati nei documenti degli umanisti “ciculini” o “siculi di Transilvania”). In realtà il complesso monastico era un centro importantissimo, uno dei più importanti del Sud-Est europeo. I monaci che avrebbero officiato questo monastero furono chiamati direttamente dalla Francia da re magiaro Béla III, ma anche il successore di questo sovrano Emerico II si annovera tra i fondatori del monastero.

Il terzo capitolo esamina gli aspetti etno-demografici della regione di Fãgãraº, abitato da una popolazione romena, parlante quindi una lingua neo-latina, ma di Fede cristiana-ortodossa. Accanto ad essa vivevano anche i Peceneghi, poi vi sarebbero insediati abitanti di altre etnie quali i Sassoni, gli Ungheresi, i Secui ed addirittura i Valloni. Nei documenti, per esempio nell’Andreanum, nel 1223, i neo-latini vengono chiamati «Blacci». I contatti tra i Romeni della Terra di Fãgãraº con gli altri romeni, sarebbero stati sempre attestati.

Il quarto capitolo si intitola Prolegomena la istoria Þarii Fãgãraºului în secolele XI-XIII [Preliminari sulla storia della Terra di Fãgãraº nei secoli XI-XIII] ed esamina ampiamente la situazione etnica e storica del Paese, nel secolo rispettivo. Il quinto, invece, è dedicato alla vita del monastero di Cârþa e delle comunità circostanti, ad esempio di quella di Glâmboaca, di lingua tedesca.

I due volumi si sono soffermati non solo sugli studi pubblicati nelle varie lingue, ma anche su quello dei toponimi. La località, oggi Cârtiºoara, ove sorse il monastero, era divenuta un centro di potere importante, posta presso insediamenti completamente romeni per fini espansionistici del Cattolicesimo latino, nel secolo della IV Crociata. Significativo è il fatto che il centro monastico sia stato lì posto dai sovrani ungheresi, gli Arpad. Soltanto nel 1200-1215 il monastero e la Chiesa furono edificati in pietra, prima ci sarebbero state delle costruzioni in legno, quasi ad indicare la loro provvisorietà. Il tempio fu costruito in più fasi se si considera il fatto che in una moneta emessa tra il 1270 ed il 1272 mancava il contrafforte a forma di poligono del coro che poi nel tempio prese forma. Il monastero deve aver avuto un ruolo importante anche per la popolazione romena della zona, alla quale si assimilarono anche non-romanzi quali gli slavi e i cumani. L’opera, che ha lasciato grande spazio all’interdisciplinarietà, si conclude con un ampio riassunto in lingua inglese, con una bibliografia e con una serie di foto dei ruderi del monastero stesso.

 

Giuseppe Munarini

 

 

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Ioan  Bolovan, Transilvania între Revoluþia de la 1848 ºi Unirea din 1918. Contribuþii demografice [La Transilvania tra il 1848 e l’Unione del 1918. Contributi demografici], premessa di Professor Nicolae Bocºan, Editura Fundaþiei Culturale Române – Centrul de Studii Transilvane, Cluj-Napoca 2000, pp. 267.

 

Il redattore della rivista del Centro di Studi Transilvani, “Transylvanian Review/ Revue de Transylvanie”, dottore di ricerca e ricercatore principale presso l’Istituto di Storia dell’Università degli Studi “Babeº-Bolyai” di Cluj-Napoca, autore di numerosi studi specialmente sul secolo XIX, ci presenta questa nuova ricerca che ci permette di conoscere meglio la situazione demografica della Transilvania negli anni che vanno dalla Rivoluzione del 1848 sino al 1918, anno in cui questo territorio ponte, in cui la cultura romena si incontra con quella ungherese e sassone, ed in cui tre riti cattolici sono presenti accanto all’ortodossia ed a tre confessioni uscite dalla Riforma.

«Dopo il 1989 – osserva il professor Nicolae Bocºan – a Cluj-Napoca si sono delineati un programma ed un gruppo di ricerca che hanno ripreso l’iniziativa iniziata presso l’Istituto di Storia, interrotto negli anni ‘80, cui partecipano storici, sociologi e specialisti di demografia. Il libro dello storico Ioan Bolovan si registra nel programma di questo gruppo di ricerca, costituendo la prima sintesi sull’evoluzione della popolazione della Transilvania tra il 1849 ed il 1914, ponendo un ulteriore accento sull’evoluzione della popolazione rurale. Esso utilizza le statistiche ufficiali, i registri parrocchiali di stato civile, le coscrizioni ecclesiastiche ed altre varie fonti archivistiche. L’autore sintetizza i risultati di alcune ricerche sistematiche realizzate nel corso degli anni, abbinando il metodo della demografia contemporanea a quello della demografia storica, inaugurando nuove vie di ricerca, che possono approfondire la conoscenza storica in un decennio essenziale per la comprensione del processo di modernizzazione in Transilvania, nella seconda metà del secolo XIX ed all’inizio del secolo XX» (N. Bocºan, Cuvânt înainte, in I. Bolovan, op. cit., p. X).

Lo studio del professor Ioan Bolovan, che si apre con un ampio riassunto in lingua inglese, si articola in 6 capitoli. Studia le emigrazioni interne ed esterne della popolazione della Transilvania a partire dai primi censimenti che seguirono il 1848 e la ridivisione amministrativa dell’antico Principato. Un intero capitolo è dedicato all’abitato rurale della Transilvania tra il 1850 ed il 1910, quindi quasi alla vigilia dello scoppio della I Guerra Mondiale. Il successivo, il quinto, molto vasto, considera anche il matrimonio e le caratteristiche della famiglia nel villaggio transilvano, dando ampio spazio alla struttura della popolazione di Transilvania dal punto di vista dello stato civile. Si affronta il concetto di «transizione demografica», osservando che ciò significa il passaggio da livelli alti di mortalità e di natalità a livelli più bassi. Questo si collega con l’industrializzazione del Paese e con l’urbanizzazione che portò ad un aumento considerevole della popolazione anche nelle città transilvane. Si passa poi agli aspetti concernenti lo stato civile e l’età media dei matrimoni nella seconda metà del XIX secolo. Nell’ultimo capitolo, si fanno considerazioni importanti sulla «magiarizzazione» di una parte della popolazione di Transilvania, dovuto anche al fatto che, dal 1867, la Transilvania perdette la sua autonomia,

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pur relativa auttonomia quando entrò a far parte della parte ungherese dell’Impero divenuto ormai bi-cefalo (Poli: Vienna e Budapest).

«Al tempo del dualismo – si osserva – i censimenti effettuati dalle autorità magiare non registrarono più la nazionalità degli abitanti, ma solamente la loro madrelingua, intesa “lingua che la persona interpellata parla meglio e con maggior piacere”. Questo criterio permise alle autorità di snaturare in modo premeditato i dati statistici, e di far aumentare artificialmente il numero di magiari, precisamente dei “parlanti” l’ungherese. Così si spiega perché nelle rubriche del censimento dal 1880 al 1910 non appaiono più gli ebrei, gli armeni, gli zingari ecc. perché erano stati inclusi quasi in corpore nella rubrica dei magiari. Conformemente ad una siffatta classificazione, il peso della popolazione magiara crebbe nella Transilvania, tra il 1880 ed il 1910 dal 41,2% al 48,1%, mentre la proporzione dei non-magiari diminuì in modo corrispondente dal 58,85 % nel 1880, al 51,9%, nel 1910» (I. Bolovan, op. cit. p. 194). Negli anni che vanno dal 1848 al 1910, dunque, si verificarono in Transilvania trasformazioni importanti, che si possono notare se si considera che il peso di coloro che erano occupati nell’agricoltura era del 25%.

L’agile volumetto è corredato da numerosi schemi e grafici concernenti i vari aspetti trattati e accompagnato da una bibliografia. Ecco ancora una nuova opera che mette in luce la storia di questo importante periodo storico, prima che la Transilvania entrasse a far parte della Romania. La scienza demografica è stata d’ausilio alla storia affinché possiamo cogliere, con i grandi cambiamenti, pure i mutamenti di mentalità che ad essi si accompagnano.

 

Giuseppe Munarini

 

 

Antonia  Arslan, Laura  Pisanello, Hushér: La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni, con la collaborazione di Avedis Ohanian., postfazioni di Haikaz M. Grigorian e Antonia Arslan, Editori Guerini e Associati, Milano 2001, pp. 162+due immagini nel testo.

 

La peculiarità di questo libro, scritto dalla professoressa Antonia Arslan e dalla giornalista Laura Pisanello, consiste nell’avere raccolto 11 testimonianze di altrettanti scampati al Genocidio degli Armeni, affinché le loro parole, i loro racconti e la loro testimonianza di fede fossero affidate ai posteri. Per meglio capire la particolarità di questo libro, bisognerebbe dapprima leggere il capitolo Pellegrinaggio ai luoghi del Genocidio, ossia una testimonianza di Haikaz M. Grigorian (Cfr. A. Arslan, L. Pisanello, op. cit., pp. 136-151, in cui quest’armeno-americano ormai settantenne si reca, vincendo la riluttanza iniziale, nell’Armenia Anatolica, con l’arcivescovo Mesrob Ashjian per visitare il Paese dei padri, ma scopre con rammarico che quasi nessuno dei nuovi abitanti, tutti islamici, sapeva niente degli Armeni.

Il primo dramma è stato quindi quello del Negazionismo, ossia quella tendenza che nega che sia stato mai perpetrato un genocidio contro gli Armeni, l’altro dramma è l’oblio della storia, il raccapricciante silenzio che è seguito alla pulizia etnica fatta dai

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Turchi e dai Currdi, loro manovalanza nel genocidio, contro gli Armeni e gli altri cristiani (greco-ortodossi, siri cattolici e non – calcedonesi, caldei – cattolici ed assiri).

Questo libro consegna ai posteri le narrazioni di questi Armeni, passati, alcuni dei quali recentemente, “nella Gerusalemme celeste”, dal Paese che li aveva accolti dopo il massacro: l’Italia. «Willy Brandt – si osserva nell’introduzione – si mise in ginocchio a Buchenwald per chiedere perdono agli ebrei, e non era certo fra i responsabili dell’Olocausto, però il suo onore gli imponeva di ricordare e ammettere le colpe a nome del suo popolo. E altrettanto hanno fatto statisti e politici e persino il Pontefice per le colpe della Chiesa di Roma: e tutti hanno compreso il pudore e la nobiltà di un simile gesto. Il riconoscimento del genocidio servirebbe d’altronde sia al popolo turco sia a quello armeno, perché non v’è dubbio che se è atroce essere la vittima, lo è altrettanto essere il colpevole» (Giorgio Pisanello, Introduzione, in A. Arslan, L. Pisanello, op. cit., pp.23-24).

Ecco appaiono allora i racconti di Isabella Kuyumgian Sirinian, di Cesarea. Ella riferisce, in prima persona dei suoi cari massacrati, delle peripezie, del suo rifugio di Costantinopoli, lasciata nel 1922, con il “passaporto Nansen”. Ecco la figura di Hripsimé Amrighian Condakgian, i cui nipoti e il cui genero vivono a Padova, “donna minuta e dolcissima” spentasi in veneranda età a Padova, assidua frequentatrice della Liturgia armena di padre Levon Zekiyan. Ella proveniva da Erzurum, e termina la sua breve intervista con sorprendenti parole: «Siamo una famiglia fortunata perché non ci hanno uccisi tutti». Segue poi Agop Condakgian, farmacista, che aveva studiato a Padova ed a Venezia, marito della signora Hripsimé, egli tenne un diario sui massacri, in parte messo a disposizione per il libro che presento. Viene quindi Anaid Kojanian Bezdikian, detta per la sua bella voce “la cantatrice del Mussa Dagh”, madre di padre Aruthiun, monaco mechitarista di S. Lazzaro. Ella era appunto oriunda di un villaggio del Mussa Dagh. Visse pure in Libano. È la volta poi di Karnik Nalbandian di Kharpert, che svolse diversi lavori, qui in Italia. «Durante l’immane bufera che sconvolse l’Armenia, persi, come più avanti spiegherò, mio padre, mia madre e un fratello. Dei brevi cenni circa i miei congiunti mi vennero dati da Suor Kainé, mia zia, sorella di mio padre, che ebbi la combinazione di ritrovare a Costantinopoli durante il mio eterno peregrinare da Paese a Paese, da valli a montagne, sempre braccato come una lepre in fuga, sempre con l’incubo dell’incerto domani, seppure a quel domani, bene o male sarei arrivato» (A. Arslan, L. Pisanello, op. cit., p. 71). Appare poi Raffaele Gianighian, nato nel distretto di Khodorciur, figlio di un fabbro, autore di un libro, Khodorciur, pubblicato a Venezia nel 1992. È quindi la volta di padre Ignazio Adamian, mechitarista di S. Lazzaro; missionario in diversi Paesi, tra cui la Siria, l’Egitto e l’Argentina. Segue poi Hrant Pambakian, sopravvissuto alla distruzione di Smirne, che ha occupato posti ragguardevoli nella comunità di Milano, presente nella Chiesa Apostolica Armena, officiata da padre Sakis Sarkissian, di via Jommelli, a cantare le Lodi del Signore. Ecco ora Harutiun Kasangian, che tanto si è prodigato per l’architettura armena. Appare ora la figura di Ovsanna Keuleyan, sopravvissuta alle stragi degli armeni di Antiochia. Sarebbe divenuta esperta nel lavorare merletti. La serie delle testimonianze è chiusa dal dottor Coren Mirachian, spentosi a Padova. Generoso sino alla fine con tutti coloro che avevano bisogno di lui. Ci aveva raccontato, in un libretto, apparso nel 1986 a Padova, Da pastorello a medico, le peripezie della sua vita, gli studi che aveva intrapreso, mentre

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lavorava. Si pu&ò dire che anch’egli abbia pensato dunque di raccontare, in modo discreto, la sua odissea, ma in fondo, anche il suo ottimismo cristiano, soffuso però dall’amarezza per coloro che, meno fortunati, erano stati massacrati.

Il libro si conclude con le considerazioni della professoressa Antonia Arslan: «I giusti: coloro che non guardano altrove». «Mi risulta – osserva la docente di origine armena – che alcuni intellettuali turchi oggi piangano la scomparsa di quel mondo, e della ricchezza culturale perduta dall’Impero Ottomano; e che molti armeni coltivano il mito della città di Costantino. Forse questo nostro tema della memoria e dei giusti, di tutti i giusti, che hanno salvato degli armeni, dovrà essere più e più volte ricordato e riproposto, e stormire in fronde possenti contro il vento della barbarie, perché non avvenga davvero più che una giovane sposa turca, mostrando festosa a un vecchio armeno in incognito i suoi braccialetti, gli dica: “Vedi, nonno quanto sono belle queste decorazioni, che bei doni mi hanno fatto”; e che il vecchio riconosca in quei bei disegni la dedica augurale che suo padre, massacrato, aveva fatto incidere per sua madre, deportata nel giorno del loro fidanzamento» (A. Arslan, L. Pisanello, op. cit., p.162). Questo volume è un testo di storia importante che recupera l’oralità come elemento di testimonianza nella storia ed è una tessera di un grande mosaico che ci fa rivivere vicende e tragedie che sarebbe turpe scordare.

 

Giuseppe Munarini

 

 

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